Fake news e distorsione delle percezioni

Le distorsioni della realtà dovute a percezioni parziali e deformate degli accadimenti e dei più rilevanti fenomeni non sono certo una novità, dall’avvento della società di massa. Già all’inizio del secolo scorso molti psicologi e sociologi si interrogavano sulla formazione delle opinioni, sottolineando come nel giudicare un fenomeno contasse a volte più l’opinione che si aveva della realtà che la realtà stessa. L’opinione, come argomentava un secolo fa il politologo Walter Lippmann, non è altro che il frutto della percezione della realtà filtrata da un ambiente cognitivo formato da stereotipi, da visioni semplificate e parziali della realtà. Con l’avvento dei social media, come noto, questo processo è divenuto talmente pervasivo che ha finito per influenzare in maniera decisiva la costruzione sia della personalità individuale che di quella collettiva.

E le fake news, sempre più presenti sul Web per screditare la parte avversa e rinforzare le proprie credenze, sono divenute nel tempo una sorta di informazione alternativa cui si ricorre aprioristicamente e acriticamente per convincersi di essere “nel giusto”, andando solo raramente a identificare la bontà e la correttezza delle fonti. Il motivo pare evidente: le notizie che confermano il proprio pregiudizio, vere o false che siano, vengono credute, condivise e propagate in rete, all’interno della “bolla” delle amicizie sui social; il contrario accade per quelle che smentiscono la propria opinione, che vengono considerate non veritiere, messe in discussione sebbene ci siano evidenti prove a loro sostegno. Non si mette in discussione la propria percezione dei fatti, ma i dati reali: è la percezione che vince sui fatti.

Una logica talmente evidente che anche la “scelta” di quale virologo fidarsi (e affidarsi) trae origine dalla propria percezione della pandemia: se non vogliamo più lockdown, scegliamo quello che afferma che il virus è ormai sotto controllo; se siamo dell’avviso che non sono prudenti le riaperture incontrollate, optiamo con chi ci dice che il peggio deve ancora venire.

A corollario, in una recente indagine Ipsos, è stato chiesto agli italiani se a loro parere i nostri concittadini siano in grado di distinguere le notizie false da quelle vere: secondo quasi il 65% degli intervistati “gli altri” non sono capaci di differenziarle correttamente. Ma alla domanda successiva: “Lei personalmente è in grado di farlo?”, in questo caso la stragrande maggioranza è convinto di riuscire ad identificare la presenza di una fake news, mentre soltanto il 30% dichiara la propria difficoltà a farlo.

E il tema delle falsità che circolano in Rete non è certo marginale, capace com’è di influenzare i cittadini in scelte a volte cruciali, come quella elettorale. Nel corso dell’ultima campagna presidenziale Usa, si è stimato che siano circolate sul Web circa otto milioni di notizie false, contro i sette milioni di notizie corrette e verificabili. Una sproporzione quasi agghiacciante, ma che non desta particolari reazioni nei gestori delle diverse piattaforme social.

Ma qual è il motivo per cui il dato percettivo, emozionale è così rilevante? Perché oggi, nella costruzione della propria personalità, la piramide di un tempo si è quasi capovolta. Fino a qualche decennio fa, le credenze individuali e collettive si basavano in primo luogo sui tratti valoriali che venivano introiettati attraverso la socializzazione primaria e secondaria, difficilmente modificabili; su questi si costruivano i solidi atteggiamenti di base nei confronti delle strutture sociali esistenti, da cui derivavano le più aleatorie opinioni, suscettibili di possibili cambiamenti più rapidi, a seconda dei diversi accadimenti, e infine le emozioni, reazioni a volte effimere di fronte a notizie o dichiarazioni di diversi attori sociali.

Oggi, come si diceva, questa sorta di piramide appare sempre più rovesciata: avendo perso rilevanza la struttura valoriale, l’ideologia di fondo, in una società sempre più atomizzata, sono le emozioni, le percezioni, quelle che presiedono alla costruzione della propria personalità; su queste nascono le opinioni prevalenti, gli atteggiamenti e infine i valori di riferimento. Ma se le emozioni si basano su fake news, su dati inattendibili, ne consegue che si sedimentano e divengono prevalenti opinioni e atteggiamenti totalmente scollegati dalla realtà vera, che però vengono alimentate nel tempo da ulteriori fake news; queste ultime non “possono” venir smentite, pena la perdita dei propri ancoraggi e la conseguente confusione della propria soggettività.

Una volta costruita una echo chamber di riferimento, le false notizie vengono accettate supinamente per consolidare quella appartenenza, almeno fino al momento in cui nuove emozioni creeranno una nuova piramide. Se le opinioni sono volatili, tra i comuni cittadini così come tra gli stessi politici, non così la percezione di sé, che subisce una sorta di auto-inganno per conservare una ipotetica coerenza della propria personalità.

In un interessante esperimento effettuato qualche anno fa, si chiedeva agli intervistati la propria opinione su un tema che sarebbe stato discusso in un talk show televisivo. Una volta terminata la trasmissione, si riponeva agli stessi intervistati l’identica domanda, per verificare se la discussione televisiva avesse fatto mutare la loro opinione. A volte si registrava un cambiamento del 30-40% rispetto alla prima intervista ma, invitati a dichiarare se avessero cambiato opinione, soltanto il 3-4% affermava di averlo fatto.

La estrema volatilità elettorale, i repentini mutamenti nella fiducia per i diversi leader, il rapido cambiamento delle opinioni sui temi sociali e politici sono la evidente conseguenza della fragilità delle personalità individuali e collettive.

Le percezioni diffuse dunque sono le leve che permettono alle fake news di venir accettate come vere. Percezioni della realtà che, come si diceva, sono spesso scollegate dalla realtà stessa ma, nondimeno, tratteggiano una sorta di mondo parallelo su cui costruire le proprie opinioni, atteggiamenti e valori. E conseguenti comportamenti.

Qualche anno fa è stata effettuata da Ipsos un’indagine in contemporanea in 14 paesi, chiedendo a campioni rappresentativi delle rispettive popolazioni una serie di domande sulla situazione del proprio paese in merito a diversi temi. Infine, è stata calcolato un “indice di ignoranza”, derivato dalla distanza tra i dati reali e i dati percepiti dagli intervistati. L’Italia è risultata in prima posizione assoluta, seguita da Stati Uniti, Corea del sud e Polonia, mentre nelle ultime posizioni (cioè i cittadini più informati) si situavano Svezia, Germania, Giappone e Spagna.

Nella tabella seguente sono presentati i dati riguardanti il nostro paese, per i principali temi affrontati, che ci dipingono una cittadinanza con percezioni della realtà gravemente distorte, conseguenza evidente del combinato di fake news, credenze falsate e storytelling del mondo politico.




Come va l’epidemia negli altri paesi

di Luca Ricolfi e Rossana Cima

Nei confronti internazionali l’unico parametro che permette comparazioni imperfette ma ragionevolmente attendibili è il numero di decessi in rapporto alla popolazione, possibilmente applicato a paesi con un grado di sviluppo socio-economico non diversissimo.

Usando questo indice possiamo osservare che negli ultimi tempi in diversi paesi l’epidemia, dopo un periodo di rallentamento, ha mostrato preoccupanti segnali di ripresa.

Fra questi è il caso di segnalarne almeno quattro: Portogallo, Israele, Olanda, Stati Uniti.




L’andamento dell’epidemia nelle province

I grafici che seguono rappresentano l’andamento nuovi casi settimanali nelle 107 province italiane, in base ai dati diffusi dalla Protezione Civile giovedì 18 giugno (ore 18.00).

In rosso sono rappresentate le province che, il 18 giugno (rispetto alla settimana precedente), hanno registrato un numero di nuovi casi (in rapporto alla popolazione) superiore alla media nazionale (3,7 casi ogni 100.000 abitanti), in blu le province con una densità di nuovi contagi fra 0.7 e 3.7 casi ogni 100 mila abitanti, in verde chiaro quelle con una densità di nuovi contagi inferiore a 0.7 e superiore a 0, in verde scuro le province con 0 nuovi contagi.




Tamponi, non diminuiscono solo in Italia

Come abbiamo avuto modo di sottolineare in un precedente contributo, il trend dei tamponi processati in Italia ha incominciato a piegare verso il basso a partire dal 25 maggio, giorno in cui è stato permesso a quasi tutte le attività economiche di riaprire. Negli ultimi due giorni (ultimo dato disponibile, ore 18.00 dell’11 giugno), vi è stato un leggero rialzo, ma se si confronta l’ultimo dato disponibile con quello del 24 marzo si scopre che il numero settimanale di tamponi è diminuito di circa l’11% rispetto a due settimane fa.

Come abbiamo già precedentemente mostrato, l’Italia non è il paese che fa più tamponi. Se si calcola il numero complessivo di test effettuati (dall’inizio dell’epidemia) sul totale della popolazione, il nostro paese si posiziona dietro a Lussemburgo, Islanda, Lituania, Danimarca, Portogallo, Canada, Norvegia, Irlanda e Israele. L’Italia si colloca dunque al decimo posto di una graduatoria che riguarda 38 paesi avanzati per i quali sono disponibili dati recenti sul numero di tamponi.

Se invece si considera l’anzianità epidemica, la posizione del nostro paese scivola di sei posizioni nella classifica. Si trova dietro non solo a Islanda o Lussemburgo, paesi dove la strategia di campionamento può risultare più facile data la loro dimensione demografica, ma anche a paesi come Danimarca, Canada, Portogallo, Norvegia, Stati Uniti e Germania.

Ciò significa che questi paesi hanno scelto di attivare una strategia di screening del virus in modo più tempestivo. Si deve però tenere presente che l’Italia sconta – più di altri paesi in cui il virus si è diffuso in una fase successiva – l’essersi attenuta alle iniziali raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che prevedevano di effettuare tamponi solo a chi avesse manifestato sintomi.

Se si guarda invece a ciò che è successo negli ultimi giorni, si può vedere come l’Italia, ancora una volta, non si trovi in cima alla graduatoria. Lussemburgo, Danimarca, Lituania, Canada e Portogallo – che già vantano un numero di tamponi per abitante e per anzianità epidemica superiore al nostro – hanno effettuato nell’ultima settimana più tamponi di noi. Anche Stati Uniti, Cile, Regno Unito, Svezia, Australia e Spagna hanno avuto performance migliori dell’Italia.

Abbiamo detto che in Italia il trend dei tamponi settimanali è in discesa, ma il nostro non è l’unico paese ad aver diminuito il ritmo dei test effettuati. Come si vede dai grafici seguenti, anche la curva di paesi come Finlandia, Islanda, Belgio, Irlanda, Nuova Zelanda, Lituania, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia o Slovacchia si sta attenuando.

In altri paesi, invece, la tendenza è all’aumento. Parliamo di Canada, Lussemburgo, Paesi Bassi, Korea, Svezia e Cile.

 

***

Nota tecnica

I dati utilizzati provengono dai database Ourworldindata e dalla Johns Hopkins University aggiornati al 10 giugno 2020.
La frequenza di pubblicazione dei test effettuati differisce a seconda del paese considerato. Alcuni forniscono dati quotidianamente, altri paesi (come Germania, Spagna o Svezia) comunicano il dato con cadenza settimanale.
Il confronto internazionale è stato quindi effettuato a parità di aggiornamento. L’ultimo dato disponibile sul tasso dei tamponi per abitante di un paese è stato confrontato con il dato italiano relativo al corrispondente periodo.

Alcuni paesi, inoltre, pubblicano il numero di persone testate, mentre altri comunicano il numero di test effettuati, in altri casi ancora non è chiara l’unità di riferimento del dato.

Per effettuare un confronto omogeneo dei dati, si è quindi scelto di convertire i casi testati in tamponi effettuati utilizzando un coefficiente di correzioni (pari a 1.55 ovvero al rapporto registrato in Italia, Giappone e Regno Unito fra tamponi effettuati e casi testati).

Oltre ai test PCR effettuati, le autorità spagnole comunicano il numero di test sierologici eseguiti. Questi ultimi sono stati esclusi dalle analisi.

I dati del Regno Unito si riferiscono ai tamponi effettuati a coloro che hanno necessità di cure ospedaliere in laboratori e negli ospedali del SSN e quelli destinati ad una “popolazione più ampia” come indicato nelle linee guida del Governo. Sono esclusi i test inviati tramite posta.

Per anzianità epidemica di un paese intendiamo il numero di giorni trascorsi dal momento in cui il numero di decessi ha superato l’1 per 100.000 abitanti.




Umbria e Basilicata: la lepre e la lumaca nella lotta al Coronavirus

(il termometro della Fondazione Hume regione per regione)

Da lunedì 6 aprile la Fondazione David Hume inizia la pubblicazione di un bollettino settimanale sull’andamento dell’epidemia nelle 19 Regioni italiane e nelle 2 Province autonome di Trento e Bolzano.
Il bollettino settimanale sulle Regioni e Province si affianca al bollettino giornaliero sull’Italia nel suo insieme, che esce ogni giorno alle 20 sul sito della Fondazione, nonché, alla medesima ora, nell’ambito del telegiornale di La7.
Entrambi i bollettini forniscono una valutazione dell’andamento dell’epidemia mediante un nuovo indice sintetico e intuitivo. L’indice si legge come una temperatura, e misura la velocità di propagazione del contagio su una scala che va da 42° (epidemia galoppante) a 37° (epidemia sostanzialmente arrestata).

Risultati dell’ultima settimana. Nel corso della settimana che va da lunedì 6 aprile a lunedì 13 aprile la temperatura dell’epidemia è scesa nella maggior parte delle regioni.
Sei sono invece le regioni che registrano una tendenza all’aumento: Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Friuli V.G., Piemonte e Molise.

Se consideriamo le tendenze più recenti, ovvero gli ultimi due giorni della settimana, la regione con la temperatura più bassa (ossia con la dinamica del contagio più lenta) è risultata l’Umbria, quella con la temperatura più alta (ovvero con la dinamica del contagio più pronunciata) è stata la Basilicata.
Oltre all’Umbria, anche altre cinque regioni mostrano un andamento migliore di quello dell’Italia nel suo insieme: Calabria, Marche, Lombardia, Sardegna e Campania.
Per questa settimana la regione-lepre (la più rapida nella corsa ai 37 gradi) è l’Umbria, che ha già raggiunto 37.0.
La regione-lumaca (la più lenta) è la Basilicata, con 38.6.
Questa settimana, nessuna regione ha più di 40 di febbre.

***

Appendice

Riportiamo, di seguito, i diagrammi dell’evoluzione settimanale della temperatura nelle 21 Regioni e Province.