Fuga dalla mediocrità

Galline

Abbiamo, noi esseri umani, una capacità sorprendente e invidiabile di trovarci delle vie di fuga, qualora l’aria si faccia, per un motivo o per l’altro, irrespirabile. Siamo sublimemente capaci di distrarci, svicolare, schivare, spostarci. Andare altrove. Lasciare la strada principale e addentrarci in certi viottoli seminascosti dai rovi o sederci sul ciglio, mentre gli altri vanno. Lasciar che gli altri vadano e trovar per noi un angolo riparato, tana o nascondiglio. Fermarci o deviare, l’importante è dedicarci ad altro, permettere che qualcosa, anche di piccolo e marginale, ci distolga e ci porti in altri universi. È la nostra salvezza. È anche la nostra migliore virtù, secondo me. Non credo infatti che sia sempre il caso di immergersi nel pieno delle cose, nel vortice, soprattutto se le cose sprofondano in zone putride e malsane, in una specie di melma buia e fangosa. Ben vengano le ali che ci spostano, i voli di cui siamo capaci.

Per esempio, alleviamo galline.

È da poco uscito il libro di Isabella Rossellini Le mie galline e io, per Jaca Book, dove lei racconta di quando le arrivò lo scatolone con trentotto pulcini, e di come la sua vita sia da allora cambiata, vivendo con le galline, e studiando e ammirando il loro comportamento.

Quanto condivido… Inutile che io taccia il mio amore per le galline. Seppur molto meno tecnico e molto più metaforico, è stato il mio inizio, matrimoniale e letterario: quando mi sposai, andai a vivere in un posto campestre dove il vicino aveva mucche, galline, conigli; e quattordici anni dopo pubblicai un libro dove si racconta di un’insegnante che alleva galline coltivando il sogno di farne volare almeno una, un giorno.

Erano però, lo ripeto, galline del tutto metaforiche. La vita poi, in modo inaspettato, mi portò davvero ad avere un pollaio, seppur per via indiretta. Il vero possessore era mio figlio, che a diciotto anni ricevette in dono dagli amici un gallo, al quale poi lui regalò alcune galline… Ricordo che dava lui i nomi, a codeste galline, stranamente a coppie: Galla e Placidia, Paola e Francesca, Thelma e Louise. Fu allora che maturò in me la vera conoscenza delle galline, mi avvidi di cos’erano realmente, e qui concordo con Isabella Rossellini: persone! Esseri infinitamente intelligenti e affettuosi, amiche, compagne di vita, ognuna col suo carattere e coi suoi tratti distintivi; c’era la gallina timida e quella estroversa, la gallina rissosa e la gallina sempre sorridente. Mi avvidi però, altresì, di quanto la vita delle galline sia sottoposta a pericoli e conduca perlopiù a esiti veramente tragici: di notte si aggirano faine e volpi e, per quanto uno protegga il suo pollaio, le reti possono non tenere a sufficienza, ahimè.

Fine del pollaio reale, letterale. Le metafore, la letteratura in generale, di solito tengono di più.

La magia del nuoto

Oppure nuotiamo negli abissi.

È appena uscito, per Bompiani, un libro che vorrei accompagnasse la nostra estate: La cerimonia del nuoto, di Valentina Fortichiari.

Nuotare è un mistero, per quanto ci sforziamo non si può dire cosa sia. È, di colpo, appartenere a un altro elemento. Tuffarsi, provare il brivido di lasciare un mondo per entrare in un altro, sperimentare ogni volta questo confine. E poi, farsi portare. Lasciarsi andare, affidarsi. Dunque, anche, avere fede. Galleggiare, avere questo coraggio di permettere al nostro corpo, al nostro io, di galleggiare: vuol dire rinunciare alle difese, ai luoghi comuni, alle appartenenze, a tutto ciò che ci supporta e ci sostiene, abbandonare ogni sorta di rigidità, partiti presi, velleitarismi. E allenare il respiro. Vivere ritmicamente di quel respiro. Sprofondare e riemergere. Fondersi. Ma anche fendere come ferire, e nello stesso tempo umilmente obbedire.

Ma soprattutto nuotare è sentire il tempo in un altro modo, sperimentare un altro scorrere, o non scorrere. Dimenticare l’ancoraggio del presente e affondare in tutti i propri “momenti di essere”, anche passati e futuri. Non so dire altro. È disciplina, è rito, è cerimonia, come dice Fortichiari. È anche solitudine, e sospensione: “Appena s’immerge, il nuotatore resta solo con se stesso, sospeso nell’elemento liquido come nei sogni”. Difficile dire cosa sia nuotare. “Sentire l’acqua, dominarla, e fare di questo dominio un’arte è la magia dei nuotatori”.

Nuotare è innanzi tutto il mare, provare questa sorta di amore sacro per il mare, tornare a sentirci, proprio grazie all’abbraccio del mare, un tutt’uno con l’universo: “C’è silenzio, e il mare è intatto e immobile ad aspettarmi. È necessario guardare lungamente il mare. Una forma di meditazione che aiuta a staccarsi da sé: una dimensione senza corpo, senza tempo, fatta solo di sensi. Il respiro comincia a farsi profondo, le narici annusano, e i rumori del mare fanno rallentare il sangue”. Sì, nuotare in mare è pensiero puro.

Ma il libro di Valentina Fortichiari non parla solo di nuoto: scopre e rivela, come un’onda, i racconti del mare. Racconta tutte le storie affondate e profondissime che il mare conserva in sé, che tiene strette nel cuore dei suoi abissi. È quindi anche un libro di racconti, perfetti, misteriosi, rapiti all’insondabile profondità dell’essere: il racconto del tonno di corsa, del pesce volante, del narvalo unicorno degli oceani, della foca artica, del cavalluccio marino… In realtà, sono racconti che parlano di noi, della nostra vita: gli amori, le amicizie, i pericoli, i tradimenti, il dolore… Il dolore di un figlio che vede morire sua madre, e poco importa se la madre è una donna o una balena, uccisa e squartata da marinai: negli occhi di suo figlio, il piccolo capodoglio solitario, lei è la “madre legata con funi, trainata, mentre le acque al suo passaggio si tingevano di rosso” e lui la segue perché non può far altro: “Confuso, disperato, incapace di aiutarla mentre la balena a pancia in su fissava il sole, non gli riusciva, irragionevole, affamato, di abbandonarla”.

Fino al racconto finale, che s’intitola Mio padre, nuotando, e che sonda ben altri misteri, bel altri confini: il tempo misterioso in cui un padre sta per lasciare il mondo, e una figlia che nuotando ancora un’ultima volta col vecchio padre “sente”, così come sente l’acqua, l’inesorabile avvicinarsi della sua perdita.

Le stelle

Il mare, le galline… Cosa cambia? Vale tutto parimenti come via di fuga. Anzi, direi che in genere è proprio così: o fuggiamo attraverso l’infinitamente piccolo (studiamo insetti al microscopio, fotografiamo fiori, fili d’erba e gocce d’acqua col macro obiettivo, alleviamo api, galline…) o fuggiamo nell’immensità. Del mare, dello spazio…

Ricordo qui un altro libro bellissimo, che mi accompagna sempre: Il grande racconto delle stelle, di Piero Boitani (Il Mulino, 2012). Questo libro siamo noi, che di fronte agli astri interroghiamo noi stessi, noi che di fronte alla bellezza e al mistero indaghiamo il senso del nostro esistere, attraverso la storia, la filosofia, la poesia, la musica, i miti del cosmo… Siamo noi, ancora una volta capaci di fuggire, e di inventarci mondi. E anche di superare quel che impropriamente chiamiamo tempo, se riusciamo a contemplare stelle che da centinaia di anni hanno smesso di esistere…

Il Principe Azzurro e le felpe della politica

Insomma, in molti modi sappiamo di-vagare. Perderci nei viottoli, trovare angoli, stanze tutte per noi, anfratti che diventano universi. Il nuoto, le api, le galline, le stelle… La letteratura, i libri. Le storie. Le favole…

Le cose molto piccole o le cose molto grandi. Evitando quel che sta in mezzo, e che solo a volte, nei casi fortunati, è aurea mediocritas: il più delle volte è mediocrità e basta.

Per questo forse ci attraggono fortemente i matrimoni delle famiglie reali, amiamo così tanto seguire le dirette tivù, leggere notizie, guardare video e foto: perché ci porta via dalla mediocrità che vediamo dilagare intorno, soprattutto in questi ultimi mesi, qui in Italia, costretti come siamo stati finora, a guardare l’inguardabile spettacolo di una politica mediocre, e spesso volgare.

Il matrimonio di Harry e Megan ci conquista. Ci rilassa, ci distrae. Forse anche ci innalza. Non credo sia perché amiamo da sempre la favola del Principe che sposa Cenerentola. Sebbene ci siano davvero tutti gli elementi, non solo il giovane Principe barbuto e rosseggiante e la bellissima fanciulla che viene più o meno dal nulla, ma anche tutto il corredo di cavalli, carrozze, pennacchi e… cappelli. Grande lode ai cappelli inverosimili, esorbitanti e surreali delle dame inglesi!

Certamente la favola ci attrae, credo stia in qualche parte recondita di noi da millenni. Ci attrare benché sappiamo quanto sia, oggi, fuori tempo, ingenuo e scontato credere ancora al Principe Azzurro. Ce lo siamo raccontato in tutte le salse quanto tutto ciò sia politicamente scorretto. Eppure, in quella parte recondita di noi proviamo un godimento, un’ebbrezza, davanti alle immagini televisive che ci mostrano il matrimonio di Megan e Harry, è innegabile.

Ma credo sia soprattutto un punto ad attrarci: la bellezza, lo spettacolo sempre commovente della bellezza. Abbiamo un inconfessabile bisogno di bellezza. Non tanto lo sfarzo e il lusso di una nobiltà perduta, quanto l’eleganza, la bellezza che è fatta, anche, di rito e cerimonia, di regole e di forme. Qualcosa di sacrale, che ancora regga.

Non ne possiamo più di felpe e maniche di camicia. Ci sentiamo oppressi, schiacciati, abbattuti, mortificati e depressi dalla bruttezza che da mesi la politica ci impone. Vorremmo uscirne. Per questo ci troviamo i viottoli dove scappare.

La vera bruttezza, la vera mediocrità, naturalmente, non solo (soltanto) le felpe. Ho riflettuto un po’, in questi mesi, in questo prolungarsi dell’agonia del vuoto di governo. Ho ascoltato e visto di tutto: dichiarazioni, commenti, talk show (per quel furore masochistico che mi prende, a volte, di affondarci in pieno, nella melma…). E sono arrivata a pensare che l’aspetto peggiore, più mortificante, è che questa politica si sia finora più che mai fondata su cose e non su idee. Cose soltanto concrete, che si toccano, si quantificano, si spendono. La promessa di “cose”: più soldi, meno tasse, bonus, agevolazioni, sussidi… Nomi di cose e basta. Un profluvio di offerte da supermercato: è questo che ci offende. Vorremmo votare un politico che ci mostri una visione del mondo, non uno che ci offre una scatola di pelati in più.

Lo so che potrebbe sembrare un bene: finalmente una politica concreta e non fumosa. E questo è stato fino a un certo punto anche il mio modo di vederla. Ma oggi non saprei…. Troppa concretezza bieca, pesante, fine a se stessa. Manca un volo, un’impennata. Era meglio non dico il fumo, ma una onesta genericità, e una altrettanto onesta ma dispiegata al massimo, esibita, ampiamente e narrativamente esposta, idea generale del mondo. Una politica di idee. Ideale, appunto.

Utopie e velieri

Ci manca molto il pensiero. Soffriamo a causa di una dolorosa… défaite de la pensée (è il bellissimo titolo di un libro di Alain Finkielkraut, del 1987). L’energia pensante. La capacità che ha l’umano pensiero di inventare e costruire universi.

In realtà, non capisco quasi niente di politica e dovrei tacere. In realtà, sono la prima a stupirmi di quel che dico, perché quel che dico mi conduce inesorabilmente a un punto che mi lascia perplessa: il rimpianto delle ideologie. C’è da ridere, io che rimpiango ciò che da sempre definisco come il peggiore dei mali, ciò che ci ha tolto la libertà: la dittatura delle ideologie! Inaudito. Eppure…

Eppure c’era un lato buono. E oggi mi ritrovo a elogiare il lato buono delle ideologie perdute. Criticabili quanto si vuole, per alcuni versi detestabili. Ma oggi non siamo nelle condizioni di permetterci una critica, possiamo solo, e forse dobbiamo, concederci un sano e doveroso rimpianto, oggi che siamo subissati solo di slogan e promesse, frasi fatte, annunci iperbolici, discorsini imparati a memoria e mandati in onda a ripetizione.

Le ideologie erano ben più che degli slogan. Erano organizzazioni mentali complesse, costruzioni dense di significato. Ogni volta la costruzione di un mondo nuovo e preferibile al vecchio. Ogni volta una sovversione, una rigenerazione. Ma erano prima di tutto costruzioni, edifici di cui si vedevano le fondamenta, le impalcature, i muri, le finestre, il tetto. Non importa se non erano concreti, “veri”. Erano utopia. Ma utopia non vuol dire promesse, è l’esatto contrario. L’utopia non promette, inventa, costruisce invenzioni. In questo senso è un po’ come la favola… Quindi poi alla fine tutto si tiene, torniamo al punto da cui siamo partiti: il matrimonio di Megan e Harry. Il nuoto, le galline… Se nessuno più costruisce mondi per noi, ognuno di noi si costruisca il suo mondo.

Torneremo a coltivare il famoso giardino di voltairiana memoria? Può darsi. Ma un giardino può essere un’isola, e un’isola il mondo intero. In miniatura. Forse l’isola che non c’è, ma che val la pena immaginare. Non sottovaluterei l’impresa. E nemmeno le miniature…

Finirei così, con l’elogio dei mondi miniaturizzati. Il veliero nella bottiglia, per esempio. Tanto per tornare al mare… Chi lo costruiva quel veliero? Chi introduceva nel collo della bottiglia con le pinze ogni volta un pezzettino di legno, un gancetto, un cordino? Chi tirava su quelle minuscole vele? Chi aveva quella pazienza, quella modestia, di fare qualcosa di così minuto e inessenziale, eppur così determinante, e imprescindibile direi, per la nostra vita mentale, per la fantasia, per la capacità immaginifica che (ancora) abita in noi e ci anima?

Un grazie, a tutti i costruttori di velieri.

Pubblicato su Il Sole24Ore del 27 maggio 2018



I ragazzi selvaggi e il tramonto dell’educazione

Siamo arrivati alla società dei «diseredati»: giovani a cui non è stato trasmesso nulla di ciò che è davvero fondante, senza radici e senza capacità di immaginare e di costruire il futuro

Dopo l’ennesima spedizione punitiva di genitori contro un insegnante reo di fare soltanto il proprio lavoro, dopo i tristi casi di cronaca di professori sbeffeggiati, derisi e postati su Facebook, dopo l’inarrestabile escalation di bullismo presente ormai ad ogni livello nella vita scolastica e, soprattutto, dopo una lunga ed estenuante campagna elettorale, in cui nessuno dei contendenti ha messo non dico al primo ma neppure agli ultimi posti la catastrofe educativa, occorre forse fermarsi e cercare di stabilire un punto fermo.

Che cos’è l’educazione?

Che cos’è l’educazione? E qual è la relazione tra l’educazione e il nostro essere pienamente umani? Le grandi scimmie antropomorfe, etologicamente i nostri parenti più stretti, permettono ai loro «adolescenti» di compiere atti che a un adulto non verrebbero mai concessi. Ma entro certi limiti. Non appena la soglia viene superata, l’adulto più alto in grado prende le misure necessarie per interrompere un comportamento destinato a diventare nocivo per la comunità stessa. Uno scimpanzé, un gorilla, un bonobo, per quanto complessi essi siano, hanno una caratteristica che li accomuna alle altre specie animali: vivono nell’immediatezza delle situazioni e la loro esistenza si svolge quietamente lungo i binari della genetica, dell’ambiente e dell’evoluzione. Seguendo la legge della sua specie, un piccolo scimpanzé diventerà sempre un grande scimpanzé ma un bambino lasciato a se stesso, senza alcun accompagnamento, senza sostegno, senza limiti né contrasti, che cosa mai potrà diventare? Quello che ormai troppo spesso abbiamo sotto i nostri occhi: un adolescente infelice, rabbioso, totalmente privo di empatia, succube dei sempre più folli capricci del suo ego.

La tesi di Rousseau

D’altronde, come stupirsi? Quando io studiavo alle magistrali nei primi anni Settanta, il caposaldo della nostra formazione era l’Émile di J.J. Rousseau. Nella visione del filosofo svizzero, infatti, il bambino, per poter sviluppare al massimo le sue potenzialità, doveva essere lasciato il più possibile allo stato di natura, rinunciando ad ogni autorità educativa. «Non comandategli mai nulla, per nessuna ragione al mondo: assolutamente nulla» scrive nel suo romanzo pedagogico del 1762. «Non lasciategli neppure immaginare che pretendete di avere su di lui qualche autorità». Inoltre, per proteggerlo dall’influsso nefasto della società — indi della civiltà e dalla nebulosità della cultura — Rousseau consiglia di ridurre quanto più possibile anche il suo vocabolario. «È un inconveniente gravissimo che abbia più parole che idee, che sappia dire più cose di quante sappia pensarne».

Il libro di Bellamy

Queste memorie scolastiche mi sono tornate in mente leggendo lo splendido libro del filosofo François-Xavier Bellamy, I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere (Itaca, 2016), uno dei saggi più lucidamente appassionati sulla crisi educativa degli ultimi anni. Proprio nel libro di Bellamy si ricorda una vicenda accaduta una ventina d’anni dopo la morte di Rousseau, quando nel Sud della Francia venne trovato in una zona impervia un ragazzo selvaggio. Stando alle teorie rousseauiane, questo bambino avrebbe dovuto essere il non plus ultra della saggezza e dell’equilibrio. Invece, secondo la testimonianze del medico che lo seguì nei primi tempi «si agitava continuamente senza scopo, mordendo e graffiando tutti quelli che lo contrariavano, non manifestando alcuna specie di gratitudine per coloro che lo accudivano, indifferente a tutto e a nulla prestando attenzione». Questo ritrovamento scosse temporaneamente le salde certezze dei seguaci di Rousseau, ma il turbamento fu presto accantonato sostenendo che il ragazzo era stato abbandonato proprio in quanto indomabile.

Infanzia in totale solitudine

Chi ha visto il bel film di Truffaut, Il ragazzo selvaggio, ispirato proprio a Victor, si ricorderà degli sforzi che uno studente di medicina, Jean Itard — convinto dell’ipotesi contraria, cioè che il ragazzo fosse così proprio in quanto abbandonato —, fece per restituirgli la sua umanità e per non farlo rinchiudere in manicomio, come avrebbero voluto i rousseauiani. Per cinque anni Itard si dedicò a Victor con immensa pazienza e, pur non riuscendo a rimediare ai gravi danni psicologici causati da un’infanzia vissuta in totale solitudine, riuscì comunque a placarlo, a fargli esprimere le proprie sensazioni ed emozioni per comunicarle agli altri. Diversamente dallo scimpanzé, l’uomo che cresce allo stato brado, senza alcun condizionamento né guida, è destinato a diventare un essere infelice, rabbioso e selvatico, perché la misteriosa complessità dell’essere umano si sviluppa soltanto attraverso la relazione e la trasmissione del sapere. Sapere che non è condizionamento, ma via prioritaria per la libertà e la stabilità della persona.

Società di «diseredati»

Abolito il ruolo educativo della scuola — ridotta nel migliore dei casi a luogo dove si apprendono tecniche — cancellata la stabilità e l’autorevolezza del nucleo familiare, scomparsi storicamente i partiti, eclissata la chiesa, quali realtà educative permangono nella collettività? Soltanto il narcisismo anarchico della Rete che esalta sopra ogni cosa la felicità individuale, creando una monocultura della mente e una totale anestesia del cuore. Di questo passo, siamo arrivati così alla società dei «diseredati», appunto: giovani generazioni a cui non è stato trasmesso nulla di ciò che è davvero fondante, giovani senza radici e senza alcuna capacità — e possibilità — di immaginare e di costruire il futuro. Che cittadini saranno i nuovi ragazzi selvaggi? Non si può poi negare che quarant’anni di questa pedagogia così affabilmente democratica abbiano creato una società sempre più drammaticamente classista. Mai come ora, infatti la forbice tra i ragazzi privilegiati, su cui la famiglia ha potuto e ha voluto investire, e i novelli Victor, figli di famiglie disgregate, assenti o prive di risorse, è stata così ampia.

Senza autorevolezza

Pensando all’apatia educativa contemporanea, mi è tornato in mente un episodio raccontatomi qualche anno fa da una giornalista tedesca. Nata alla fine degli anni Quaranta, la sua infanzia era stata segnata dalla drammatica divisione del suo Paese. Un giorno, quando era ancora alle elementari, aveva raccontato a tavola che tutta la sua classe era stata invitata alla festa di compleanno di una loro compagna fuggita dall’Est ma che nessuno di loro sarebbe andato perché la bambina era povera e puzzava. La nonna, a quel punto, le aveva dato un sonoro schiaffo, il primo e l’ultimo della sua vita. «Tu invece ci vai!» le aveva intimato. «E ci vai con il miglior vestito, portandole anche un bellissimo regalo». E così era accaduto. Era stata l’unica della classe ad andarci. «Senza quello schiaffo la mia vita sarebbe stata completamente diversa», mi confidò. «Mi ha fatto aprire gli occhi e da allora non mi sono mai più lasciata tentare dalla crudele banalità della maggioranza».

Il kyôsaku

Lungi da me l’idea di inneggiare alla violenza fisica, ma non è proprio colpendo con un bastone, il kyôsaku, che i maestri zen risvegliano la coscienza degli allievi assopiti o distratti durante il tempo della meditazione? Non è forse di un bastone di questo tipo che anche la nostra società avrebbe bisogno per svegliarsi dal torpore, aprire finalmente gli occhi e chiamare le cose con il loro nome? Senza ritorno dell’autorevolezza, senza un generoso e appassionato ripristino della cultura – come realizzazione più profonda dell’umano e della sua trasmissione, che è fatta di imprescindibili priorità – il nostro mondo sarà sempre più popolato da infelicissimi e ingestibili Victor. E non è necessario avere grandi doti divinatorie per immaginare che sarà un mondo purtroppo drammaticamente diverso dall’aulico Eden di cui avrebbe voluto essere artefice l’Émile immaginato da J.J. Rousseau.

Articolo pubblicato su il Corriere della Sera del 12 aprile 2018



La vita è un palcoscenico

Sono andata a teatro, qualche giorno fa. Dovrei dire sono tornata a teatro, dopo anni. È stato un vero shock: il teatro esiste ancora. Attori sul palco, scenografia, costumi, musiche. E attori che non si limitano a raccontare una storia o a leggere: recitano una parte, entrano in un personaggio e dicono le parole che il personaggio deve dire, in tempo reale, in consonanza alla situazione in cui è immerso in quel preciso momento. In una parola, rappresentano![…]

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Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 25 marzo 2018



Ricordo di Piero Ostellino

(Venezia, 9 ottobre 1935 – Milano, 10 marzo 2018)

Piero Ostellino, fondatore e Presidente della Fondazione David Hume, ci ha lasciati.

L’ho conosciuto personalmente tardi, troppo tardi, e quasi per caso, ma ha accompagnato e illuminato il mio lavoro da quando lo incontrai per la prima volta. Era il 2006, se ricordo bene, e avevo da poco pubblicato Perché siamo antipatici?, il mio libro più dissacrante contro l’ipocrisia della sinistra politicamente corretta e radical chic. Sull’onda di quel libro conobbi un gruppo di ragazzi che si sentivano estranei al conformismo imperante: Pier Luigi Diaco, Nicola Grigoletto, Raffaella Rancan. Cominciammo a frequentarci fra Roma, Torino e Milano. Uno di loro a un certo punto disse: dobbiamo assolutamente fondare qualcosa, e a quel punto si fece il nome di Piero Ostellino. Era indispensabile coinvolgerlo. Nessuno più di lui poteva aiutarci a capire il da farsi.

Fu così che, con l’entusiasmo di quei ragazzi e con l’aiuto di tante persone (le trovate tutte alla fine di questo scritto) nacque la Fondazione David Hume. Un centro di ricerche e un laboratorio di idee che si ispirava e si ispira a due principi: restituire un po’ di onestà intellettuale al discorso politico (la mia fissa), e tenere rigorosamente separati il piano dei fatti e quello dei valori (la fissa di Piero). Fu proprio Piero che, di fronte alle mie stravaganti proposte di un nome per la costituenda fondazione, mi disse: no, Luca, la chiamiamo Fondazione David Hume. Lo disse in un modo che non ammetteva repliche, e in effetti aveva ragione lui: nessun altro nome riuniva meglio tutto ciò che eravamo e in cui credevamo. Lui, come ha scritto Paolo Mieli in una bellissima rievocazione sul Corriere della Sera, era un “liberale puro”, ossia “uno dei pochissimi nel nostro Paese a poter declinare quella identità senza essere costretto ad aggiungere aggettivi”. Io e i miei giovani amici eravamo prima di tutto “empiristi”, nel senso di pronti a prendere sul serio i fatti, anche quando fossero stati poco conformi alle nostre speranze e ai nostri pregiudizi.

Ecco perché, nel Manifesto della Fondazione David Hume (lo trovate qui sotto), c’è il filosofo David Hume, liberale e vate dell’empirismo, ma c’è anche l’eretico Pasolini, pensatore dissacrante che in uno dei suoi ultimi scritti aveva affermato: “il coraggio intellettuale della verità e l’attività politica sono due cose incompatibili in Italia”.

Ora che Piero non c’è più, non ci resta che proseguire il lavoro che iniziammo allora con il suo aiuto, con la sua spinta, con i suoi consigli. Ma ci resta anche un’immagine, che custodisco con Nicola, Raffaella e mia moglie Paola, anche lei nel drappello dei fondatori. L’immagine di Piero che, vestito con un abito rosa pastello, ci accoglie a Vidauban – il suo regno fatato in Provenza, pieno di libri, di amici e di alberi secolari – per festeggiare un lungo anniversario di matrimonio con Marisa e, con implacabile autoironia ci dice: “non vi sembro un fiore?”.

Così ci piace ricordarlo, sul prato di Vidauban, con l’amata Marisa e i figli Paola e Luca, cui va il mio e nostro abbraccio.

Luca Ricolfi – Nicola Grigoletto – Raffaella Rancan – Paola Mastrocola


MANIFESTO DELLA FONDAZIONE DAVID HUME

Il fine ultimo della nostra Fondazione è rendere inattuale questo giudizio di Pasolini:

Il coraggio intellettuale della verità e l’attività politica sono due cose incompatibili in Italia.

(Scritti corsari, 1975)

Pasolini era tutto tranne che un freddo osservatore della realtà. Pasolini guardava il mondo con un grande pathos, con un misto di pietas e di passione civile, di rimpianto e di speranza. E tuttavia in Pasolini il pathos non è mai disgiunto da una sincera, disinteressata, quasi ossessiva ricerca della verità. Una ricerca mai gregaria o settaria, una ricerca che non indulge mai al bisogno di riconoscimento, di appartenenza, o di legittimazione della propria parte politica. Una ricerca libera, disincantata, spietata, e dunque solitaria.

E oggi?

Oggi la figura di Pasolini è divenuta del tutto inattuale perché la passione e l’amore per la verità hanno preso due strade diverse. Se guardiamo alla politica, al giornalismo, e alle stesse scienze sociali è difficile non vedere che spesso, troppo spesso, l’impegno politico e il rispetto per la verità non vanno più d’accordo fra loro. Le passioni più accese si accompagnano ora con la più totale ignoranza dei fatti, ora con la più spudorata partigianeria: a quanto pare non esistono più fatti ma, come diceva Nietzsche, solo interpretazioni (tendenziose) dei fatti. La ricerca sincera della verità, d’altro canto, si scontra con la scarsità di filtri capaci di separare le fonti attendibili da quelle tendenziose, le informazioni genuine dalle pseudo-conoscenze e dalle pseudo-notizie: una sorta di omologante “internettizzazione” dell’informazione, che affligge innanzitutto i mass media ma non risparmia certo le scienze sociali, sempre più malate di irrilevanza e faziosità.

I politici mentono spudoratamente, i mass media più seri si limitano a non distorcere troppo le loro menzogne, mentre mancano del tutto media che si occupino credibilmente di giudicare della verità delle affermazioni degli uni e degli altri. Né si può dire che al compito provvedano le scienze sociali, di cui giustamente Raymond Boudon ha di recente denunciato la vocazione ideologica, la subalternità alle mode, la debolezza analitica.

E’ così che si produce la scissione fra passione e verità. Più cerca di “scaldare” i cuori, più la politica finisce per disprezzare le menti. E più la politica perde ogni rispetto per la verità, più la maggioranza dei cittadini perde ogni rispetto per la politica. Il risultato è che la passione politica tende a trasformarsi in cieca partigianeria, mentre la voglia di verità tende a mutarsi in amaro scetticismo. A una minoranza di cittadini certi che la propria parte politica sia l’incarnazione del bene (o che la parte avversa sia l’incarnazione del male), si contrappone una maggioranza ormai rassegnata a non sapere, a non scegliere, o a scegliere il meno peggio.

Ecco perché il problema di Pasolini, riconciliare passione e verità, è oggi più attuale che mai. La vera passione ha bisogno di verità, e il bisogno di verità è esso stesso la più fondamentale delle passioni.

Ma che cosa c’entra Hume con tutto ciò?

Il nostro richiamo a Hume è un modo per sottolineare l’importanza di un approccio analitico ed empirico ai fatti della vita sociale, e la conseguente rigorosa separazione fra fatti e valori, fra proposizioni descrittive e proposizioni prescrittive, secondo la celebre formulazione che verrà poi ricordata come “principio di Hume”:

In ogni sistema di morale con cui ho avuto finora a che fare, ho sempre notato che l’autore procede per un po’ nel modo ordinario di ragionare, e stabilisce l’esistenza di un bene, oppure fa delle osservazioni circa le faccende umane; quando all’improvviso mi sorprendo a scoprire che, invece di trovare le proposizioni rette di consueto dai verbi è e non è non incontra che proposizioni connesse con dovrebbe e non dovrebbe. Questo mutamento è impercettibile ma è della massima importanza. Poiché questi dovrebbe e non dovrebbe esprimono una relazione o affermazione nuova è necessario che […] si adduca una ragione […] del modo in cui questa nuova relazione può essere dedotta da altre, che sono totalmente diverse da essa” (Treatise of human nature, 1739-40 [corsivi aggiunti]).

Nelle sue attività la nostra Fondazione cercherà di immettere nella politica italiana soprattutto elementi di conoscenza non partigiani, e come tali disponibili per entrambi gli schieramenti politici nonché per chiunque abbia interesse alla comprensione della nostra società.

Stante la natura della sua mission impossible, la Fondazione in quanto tale non ha uno speciale rapporto con nessuna delle parti che competono sulla scena politica. Non sta con la destra contro la sinistra, né con la sinistra contro la destra. Non sta con i laici contro i cattolici, né con i cattolici contro i laici. L’unica opzione, codificata nel nostro statuto, è quella di immettere maggiori elementi di liberalismo nel circuito della politica e dell’informazione, nella cultura del nostro paese, attraverso analisi fattuali della realtà, secondo principi di rigore e di “imparzialità”. Ma non di neutralità: la Fondazione non è neutrale di fronte a tutto ciò che limita le libertà individuali intese, kantianamente, come diritto di ciascuno a perseguire il proprio ideale di vita a condizione di non impedire ad altri di fare altrettanto. La Fondazione pone al centro della propria indagine l’Individuo, la Persona, non le ideologie e le astrazioni collettive (come le classi, i ceti, le corporazioni), ispirata da una cultura liberale, non classista e non comunitaristica.

Ciò significa, in particolare, favorire il pensiero libero in tutte le sue manifestazioni, contribuire alla promozione del merito e delle pari opportunità, rimuovere le barriere che ostacolano il ricambio delle élite (con speciale attenzione ai giovani e alle donne).

Siamo pienamente consapevoli che quello della Fondazione David Hume è solo un sasso gettato nello stagno. Ma confidiamo che analoghi sassi possano essere gettati da altri, e che il movimento complessivo che ne potrà risultare possa prima o poi restituirci un’Italia meno stagnante. Un’Italia in cui il merito conti davvero, sicché anche chi non ha padri (ricchi) e padrini (potenti) possa avere una chance. Un’Italia in cui giornalisti e studiosi facciano il loro mestiere, senza dogmatismi e senza eccessive partigianerie. Un’Italia in cui si possa fare politica senza rinunciare alla verità, e cercare la verità senza doversi allontanare dalla politica.

Un’Italia, insomma, in cui forse a Pasolini non sarebbe dispiaciuto vivere.

[Piero Ostellino e Luca Ricolfi, 2011]

Soci fondatori della Fondazione David Hume:

Franco Amato
Giuseppe Bedeschi
Antonio Belloni
Alessandro Sergio Clementi
Dino Cofrancesco
Giovanni Cofrancesco
Raimondo Cubeddu
Jacopo Doveri
Bruno Ermolli
Giorgio Fedel
Stefano Firpo
Marcello Franco
Federica Grigoletto
Nicola Grigoletto
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AIOP- Associazione Italiana Ospedaliera Privata
ANCE- Associazione Nazionale Costruttori Edili
Italconsult s.r.l.




Votate per il Patas!

È l’acronimo del Partito Anti Telefonini A Scuola.

Chi di voi s’iscrive?

Compassi e poesia

Se a scuola, come pare, vincerà Internet e tutti avranno il loro bravo telefonino in mano e (forse) anche un PC sul banco, sarà la fine delle cartolerie. Non serviranno più quaderni, biro, pennarelli, gomme, temperini, fogli protocollo, cartelline, righelli, squadre, goniometri, compassi, cartucce per la stilo. Si chiama smaterializzazione. Gli oggetti se ne vanno, si volatilizzano e noi restiamo sgombri, e privi.

Soprattutto veniamo privati di uno dei piaceri più belli della vita: andare in cartoleria a prendere personalmente gli oggetti che ci servono per la scuola.

(Parentesi. Come genitori, credo che dovremmo lasciare i nostri figli liberi di andare da soli in cartoleria, non accompagnarli e tanto meno comprare noi le cose di scuola o ordinarle su internet, seguendo l’arido elenco che i nostri figli ci hanno dato. Non sarebbe un servizio che facciamo loro, ma un torto. Più in generale, dovremmo smetterla di “servire” i nostri figli, bambini, adolescenti o adulti che siano. Dovremmo smettere di accompagnarli in auto ovunque, per esempio, perché andare a piedi e prendere il pullman sono due esperienze meravigliose e molto utili perché insegnano tre cose: guardare il mondo, accorgersi degli altri, e tenere in conto il valore del tempo).

Tornando al piacere della cartoleria, prendiamo un ragazzino di undici anni, a ottobre, appena entrato in prima media. Ha compiuto un grande salto, dalle elementari, e ora si sente già molto grande. È pomeriggio. Fa un po’ di compiti, fa merenda, e poi va in cartoleria. Prende il foglietto con l’elenco, si mette scarpe e giubbotto, esce. Va per le strade del suo rione, da solo. Ha in mente quel che deve comprare, sono le cose che i professori gli han detto di comprare, che gli serviranno per i suoi studi. È orgoglioso di essere già alle medie, di iniziare un corso di studi che gli è ancora ignoto ma che lo proietta dritto, a poco a poco, nel mondo degli adulti. È anche molto contento di andarsi a comprare delle cose che non sono futili, come i soliti giochi, videogiochi, aggeggi elettronici o pelouche; sono cose utili, che davvero deve comprare, ha l’obbligo perché gli servono. È una differenza molto importante, di cui stiamo perdendo un po’ coscienza: comprare cose che ci sono utili conferisce al gesto di comprare una ragione moralmente ineccepibile, nonché la piacevole sensazione di non sprecare i soldi. Sensazione piuttosto rara, oggi, in una società abituata a comprare cose di cui si potrebbe benissimo fare a meno.

Insomma, il ragazzino entra. E qui vorrei che nel negozio ci fosse un lungo bancone, dietro il quale ci fosse una commessa gentile che gli chiede cosa gli serve, gli mostra i vari articoli e, se è il caso, lo indirizza nelle scelte. Lo so che non funziona più così: uno entra ed è libero di gironzolare tra gli scaffali e prendersi quel che vuole, poi va alla cassa e paga. L’abbiamo chiamata “libertà”. Lasciar libero il cliente, non opprimerlo, non aggredirlo appena entra con la domanda, invadente e violenta: Cosa desidera? L’abbiamo chiamata libertà e salutata come un miglioramento, lo so. Ma avremmo dovuto chiamarla “solitudine dell’acquirente”. È bellissimo, invece, che qualcuno appena entriamo ci chieda cosa siamo venuti a comprare e ci aiuti a districarci nella selva delle migliaia di prodotti e varianti. È bellissimo perché possiamo parlare con quel qualcuno, e non sentirci troppo soli. Magari chiediamo un compasso, ed è possibile, soprattutto se abbiamo undici anni, che sia la prima volta che vediamo un compasso. Siamo venuti a comprarlo perché il professore ci ha dettato sul diario: compasso, ma non sappiamo bene che cosa sia, a che cosa ci servirà, non abbiamo un’idea chiara di come si usi, e ora siamo lì a comprare il primo compasso della nostra vita, e per fortuna abbiamo davanti una signorina gentile che ce ne mostra vari modelli, apre gli astucci e ci fa vedere le differenze, dal compasso basic nell’astuccio di plastica che costa meno fino al compasso super con decine di accessori, ognuno incapsulato nella sua sede dentro l’astuccio, imbottito di velluto, che costa ovviamente più caro. È una fortuna che ci sia, davanti a noi, quella gentile commessa. Così noi guardiamo allibiti, estasiati, quel compasso che di colpo assurge a simbolo della vita che verrà, di cosa faremo da grandi, o meglio di cosa diventeremo di lì a pochi mesi, alla fine della prima media, quando sapremo usare benissimo un compasso, e lo useremo per anni, sempre meglio, facendo operazioni sempre più complesse. Di colpo, lì, in quella cartoleria, abbiamo il lampo di quel che saremo, e di come andrà la vita, e anche finalmente di che cos’è la scuola. E ci verrà anche una gran voglia di andarci, a scuola, per anni e anni, per diventare qualcuno che sa fare bene qualcosa. Per diventare. Per essere, cioè, quel che saremo, ovvero quel che in fondo  siamo già senza saperlo.

È diverso se, invece, ci dirigiamo al reparto cartoleria di un immenso ipermercato e, davanti al settore Compassi, ne prendiamo più o meno a caso uno e corriamo a pagarlo alla cassa. O se il compasso ci arriva pe posta o ce lo compra nostra madre e ce lo mette davanti la sera a casa, con l’aria soddisfatta come a dire: e anche questa è fatta, che madre efficiente sono!

Non ho la minima idea se si usi ancora il compasso a scuola, e se qualcuno vada a comprarlo in cartoleria all’inizio della prima media. Ma credo che, se a scuola vincerà Internet, i cerchi li faremo con una app geometrica che ce li disegna, o con un sofisticato programma che ci avranno insegnato a “scaricare”. Se così fosse, non saremo, in breve, più capaci a usare un compasso, non sapremo forse nemmeno più che cosa sia un compasso: quindi ci sarà impossibile capire una delle più belle poesie d’amore di tutta la nostra letteratura, A Valediction: Forbidding Mourning di John Donne. Là dove il poeta parla dell’amore lontano e, per dire l’infinita sofferenza e al tempo stesso il senso assoluto di unione che ci prende quando amiamo e siamo lontani dalla persona amata, usa l’immagine metaforica dei due bracci di un compasso, che piegano l’uno sempre più distante dall’altro, ma sempre sono uniti al centro, dal perno che li tiene, dalla mano che li muove.

Non sapendo più cosa sia un compasso, non capiremo niente di questa poesia. E finiremo col non leggerla più. E John Donne sarà morto per sempre.

Compassi e telefonini

Intanto, proprio in questi giorni, la commissione di esperti voluta dal Ministero ha chiuso i lavori e redatto il decalogo per l’uso dei telefonini in classe. Leggo dai giornali che si potranno usare foto e video per documentare una gita, tracciare percorsi col Gps per conoscere una città, fare riassunti via twitter, andare su Minecraft…

Capisco che parlare di compassi, cartolerie e John Donne non abbia più tanto senso…

Mi chiedo solo perché continuiamo, nella scuola, a insegnare ai ragazzi quel che sanno già fare, quel che appartiene già al loro mondo e quindi conoscono forse anche meglio di noi (insegnare ai nativi digitali come si naviga in Internet sarebbe come insegnare ai figli dei contadini come si pota un melo), invece di insegnare cose che siano davvero nuove per loro, che appartengano a universi a loro sconosciuti: perché non insegniamo e a entrare in mondi complessi come la letteratura e l’algebra, invece che a entrare in GoogleMaps?

Mi chiedo anche se qualcuno protesterà, genitori, professori, filosofi, scrittori, opinionisti. Magari anche allievi… Già. Mi chiedo se i ragazzi, poi, siano così d’accordo a usare anche nelle ore scolastiche lo smartphone, visto che lo usano già nel resto della loro giornata. Non verrà loro a noia? Non potrebbero preferire distrarsi, di-vertirsi, con qualche bel libro, magari commentato dalla viva voce del loro insegnante che fa (ancora) lezione?

Paride e le elezioni

Siamo immersi in una campagna elettorale strana, forse la più abominevolmente stravagante che ci sia mai capitata. Una campagna elettorale di partiti-piazzisti, di politici-commercianti che urlano i loro prodotti e le loro offerte strabilianti. Un bazar, un supermercato, in cui noi elettori, temo, voteremo per chi ci promette in regalo il “prodotto” che più ci sta a cuore. Noi sceglieremo il regalo, non un’idea del mondo o una visione della società. Il nostro voto non sarà né ideologico né identitario: sarà biecamente “economico”. Sceglieremo il regalo più costoso, o più comodo, o più attraente: avere un bonus bebé, non pagare il bollo auto, andare in pensione quando si vuole, pagare meno tasse, non pagare il canone TV, ricevere una dentiera gratis, una tessera per il teatro, una cassa di vino, un panettone a Natale…

Mi torna in mente Paride, l’oscuro pastore (in realtà figlio del re di Troia!) designato a decidere chi tra le tre dee sia la più bella. Non sa a chi dare la mela d’oro, tra Atena, Era e Afrodite. Non sa valutare la bellezza. E infatti non sceglie la più bella: sceglie il dono, quindi la dea che gli promette il dono che più lo attira. Sceglierà Afrodite, perché gli promette la donna più bella del mondo.

Così faremo noi elettori, a queste elezioni così aliene. Non sceglieremo il partito che ci sembra migliore. Forse come Paride non sappiamo nemmeno valutare quale sia il migliore, e non sapremmo a chi dare la mela con la frase incisa: “al più bello”. Sceglieremo non il partito più bello, ma il partito che ci promette il dono più bello.

Ecco perché nessuno parla di scuola (meno che mai di telefonini a scuola!), in questa campagna elettorale. Nessun partito, nessun politico fa una proposta, ha in mente qualcosa per migliorare l’istruzione. Al massimo sentiamo parlare genericamente del tema scuola come di un tema molto importante per il nostro Paese, per la crescita, la democrazia, per l’uguaglianza, e blablabla…

Certo! La scuola non è un bene commerciabile, non può far parte dell’elenco dei doni “economici” che un partito promette al suo elettorato. Non è merce di scambio. Potrebbe mai un partito, per esempio, proporre di mantenere l’attuale divieto dei telefonini nelle scuole (divieto in atto in molti Paesi europei, peraltro…)? E che regalo elettorale sarebbe? Chi mai darebbe la mela d’oro a un partito del genere?

Paride, come sappiamo, causò la guerra di Troia. Dieci anni di morti e disgrazie.

Che fare? Fondare immediatamente un partito anti-telefonino-a-scuola, il PATAS?

Articolo uscito su Il Sole 24 Ore del 28 gennaio 2018