Perché Bach ci può salvare. Storia della pianista internata da Mao

Qualche settimana fa, facendo ordine nella libreria, mi è capitato in mano il famoso Libretto rosso di Mao Zedong. Era la versione in cinese di mio padre, sinologo dilettante. Non ero in grado di leggere neppure un ideogramma, ma improvvisamente mi sono tornati in mente i tanti slogan che rimbombavano nelle orecchie degli adolescenti e dei ragazzi della mia generazione. La rivoluzione non è un pranzo di gala. Colpirne uno, per educarne cento. L’imperialismo è una tigre di carta. Pochi giorni dopo ho iniziato a leggere un libro che mi ha profondamente colpito, Il pianoforte segreto, l’autobiografia di Zhu Xiao-Mei (Bollati Boringhieri, 2018), pianista cinese, famosa le sue interpretazioni delle Variazioni Goldberg di Bach.

Nata nel 1949 da una famiglia «di cattive origini» borghesi, Zhu Xiao-Mei ha iniziato a suonare il piano a sei anni ed è entrata in conservatorio a dieci, carica di luminose attese, non sapendo che solo dopo un anno si sarebbe abbattuta sulla Cina una devastante carestia, conseguenza delle folli scelte economiche e agricole del «grande balzo in avanti» voluto da Mao per incrementare la produzione di acciaio. Scelte che alterarono l’equilibrio naturale dell’ambiente, provocando la morte di decine di milioni di persone, oltre allo sterminio di quasi tutti gli uccelli, rei di essere dei parassiti borghesi. Un disastro epocale che spinse Mao, messo da parte dalle leve del potere dallo stesso suo partito, a rivolgersi direttamente alle masse invitandole a portare avanti una Rivoluzione culturale dal basso: una chiamata alle armi diretta soprattutto ai giovani e giovanissimi destinata a far cambiare per sempre la mentalità al popolo cinese, estirpando alla radice, distruggendo e nullificando tutte le tradizioni che lo avevano guidato fino ad allora con lo scopo finale di instaurare finalmente la giustizia e la felicità in Cina e nel mondo. La stessa Zhu Xiao-Mei viene travolta da questa ondata rivoluzionaria che, passando da Mozart a Mao, trasforma il Conservatorio di Pechino in un luogo di delazioni e di vendette, di terrore e di umiliazioni. Dopo essere caduta in disgrazia per una battuta scherzosa, la giovane promessa del piano sarà costretta a fare autocritica, diventando poi una convinta sostenitrice di Mao, pronta a calpestare, in nome della rivoluzione, gli affetti più importanti e a denunciare i suoi stessi maestri.

Zhu Xiao-Mei ha voluto scrivere questa spietata e dolorosa confessione soprattutto per fare ammenda del dolore causato, per non essere riuscita a salvarsi dal plagio collettivo. «La Rivoluzione culturale mi ha sporcata — scrive —, mi ha reso complice. A un certo punto ha persino ucciso in me ogni senso morale». Assistiamo, pagina dopo pagina, al divampare della follia collettiva: dal rogo compiuto di tutti gli lp e gli spartiti borghesi, alle violenze e alle uccisioni dei docenti, fino alla chiusura dello stesso conservatorio. La seguiamo passo dopo passo nella disumanità e nell’abbrutimento dei cinque lunghi anni in diversi campi di lavoro, in cui Xiao-Mei sfiora la disperazione totale, fino al giorno in cui, rischiando il tutto per tutto, riesce a farsi spedire dalla madre il vecchio pianoforte camuffato da credenza, privo di molte corde ma comunque capace di far rinascere nel suo cuore l’amore per la bellezza e l’armonia. Ai guardiani dice che le serve per suonare gli Yan Bang Xi, i motivi scritti appositamente per la rivoluzione cinese invece, fidando nelle loro ignoranza, si immerge nelle eterne note di Bach e di Chopin. Solo nel 1980 riuscirà a lasciare la Cina per Hong Kong e poi per gli Stati Uniti, dove, prima di riprendere gli studi di pianoforte, sopravviverà per parecchio tempo facendo la colf. Ora vive a Parigi ed è considerata una delle più grandi interpreti di Bach. Suona con gli occhi chiusi, le piccole mani che sfiorano i tasti con il distacco e l’intensità delle più alte forme di meditazione.

Quando ho terminato il libro, la prima cosa che ho pensato è che andrebbe letto nelle scuole; la seconda è che, pur parlando della Cina della rivoluzione maoista, in realtà è un libro che parla anche del grande rischio dei nostri tempi. Quando all’orizzonte ricompare l’idea della giovinezza come valore in sé, quando troppo spesso nel discorso pubblico ritornano le parole «giustizia», «popolo» «felicità» come valori assoluti, quando questa battaglia porta con sé il mito della «sincerità» come virtù edificante, dell’aggressività diffusa come arma di dissuasione, quando viene preso come paradigma assoluto la vita concreta, pratica, ignorando tutto ciò che costituisce la complessità e la ricchezza dell’essere umano, si entra in un tunnel in cui dall’altra parte non c’è il paradiso in terra ma un mondo di desolazione e di appiattimento. Relegando l’uomo alla sola dimensione materiale, ridicolizzando tutto ciò che non appartiene al mondo degli istinti primari, deridendo ogni forma di pensiero complesso e di espressione artistica, considerati appannaggio di un’élite di privilegiati, emerge l’animalità, e l’animalità prospera sotto una legge molto semplice, quella della sopravvivenza del più forte.

L’irruzione della tecnologia nella nostra vita ha portato innumerevoli benefici e altri probabilmente continuerà a portarci, ha però reso i pensieri di tutti più epidermici, privi di profondità, ha ridotto i sentimenti per lo più a un’esagitazione viscerale, senza più il controllo della mente. L’assenza di silenzio e solitudine fa il resto. Così si finisce sempre per accontentarci della prima risposta e si è grati a chi ce ne fornisce una dietro alla quale correre senza esitazione.

Per chi crede ancora che nell’umano ci sia qualcosa che non sarà mai assimilabile alla pura tecnologia, questi tempi di slogan assertivi fanno davvero paura. Pensando proprio al libro di Zhu Xiao-Mei possiamo trovare il coraggio di dire che l’assenza di cultura è una delle più grandi forme di povertà. Essere poveri di parole, di pensieri e di sentimenti vuol dire essere poveri nelle proprie relazioni e nella comprensione della realtà. La storia della pianista cinese dimostra con esemplare chiarezza che la storia ci può privare di tutto, della nostra cultura, della libertà, della dignità, spingendoci a vivere al limite dell’umano, ma non può spegnere l’anelito alla bellezza che è nascosto in ogni persona che abbia la forza d’animo di seguire la voce della propria coscienza. Primo Levi è sopravvissuto ad Auschwitz grazie anche alle poesie imparate a memoria, Zhu Xiao-Mei non si è fatta sopraffare dalla bestialità dei campi di lavoro grazie alla musica di Chopin e a Bach che continuava a risuonare dentro di lei. Nell’opacità di questi tempi forse è bene ricordare che solo l’arte e il riverbero della bellezza riescono a illuminare i momenti più bui della storia.

Articolo pubblicato da Il Corriere della Sera il 05 novembre 2018



Dov’è sparita la scuola?

Sono tempi di sparizioni. Sono spariti da un po’ i pomodori col gusto di pomodoro, come aveva scritto Pietro Citati (anche le mele col gusto di mela, per quel che ne penso io). Sono sparite le videocassette, le sarte, il teatro radiofonico, i capelli cotonati, la lacca. Spariscono sempre più i generi letterari, le spiagge (mangiate dal mare), i ghiacciai (mangiati dal caldo). Spariranno forse a breve anche i libri con tutti gli annessi: scrittori, editori, librerie e biblioteche.

E la scuola, è sparita?

No di certo: essendo settembre, è ricominciata.

Sembrerebbe sparita, però. Non se ne parla più. Non se n’è mai parlato così poco, direi. Silenzio assordante. Da mesi e mesi, nel perenne stato di propaganda politica pre e post elettorale in cui viviamo, nessun candidato o leader dei vari movimenti o partiti ha mai fatto nemmeno un accenno, fuggevole, magari per errore, al tema scuola. A parte l’ex ministro Calenda, che ha più volte nominato in pubblico, mostrando grande coraggio, le parole istruzione, libri, lettura e, qua e là, persino la parola cultura. Eroico. Ha tutta la mia ammirazione. È l’unico, mi pare. Per il resto, tema completamente sparito. Non era nelle priorità per il paese, non era nell’agenda dei politici.

E, visto che i politici oggi fanno politica seguendo i like dei loro follower, dovremmo a malincuore dedurne che il tema scuola non interessa agli italiani, cioè a nessuno di noi. Può darsi. O a ben pochi, una componente elettorale tanto irrisoria che si può benissimo ignorare. Sì, è possibile che la maggioranza mandi i figli a scuola per una sorta di inerzia sociale e la consideri di fatto un’incombenza (nel senso che incombe) inutile e uggiosa nella vita dei figli, qualcosa di cui non vale più la pena nemmeno di parlare. Altri i temi scottanti del dibattito, televisivo e non, tutti economici, o al più moraleggianti: le tasse, le pensioni, la disoccupazione, lo spread; gli immigrati, gli sbarchi, l’accoglienza, le ONG.

Ma è settembre, e la scuola, come sempre, è ricominciata. Che dire?

Non sono più un’insegnante in servizio, e guardo ormai la scuola da una lontananza siderale. Per esempio, conosco poco le ultime novità, solo per sentito dire, non avendole esperite: il registro elettronico, l’alternanza scuola-lavoro, i cambiamenti dell’esame di maturità. Ma il tema mi sta sempre molto a cuore. Parlarne può essere di una sconcertante inutilità, lo so. Soltanto parole. Ma il non parlarne è il segno di una battaglia persa per sempre. Le parole non sono irrilevanti, se usate non a vuoto. Le parole sono idee. E senza idee si muore. Dunque, che il mio Paese non abbia più parole, e idee, sulla scuola mi fa un’enorme tristezza. Difficile fondare o rifondare qualcosa se non si parte dall’istruzione, dai libri, dallo studio, dall’esercizio del pensiero. Difficile far andare avanti il mondo se non si pensa a coltivare le menti degli esseri umani fin dalla loro tenera età. Età scolastica, appunto.

Ci sarebbe molto da dire, soprattutto se la scuola così com’è oggi non ci piacesse, se fossimo animati da qualche dubbio sull’ondata tecnologica, per esempio, o sulla dittatura dei test a crocette, e se volessimo che la scuola tornasse a essere un ascensore sociale, che muove i giovani dai piani bassi dove per nascita la sorte li ha collocati, ai piani alti dove un più alto livello di studi potrebbe farli arrivare. Sì, ci sarebbe molto da dire e molto lavoro da fare. Forse si potrebbe pensare, una buona volta, di cambiare drasticamente rotta…

Ma adesso, quest’anno per la prima volta, mi coglie una preoccupazione nuova. Ho letto sui giornali che alcuni insegnanti vogliono fare politica a scuola: insegnare l’antirazzismo, per esempio. L’antifascismo, l’antibullismo… La solidarietà, la convivenza civile, la democrazia…

Grandi valori, non c’è dubbio. Lodevoli propositi. Ma… Avrei qualche non piccola obiezione. Per dire, non credo che l’antirazzismo si possa “insegnare”, ecco. L’amore, la generosità, il rispetto, l’altruismo non s’insegnano. Non funziona in modo così scoperto, letterale, diretto. Non riesco a immaginare corsi per far innamorare qualcuno, o per convincerlo a convivere amorevolmente con una persona di altro colore e di altra cultura. Cioè, non è dicendo che non bisogna essere razzisti, e dicendolo con apposite conferenze di esperti, convegni psico-sociologici o prediche più o meno laiche, che otterremo che la gente non sia razzista. Credo anzi che la lezione morale, inevitabilmente retorica e pedante, possa addirittura in certi casi suscitare l’effetto contrario. Pinocchio, ricordiamolo, prende a martellate il Grillo Parlante.

Capisco la solitudine degli insegnanti, sempre più abbandonati a se stessi, ricattati dalla maleducazione di genitori e allievi, impigliati nella rete frustrante della burocrazia e nella rete tout court, dilacerati tra programmi vetusti e meravigliosi nuovi metodi, nonché ripetutamente gettati nei pentoloni bollenti dei corsi di aggiornamento. Capisco ancor di più che oggi gli insegnanti, di fronte alla decadenza culturale, morale e politica dell’intero nostro Paese, si sentano animati da nobili propositi educativi e vogliano in qualche modo dirigere al meglio gli animi. Migliorare l’umanità, cambiare il mondo, eccetera…

Ma far politica nelle scuole siamo sicuri che sia la via giusta?

Ho fatto il liceo negli anni ’70, e li ho visti da vicino gli insegnanti cosiddetti “politicizzati”. Arrivavano in classe come sul piede di guerra, e accantonando libri e registri cominciavano, infervorati, le loro concioni quasi fossero in piazza con le bandiere. Ne ho avuti alcuni che per tutto il triennio del liceo classico non hanno quasi mai (direi mai, affidandomi ai miei ricordi, ma non vorrei esagerare) fatto lezione. Voglio dire che per tre anni non hanno insegnato la loro materia!

Credo che ritenessero d’aver ben altri compiti, che quello di spiegarci le guerre puniche, le teorie kantiane o le formule di prostaferesi. Troppo banale, semplice, irrilevante.  Avevano materie più scottanti di cui parlarci: la Cina di Mao, i Khmer rossi in Cambogia, gli scioperi, i picchetti, le assemblee, la lotta operaia, gli scontri con i picchiatori fascisti. Probabilmente ritenevano, in buona fede e in ottemperanza alle loro più profonde convinzioni, che fosse molto più importante discutere di attualità e agitare le coscienze, che non insegnare nozioni ai loro occhi vetuste, astratte e atemporali, di matematica, filosofia o storia dell’arte. Hanno preferito fare politica, piuttosto che fare scuola. Usando inevitabilmente parole faziose, non neutre, non imparziali, per influenzare, per plasmare. Per indottrinare!

Non li ho mai perdonati. Perché non è vero che poi, negli anni, uno se le studia comunque, se vuole, le materie che non ha fatto a scuola. Non è vero. Quelle materie per me sono state perse per sempre, un buco irreparabile, una ignoranza che mi ha accompagnato tutta vita, sicuramente impoverendola.

Forse gli insegnanti dovrebbero limitarsi a far lezione. Ma dovrebbero farlo pensando che non sia una limitazione, anzi, dovrebbero pensare che il loro più vero impegno “politico” sia proprio questo: non privare i giovani della cultura, dar loro il massimo delle conoscenze, e al livello più alto possibile, perché questo li renderà “umani”.

Le parole di Inge Feltrinelli mi giungono da un’intervista televisiva, in questi giorni tristi dedicati al suo ricordo: “I libri non sono per imparare, per studiare. Sono per la vita”. Non saprei dirlo meglio. La vita di una persona, in tutta la sua pienezza e complessità, nutrita dai libri, dal sapere che diventa possesso personale, unico. Allora sì, in questo senso, la cultura rende davvero umano un essere umano. La cultura scolastica prima di tutto, che è quella che si acquisisce lentamente, negli anni dell’infanzia e giovinezza. Studiando, sì, le “materie”. Storia, geografia, fisica, arte, matematica, letteratura, chimica, filosofia. Dante, Keplero, Mozart, Van Gogh, Freud, Einstein… È leggendo i libri, è attraverso le opere dei grandi, scrittori, scienziati, artisti, che da studenti impariamo i valori più nobili. Ed è facendo lezione che, da insegnanti, incidiamo nella mente dei ragazzi, insegniamo loro – ma in modo indiretto! – a essere rispettosi, generosi, altruisti, misericordiosi… E non razzisti! Senza bisogno di parole dirette, faziose, predicanti. Parole troppo “piccole”, anguste, limitate: ancorate soltanto alla contingenza del presente.

La cultura apre a orizzonti temporali ben più vasti. È spazio senza confini. È parola non faziosa e non attuale. È libertà assoluta di pensiero.

 … e la poesia?

E la poesia, esiste ancora?

Sì, esiste. Non è vero che è morta. Si pubblicano ancora libri, ci sono collane, editori, autori. E ci sono premi, convegni, persino festival di poesia.

Dunque la poesia esiste.

Sì. Ma mi viene da pensare ai fuochi che si facevano in campagna per bruciare i legni, gli sterpi, i vari rimasugli di una vita contadina, che così come produceva, sapeva anche distruggere il superfluo, il pattume. Ora non c’è più la vita contadina, e comunque i fuochi in campagna sono proibiti. Ciò nonostante ogni tanto qualcuno che abita in campagna, o un po’ ai lati delle periferie, non sapendo cosa farne delle foglie secche, dei rami potati, accende un grosso fuoco. Magari verso sera, o all’alba di certi giorni particolarmente nebbiosi, perché siano poco visibili, perché nessuno se ne accorga.

Così è per la poesia. Non ci sono più le condizioni per cui si possa produrre poesia; non ci sono più lettori, per esempio. E forse non ci sono nemmeno più poeti; poeti grandi, dico, riconosciuti come tali. Ma qualcuno resiste, ai margini; qualche poeta sparuto, grande o piccolo lo sapremo poi o non lo sapremo mai, che se ne vive appartato e che quasi di nascosto scrive i suoi versi che chissà mai chi leggerà. Una o due poesie, o anche un librino vero, se ha fortuna di pubblicarlo, se trova un editore: allora fa un giretto sul palco di qualche festival e magari vince anche qualche piccolo premio.

Ne parlo con una mia grande amica, con cui ho condiviso studi e passioni letterarie per tutta la vita. Prendiamo un caffè, qualche giorno fa, e le chiedo che ne è della poesia, secondo lei, cosa fanno oggi i poeti.

Ci pensa un po’. Mi guarda con i suoi occhi piccoli e scuri, un po’ triangolari, poi risponde:

– Vanno a capo.

Folgorante. Già. La poesia è andare a capo a ogni verso. Ma se diventa soltanto andare a capo?

Non diciamo più niente. Lei mi sorride, io le sorrido. E ci finiamo il caffè.

Pubblicato su Il Sole24Ore del 1 ottobre 2018




La “funzione” intellettuale

Qualche giorno fa un caro amico –  Giuseppe Samonà, bravissimo scrittore, che vive da anni a Parigi –  mi diceva che questo, specie visto da fuori, è un governo fascista: destra sociale + xenofobia. Va bene l’eterno fascismo italiano di cui parlava Carlo Levi nel 1944. O se volete il fascismo come gobettiana autobiografia della nazione.  Il fascismo insomma  come forma moderna (per quanto di una modernità  in parte stravolta) di un tratto antico del nostro carattere, diciamo almeno dal ‘600 (per il momento non andiamo oltre e lasciamo perdere la furbesca impostura di sor Ciappelletto, nel Decameron): conformismo, cialtroneria, intolleranza, piccolo egoismo quotidiano, gusto della spettacolarità, vigliaccheria, retorica, opportunismo,  e anche modi spicci, una inclinazione alla brutalità e un ruvido realismo (aspetto ben presente al Thomas Mann di Mario e il mago). Ora, fortunatamente oggi non c’è lo squadrismo, l’intimidazione fisica, se non in frange estreme (CasaPound). Una volta infatti assistendo a un comizio leghista strappai, in un momento di rabbia, un loro volantino. Nessuno mi ha né detto né fatto alcunché.

Ma direi che alcuni di quegli elementi li ritroviamo nel popolo di Salvini (guasconeria, nazionalismo “con le palle” e a tempo scaduto, l’egoismo del “me ne frego” …), altri nel popolo di Saviano (ipocrisia, snobismo conformista, le magliette rosse come segno di distinzione, eroismo magniloquente, esibizione di indignazione, che diventa una “professione”, il disprezzo per chi la pensa diversamente sulla situazione presente). La mia potrebbe essere considerata una pericolosa equidistanza tra i due. Credo invece che Salvini abbia oggi molte più responsabilità di Saviano, anche solo per aver imposto, in modi spesso paranoici, la migrazione come la questione più drammatica e urgente per gli italiani (e non è esattamente così). Ma credo che anche persone che abbiano un orientamento di sinistra e sensibilità umanitaria debbano essere un po’ più vigili nei confronti di una retorica tipica della propria parte (per il critico americano Lionel Trilling l’indignazione è la emozione caratteristica della classe media), e che diano più ascolto a umori e stati d’animo che provengono non dalla casta ma dal basso, dal sottosuolo sociale. Né condivido questo febbrile protagonismo degli intellettuali, che non rinunciano a un ruolo pubblico ormai obsoleto. Qual opinion maker oggi è davvero autorevole? Altra cosa è invece rivendicare la “funzione” intellettuale, il pensiero critico socraticamente presente in ciascuno. Proprio Carlo Levi diceva che il nostro compito è sconfiggere anzitutto il fascismo “dentro di noi”. Ecco, sconfiggere il razzismo dentro di noi, in tutte le sue forme. Sarebbe già molto.




Pensieri estivi

La nave dell’acqua

M’interrogo spesso sulle navi dell’acqua. Mi succede di solito in agosto, nel resto dell’anno quasi mai. In agosto, su un’isola. Se non sono su un’isola, difficile che mi venga il pensiero.

Le isole dipendono dalla nave dell’acqua. Se la nave non arriva, l’isola resta senz’acqua. D’accordo, è piuttosto ovvio. Ma pensiamoci a fondo. Una nave che trasporta… acqua. Che da qualche parte sulla terraferma si fa riempire le cavità interne di… acqua. Le cavità interne di una nave, il grembo oscuro, l’antro misterioso della balena di Pinocchio. E poi piano piano, piena com’è d’acqua, va… sull’acqua. Percorre quella vastità incommensurabile di acqua che è il mare e va a portare la sua personale dose d’acqua in un posto dove non c’è acqua, e non ci sarebbe mai se lei non arrivasse. Pensiamo cosa dev’essere avere un tale fine, essere programmata per una missione così necessaria e salvifica. Pensiamo a quale consapevolezza di sé, a quale fierezza, pienezza morale, autostima deve possedere una nave dell’acqua.

E osserviamola con attenzione. Strana, particolare. Non assomiglia a nessun’altra nave. La si distingue già da lontano, la si vede arrivare quando è ancora un puntino oblungo all’orizzonte, un trattino sul filo del mare, ed è un tuffo al cuore. Almeno uno di noi a questo punto, ovunque si trovi – a casa, al bar, sotto l’ombrellone, in coda in un negozio (a patto che abbia almeno una vetrata sul porto) – esclama, col sorriso nel cuore:

Arriva la nave dell’acqua!

C’è sempre, in queste esclamazioni estemporanee e istintive, qualcosa di quella purezza disarmata eppur imperiosa, di quel terrore atavico intrattenibile che ha a che fare con la paura di morire, con le difficoltà primitive del vivere, la fame, la sete, la povertà; e anche, quindi, con l’idea di una salvazione, di un’entità metafisica variamente declinata che ci osserva, ci protegge, e in definitiva ci vuole bene. Una nave dell’acqua, appunto.

È bellissima. Lunga, stilosa. La prua è un corpo compatto e ha la forma di ogni prua, più o meno. E la poppa anche, tutto sommato, esce poco dalla norma. Vista da davanti o da dietro, una nave dell’acqua potrebbe assomigliare a una nave qualsiasi. Ma vista di lato no perché poi, nel proseguire del corpo, nella sua parte centrale, si assottiglia e si appiattisce, fa partire una sezione di sé lunghissima e filiforme, come se qualcuno avesse tirato dalla prora e dalla poppa a mo’ di molla e il risultato fosse una specie di corridoio etereo e longilineo, un avvallamento, una piattaforma, che contraddice l’idea stessa di nave dell’acqua così come ci verrebbe da immaginarla: grossa, ingombrante, tonda come il ventre di una donna che porta in sé il suo figlio nascituro. Nave gravida che, invece, nasconde il peso, lo camuffa in una snellezza elegante, dandoci il brivido di un dubbio: ma veramente questa nave avrà dentro di sé dell’acqua, o ci inganna?

E poi, la fermezza. Nel senso dello stare ferma. Una nave dell’acqua non si muove. Sta. Per ore, anche giorni. Ha questa pazienza di arrivare e poi star lì immobile, muta. Sa cosa deve fare, e sa che il prezzo è il tempo, un tempo statico, appagato in sé, dal suo fine. Ormeggia al molo, distende quel suo lungo tubo (di gomma?) che inizia penzolando dalla chiglia, poi affonda un poco in mare, infine subito risorge per connettersi con chissà quali tubazioni ignote, sotterranee, misteriche, collegate a loro volta a chissà quali immense caverne, concavi spazi bui, grotte, magazzini, cantine, container… Come si chiameranno queste cavità capaci di contenere tutto il fabbisogno d’acqua di un’intera isola?

E di lì, l’arrivo alle cisterne. Il mistero delle cisterne! Il lento diramarsi dell’acqua verso le singole cisterne. Ogni casa ne ha una, su un’isola. È il suo bene più prezioso. Il valore di una casa si misura in tonnellate, nella capacità della sua cisterna. Più tonnellate una cisterna contiene, più è capace di fornire acqua e più, nel suo proprietario, si dissolve l’idea di sete, rovina, morte.

Infine, la desertitudine. La nave dell’acqua sembra sempre deserta. Non si vede essere umano. Nessuno si aggira, scruta l’orizzonte, cammina, mangia un panino. Nessuno. Per quanto mi fermi ogni volta a guardare, non ho mai colto alcun movimento o parvenza animata. Neanche un cane, per dire. Lo sterminato ponte, quella piattaforma stirata, è sempre perfettamente vuoto.

Chi c’è sulla nave dell’acqua?

Eppure qualcuno la abita, la governa. Dove si nasconde? E cosa fa? Come si vive su una nave dell’acqua?

Se fossi uno scrittore, m’inventerei una storia.

 

L’aereo dell’acqua

Anche gli aerei, d’estate, portano acqua. Succede quando qualcosa s’incendia, di solito un bosco. Allora noi da riva osserviamo il giallo dei canadair sfiorare il mare, caricare, ripartire verso l’alto e poi scaricare lasciandosi dietro la nuvola bianca e densa dell’acqua, che a pioggia, cadrà a spegnere fiamme che non vediamo. Gli incendi, chissà perché, sono sempre dietro il monte, a lato del promontorio, dopo la curva, oltre la punta: sempre nascosti, lontani, come non volessero farsi sorprendere, come se bruciare fosse una faccenda privata, da consumarsi nell’intimo della propria esistenza.

Sono bocche aperte, i canadair. O meglio, aerei dalla pancia sfondata, che a mo’ di enorme paletta raccolgono l’acqua, la contengono un attimo in sé, per poi subito elargirla.

Ma il bello sono gli aerei, o elicotteri, col cestino. O secchiello. Un piccolo contenitore che tengono appeso e vola sotto di loro, un poco inclinato, sghembo. Un secchio porta acqua, così minuscolo nel cielo, tenuto da un filo o catena, chissà, qualcosa di aereo che lo sospende. E noi lì sotto a fare la nostra vita di turisti, bagnanti, vacanzieri festosi e divertiti: noi a fare il bagno, spalmarci di creme, tuffarci dagli scogli, arroventarci di sole, chiacchierare con gli sconosciuti, sfogliare riviste, addentare focacce, adocchiare bellezze, rincorrere gabbiani, accarezzare cani, litigare con genitori, baciare fidanzati, guidare moto d’acqua, nuotare. Mentre nel cielo questi velivoli pazienti, generosi e umili passano e ripassano sopra le nostre teste ignare, distratte, indifferenti.

Ogni tanto, se ci pare, se ci viene, volgiamo gli occhi in alto e li vediamo, per un attimo, questi aerei che vanno e vengono, dieci volte, venti volte, per ore, metodici, costanti, col loro secchio appeso, ora portandolo pieno, ora riportandolo vuoto. Ogni tanto, se ci permettiamo ancora il piacere di stupirci, ci nasce la domanda: ma come si può spegnere un incendio con un pugno di secchielli d’acqua? E di colpo ci assale la nostalgia di tutte le imprese folli e impossibili.

Come quel bambino in riva al mare che prendeva l’acqua con una conchiglia e piano piano, una conchigliata dopo l’altra, la riversava nella piccola buca appena scavata nella sabbia. Sant’Agostino passava di lì, immerso nei suoi pensieri. Incuriosito, gli chiese: Cosa fai?

Voglio svuotare il mare e trasferirlo nella mia buca.

Fine agosto

Agosto è un mese impegnativo. Forse è lui il più crudele dei mesi. Ci impone di interrompere la nostra vita, che equivale quasi a lasciare il nostro pianeta e avventurarci per i mondi inesplorati e ostili della vacanza: chiudere casa, intraprendere viaggi, vivere altrove, in un tempo limitato, in uno spazio sconosciuto. Tirarsi dietro poca roba stipata in borsoni, zaini, trolley; sottoporsi allo stress dell’acquisto biglietti, all’attesa delle coincidenze, alla noia dei lunghi percorsi, all’eccesso o alla totale assenza di aria condizionata, al rollio dei traghetti, alla folla che si ammassa davanti all’unico ascensore, all’alba, quando il traghetto arriva in porto e ognuno vuol essere il primo a scendere, come se la vacanza non lo aspettasse, partisse in qualche modo anche lei per una sua vacanza, all’interno di sé.

Affittare mezzi estranei, auto, bici, gommoni che non è detto che sapremo guidare; alloggiare in dimore ignote, alberghi, tende, roulotte o case altrui. Le case affittate, per esempio, dove incontriamo la grettezza umana, l’avidità, l’avarizia di chi affitta a caro prezzo (in nero) e lascia a disposizione quattro piatti (solo fondi), cinque o sei posate e una mezza dozzina di bicchieri spaiati, gialli verdi, alti, bassi.

Che tristezza i bicchieri spaiati.

Vacanza è mancanza. In vacanza ci manca tutto: i genitori se siamo figli, i figli se siamo genitori, la casa, i vicini di casa, i libri, anche quelli che abbiamo già letto o non leggeremo mai, i fiori sul balcone, i vestiti che non abbiamo messo in valigia, l’odore di minestra perenne nell’androne (ma chi è che cucina sempre la minestra?), i negozi, il supermercato con la nostra cassiera preferita.

Vacanza è “mancare” a se stessi. Non è vero che in vacanza scopriamo finalmente chi siamo, il nostro vero essere, le infinite possibilità di noi che la vita solita ci preclude. No, in vacanza ci perdiamo. O meglio, perdiamo la parte abituale di noi, di cui sentiamo subito una struggente “mancanza”. Il ritmo fisso che scandisce la nostra giornata, gli impegni di lavoro sempre uguali, l’autobus, il parcheggio sotterraneo. Per esempio il gesto di compilare il voucher del parcheggio grattando con la monetina le ore e mettendo sempre una mezz’ora in più sperando di farla franca. Ci mancano da morire questi gesti minimi. I dialoghi soliti. Per esempio dalla mia amica panettiera, che vende miriadi di pani diversi, a cui chiedo sempre cos’è il lievito madre e se pane ai cereali vuol dire integrale. E lei con pazienza ogni volta mi rispiega tutto.

Vacanza ha in sé, etimologicamente, la parola vuoto. E le nostre vite, così come abbiamo deciso di costruirle, sono piene. Pienissime.

Non siamo ancora pronti per il vuoto.

Settembre è il più consolante dei mesi.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 2 settembre 2018



Hume e Smith: un lungo sodalizio intellettuale e personale

Si è spesso parlato dei rapporti intercorsi fra David Hume e Adam Smith. E ciò è stato fatto in forma accessoria, attingendo a biografie che sono state scritte per raccontare la vita dell’uno o dell’altro. Non c’è stata un’opera incentrata sul lungo sodalizio, dapprima intellettuale e poi anche personale, a cui hanno dato vita i due maggiori rappresentanti dell’Illuminismo scozzese. Dennis C. Rasmussen colma la lacuna. Pubblica una monografia (“The Infidel and the Professor”, Princeton University Press, 2017) che per la prima volta ci offre un dettagliato quadro delle loro convergenze, di qualche divergenza e della loro amicizia.

Hume nasce nel 1711 e Smith nel 1723. Il loro primo incontro è del 1749. Hume aveva già pubblicato il “Treatise of Human Nature”, gli “Essays, Moral and Political” e i “Philosophical Essays”. E Smith, dopo avere studiato per tre anni all’Università di Glasgow, era stato dal 1740 al 1746 al Balliol College di Oxford: un’esperienza, quest’ultima, da lui giudicata in termini molto negativi, soprattutto se confrontata con il periodo di tempo precedentemente trascorso a Glasgow. L’impegno degli studenti di Oxford era quello di “partecipare alle preghiere due volte al giorno e di seguire due volte alla settimana le lezioni”, tenute da “professori che avevano del tutto abbandonato ogni pretesa di insegnare”. Per di più, entrati senza preavviso nella sua stanza, i “dons” avevano trovato una copia del Treatise di Hume. L’avevano subito requisita e avevano rimproverato severamente Smith per il possesso un’opera così tanto empia. È molto probabile che Smith avesse già letto gli “Essays”, pubblicati nel 1742, e che da quelli fosse risalito al “Treatise”.

Durante la permanenza a Oxford, Smith aveva scritto tre saggi, fra cui quello sulla storia dell’astronomia, che verranno poi pubblicati postumi. Non diversamente da Hume, egli si era mostrato in tali scritti molto scettico sull’estensione del campo d’indagine della ragione umana e sulle capacità della stessa. Ed è con tale orientamento culturale che aveva fatto ritorno in Scozia, dove aveva cominciato, a partire dall’autunno del 1748, a tenere delle conferenze a Edimburgo. Ma Hume era partito all’inizio dell’anno, in qualità di segretario del generale James St. Clair, per svolgere una missione diplomatica a Vienna e Torino. Il suo rientro è dell’autunno del 1749. E il suo primo incontro con Smith è sicuramente avvenuto nel corso di una delle conferenze da questi tenute in quel periodo presso la Edinburgh Philosophical Society, di cui Hume era uno dei principali punti di riferimento. Ciò è confermato da una lettera di circa dieci anni più tardi, in cui lo stesso Hume rammenta a Smith il successo di quelle conferenze. È così che è cominciato un lungo e solido sodalizio, passato progressivamente dal “Caro Signore”, “Caro Smith” e “Caro Hume”, Mio Caro Amico, al più stretto “Mio Carissimo Amico”.

Fino alla “teoria dei sentimenti morali”

Com’è noto, in conseguenza dell’opposizione del clero presbiteriano e dei moderati, la candidatura di Hume per una cattedra presso l’Università di Edimburgo era stata bocciata nel 1744. E la stessa cosa accade nel 1751 presso l’Università di Glasgow. Al posto di Hume, viene chiamato James Clow, che non lascia alcunché di rilevante. Ernest Campbell Mossner ha commentato: “l’infatuazione accademica per la mediocrità aveva trionfato ancora una volta”.  Le cose sono andate ben diversamente per Smith. Poco prima, egli era stato chiamato a occupare una cattedra nella stessa Università di Glaslow. E non aveva esitato a sostenere Hume. In una lettera a un collega, aveva scritto: “Preferirei Hume a qualunque altro studioso”. Se non ne fosse stata respinta la candidatura, Hume si sarebbe trovato assieme a Smith. Ed entrambi avrebbero avuto come collega James Watt.

L’insuccesso accademico non ha influito sulla produzione di Hume. Il periodo che va dal 1749 al 1759 è il più fecondo della sua vita. Quando vengono pubblicati i “Political Discourses”, Smith presenta i saggi sul commercio, letti sicuramente in anteprima, alla Literary Society di Glasgow. E non solo. Le sue lezioni di quegli anni risentono chiaramente dell’influenza di tutto quanto scritto da Hume. Il passaggio dalla società feudale a quella commerciale è ispirato dalla trattazione humiana contenuta in “The History of England”, un’opera che può essere considerata la “prima spiegazione (…) della società capitalistica”. Smith dichiara apertamente ai suoi studenti di considerare il lavoro di Hume come la sola storia moderna priva di “spirito di parte”.

Sebbene impegnato a Glasgow, Smith continua a essere vicino ai suoi amici di Edimburgo. Il miglioramento della viabilità realizzato in quegli anni gli consente di viaggiare facilmente fra le due città. Rivede spesso Hume. Ed entrambi sono fra i soci fondatori della Select Society. Le loro conversazioni coinvolgono anche Adam Ferguson, Lord Elibank, Henry Home (poi Lord Kames), Hugh Blair, John Jardine, William Robertson e il giovane Alexander Wedderburn (che diverrà poi Lord Cancelliere). Sono anni fervidi che culminano con la pubblicazione (1759) de “The Theory of Moral Sentiments” di Smith. L’opera viene accolta con entusiasmo dalla “repubblica delle lettere” di tutta Europa. E, tenuto conto che “The Wealth of Nations” apparirà diciassette anni dopo, si può dire che i “sentimenti morali” costituiscano il lavoro con cui, nel corso della sua vita, Smith è stato maggiormente identificato.

Quando “The Theory of Moral Sentiments” vede la luce, Hume si trova a Londra, impegnato a seguire la pubblicazione dei volumi, dedicati ai Tudor, della sua “storia d’Inghilterra”. Ovviamente, riceve una copia dell’opera di Smith e, come sottolinea Rasmussen, risponde all’amico con “una delle più felici lettere dell’intera storia della filosofia”. Dopo avere ringraziato Smith per il “gradevole dono” e dopo avergli comunicato di avere a sua volta inviato delle copie a uomini che sarebbero stati dei “buoni giudici” e che avrebbero diffuso il loro giudizio sul valore dell’opera, Hume fra l’altro afferma: “Ho ritardato a scrivervi per potervi dire qualcosa sul successo del libro e pronosticare, con qualche probabilità, se sarà condannato all’oblio o se entrerà nel tempio dell’immortalità. Anche se è stato pubblicato solo da poche settimane, ritengo che ci siano già tutti gli elementi che consentono di predirne il destino”. Hume recensisce l’opera sulla “Critical Review”. Sostiene che la teorizzazione di Smith “ha il coraggio che accompagna sempre il genio”. Esalta la chiarezza dei princìpi, il vigore dell’argomentazione e lo stile dello “scrittore davvero geniale”.

Hume avrebbe avuto motivo per replicare ad alcune critiche di cui Smith lo aveva reso destinatario. Non lo ha fatto. Il che si deve alla circostanza che egli non ha rilevato elementi di discontinuità fra la sua opera e quella smithiana. In entrambi i casi, le regole morali non sono “conclusioni della nostra ragione”, ma condizioni imposte dalla necessità di cooperare con gli altri. Tutto ciò su cui Hume ha richiamato l’attenzione di Smith si trova in una lettera privata (28 luglio 1759), che precede la seconda edizione de “The Theory of Moral Sentiments”. È la richiesta di meglio chiarire il concetto di “sympathy”, già utilizzato dallo stesso Hume e che serve a indicare il meccanismo tramite cui ci poniamo al posto degli altri, per vedere come essi giudicano le nostre azioni. Ma è un punto a cui Smith non apporterà modifiche alla sua opera: né nell’edizione del 1760, né nelle successive.

Hume e Smith a Parigi

Gli Sessanta aprono a Hume e Smith nuovi orizzonti. Nominato ambasciatore a Parigi dopo la guerra dei Sette Anni, Lord Hertford chiede a Hume di accompagnarlo come segretario d’ambasciata. Hume aveva già vissuto in Francia fra il 1734 e il 1737, quand’era impegnato nell’elaborazione del suo “Treatise of Human Nature”. Lo stesso Hume scriverà: “Sebbene fosse attraente, ho dapprima declinato l’offerta, sia perché ero riluttante a stringere rapporti con i potenti, sia perché temevo che le modernità e le gaie compagnie di Parigi potessero riuscire sgradevoli a una persona della mia età e del mio temperamento”. Ma Lord Hertford insiste. E questa volta Hume non esita ad accettare. È nominato segretario d’ambasciata, carica che ricopre dall’autunno del 1763 all’estate del 1765, allorché diviene incaricato d’affari, a seguito della nomina di Lord Hertford a luogotenente d’Irlanda e in attesa del duca di Richmond, nuovo ambasciatore in Francia.

Hume scrive da Parigi ai suoi amici scozzesi. La sua prima lettera ha come destinatario Smith, a cui fra l’altro dice: “Sono stato tre giorni a Parigi e tre giorni a Fontainebleau; e in ogni dove mi sono stati resi gli onori più straordinari che la più esorbitante vanità potrebbe volere o desiderare. Gli omaggi dei duchi, dei marescialli di Francia e degli ambasciatori stranieri mi vengono al momento per ogni nonnulla (…). Tutti i cortigiani, che stavano attorno a me quando sono stato introdotto a Mme de Pompadour, mi assicurano di non averle mai sentito dire così tanto di un uomo (… E,) come da ogni parte mi viene detto, il delfino non perde occasione per parlare molto favorevolmente di me”.

Se la corte comprende che Hume è lo studioso che nella sua “History of England” ha osato versare una “lacrima generosa” per il destino di Carlo I e del conte di Strafford, i maggiori esponenti dell’Illuminismo francese apprezzano la filosofia di Hume. Il sodalizio più stretto è con d’Alembert, ma non mancano le conversazioni con Buffon, Marmontel, Diderot, Duclos, Helvétius, d’Holbach, Turgot. È questo il periodo più felice della vita di Hume.

Intanto, anche Smith si prepara a un soggiorno in Francia. Subito dopo la pubblicazione dei “sentimenti morali”, Charles Townshend (futuro Cancelliere dello Scacchiere) aveva pensato a lui come precettore del figliastro, il giovane duca di Buccleugh che, secondo le consuetudini del tempo, avrebbe dovuto intraprendere un’istruzione biennale all’estero. Il progetto si concretizza alla fine del 1763. Smith e il giovane Buccleugh partono alla fine del successivo gennaio alla volta di Parigi, dove soggiornano solamente dieci giorni. Ma vedono Hume. Si stabiliscono poi a Tolosa, visitano Bordeaux, rimangono per due mesi a Ginevra, dove Smith incontra Voltaire, e giungono nuovamente a Parigi verso la fine di dicembre del 1765 o all’inizio del 1766. Non è quindi chiaro se Smith sia riuscito a rivedere Hume prima del 4 gennaio, data in cui quest’ultimo parte alla volta dell’Inghilterra in compagnia di Jean-Jacques Rousseau. In ogni caso, eredita tutte le frequentazioni di Hume e anche l’accoglienza di Mme de Boufflers, ritenuta la “più distinta salonnière del Settecento”, le cui pressioni avevano spinto “le bon David” a portare con sé in Inghilterra il ginevrino.

Hume sapeva quanto estraneo fosse il suo pensiero a quello di Rousseau. Ma probabilmente non aveva idea di quanto difficile fosse relazionarsi con lui. D’Holbach lo aveva messo in guardia. Gli aveva detto: “Mio caro Signor Hume, mi dispiace deludere le speranze e le illusioni che voi cullate, ma vi anticipo che presto sarete dolorosamente deluso. Voi non conoscete quell’uomo. Vi dico francamente che vi state mettendo una vipera in seno”. Indubbiamente, Hume e Rousseau non erano caratterialmente fatti per intendersi. Come è stato tuttavia scritto, la loro rottura non è un argomento da porre in una “nota a piè di pagina del manuale di filosofia”. Essa mostra lo scontro fra due concezioni contrapposte della vita individuale e collettiva. Da una parte, c’è il sostenitore (Hume) della libertà individuale di scelta e della Grande Società; dall’altra, c’è colui (Rousseau) che con le sue idee ha alimentato i deliri dei giacobini di tutti i tempi. Smith non avrebbe voluto che Hume rendesse pubblico il litigio (Rasmussen abbraccia la posizione di Smith). Ma il parere di d’Alembert è stato determinante. E oggi disponiamo di un prezioso carteggio e dei commenti di Hume, che forniscono una direzione di marcia a tutti i sostenitori della società aperta.

La “ricchezza delle nazioni”

Nel mese di novembre del 1766, Smith rientra a Londra da Parigi. E lì rimane fino al successivo mese di maggio, per seguire la pubblicazione della terza edizione de “The Theory of Moral Sentiments”. Da parte sua, Hume era tornato a Edimburgo nel settembre del 1766, con l’idea di godere di un “ritiro filosofico”. Ma nel mese di febbraio viene richiamato a Londra. Il soggiorno dei due personaggi nella stessa città si sovrappone per tre mesi. Dopo di che, Smith decide di rientrare a Kirkcaldy, sua cittadina natale, dove rimane nei successivi sei anni. In una lettera spedita a Hume da Tolosa il 5 luglio del 1764, aveva annunciato l’avviata stesura di una nuova opera. È il primo riferimento a “The Wealth of Nations”. E, per portare a termine il suo progetto, Smith “si seppellisce negli studi”.

Hume fa ritorno a Edimburgo nell’agosto del 1769. E subito scrive a Smith. Dice di vedere Kirkcaldy dalle finestre della propria casa. Lo invita continuamente. Smith accetta, ma non quanto Hume vorrebbe. I rapporti si intensificano. Nella primavera del 1773, la prima stesura de “The Wealth of Nations” è completata. Ma Smith pensa che, per rivedere, correggere e ampliare il testo, sia necessario trasferirsi a Londra. È tanto esausto da sentirsi vicino alla morte. Prima di intraprendere il viaggio, nomina Hume suo esecutore letterario, incaricandolo di distruggere, in caso di sua dipartita, tutte le carte lasciate nel suo studio, tranne il saggio sulla storia dell’astronomia. La grande opera di Smith, “The Wealth of Nations”, esce il 9 marzo del 1776. Hume non può non apprezzare la condizione di ignoranza e fallibilità in cui si trova a operare l’attore smithiano. E giudica il lavoro profondo, solido e acuto.

Rasmussen richiama l’attenzione su una questione strettamente metodologica. Vede accomunate “The History of England” e “The Wealth of Nations” dall’utilizzo della categoria delle “conseguenze inintenzionali”, lo strumento di analisi che ha portato alla nascita delle scienze sociali. Sottolinea in tal modo l’innegabile influenza di Hume su Smith. Ma bisogna pure dire che, sul punto, entrambi devono molto al lavoro pioneristico di Bernard de Mandeville. E occorre nello specifico precisare che Hume aveva già nel “Treatise” fatto ricorso agli esiti inintenzionali generati dalle azioni umane. Aveva in particolare spiegato che “l’interesse di ciascun individuo” è “vantaggioso” per gli altri, perché nessuno può realizzare i propri fini senza la cooperazione altrui; il che significa dover fare qualcosa per coloro che ci prestano la loro collaborazione. Come si vede, c’è qui un’anticipazione della “mano invisibile” di Smith, che non è altro che un’applicazione della teoria delle conseguenze inintenzionali.  Purtroppo, Rasmussen salta a piè pari tale tema, come anche quello della continuità fra “The Theory of Moral Sentiments” e “The Wealth of Nations”. Si sa che nel corso dell’Ottocento, soprattutto da parte di autori tedeschi, è stato sostenuto che fra la prima e la seconda opera di Smith ci sia una certa inconciliabilità. È una tesi che in anni più recenti a noi è stata affermata anche da Amartya Sen. Ma la “sympathy” non è altro che la precondizione dello scambio: è il meccanismo delle aspettative che ci spingono ad agire; la “mano invisibile” è presente in entrambe le opere; e Smith ha abbracciato il liberoscambio sin dalle sue prime conferenze di Edimburgo.

La morte di Hume

Hume lottava da tempo contro una grave malattia. Dopo un apparente miglioramento durante un soggiorno di cura a Bath, le sue condizioni sono sempre più peggiorate. Pochi mesi dopo la pubblicazione de “The Wealth of Nations”, muore a Edimburgo. È il 25 agosto del 1776. La sua volontà è che Smith sia l’esecutore letterario e che, d’accordo con l’editore Strahan, pubblichi i “Dialogues Concerning Natural Religion”. Smith si sottrae a tale incombenza. Vorrebbe destinare i “dialoghi” alla circolazione fra una ristretta cerchia di amici. E ciò sarà visto da alcuni come un tradimento della fiducia riposta in lui da Hume. Ma le cose stanno ben diversamente. Smith temeva che la pubblicazione di quell’opera potesse nuocere all’immagine di Hume. Non c’è stato quindi alcun tradimento. Il loro è stato un grande sodalizio intellettuale e umano. La stima di Smith nei confronti dell’amico si può vedere sintetizzata in questo giudizio: “durante la sua vita e dopo la sua morte, l’ho sempre considerato vicino, nella misura in cui ciò viene consentito dalla fragile natura umana, all’idea di un uomo perfettamente saggio e virtuoso”. Il che chiaramente riecheggia quanto Fedone disse di Socrate: “l’uomo migliore fra quelli che allora conoscemmo e, soprattutto, il più saggio e il più giusto”.