Non giocate col passato

Abbiamo oggi, col passato, rapporti strani e contorti. Non sappiamo se amarlo e farlo rivivere in noi, o liquidarlo gettandolo in una specie di dimenticatoio collettivo. Non sappiamo se rievocarlo o affondarlo, se ritenerlo necessario e proficuo o fastidioso e nocivo.

Elenco qui di fila alcuni segnali:

  • in America stanno pensando di rimuovere la statua di Cristoforo Colombo, in quanto simbolo della colonizzazione americana, strage di indiani, eccetera;
  • una studiosa americana pensa di abbattere tutti gli edifici dell’epoca fascista;
  • la Boldrini propone di cancellare la scritta DUX dai monumenti di Roma.

Aggiungo un aneddoto personale. Tempo fa mi capitò di parlare con un giovane italiano di talento che studia in Inghilterra. Gli era stata proposta un’ottima borsa di studi, peccato che fosse intitolata a un noto schiavista (nonché sovvenzionata dai suoi fondi), quindi la rifiutò indignato dicendo anche che si sarebbe battuto insieme ad altri perché tali borse fossero cancellate.

Sullo stesso piano mi paiono i tentativi di revisionare i testi e le immagini del passato. Nelle favole vogliamo espungere il Principe Azzurro, simbolo di un retaggio antifemminista. Censuriamo i versi di Dante in cui trapelino espressioni offensivi verso il mondo arabo e la sua religione. Nei film degli anni 50 tagliamo le scene dove l’attore fuma. Nei libri di Cesare Pavese mal tolleriamo la parola “negro”, che all’epoca era normalmente usata.

Tutto ciò è davvero molto interessante, e sorprendente.

Sembra che tutti noi siamo affetti da una paura retrospettiva. È come se non ci sentissimo capaci di reggere: posti di fronte a Humphrey Bogart che fuma, non siamo più capaci di non fumare? È questo?

Ci sentiamo offesi e minacciati dal passato.  Ci ho pensato un po’ su. Come può essere che il passato ci offenda e ci minacci? Poi ho capito. È che noi compiamo il gesto davvero stravagante, e discutibile, di portare di peso il passato nel presente: a quel punto ci offende. Se lasciassimo il passato nel passato, non ci sarebbe nessun problema. Sentirci offesi, o minacciati o aggrediti o messi in discussione dal passato, infatti non vuol dire che questo, che stiamo prendendo qualcosa che appartiene a un’epoca precedente (e che in quell’epoca era neutra, direi innocua, non aveva alcun senso offensivo: vedi “negro” in Pavese o l’attore che fuma), e lo stiamo trasportando arbitrariamente nell’epoca in cui viviamo, nei nostri giorni, dove la sensibilità è cambiata, il mondo non è più quello; e poi, avendolo trasportato fino a noi, a quel qualcosa attribuiamo le regole, i principi, gli stili che caratterizzano oggi il nostro vivere. Ovvio, dunque, che determinate cose di allora possano infastidirci. Ma l’errore sta a monte, ed è nostro. Mi ricorda un po’ quando i cattolici mettevano le mutande ai nudi delle grandi opere pittoriche del passato…

È come se volessimo trasformare tutto quel che ci precede a immagine di quel che oggi ci piace e ci sembra equo, corretto, nobile, civile.

È strano, perché predichiamo a destra e a manca quanto sia bene contestualizzare sempre e comunque, collocare ogni cosa nel suo contesto, capire l’epoca, l’ambiente… E poi invece decontestualizziamo allegramente come niente fosse.

Per dire, non dovremmo più leggere Moby Dick e nemmeno citarlo o ricordarlo tra i capolavori della letteratura universale, visto che uccidere animali e andare a caccia ci pare oggi insopportabile e del tutto deprecabile. Pensate alla tragedia della balena bianca, sempre inseguita, braccata, arpionata… Magari ha dei bambini…

Bene. Se qualcosa non ci piace del passato, lo azzeriamo. Contemporaneamente mi par di scorgere un movimento esattamente eguale e contrario: se qualcosa del passato ci piace, non esitiamo a ripescarlo tal quale e riproporlo identico, del tutto decontestualizzato, come se fosse sempre attuale, o avesse una valenza atemporale e assoluta. Per esempio: continuiamo a chiamare “fascisti” gli esponenti della parte politica avversa, o persone che semplicemente non aderiscono al pensiero progressista dominante; invochiamo, per illustrare i principi che animano una riforma innovativa (v. scolastica), opere e autori di cinquant’anni fa (v. don Milani); celebriamo “giorni della memoria” perché non si dimentichino certi gravi avvenimenti della storia.

Mi sembra che ci giochiamo il passato un po’ come ci pare, a seconda delle nostre convinzioni del momento, spesso dettate da un sentire collettivo che ci fa da diktat. Se ci fa comodo lo ricordiamo ed esaltiamo; se non ci piace, lo cancelliamo.

Credo che dovremmo avere un atteggiamento più sereno e distaccato. Soprattutto, prendere il passato per quel che è: passato. Ricordarlo, studiarlo, ma non stravolgerlo a nostro uso, non attualizzarlo (nel bene e nel male), e meno che mai rimuoverlo.

Facciamo una prova. Prendiamo Mao. A me personalmente non piace Mao, non mi piace nulla di quel che ha fatto, 50 milioni di morti, la rivoluzione culturale e tutto il resto. Ero molto perplessa, per non dir altro, quando i miei compagni liceali, negli anni ’70, inneggiavano al suo libretto. Ora, mettiamo che la mia migliore amica si tenga appeso in camera un manifesto di Mao. Non me n’ero accorta, o non lo sapevo, entro in camera sua vedo Mao sul muro, e mi turba moltissimo. Magari gliene parlo indignata, ma non mi verrebbe mai in mente di ordinarle di togliere quel poster, meno che mai di vietarglielo con una legge. Semmai potrei dire che non la voglio più, un’amica così, che non posso avere niente in comune con lei. Sarebbe nei miei diritti. Sarebbero fatti miei, se decido di essere o non essere amica di qualcuno che si tiene Mao in camera. Potei preferire una che si appende al muro Garibaldi. Ma sono, lo ripeto, fatti miei. Pertengono alla mia coscienza, alla mia storia. Non intaccano il passato, dove, c’è stato tanto Garibaldi quanto Mao. (Stesso discorso, ovviamente, per la statuetta di Mussolini…).

Quel passato io non posso negarlo, o stravolgerlo. E nemmeno santificarlo e celebrarlo, secondo me. C’è stato, e ha una sua esistenza fissata per sempre, ma collocata in un preciso spazio temporale. È il passato. E il passato ha questo di buono, e di innegabile: è stato, non si può cancellare. Ma, anche, non c’è più: quindi nemmeno si può attualizzare. Essendo il passato, non è il presente.

***

Riflettevo in questi giorni anche su un altro fenomeno, solo apparentemente distante. Riguarda i libri di saggistica che oggi si pubblicano, spesso di autori giovani, scrittori o giornalisti che siano. In genere non contengono riferimenti bibliografici. Nessuna nota, nessuna citazione.

Tali nuovi autori affermano tesi, discutono concetti, propongono idee, come se fosse tutta roba loro, nuovissima, inedita, originale: pensata da loro per primi in assoluto nella storia dell’umanità. Sembrano non essere minimamente a conoscenza dei libri, spesso importanti, noti, autorevoli, che li hanno preceduti, scritti magari da mostri sacri della tradizione, o anche solo da autori più anziani di una ventina d’anni. Niente, tutto sparito. Vale anche per i nuovi lettori, anch’essi ignari che quel che leggono abbia radici in libri precedenti. Così, può capitare che esca un saggio che ripete le tesi di un saggio uscito anche solo cinque anni prima, e venga salutato come nuovo e completamente originale.

Non credo sia (solo) ignoranza. E nemmeno sciatteria intellettuale. Credo si tratti di un vero e proprio stile.

Sia chiaro, la saggistica colta è sparita da tempo dai nostri orizzonti, o si annida oggi in certe nicchie buie e introvabili, e non è certo mia intenzione sperare che resusciti. Dico solo che la consuetudine di citare quelli prima di noi è scomparsa. Oggi ci piace essere leggeri ed estemporanei, diretti, comunicativi. Ci piace una prosa quotidiana, un parlato-vissuto, una forma di dichiarata “ingenuità”. Complice lo stile “social”, il rap, il pop. Certo. Fa tutto parte di una evoluzione, o involuzione, dipende dai punti di vista: comunque, è il nuovo stile dei nostri tempi. Niente da dire. Io stessa dovrei fare un bell’esame di coscienza, essendo partita, nei miei anni giovanili, da una saggistica accademica, in cui non si potevano scrivere due pagine senza citare almeno dieci titoli: nessuna affermazione aveva valore se non era suffragata da testi precedenti che la confermassero o la contrastassero. Bisognava mostrare di essere a conoscenza dell’enorme passato che stava dietro di noi, non si poteva scrivere partendo da zero, nascendo in quel momento: nessuno era appena nato, ognuno di coloro che scrivevano avevano ben chiaro di essere solo l’ultimo anello di una catena sterminata. Anzi, scrivere (in ogni ambito, non solo saggistico) forse era proprio quello: inserirsi in una tradizione. Con tanto di inevitabile modestia e umiltà. Ricordo che mi pesava un po’, allora, non essere libera di dire direttamente quel che avevo pensato; mi pesava dover accompagnare ogni mia affermazione critica da citazioni e note a piè di pagina infinite, la trovavo un’inutile esibizione di cultura, un mostrare i muscoli per ottenere plauso presso i pochi eletti o gli addetti, soprattutto un laccio che imprigionava il fluido e naturale sgorgare di pensieri personali. Non escludo sia stata questa una delle ragioni del mio allontanarmi dalla scrittura saggistico-accademica.

Mi sembra però il caso almeno di notare ora questa nostra nuova tendenza, nonché i suoi eccessi. Forse fa parte di quella cancellazione del passato di cui dicevo sopra. Nulla prima di me. Noi unici sopravvissuti di un mondo saltato per aria. Ci dev’essere stata una deflagrazione da qualche parte, in un certo momento, che ci è sfuggita. Intorno a noi solo macerie. E noi siamo i nuovi, i primi. Tutto ricomincia. Tutto può essere di nuovo detto come se fosse la prima volta. Meraviglia del mito delle origini, il culto del primitivo, l’età dell’oro, le origini del mondo e l’umanità bambina che incomincia a camminare su due zampe. Sì, c’è qualcosa di molto affascinante e travolgente in tutto ciò.

Due rischi, però. Che nulla più esista del nostro passato, che nessuna tradizione sia riconosciuta, che neanche un briciolo di autorevolezza sia dovuta ai grandi prima di noi. La grandezza non esiste, non siamo debitori a nessuno. È possibile che ci prenda un’euforia da padreterni, ma anche un forte senso di smarrimento.

Il secondo rischio è che tutto ciò sia vero anche all’inverso, cioè se ci mettiamo noi dalla parte degli autori: nulla durerà di noi, nulla di quel che avremo detto, pensato, scritto sarà mai ricordato, per più di qualche mese, forse. Il problema non è che non saremo citati (riusciamo a superare qualche piccolo sgarbo alla nostra vanità), quel che disturba è la fastidiosa percezione di una forza che malgrado noi ci travolge. Tutti presi nella stessa corrente che porta via tutto in una sorta di oblio cosmico.

Oblio collettivo, molto democratico sì, ma oblio.

L’inutilità del singolo, di ogni suo operato. L’inutilità della storia stessa, dunque.

E siamo arrivati alla vanità del tutto.

Mi par di ricordare che qualcuno l’abbia detto prima di me…

pubblicato sul “Domenicale del Sole24ore” il 29 ottobre 2017



La scomparsa della compassione: da spettatori a populisti

La prima guerra della mia vita è stata una serata trascorsa a guardare la televisione sorseggiando birra fresca.

Ogni volta che lo dico o lo scrivo, qualcuno s’indigna. Ma l’oscenità è nelle cose, prima ancora di essere nell’occhio di chi guarda. E il trionfo dell’estetica oscena su quella tragica si consumò precisamente nella notte tra il 17 e il 18 gennaio del 1991 quando, per la prima volta nella storia dell’umanità, lo scoppio di una guerra – con un bombardamento devastante sulla popolazione di Baghdad – fu trasmesso in diretta televisiva. Io, allora, avevo vent’anni e – citando Nizan – non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita.

Dopo quella notte, infatti, la condizione di spettatore della distruzione dell’uomo e del mondo è divenuta, per la mia generazione, progressivamente e inesorabilmente, una postura esistenziale e un’attitudine (im)politica. A partire da quel momento, per effetto della comunicazione digitale globale in tempo reale – prima in tv e poi su internet – essere spettatori del disastro ha smesso di essere l’eccezionale condizioni di pochi per divenire una sorta di nuova, oscena condizione umana. Tutti noi siamo stati, giorno dopo giorno, per anni e decenni, testimoni alieni, inerti e apatici, dell’afflizione inferta dall’uomo all’uomo e del dolore, straniero, che provoca. Giù per questa china si è prodotto un sovvertimento della nozione novecentesca di testimone: nello spettacolo tele-visivo della morte e distruzione altrui, il nesso tra testimonianza ed esperienza è stato reciso e il testimone ha smesso di essere associato al destino di colui di cui testimonia. Giù per questa china si è prodotto anche il più importante mutamento dei fondamenti dell’esistere umano nella storia: la riformulazione del differenziale antropologico riguardo alla violenza. A furia di consumare quotidianamente, attraverso i media, scene di violenza estrema nell’impertinenza esperienziale della distinzione tra realtà e finzione, la struttura voyeuristica dello sguardo osceno ci attira verso la posizione, tutta esteriore, dello spettatore anche rispetto alla violenza reale. E rischia di condurci alla indifferenziazione tra vittima e carnefice agli occhi dello spettatore. Fino a ieri, infatti, il differenziale antropologico fondamentale per l’esperienza della crudeltà umana era quello che separava la vittima dal carnefice, oggi tende invece a essere quello che separa la coppia vittima-carnefice, su di un versante dello schermo, dallo spettatore sul versante opposto. Da un lato quelli che infliggono e subiscono la crudeltà, dall’altro quelli che la guardano in tv.

Al termine di questo processo di degenerazione, la postura inerte, apatico e anomica dello spettatore diviene la norma comportamentale anche al cospetto di eventuali casi di violenza prossima e reale e di fronte alla nostra stessa esistenza in quanto cittadini di una comunità politica. Se ci capita di imbatterci in un pestaggio a morte dentro una discoteca o in un attacco terroristico, invece di soccorrere o contrattaccare, ci limitiamo ad alzare tra noi e l’evento lo schermo di uno smartphone per ripristinare al più presto la condizione abituale del telespettatore.

Viviamo, dunque, in un mondo osceno. Viviamo nel tempo dell’oscenità trionfante. Ciò che va perduto in questo tempo è la compassione, ciò che viene espulso da questo mondo è la pietà. Con essa si smarrisce anche la agency politica. L’esistenza che quotidianamente conduciamo nella casa di vetro della trasparenza mediatica è un’esistenza spietata. Spietata ma inerte, impotente.

Violenza e sesso. Sesso e violenza. Entrambi i fondamentali antropologici della nostra “parte maledetta”, se sottoposti ad analisi, dimostrano alla nostra triste scienza questa amara verità.

E’ più facile vederlo riguardo alla violenza. La rivoluzione tecnologica dei media elettronici ci ha messo nella condizione storicamente inaudita di poter assistere immediatamente e continuamente a scene terminali di violenza estrema che annientano vite che non sono la nostra. Da molto tempo, guerre, assassini, catastrofi, cataclismi sono il nostro pasto quotidiano, la nostra abituale dieta mediatica. Ci gonfiamo, così, in una obesità cinica. Ingolfati da questa sugna d’immagini truculente, perdiamo la basilare capacità umanistica di immedesimarci nella sofferenza altrui e, su questa base, di agire di conseguenza.

E’ una drammatizzazione della vita senza tragicità. Quando nella rappresentazione della morte altrui viene meno l’interdetto che nella tragedia greca proibiva di portare in scena il momento cruento, la catarsi, la purificazione dei nostri sentimenti di pietà e terrore, diventa impossibile. In platea rimangono solo passioni impure: sollievo egoistico, godimento perverso, paura onanistica. Nel paesaggio mediatico contemporaneo il tragico è stato sostituito dall’osceno, da ciò che dovrebbe rimanere “fuori dalla scena” (etimologia fasulla ma rivelatrice). Ben presto, noi umani che abitiamo il mediascape di fine millennio ci siamo trasformati in animali anfibi, capaci di vivere simultaneamente in due ambienti opposti: all’asciutto del nostro mondo pacifico e protetto ma anche immersi nella palude insanguinata dalle vittime di apocalissi lontane. La nostra mente incallita, la nostra pelle squamata si sono presto dimostrate impermeabili a entrambi gli ambienti. La crudeltà, scrisse qualcuno, è mancanza d’immaginazione. Vale non solo per la crudeltà inflitta ma anche per quella consumata attraverso i media: non distogliamo lo sguardo dalla sofferenza altrui, non invochiamo il proverbiale velo pietoso perché non siamo più capaci d’immaginarci di essere lui. Alla fine, anche quando e se tocca a noi, ci scopriamo incapaci di qualsiasi reazione che non sia l’emozione futile e caduca del telespettatore.

Solo così si spiega l’inerzia civile e politica in cui ricade l’Europa dopo ogni attacco terroristico sferrato, con cadenza periodica, dall’estremismo islamico.

Perfino riguardo alla violenza terroristica noi siamo, infatti, quasi sempre nella posizione dello spettatore. La nostra inettitudine all’azione politica violenta fa sì che, di fronte all’unica forma reale di brutalità che aggredisca sistematicamente il nostro ambiente sociale, quella dell’islamismo radicale, riusciamo, in apparenza, solo ad assumere l’identità simbolica della vittima, che in verità nasconde la terzietà neutrale del telespettatore. Il medio-oriente islamico è scosso da fenomeni di disintegrazione nazionale apparentabili ai nostri, solo che da quelle parti generazioni cresciute nella guerra rispondono con la violenza terroristica, dalle nostre parti generazioni cresciute in 60 anni di pace e in 30 di consumo televisivo della sofferenza altrui reagiscono con un violento ritiro della delega politica all’establishment che equivale al gesto, al tempo stesso sdegnato e annoiato, di chi cambi canale di fronte a un programma sgradito.

Questo è l’unico aspetto violentemente attivo del nuovo populismo: la brutale, impersuadibile, apocalittica determinazione nel rigetto delle vecchie classi dirigenti, autrici di un palinsesto sfinito. Trump ha affermato che non avrebbe perso uno dei suoi voti nemmeno se avesse aperto il fuoco sulla quinta strada. Aveva ragione. Il suo elettorato è non violento ma la sua ripulsa lo è. In Francia il sovranismo rinunciatario di Marine Le Pen non chiede di riconquistare l’Algeria ma di rigettare l’Europa e di uscire dalla Nato, in Olanda Geert Wilders si richiama all’eredità di un leader anti-islamista e xenofobo ma omosessuale dichiarato, progressista e assassinato da una fanatico (Pim Fortuyn), in Italia tutto si può imputare ai partiti anti-sistema tranne la conquista violenta del potere.

Il populismo reattivo, il sovranismo remissivo, l’accidia post-televisiva. La loro sola violenza è quella del conato di vomito. Rigetto radicale del presente in assenza di un’affermazione dirompente del futuro. Con questa novità dobbiamo fare i conti.

 




Ipotesi sulla disuguaglianza

A scuola vanno bene solo i figli di papà.  Studiano solo i ragazzi nelle cui case ci sono libri. Vanno al liceo e si laureano solo i figli di coloro che sono andati al liceo e si sono laureati. La scuola è classista, ben poco democratica, non fa da ascensore sociale, non è in grado di colmare le disuguaglianze di partenza, non fa che certificare e riprodurre privilegi e differenze. Il figlio del notaio fa il notaio, il figlio dell’idraulico fa l’idraulico.

Questa mi pare, in riassunto, la tesi di chi ritiene che la scuola debba essere democratica, includere tutti, e soprattutto dare a tutti pari opportunità azzerando la disparità delle condizioni di partenza. È un’idea che ha animato la scuola, e la politica, almeno da un cinquantennio, e mi pare debba essere più che mai perseguita. Con qualche precisazione e variante, però.

Intanto no, il figlio dell’idraulico non fa quasi mai l’idraulico. Si diploma e spesso va all’università. Ma spesso non la finisce (vedremo poi perché).

Il figlio del notaio invece sì, è quasi certo che farà il notaio (sempre che abbia voglia di studiare, se no si fermerà a fare solo l’avvocato). Ahimè, questo è drammaticamente vero. Ho detto in più luoghi che mi piacerebbe un mondo in cui il figlio dell’idraulico possa diventare notaio, se vuole. Ma anche un mondo in cui il figlio del notaio diventi idraulico, se non ha voglia di studiare o non ne ha le capacità. Non ci siamo ancora. Succede, spesso, la prima. Non succede mai (tranne rarissime eccezioni che io non ho il bene di conoscere) la seconda.

Perché?

Qui si gioca la questione. La stragrande maggioranza, direi la totalità dei sostenitori della “scuola democratica” (ma chi mai potrebbe essere per una scuola non-democratica…?) è convinta, oggi come ieri, che a bloccare gli studi dei ragazzi svantaggiati economicamente e socialmente sia proprio la loro condizione di partenza: impossibile studiare e raggiungere la meta (diploma, laurea e quindi professione adeguata) se si è nati in una famiglia poco abbiente.

Credo sia così. E i dati lo confermano.

Credo altresì che la controprova sia vera: chi nasce bene va avanti. Chi appartiene a una famiglia medio-alta e ha le risorse (economiche, culturali e relazionali) arriva comunque, quasi sempre, a fare il liceo e a laurearsi. E ci arriva, questo ragazzo-bene, anche qualora non abbia mai avuto la minima voglia di studiare, non abbia quasi mai aperto un libro, abbia raccolto una serie infinita di insufficienze, debiti, giudizi sospesi e anche bocciature: va avanti lo stesso, sicuramente con qualche fastidio e intoppo, ma va avanti.

Uno dei più potenti, scandalosi e immorali motori del suo avanzamento sono le lezioni private. Quel cumulo sterminato e inenarrabile di ore alla settimana che per anni (per anni!) i suoi genitori lo hanno costretto a fare, presso insegnanti che al mattino insegnano normalmente in scuole statali e al pomeriggio danno tranquillamente lezioni private in nero, fornendo ai loro allievi clandestini e abbienti, svogliati e apatici, tutto l’aiuto assistenziale e personalizzato che serve loro per “passare” l’anno.

Aiuto che arriva sempre a buon fine. Eh sì. Chi prende selvaggiamente lezioni private dalla prima liceo fino alla laurea ce la fa: si laurea, spesso anche bene! Pur essendo stato un pessimo studente, che non ha mai aperto un libro, mai ascoltato una lezione, mai preso la sufficienza in certe materie (quelle difficili), non importa: al pomeriggio c’è qualcuno che lo guida, lo tallona, gli sta dietro, gli tiene la manina per fare i compiti, per passare interrogazioni, esami. Alla fine ce la fa, certo che ce la fa. Sto elogiando le capacità degli insegnanti double face, statali al mattino e privati al pomeriggio? No, non è (solo) il loro talento e la loro pervicace pazienza. È la palese dimostrazione che l’unico vero metodo didattico che funzioni è stare alle calcagna tutto il giorno tutti i giorni a ogni singolo ragazzo. È il trionfo dell’istitutore privato. La scuola sarà mai in grado di emularlo, con i suoi 30 ragazzi per classe…? (Certo, detto tra parentesi, un primo passo potrebbe essere che l’insegnante, al pomeriggio, invece di ricevere a casa propria i signorini in nero, rimanga a scuola, non a sbrigare burocratiche faccende o partecipare a inutili commissioni, ma dedicandosi a un serrato coaching face to face con i propri allievi del mattino, quelli più in difficoltà, aiutandoli gratis… ).

All’università, sembra incredibile, stessa cosa! I ragazzi prendono lezioni private anche durante gli anni d’università! È un fenomeno piuttosto recente, e agghiacciante. Ragazzi ventenni che non riuscirebbero a passare gli esami, soprattutto quelli più difficili, in corsi di laurea duri, vanno a lezione privata come imberbi adolescenti! Lezioni pagate dai genitori. Notai. Ingegneri. Avvocati. Che vogliono che i figli facciano i notai, gli avvocati, gli ingegneri. E ci riescono! I loro figli ce la fanno. Fotocopia dei padri. Un po’ aiutati…

È questo lo scandalo.

L’ho visto con i miei occhi, insegnando per 35 anni. E l’ho denunciato sempre, ogni volta e in ogni luogo abbia potuto farlo. È la vergogna della scuola, e della società, italiana.

Va bene, la tesi “democratica” è dunque più che confermata: le origini e l’ambiente contano. Cose risapute. E ripetute fino alla nausea. Ma la loro tesi si ferma qui. Non mi basta, mi sembra ne manchi un pezzo molto importante. Un aspetto che viene sempre trascurato. Un “piccolo dettaglio” che da anni cerco di mettere in evidenza. E che è anche la ragione per cui, nonostante queste mie idee vadano inequivocabilmente verso l’idea di una scuola molto democratica (mi vien da dire iper-democratica!), io non sia così d’accordo con i sostenitori standard, tradizionali e istituzionali, della scuola democratica.

Questo aspetto trascurato, questo minuscolo dettaglio, è… la preparazione. Il livello di studio. La qualità e quantità delle “cose” insegnate-imparate.

Torno al figlio dell’idraulico (perché di lui ci importa, no?) e formulo la mia ipotesi: se spesso non arriva a laurearsi, forse non è soltanto perché è figlio dell’idraulico (ipotesi vecchia, datata, fortemente ideologica: insomma, troppo facile!); forse non fa il liceo e non arriva a laurearsi… perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non lo ha preparato abbastanza.

Ecco. Per questo mi arrabbio da una ventina d’anni (una ventina d’anni, direi dalla riforma Belinguer in poi: governo progressista, incredibile!). Perché io questo ho visto, nella scuola. Ho visto ragazzi (non solo figli di idraulici, ma figli di quella classe media non così svantaggiata ma neanche così agiata) che arrivano in prima liceo totalmente digiuni delle nozioni basilari, di quel minimo di conoscenze dovute e, soprattutto, necessarie ad andare avanti negli studi.

È vero, sto parlando dei ceti medi e medio-bassi, e non dei veri svantaggiati delle vere zone disagiate, da Cinisello a Secondigliano, tanto per intenderci. Mah… intanto ognuno parla di quel che ha sotto gli occhi. Io non ho insegnato in periferia o in zone segnate da droga, camorra e povertà. Mea culpa? Ho insegnato in licei di provincia, medi. Ho visto e incontrato la medietà. La normalità, se volete. Che però è l’80% degli studenti di un liceo. Scusate se mi sono occupata solo di loro…

Questo non implica che io non riconosca l’enorme problema di portare istruzione e cultura là, soprattutto in quei luoghi. Ma quel che voglio denunciare è un’altra cosa (che riguarda, lo ripeto, almeno il 70-80% della popolazione scolastica, non mi par poco!): una scuola abbassata, facilitata, non aiuta le classi medio-basse. Abbassare il livello culturale dello studio non è democratico, anzi, è il contrario: è il gesto più antidemocratico e classista! Favorisce i ricchi e i privilegiati, che possono non studiare e, grazie a fenomeni quali le lezioni private a gogò, ce la faranno sempre.

Bisogna rendere in grado i “poveri” (gli umili, gli svantaggiati, i ceti meno abbienti) di fare le scuole migliori. Rendere in grado! Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per 8 anni (5 di elementari e 3 di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente o, se gli abbiamo insegnato qualcosa, poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che lui le sapesse, quelle cose! Non farà né il liceo né l’università, un ragazzo, se non sa scrivere, se non sa fare un discorso compiuto, se non sa capire il senso (profondo, sfumato, metaforico, ironico…) di quel che legge, e se non sa ripetere con parole sue quel che ha studiato. Siamo stati noi a farne uno svantaggiato, uno che non parte uguale, che non ha le stesse opportunità iniziali. Siamo noi i colpevoli. Noi!

Ma non ho le prove.

Posso solo dire che questo ho visto, nella mia esperienza pluriennale di insegnante, soprattutto negli ultimi vent’anni, da inizio millennio a oggi.

Vorrei le prove. Vorrei che qualcuno mi dimostrasse, attraverso i dati, se ho ragione o no, se è vero che c’è anche questa componente a svantaggio degli svantaggiati, non solo l’estrazione sociale, l’handicap famigliare e ambientale, ma anche l’enorme buco di conoscenze e cultura di cui noi, come insegnanti e governanti, siamo drammaticamente responsabili.

 Vorrei che si riuscisse a mostrare che questa è una delle ragioni, se non la ragione principale, di quella che chiamiamo “dispersione scolastica”. Intanto, vorrei dire che i ragazzi “si disperdono” in vario modo: non solo abbandonando per sempre la scuola, ma anche cambiando scuola, essendo cioè obbligati a scegliere scuole degradate (i due anni in uno, le scuole online, o il professionale-tecnico invece del liceo). Ho visto, in questi anni, decine di ragazzi, miei allievi, che a metà anno erano costretti a lasciare la classe dove si trovavano benissimo, il liceo che avevano scelto, perché non ce la facevano, perché non avevano le basi: mai letto un libro, mai fatto grammatica, mai scritto un tema… Molti di loro avevano le lacrime agli occhi, lasciando i compagni e noi insegnanti. E tornavano poi ogni tanto a salutarci, negli anni successivi, con nostalgia, con un barlume di rimpianto.

Non è giusto. Non dovrebbe succedere. Dovremmo rendere tutti in grado di fare la scuola che vogliono. E invece cosa facciamo per questi ragazzi che noi abbiamo perduto? Corsi di orientamento e ri-orientamento! È questo il nostro ipocrita e fallace sostegno ai ragazzi che non ce la fanno, non troviamo altro modo di aiutarli se non depistandoli: ri-orientandoli!

E non è dispersione scolastica, questa? Tali ragazzi “si disperdono” altrove perché non hanno le basi per andare avanti, perché in prima liceo non sono in grado di capire un libro di testo, e non sanno niente di storia, geografia, matematica…. Eppure hanno fatto 8 anni di scuola. Non possiamo lasciarli uscire così impreparati dopo 8 anni di scuola! Allo stesso modo, all’università non sono in grado di affrontare gli esami (se non quelli più facili delle facoltà cosiddette deboli, la cui laurea però non li porterà purtroppo da nessuna parte), per cui s’iscrivono, arrancano un anno o due e poi mollano. Per questo mollano: per questa loro inadeguatezza cognitiva e culturale, che è il risultato delle scelte scriteriate che noi abbiamo compiuto nella scuola, soprattutto, lo ripeto, negli ultimi vent’anni. Mollano a causa della scuola che noi abbiamo deciso per loro, non è il colmo?

Sono solo mie impressioni, interpretazioni personali, illazioni? Può darsi. Volevo solo formulare un’ipotesi un po’ diversa sulla disuguaglianza, ecco.

Ma se mai ci fossero le prove che quel che dico è vero, sarebbe più che mai il caso di cambiare rotta e, affinché la scuola sia veramente per tutti, provare ad innalzare il livello degli studi, negli anni dell’obbligo scolastico, fin dalla prima elementare. Sarebbe nostro dovere, credo. Porgendo anche infinite scuse, ai ragazzi e alle loro famiglie.




Rêverie. Il sogno non è più lui stesso

…se tutto ciò che cambia

lentamente si spiega attraverso la

vita, ciò che cambia rapidamente

si spiega attraverso il fuoco…

 

 

 

…giunge dagli abissi della sostanza

il fuoco

e si offre come un amore…

…ridiscende nella materia e si

nasconde, latente, sopito, come

l’odio e la vendetta…

 

 

…fra tutti i fenomeni, è veramente

il solo che possa ricevere in modo

così chiaro i due valori contrari:

il Bene e il Male…

 

 

 

 

 …è un Dio tutelare terribile: buono e cattivo…

…può contraddirsi: è dunque uno

dei principi di spiegazione

universale…

 

 

 

 

 

…il fuoco è l’ultravivente…

il fuoco è intimo e

universale… …vive nel nostro

cuore…

…vive nel cielo…

 

 

 

…la prima cosa che impariamo sul

fuoco è che non bisogna toccarlo…

…il fuoco cova più in un animo che

sotto la cenere…

…il Vulcano è fuoco…

…in tutta la sua maestà ci mostra lo

spettacolo di un immenso incendio…

 

…eccomi, avvolgimi nei fiumi di

lava ardente, stringimi nelle tua

braccia di fuoco come un amante

abbraccia la sua fidanzata…

 

 

 

 

 

…l’amore la morte ed il fuoco sono

uniti in uno stesso istante; nel

fuoco la Morte non è più Morte…

 

 

 

 

 

…ho messo il mantello rosso…

mi sono ornata con i tuoi colori…

…indossa il tuo infiammato

mantello di porpora…

…copri i tuoi fianchi con queste

pieghe splendenti…

 

 

…il fuoco splende in paradiso…

…il fuoco brucia all’inferno…

…è dolcezza e tortura…

…è cucina e apocalisse…

…è benessere e rispetto…

 

 

Il problema è “la Guerra”.

E non la guerra che si fa con le armi fra popoli e continenti, quella vera per intenderci.

Il problema è la guerra fra ‘io e me’. Come il Vulcano, che fa la guerra fra l’esplodere e non esplodere. Poi esplode, ma poi rimane anche silente, poi esplode di nuovo… poi si silenzia ancora: fa la guerra.. con il Fuoco.

Perché Iddu

Ho iniziato a dipingere “Iddu”, mossa da un legame inconscio, da un bisogno non di esprimere alcunché, di riprodurre qualcosa per meglio possederla, spinta da un’energia cui sentivo di appartenere. La Guerra. Non saprei come altro definire la mia affinità elettiva a Stromboli.

Il che è tanto più vero in quanto non ho mai attribuito una particolare vocazione al mio dipingere. Nè ho mai dato molta importanza alla tecnicalità necessaria per ottenere determinati risultati espressivi. Dipingo, uso i colori e la luce del tutto spontaneamente, senza pretendere più di tanto da me. Padroneggio l’istinto… il che non esclude che, col tempo, abbia iniziato a riflettere sul significato del mio lavoro.

Perché il Vulcano? Quel vulcano, e solo quello? La prima risposta è stata semplice quanto disarmante: sono approdata alla pittura non per passione, tantomeno per passatempo e svago. L’ho fatto per mettermi alla prova in un genere di attività che assomiglia più a una qualche forma di autoanalisi che al “sacro fuoco dell’arte”.

“Frate focu”, lo chiamava San Francesco nel “Cantico delle creature”… malgrado non sia che una rapida e persistente reazione chimica di combustione, accompagnata da emissione di luce e calore. Comunque è lì che tutto ha iniziato, l’origine del mondo… il mio viaggio, la mia esperienza pittorica. Dipinto dopo dipinto, ho cercato di mettere sempre più a “fuoco”  (punto focale del sistema ottico) le colate laviche, l’esplosione dei temi rutilanti e incombenti di “Iddu”. Il coacervo di stimoli, inflessioni emotive, turbamenti che mi ha indotto a sussurrare “Fuoco sprigionati, cammina con me”, (più o meno in contemporanea con il “Twin Peaks” di David Lynch, anche se, naturalmente, avrei preferito Breaking Bad), nasce dalla mia passione per il cinema. Ma il mio debito a Emil Nolde, all’esperienza pittorica dell’espressionismo tedesco non è secondario.

Come padroneggiare il mio rapporto con Iddu, con il suo valore di “verità” se non col fuoco che, secondo misura si accende e si spegne, produce ordine dal disordine universale e tutto trasforma? Il guaio l’ha fatto  Prometeo. Chi gliel’ha fatto fare di rubare il fuoco da Efesto?

E io? Mi sono detta, vado dentro il Vulcano, quello che tengo dentro, e gli rubbbbo il fuoco. Ma ahimè, più facile dirlo che farlo.

Il fuoco da sempre invade l’immaginazione dell’uomo così in profondità che, dalla sua materia incandescente, scaturisce l’incontro col divino. Il fuoco è il mediatore fra gli uomini e gli déi, il garante del creato. Mosè riconosce Dio in un roveto ardente. Il popolo d’Israele fugge verso la terra promessa al seguito di una colonna di fuoco. Il Fuoco, la mia ossessione.

Se l’opera è il fine di chi dipinge, dipingere è il mezzo. Mi è tornata alla mente la distinzione di Aristotele fra l’architetto e il danzatore. Il primo progetta un palazzo affinché sia abitato, il ballerino dissipa nel proprio corpo l’armonia della sua gestualità.

Ora, non è il bello fine di se stesso? E la contemplazione del bello non somiglia allo sguardo di Narciso, incapace di possedere se stesso? Non è questa ricerca assurda la stessa che si esaurisce nelle pieghe di un gioco? So perfettamente che ogni mio dipinto è destinato a “vivere” fuori di me. Ma, lo dico senza esagerare, ciò che ho ottenuto sulla tela, non finisce mai di apparirmi estraneo. Che sia soddisfatta o no del mio lavoro, non mi ritrovo mai del tutto in un quadro, quanto nell’atto stesso di dipingere. Il mio gesto pittorico, una volta liberato dalla sua relazione funzionale a un fine, il quadro, mostra, senza mai esaurirle il mio vero sentire: un gesto è pura libertà. Se così non fosse, dovrei credermi un’artista, mentre, lo ripeto senza alcun compiacimento, io aspiro solo al gioco. In questo senso, il mio modo di essere ‘pittrice’ potrebbe farmi apparire un’esponente del movimento concettuale. Ma non è il caso di esagerare. Negli anni Sessanta/Settanta lo scarto tra l’esecuzione di un’opera e la pura performance è stato uno dei principali terreni di sperimentazione delle avanguardie artistiche, con l’esplicito intento di combattere la crescente mercificazione dell’arte. Il mercato, si diceva, non aveva alcun diritto di appropriarsi delle opere dell’ingegno, scambiarle come merci qualsiasi. Per contrastare alla radice questa tendenza, s’è ritenuto che non vi fosse arma più efficace che quella di spostare il nocciolo dell’esperienza artistica dall’opera all’operazione come tale, alla prassi creativa in se stessa. Il guaio è che la logica performativa si è rivelata congeniale al carattere convenzionale del mercato. Dalla padella alla brace. Il che mi ha spinto a chiedermi: “Che fare”? Non so se sia la strada giusta, ma la mia via di fuga è stata diventare un’eremita. Sotto il vulcano. O dentro.

Gli intermezzi in cor­sivo sono tratti da “L’intuizione dell’istante: la psicanalisi del fuoco”, di Gaston Bachelard.



Cornificio, chi era costui?

In un’epoca in cui, con l’avvento dei dispositivi digitali, sembra sempre più difficile l’impresa di interpretare un testo, mi sembra appropriato proporre brevi riflessioni sulle sempre più rare doti dell’elocuzione, ampiamente studiate dal Cornificio nella sua Rhetorica ad Herennium, opera che risale al I secolo a.C. Parafrasando Manzoni: Cornificio, chi era costui? Ciò che più mi ha incuriosito di questo personaggio è il mistero e la leggenda che circonda la sua figura.

Nonostante esistano opere “cornificiane” – è persino esistita una scuola “cornificiana” – non vi è alcuna certezza sull’identità del personaggio. Cornificio come tale non è probabilmente mai esistito, ma è uno pseudonimo. Alcuni studiosi (come si legge per esempio nella “garzantina” di filosofia, alla voce “cornificiani”) affermano che si tratta dello pseudonimo di un personaggio descritto nella Vita Vergilii di Donato (IV secolo d.C.), quale detrattore di Virgilio.

Ciò, tuttavia, non mi pare verosimile, poiché Quintiliano (35-95 ca d.C.) già lo cita nella sua “Institutio Oratoria”, quando parla della “licenza di Cornificio”: quam Cornificius licentiam vocat, Graeci παρρησίαυ. Vi sono quindi solo due possibilità: a) o il Cornificio della Vita Vergilii è lo stesso della Rhetorica ad Herennium, ma allora lo pseudonimo non se l’è inventato Donato; b) il Cornificio della Vita Vergilii non è l’autore della Rhetorica ad Herennium. Il mistero resta. Ed è piuttosto intricato. Infatti qualcuno ha pure ipotizzato che l’autore della Rhetorica ad Herennium potesse essere Cicerone senza mai metter in dubbio, però, che Cicerone e Cornificio fossero due persone diverse.

Tuttavia già nel 1491, Raffaele Regio ritenne d’aver dimostrato nel trattato Vitrum ars rhetorica ad Herennium Ciceroni falso inscribatur che l’attribuzione a Cicerone fosse totalmente errata. Anche altri due studiosi di Cornificio ritennero errata l’attribuzione ciceroniana: Pier Vettori in un’opera del 1553, Variarum lectionum libri XXXVIII, Florentiae 1582 e soprattutto, per venire ai giorni nostri, il Professor Gualtiero Calboli, dell’Università di Bologna, importante curatore di un’edizione critica della Rhetorica (Pàtron Editore, 1993) nel libro Cornificiana 2.

In sostanza: qualche autore (e non Cicerone) noto come Cornificio, ma chissà chi?, è l’unico cui possa essere attribuita la Rhetorica, in accordo con Quintiliano che tratta ampiamente sulla “licentia” di Cornificio, definendo la Rhetorica ad Herennium quale “migliore opera” del nostro misterioso personaggio.

Mi sorge però un altro grande dubbio: come può conciliarsi la grande abilità retorica del Cornificio vantata da Quintiliano con le disposizioni impartite nel Rhetorica ad Herennium, dove l’autore afferma di essere contrario all’uso di vocaboli complicati? Del Rhetorica ad Herennium non si sa non solo l’autore ma neppure la data di quando fu scritta: i più affermano essere redatta fra l’86 e l’82; meno sono coloro che datano l’inizio della redazione fra il 75 e il 70 e quasi nessuno pensa possa essere stata scritta nel 50, come pensava il Douglas (Clausulae 74-78). Io propendo decisamente per la tesi del Douglas, a causa delle varietà retoriche usate che erano assenti prima del 70 a.C., o tra l’86 e l’82. Il Douglas afferma anche che il modo di scrivere del Cornificio era ben più complesso di altre sue opere, perciò si potrebbe dedurre che la migliore supposizione sia l’ultima.

Prima di concludere l’articolo vorrei ricordare la presenza di un altro Cornificio. Infatti, ben meno conosciuto, esiste un Cornificio grammatico ed etimologo citato da Macrobio, da Festo e da Arnobio, ricordato varie volte da Gualtiero Calboli, nel suo libro Cornificiana 2. I due si potrebbe pensare che siano la stessa persona, ma nessun romano sarebbe stato capace di occuparsi di etimologia senza studiare prima quella greca: infatti si notino tutte le parole etimologiche greche usate dal Cornificio grammatico. Ciò che però distingue i due Cornifici è che tali vocaboli etimologici greci sono assenti nella Rhetorica ad Herennium.

Nel Foreign Clientelae dell’E. Badian si parla anche di un destinatario del Rhetorica ad Herennium, ovvero un tale noto come Gaio Erennio. Da lì deriva il nome dell’opera cornificiana (Rhetorica ad Herennium), che apparteneva alla famiglia plebea degli Erenni, alla quale pur apparteneva Gaio Mario. La famiglia romana degli Erenni era abbastanza strana: famiglia plebea, ma con la maggior parte dei membri favorevoli a Silla, pur essendo consapevoli di non poter trarre alcun vantaggio da quest’appoggio.

Tra l’altro il Gelzer, nel libro Klein Schriften I, richiama il rapporto tra Mario e gli Erenni. E pur essendo documentata la sua appartenenza alla famiglia degli Erenni, Mario non l’ammise mai completamente. E’ anche possibile che Mario avesse ragione, poiché un Erennio fu tribuno di Silla nell’80. Come poteva essere parente di un nemico? Gualtiero Calboli non biasima l’atteggiamento di Mario anche se un certo C. Herennium si rifiutò in un’occasione di testimoniare contro Mario.

Da un po’ di tempo sto lavorando su Cornificio cercando fra i vari retori latini che si possono trovare nell’Orationes et epistulae de historiarum libris excerptae, più noto come Historiae, di Sallustio Crispo, e cercando di estenderne le informazioni, se presenti, nelle note biografie di Cornelio Nepote per poi paragonarle al Cornificio, per verificare le possibili relazioni con esso. Ciò che mi preoccupa è, però, il fatto che l’opera di Sallustio sia giunta a noi incompleta, mancando di catalogare alcuni retori.

Infine vorrei ricordare il nome del professor Francesco Capello, uno studioso che s’interessava con passione delle arti del trivio (retorica, stilistica e metrica). Grazie al suo pregevole manuale Hoepli(1) del 1890 dedicato alla stilistica, capitatomi per caso tra le mani frugando tra i volumi della biblioteca paterna, mi si è accesa quella curiosità che mi ha spinto a pensare alla figura enigmatica di Cornificio.

(1) Ulrico Hoepli è il popolare editore di origine Svizzera che contribuì alla diffusione della cultura popolare già tra le due guerre, lanciando la fortunatissima collezione dei manuali intitolati al suo nome che si trovano spesso nelle bancarelle sotto i portici di Via Po.