Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale

Anestetizzati da mesi di pandemia, in Italia si sta forse un po’ perdendo il senso della realtà ed, a mio avviso, si sottovalutano i rischi – potenzialmente sistemici – insiti nella situazione mondiale attuale. In Cina, Paese che ha ormai sostituito gli Stati Uniti come “locomotiva dell’economia mondiale”, ormai da qualche settimana si chiudono a turno le fabbriche, nelle strade si spengono i semafori e nelle case i forni a microonde, si fermano gli ascensori e viene meno la copertura telefonica 3G, tutto a causa dei frequenti blackout; e si mettono in allerta migliaia di città sul blocco dell’acqua per mancanza di elettricità, in quanto all’eccesso di domanda prodotto dalla ripresa post-Covid si è sommato il crollo della produzione energetica delle centrali a carbone, combustibile di cui sono state bloccate le importazioni dall’Australia per la violenta guerra commerciale con questo Paese, che chiedeva un’inchiesta sull’origine del SARS-CoV-2. Il risultato è che ora c’è scarsità di componenti, di semi-lavorati e di prodotti finiti, nonché un rilevante aumento dei prezzi delle materie prime, del cibo, dei carburanti e di luce e gas. Si rischiano, pertanto, anche in Italia interruzioni di produzioni e frammentazioni di intere filiere, inflazione galoppante, crescenti “default” di aziende e famiglie ed, a cascata, un’impennata delle sofferenza bancarie, che rappresentano una “spada di Damocle” per un Paese come il nostro, con il secondo debito pubblico più grande al mondo; per non parlare dell’impatto imprevedibile, sui mercati e sulle banche, dell’eventuale scoppio della “bolla immobiliare” cinese. Oggi, insomma, il mondo sta temendo un nuovo “contagio” proveniente dalla Cina – e sarebbe il secondo – ma questa volta è di tipo economico-finanziario, e potrebbe avere delle ricadute geopolitiche importanti, oltre che un impatto potenzialmente notevole sulla vita di tutti noi. Ma cosa sta succedendo davvero in Cina e, soprattutto, che cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi nel nostro Paese e nell’area dell’Indo-Pacifico (dove vive metà della popolazione mondiale, transitano alcune delle principali vie di navigazione e sono in aumento preoccupante le frizioni e le provocazioni fra Cina e altri Paesi)? Esiste davvero il rischio di una ingestibile pandemia finanziaria o, addirittura, di un conflitto armato? È la vera “variante impazzita”, il cigno nero “che spazza via tutto” (facendo impallidire, a confronto, le nostre preoccupazioni per il Covid) o è soltanto un’esagerazione di alcune Cassandre?

Un’altra potenziale minaccia dalla Cina: lo “scoppio” della bolla immobiliare

Dopo la pandemia arrivata dalla Cina – che è stata un vero e proprio “cigno nero”, per quanto in parte prevedibile, dopo quelle di SARS e di MERS – dalla Cina rischia di arrivare un’altra potenziale minaccia – se volete, un secondo “cigno nero” – legata al probabile fallimento della società Evergrande, un grandissimo player dell’economia cinese: 200.000 dipendenti che, con l’indotto, salgono a ben 3,8 milioni [25]. Precedentemente nota come Hengda Group, Evergrande è stata fondata nel 1996 dall’uomo d’affari Hui Ka Yan a Guangzhou, nel sud della Cina. La Evergrande Real Estate è un colosso dell’immobiliare e possiede attualmente più di 1.300 progetti in più di 280 città in tutta la Cina. Ma il più ampio Gruppo Evergrande ora comprende molto più del semplice sviluppo immobiliare. Le sue attività spaziano dalla gestione patrimoniale alla produzione di auto elettriche e alla produzione di alimenti e bevande. Possiede persino una delle più grandi squadre di calcio del paese: il Guangzhou FC. Il signor Hui era una volta la persona più ricca dell’Asia e, nonostante abbia visto la sua ricchezza precipitare negli ultimi mesi, ha una fortuna personale di oltre 10 miliardi di dollari, secondo Forbes.

Evergrande è venuta a trovarsi nei guai perché si è espansa in modo aggressivo per diventare una delle più grandi aziende cinesi, prendendo in prestito più di 300 miliardi di euro. L’anno scorso, Pechino ha introdotto nuove regole per controllare l’importo dovuto dai grandi promotori immobiliari. Le nuove misure hanno portato Evergrande a offrire le sue proprietà a grandi sconti per garantire che arrivassero soldi per mantenere a galla l’attività [23]. Ora sta lottando per far fronte al pagamento degli interessi sui suoi debiti, ed ha un indebitamento di circa 305 miliardi di dollari. Ma, considerando anche tutto l’indotto (banche, scoperture, etc.), in realtà le cifre in ballo in caso di default sono pari al doppio del Pil italiano. Per l’incertezza sul suo futuro, il prezzo delle azioni di Evergrande è crollato di circa l’80% quest’anno. Le sue obbligazioni sono state anche declassate dalle agenzie di rating del credito globali a un gradino dal livello di spazzatura. Anche se ancora il default non è stato dichiarato perché teoricamente la società ha ancora tempo per pagare i debiti, è chiaro a tutti – ed implicitamente confermato da dirigenti ed autorità – che non lo farà perché non ha i mezzi per farlo. Solo il Governo cinese potrebbe salvarla per evitare un effetto Lehman Brothers, ma ciò creerebbe al tempo stesso un precedente pericoloso.

Confronto del debito di Evergrande (indotto escluso) con quello della Lehman Brothers, a cui viene spesso accostata. La banca d’affari americana, quando è fallita, il 15 settembre 2008, aveva un patrimonio di 680 miliardi di dollari e 613 miliardi di debiti (si è trattato del più grande fallimento nella storia degli Stati Uniti). Ciò che era significativo di Lehman era il numero di paesi che vi avevano investito. Il suo crollo ha portato a un calo del valore dell’economia mondiale. A causa della complessa rete dell’economia globale, un altro grande crollo come quello di Evergrande potrebbe essere una pessima notizia.

Ci sono diversi motivi per cui i problemi legati all’eventuale default di Evergrande sono seri [23]. In primo luogo, molte persone hanno acquistato proprietà da Evergrande ancor prima che iniziassero i lavori di costruzione. Hanno pagato depositi e potrebbero potenzialmente perdere quei soldi se la società fallisce. Ci sono poi le aziende che fanno affari con Evergrande – comprese le imprese di costruzione e progettazione e i fornitori di materiali – le quali corrono il rischio di incorrere in gravi perdite, che potrebbero costringerle al fallimento. Il terzo motivo è il potenziale impatto sul sistema finanziario cinese. La ricaduta finanziaria sarebbe di vasta portata. Secondo quanto riferito dalle testate locali, “Evergrande deve soldi a circa 171 banche nazionali ed a 121 altre società finanziarie”. Se Evergrande fallisce, le banche e altri istituti di credito potrebbero essere costretti a prestare meno. Ciò potrebbe portare a quella che è nota come “stretta creditizia”, cioè quando le aziende faticano a prendere in prestito denaro a tassi convenienti. Una stretta creditizia sarebbe una pessima notizia per la seconda economia mondiale, perché le aziende che non possono prendere in prestito hanno difficoltà a crescere e in alcuni casi non sono in grado di continuare a operare. Ciò potrebbe anche innervosire gli investitori stranieri, che potrebbero vedere la Cina come un luogo meno attraente per investire con sicurezza i propri soldi.

Le gravissime ricadute potenziali del crollo di una società così pesantemente indebitata ha portato alcuni analisti a suggerire che Pechino potrebbe intervenire per salvarla. Mattie Bekink, della Economist Intelligence Unit (EIU), la pensa così: “Piuttosto che rischiare di interrompere le catene di approvvigionamento e far infuriare i proprietari di case, pensiamo che il governo probabilmente troverà un modo per garantire che il core business di Evergrande sopravviva”. Altri, però, non ne sono sicuri. In un post sull’app di chat cinese e sulla piattaforma di social media WeChat, l’influente caporedattore del quotidiano Global Times sostenuto dallo stato, Hu Xijin, ha affermato che Evergrande non dovrebbe fare affidamento su un salvataggio del governo e invece deve salvarsi. Ciò si accorda anche con l’obiettivo di Pechino di tenere a freno il debito societario, il che significa che un salvataggio di così alto profilo potrebbe essere visto come un cattivo esempio. D’altra parte, però, le autorità comuniste sono colpevoli di non aver saputo controllare con attenzione le attività e i bilanci del colosso immobiliare. Si parla, inoltre, di casi di corruzione diffusa [25]. Insomma, in un Paese “normale” sarebbe stato uno scandalo enorme. Ma le proteste in piazza che si sono viste (soprattutto sul web) rappresentano una grande novità, poiché nella Repubblica Popolare le manifestazioni pubbliche sono severamente vietate.

I mercati finanziari globali sono stati tutti in allerta, in queste settimane, poiché il gigante immobiliare cinese a corto di liquidità doveva affrontare diversi test chiave in questi giorni. Lo sviluppatore immobiliare più indebitato al mondo era infatti destinato a rispettare una serie di scadenze per il pagamento degli interessi obbligazionari, per un totale di decine di milioni di dollari. Poiché la società faceva fatica a soddisfare tali pagamenti, ha iniziato a rimborsare alcuni investitori nella sua attività di gestione patrimoniale con delle proprietà. Inoltre, invece di pagare i 47,5 milioni, che non avevano in cassa, hanno ceduto un pacchetto di azioni – si parla di 1,5 milioni di azioni – a una banca locale collegata al governo cinese. Detto altrimenti, si tratta di uno “scaricabarile”, di una soluzione tipo Monte dei Paschi di Siena: in sostanza, il settore privato sta scaricando il “barile” nel settore pubblico, per cui poi saranno i cinesi e la Banca centrale cinese a pagare. Tutto questo mentre la Banca centrale cinese inietta miliardi – il 22 settembre ne ha messi 15,5 Mld (€) – che vanno a finire nelle banche commerciali, verosimilmente per coprire, “a mo’ di pezze”, le perdite in bilancio legate all’esposizione a Evergrande. Ma non sappiamo fino a che punto lo Stato interverrà: l’opacità del sistema informativo cinese non ha finora consentito di capire come Xi Jinping e il suo gruppo dirigente intendano affrontare il grosso del problema.

Come spiega il prof. Michele Marsonet [25], “in Cina, il nuovo statalismo promosso dal Partito indurrebbe a credere che il governo interverrà con una ristrutturazione del debito di Evergrande. Si tratterebbe però di un’operazione assai difficile dal punto di vista finanziario, i cui costi ricadrebbero inevitabilmente sulle spalle dei contribuenti. L’alternativa è lasciare che il colosso immobiliare fallisca, adottando la stessa strategia utilizzata nel celebre caso del crac di Lehman Brothers nel 2008. Si tratta di capire se Xi Jinping, che intende farsi eleggere ‘presidente a vita’, può permettersi una simile via d’uscita. In fondo la Repubblica Popolare ha continuato a prosperare grazie a una sorta di ‘patto sociale’ che promette ai cittadini una crescita continua in cambio della rinuncia ad alcune libertà fondamentali, e tale soluzione segnerebbe per l’appunto la fine del patto di cui sopra”. In effetti, a differenza che in altri Paesi, in Cina da anni investono in Borsa anche milioni e milioni di persone del popolo, senza alcuna esperienza, perché sanno che la crescita sarà in qualche modo “garantita” dall’intervento statale.

Un’eventuale crisi economica e finanziaria della Repubblica Popolare Cinese avrebbe effetti deleteri nel mondo intero, essendo quasi tutti i principali Paesi legati al “carro” cinese. Ma, come scrive Salvatore Dimaggio [24], “il grande dubbio è capire se quello di Evergrande è solo un gigantesco caso isolato oppure se segna l’inizio del temuto scoppio della ‘bolla immobiliare’ (nel frattempo, anche la cinese Fantasia Holding, che ha un debito di 12,3 miliardi di dollari, è sull’orlo del default [63], ndr). Tante autorità economiche e finanziarie erano state da tempo messe in guardia sull’evoluzione anomala del settore immobiliare assolutamente tipica delle speculazioni delle bolle. Tuttavia, le banche centrali sono sempre state molto timide – anzi assenti – su questo fronte. I falchi della Banca Centrale Americana hanno più volte sottolineato come si sarebbe dovuto intervenire con forza per stroncare le dinamiche della bolla immobiliare. Tuttavia sono rimasti sostanzialmente inascoltati e la Banca Centrale Americana è rimasta immobile sulle sue politiche. Come del resto anche la Banca Centrale Europea. A questo punto è assai complesso capire se la bolla immobiliare si sgonfierà in modo naturale e graduale o se il caso di Evergrande è un fenomeno destinato a ripetersi magari con modalità molto diverse anche in altre parti del mondo”.

La bolla immobiliare cinese (e quella di Hong Kong) erano già diversi anni fa preoccupanti per le loro dimensioni assai maggiori rispetto a quella statunitense, scoppiata nel 2007 con la crisi dei mutui subprime. (fonte: Chinese property bubble bigger than subprime, HSBC)

Tre Paesi quasi sull’orlo del “caos” per ragioni diverse: Cina, Regno Unito e Italia

All’apparenza, dunque, la Cina potrebbe sembrare sull’orlo del caos per la vicenda Evergrande. Ma, in realtà, non è così. Infatti, secondo il giornalista economico Andrea Muratore [26], “il Dragone non intende ‘punire’ Evergrande condannandola al fallimento rifiutando esplicitamente un intervento, come è successo nel 2008 negli USA con Lehman Brothers, ma è disposta a ritardare l’intervento a quando sarà necessario per impedire lo scoppio della bolla”. E spiega: “Secondo il Wall Street Journal, il governo di Xi Jinping avvisa da giorni i funzionari locali ad essere ‘pronti per la possibile tempesta’. Le agenzie governative di livello locale e le imprese statali, scrive il quotidiano finanziario USA, avrebbero ricevuto l’ordine di intervenire solo all’ultimo momento nel caso in cui Evergrande non riuscisse a gestire i propri affari”. A dimostrazione del fatto che, come molti rilevano da tempo, quella cinese non è una vera economia di mercato, bensì uno strano sistema – privo di trasparenza – dominato totalmente dal Partito-Stato, al quale sono legati a filo doppio anche i tanti miliardari spuntati come funghi dopo le riforme nominalmente privatistiche promosse da Deng Xiaoping [25]. L’agenzia di rating Fitch ha già stimato che lo scandalo Evergrande porterà a un rallentamento del Pil cinese, che dovrebbe passare dall’8,4 all’8,1 percento. Capirai.

Come spiega ancora Muratore, “le banche cinesi ed estere esposte a Evergrande stanno già operando accantonamenti sulle perdite”. La finanza occidentale e i decisori politici devono capire la big picture e rendersi conto del fatto che sostanzialmente il rischio Evergrande è già stato nelle scorse settimane prezzato, interiorizzato e messo in conto dai mercati e che ogni possibile slavina sarà unicamente dovuta allo sdoganamento del panico”. Se però qualcuno pensasse che in Cina “Tutto va ben, Madama la Marchesa!”, in quanto il governo cinese probabilmente eviterà a Evergrande un default che provocherebbe conseguenze sistemiche, o comunque cercherà di depotenziare l’impatto della vicenda (ma la verità è che ancora non si sa per certo se il futuro di questa crisi ci riserverà solo alta marea oppure uno tsunami), si sbaglierebbe di grosso. Difatti, quella che veramente preoccupa gli analisti occidentali è un’altra crisi cinese, quella energetica, che sta provocando grandissimi danni soprattutto alle piccole e medie imprese, ma non solo [27], spingendo gli analisti a tagliare le previsioni di crescita economica del Dragone per quest’anno dall′8,2% al 7,7%, ma potrebbe persino trattarsi di una previsione al ribasso troppo ottimista [42]. Non è un caso che Bloomberg abbia pubblicato in queste settimane un articolo dal titolo significativo: “La crisi dell’energia in Cina è il prossimo shock economico dopo Evergrande”. In realtà, però, il suo impatto potrebbe essere decisamente più grande e meno facile da gestire.

Come spiegato alla fine di settembre da Giuseppe Rodio su Wall Street Italia [27], “nella provincia di Guangdong (la numero uno per produzione industriale in Cina, e quindi possiamo dire nel pianeta), il governo ha ordinato alle piccole e medie imprese (PMI) considerate ad alto consumo energetico di chiudere 3 giorni a settimana a causa della carenza di energia. Almeno 9 province cinesi sono colpite da interruzioni di energia elettrica, con aziende costrette a chiudere per 3 giorni alla settimana. Tra queste, troviamo le province di Jiangsu, Zhejiang (da cui peraltro arrivano oltre il 90% dei cinesi che vivono in Italia, ndr) e la sopra citata Guangdong, le potenti zone industriali che da sole valgono quasi un terzo dell’intera economia cinese. Considerando il fatto che siamo a settembre e di inverno a Pechino fa davvero molto freddo, sembra si tratti della punta di un iceberg… Del resto, nella provincia di Jilin, una compagnia idrica locale ha scritto giorni fa un post sul suo profilo social di WeChat dicendo che “le interruzioni o i limiti irregolari, non pianificati e non annunciati dureranno fino a marzo 2022, e le interruzioni di corrente e acqua diventeranno la norma” [42]. Un vecchio detto di Wall Street dice ‘se l’America starnutisce, l’Europa si becca il raffreddore’. Cosa succederà al mondo, se alla Cina viene la polmonite? Ma, soprattutto, questi “colli di bottiglia temporanei”, come li ha definiti il presidente della Fed Jerome Powell, e dovuti in parte alla forte spinta produttiva connessa alle riaperture, risultano invece essere alquanto strutturali, poiché derivano in parte dal processo di transizione energetica dal carbone alle rinnovabili ed in parte – come vedremo – dalla “guerra” commerciale nei confronti dell’Australia [2] e dal riscaldamento globale.

La Cina è nel bel mezzo di una crisi dell’approvvigionamento energetico (in particolare, di carbone, che lì è ancora ampiamente usato nonostante l’elevato livello di inquinamento che produce il bruciarlo), la quale è diventata molto critica nelle ultime settimane, minacciando intere reti elettriche e spingendo gli analisti a tagliare le previsioni di crescita economica per l’anno. La metà delle 31 giurisdizioni provinciali cinesi – da quelle industriali nel sud a quelle nel nord-est – impongono ormai il razionamento dell’elettricità, ma la scarsa comunicazione e la tempistica poco chiara hanno lasciato il pubblico arrabbiato nell’oscurità, innescando un allarme diffuso tra gran parte della popolazione e facendo precipitare il settore dell’industria nel caos [27]. Le Autorità hanno avvertito che l’intera rete elettrica rischia il collasso se l’elettricità non viene razionata. Diversi fornitori, ad esempio, di Apple e Tesla hanno così annunciato chiusure di fabbriche per giorni per rispettare gli ordini delle autorità locali di razionare l’elettricità. Ma le interruzioni diffuse non si limitano alle fabbriche, nonostante in Cina queste siano le prime a dover ridimensionare i consumi. I residenti di grattacieli sono stati costretti a prendere le scale in città dove sono stati sospesi i servizi di ascensore per risparmiare elettricità. Nel Guangdong, è stato chiesto ai residenti di smettere di usare l’aria condizionata e di affidarsi alla luce naturale al posto delle lampadine elettriche [28].

Le ragioni principali della mancanza di energia nel sud della Cina sono diverse da quelle che la causano nel nord. Il sud sta esaurendo l’energia idroelettrica; il nord sta soffrendo per la diminuita disponibilità del carbone per la guerra commerciale con l’Australia (di cui vedremo più avanti la causa) e per l’aumento del suo prezzo per l’elevata domanda dovuta alla ripresa [29]. Il Guangdong ottiene circa il 30% della sua elettricità dall’energia idroelettrica, generata nella vicina provincia dello Yunnan. Ma un’estate più calda della media a causa del riscaldamento globale ha prosciugato i bacini idrici e fatto evaporare la fornitura di energia nello Yunnan. Allo stesso tempo, l’aumento dei volumi delle esportazioni di prodotti ha causato un picco nella domanda di energia industriale nel Guangdong, portando a una carenza di energia. Anche la domanda locale di energia idroelettrica dello Yunnan è aumentata. La spinta di Pechino a decarbonizzare il suo settore industriale ha spinto le fonderie di alluminio assetate di energia a trasferirsi nella provincia ricca di idroelettrico, e ciò ha accresciuto la concorrenza per l’energia verde locale. Infine, nel nord del Paese, ricco di centrali elettriche a carbone, un certo numero di province hanno superato già ad agosto la quota delle emissioni inquinanti introdotta dal governo nel 2019, e quindi la loro azione immediata è stata quella di iniziare a razionare l’elettricità. La Cina guarda al gas naturale liquido (GNL) per ridurre l’utilizzo del carbone, e l’Australia è insieme al Qatar il principale produttore mondiale di GNL.

Schema riassuntivo delle cause della carenza di elettricità in Cina. (fonte elaborazione dell’Autore)

Ma la Cina non è l’unico Paese che in queste settimane sembra quasi sull’orlo del caos. Sia pure per motivi in parte diversi, anche il Regno Unito è in balia di una doppia emergenza, tra il forte aumento dei prezzi delle forniture domestiche di luce e gas (con decine di utilities fallite in pochi mesi, dirottando centinaia di migliaia di utenti verso nuovi fornitori) e la scarsità di carburante alle stazioni di servizio (con un quarto delle pompe a secco, lunghe code e disagi), con il governo costretto a mobilitare l’esercito come misura temporanea per riattivare i rifornimenti di benzina nel Paese [30]. Per non parlare degli scaffali dei supermercati vuoti o quasi vuoti, ed anche in questo caso all’origine della crisi vi è la carenza di camionisti, tradizionalmente provenienti dall’Europa dell’Est (in quanto accettavano compensi molto più bassi rispetto agli autotrasportatori anglosassoni), provocata dalla Brexit ed acuita dalla pandemia, nonché da fenomeni di accaparramento del carburante e del cibo [31]. L’aumento dei prezzi di luce e gas e dei carburanti è dovuto, invece, all’aumentare della domanda internazionale di gas, petrolio e suoi derivati, ed è accentuata dalla speculazione da parte degli investitori finanziari che non sono interessati alla consegna “fisica” e che sfruttano il cosiddetto “contango” (che permette ad alcuni investitori di acquistare petrolio oggi, immagazzinarlo, bloccare quel prezzo e venderlo mesi dopo con un enorme profitto).

In Italia, invece, la situazione è solo all’apparenza migliore rispetto al Regno Unito, poiché ai problemi già illustrati in un mio articolo di aprile [32] – come i ristori del tutto insufficienti rispetto al danno subito con lockdown, chiusure “a colori” e restrizioni varie, ed il conseguente aumento dei fallimenti di attività e delle sofferenze bancarie, etc. – se ne sono sommati altri. Il turismo italiano è ormai in profondo rosso, mentre i bar ed i ristoranti in vendita non si contano più. Anche da noi mancano ora dei componenti per l’industria costringendo al blocco di intere produzioni [35]; e materie prime, cibo, carburanti ed energia hanno prezzi sempre più alti (e non parlo solo dell’elettricità; per il caro-gas da noi si sono già dovute fermare delle industrie [56]), alimentando l’inflazione e mettendo sempre più persone in difficoltà. E qui vorrei evidenziare un fatto che fa capire perché nel Regno Unito siano già fallite delle utilities energetiche: come spiegava un anno fa Diego Pellegrino, portavoce dei fornitori privati di energia [37], “subito dopo il periodo di lockdown, le punte degli insoluti da parte degli utenti riguardo la fornitura di energia da noi sono state del 40%; ma, a differenza di quanto è avvenuto all’estero, il governo da un lato ha bloccato i distacchi per morosità ma dall’altro non ha previsto fondi per aiutare un settore che ha registrato un calo degli incassi, non del fatturato, poiché i crediti sono a bilancio e la riduzione del fatturato avviene solo successivamente, quando vengono contabilizzate le perdite sui crediti. Però gli impatti finanziari sono immediati: le aziende possono fallire non solo per un calo del fatturato, ma anche per crisi di liquidità!”.

Un altro problema incombente, in Italia, è quello del green pass per il lavoratori delle piccole e medie imprese (PMI), che ha tutta l’aria di essere una “bomba a orologeria” pronta ad esplodere se non viene disinnescata. L’applicazione pratica in maniera coercitiva con l’obbligo sul posto di lavoro della certificazione verde a partire dal 15 ottobre rischia di mettere in ginocchio tante piccole imprese (per non parlare delle potenziali ricadute sul Pil), poiché ci sono ancora circa 3 milioni di dipendenti del settore privato non vaccinati. Unioncamere ha avvertito che in moltissimi casi bastano una o due assenze per fermare l’attività delle PMI. Ma, in tanti casi, la perdita di dipendenti o collaboratori non vaccinati porterà, verosimilmente, addirittura al fallimento delle attività più piccole, in quanto trovare figure specializzate è oggi difficilissimo [33]. Si tenga presente che il numero di addetti medi per impresa è in Italia è di circa 3,5: l’assenza di un solo dipendente equivale, quindi, in media al 33% della forza lavoro, cosa che non sembra essere stata tenuta in alcun conto da chi ha partorito, letteralmente unico al mondo, un’idea così “geniale”. Un problema simile si presenta nel trasporto locale e soprattutto nella logistica, poiché circa un quarto dei camionisti è non vaccinato, e da qui a sotto Natale le merci rischiano di rimanere ferme e accumularsi nei porti, a cominciare da quello – importantissimo – di Genova [34].

Infine, in tutti e tre i Paesi qui analizzati, un problema emergente è quello della mancanza di manodopera. Come spiega Gianluca Modolo [53], “si cercano disperatamente lavoratori per le fabbriche. Con i migranti interni che non migrano più, con i giovani neolaureati che di andare a fare gli operai non ne vogliono sapere e con una popolazione che invecchia sempre più velocemente, l’economia ha un problema di carenza di manodopera”. Modolo parla della Cina, ma non notate che questa situazione somiglia non poco a quella italiana? Nel Regno Unito la mancanza di manodopera è legata soprattutto alla Brexit ed ai salari troppo bassi per certi lavori. In Cina, invece, come racconta Modolo, “molti non lasciano più le città (il Covid ha accelerato questo trend) e, nonostante i bonus offerti dagli imprenditori, molti giovani non hanno nessuna voglia di spaccarsi la schiena alla catena di montaggio con orari duri e paghe comunque ancora basse. Possono permettersi di attendere più a lungo, protetti nel frattempo da mamma e papà, e cercano opportunità nel crescente settore dei servizi, attirati anche dalle nuove occupazioni – a volte bizzarre – che stanno nascendo. Fashion blogger, vlogger, dietologi per animali domestici, giocatori di e-sport, stilisti di abiti tradizionali: paghe migliori e meno fatica”. In Italia, si tende a spiegare la carenza di manodopera solo con il reddito di cittadinanza [54]; ma siamo davvero sicuri che basti a spiegare il trend in atto?

In Cina, molti dei millennial che sono cresciuti in un’era dominata dai social media non sono interessati a lavori mal pagati e con poche prospettive, considerato anche che nelle grandi città i prezzi delle case sono saliti alle stelle nel corso degli anni (per dare un’idea, a Shanghai il prezzo medio a mq di una casa è 33 volte più alto che a Chicago). Uno dei nuovi lavori molto in voga fra i giovani è quello dell’influencer, un settore la cui economia nella sola Cina è stata valutata, nel 2016, in circa 8,4 miliardi di dollari da CBNData. Nella foto, alcuni dei tanti influencer orientali spuntati letteralmente dal nulla. (fonte: Chinoy.tv)

La guerra commerciale fra Cina e Australia innescata dal coronavirus

Sebbene i legami economici tra Cina ed Australia siano fioriti dagli anni ’90, dalla fine del 2019 le due nazioni sono state coinvolte in una guerra commerciale quasi senza quartiere che ha lasciato entrambi i paesi a subire conseguenze economiche. Le lamentele dell’Australia vanno dalla mancanza di trasparenza sull’origine del Covid-19 a gravi preoccupazioni per i diritti umani che, per usare le parole del ministro degli Esteri australiano Marise Payne, sono “profondamente inquietanti” [3]. Nel frattempo, la Cina ha presentato all’Australia un elenco di rimostranze, tra cui interferenze con gli affari interni, diffusione di retorica anti-cinese e blocco degli investimenti basati su “motivi di sicurezza nazionale opachi e infondati”. I disaccordi hanno coinvolto ampi settori di entrambe le economie, i giganti della tecnologia, e i politici di entrambe le parti si sono scambiati accuse al vetriolo. I prodotti australiani hanno sempre più attratto una classe media cinese in crescita e la loro insaziabile domanda di materie prime come carne di manzo, vino e aragosta ha contribuito a guidare la prosperità economica australiana. E per molto tempo entrambi i paesi ne hanno beneficiato. Allora, perché ricorrere a una guerra commerciale? E chi sta davvero vincendo?

Un eccellente pezzo di Pete Carpenter [2], uscito ad aprile di quest’anno, spiega molto bene quanto accaduto: “La Cina ha imposto barriere commerciali con apparentemente poca risposta dall’Australia. Il motivo è l’importanza relativamente elevata per l’Australia del commercio transfrontaliero tra i due. Eventuali dazi o restrizioni australiani reciproci sulle importazioni cinesi danneggerebbero in modo significativo le imprese e l’economia dell’Australia. Il rapporto tra i due paesi si è deteriorato da quando l’Australia ha sostenuto una richiesta per un’inchiesta internazionale sulla gestione del coronavirus da parte della Cina quando la pandemia è diventata una questione internazionale. Le cose sono peggiorate costantemente e, alla fine del 2020, le agenzie di stampa australiane hanno riferito che l’ambasciata cinese aveva minacciato il governo australiano di ulteriori azioni; e ha consegnato un elenco di presunte lamentele nei confronti di Canberra (che includevano anche le ‘incessanti interferenze’ nell’approccio della Cina a Hong Kong e Taiwan). La Cina ha così adottato diverse misure selettive che ostacolano il commercio australiano, che vanno dall’imposizione di dazi all’imposizione di divieti e restrizioni”. Esse sono costate all’Australia, nella sola prima metà del 2021, circa 4 miliardi di dollari, ma la sua economia si è dimostrata assai resiliente, e la perdita è stata compensata da un aumento con il resto del mondo [43].

Carpenter fornisce diversi dettagli che aiutano a inquadrare meglio la situazione: “analizzando le relazioni commerciali, la Cina è il più grande partner commerciale dell’Australia e di gran lunga la sua principale destinazione di esportazione. L’Australia è una delle poche nazioni sviluppate sulla Terra che esporta più in Cina di quanto non importi dalla Cina. la Cina assorbe circa 1/3 di tutte le esportazioni australiane. L’esportazione di gran lunga più grande è il minerale di ferro. Fra il 2014 e il 2019 le esportazioni australiane verso la Cina sono raddoppiate e le importazioni sono aumentate del 42%. Dopo l’inizio del battibecco, impattato comunque anche da un rallentamento degli scambi dovuto alla pandemia globale, nella prima metà dello scorso anno il commercio è sceso in modo significativo ed è stato in realtà sostenuto solo dal minerale di ferro. La Cina ha imposto tariffe/restrizioni su carbone, vino, orzo, aragoste, legname, carne rossa e cotone. Infine, con il nuovo stimolo industriale in Cina, il governo cinese ha concesso l’autorizzazione alle centrali elettriche per importare carbone senza restrizioni di sdoganamento ad eccezione dell’Australia. Il carbone è la terza più grande esportazione dell’Australia verso la Cina”.

Scrive ancora Carpenter: “L’orzo ha dazi dell’80,5% che impediscono di fatto le esportazioni australiane in Cina. La Cina ha affermato che l’Australia stava scaricando l’orzo sui mercati cinesi danneggiando i produttori locali. L’Australia ha presentato ricorso all’OMC. Il vino ha ricevuto dazi anti-dumping tra il 107% e il 212%, a seguito dell’indagine anti-dumping cinese sulle importazioni di vino dall’Australia. La Cina ha sospeso le importazioni da 6 fornitori di carne bovina, presumibilmente per problemi di etichettatura e salute. Alla fine del 2020, gli esportatori di agnello non sono stati in grado di esportare nel mercato cinese sotto le restrizioni per il Covid-19 e ora le esportazioni di miele, frutta e prodotti farmaceutici verso la Cina sono a rischio. Tonnellate di aragoste vive sono rimaste bloccate negli aeroporti e nei centri di smistamento cinesi, in attesa di ispezione da parte della dogana. Non sorprende che la Cina non abbia introdotto alcuna restrizione sulla più grande esportazione australiana verso la Cina, quella di minerale di ferro. Questo poiché la Cina dipende dal minerale di ferro dell’Australia (oltre il 60% proviene da tale Paese) ed è sempre più importante per la Cina a causa degli stimoli aggressivi all’economia guidati dall’industria”.

Il giornalista economico australiano Stephan Bartholomeusz chiariva, già a maggio, gli altri aspetti della vicenda [1]: “Deve essere fonte di crescente frustrazione per i burocrati cinesi il fatto che i propri successi economici stiano schiacciando i loro sforzi per sanzionare l’Australia per i nostri commenti poco diplomatici sulle origini della pandemia e sul trattamento riservato dalla Cina agli uiguri nella regione dello Xinjiang. Sebbene le sanzioni su orzo, vino, aragoste, carbone e altri prodotti siano state pungenti, sono state molto più che compensate dall’insaziabile domanda cinese di minerale di ferro e gas naturale liquido (GNL) e dall’impennata dei prezzi di entrambi. Se questa è una guerra commerciale, l’Australia sta vincendo abbastanza profumatamente la sua prima fase. Il prezzo del minerale di ferro è superiore a $ 200 la tonnellata e i prezzi del GNL sono rimbalzati dalla pandemia ai livelli visti l’ultima volta due anni fa. Per quanto riguarda il carbone, i produttori australiani hanno risposto ai divieti della Cina spostando le loro esportazioni altrove, in particolare in India. Anche se i produttori potrebbero non ottenere gli stessi prezzi di prima, la Cina è costretta ad acquistare carbone di qualità inferiore a prezzi più elevati, mentre i suoi concorrenti beneficiano della manna inaspettata del carbone australiano di alta qualità a prezzi inferiori”.

L’andamento, alla Borsa di New York, dei prezzi dei futures dei tre principali combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone) negli ultimi 5 anni, fino alla data dell’8 ottobre. Si noti come, a salire enormemente rispetto alla media degli anni precedenti, siano stati solo il gas naturale e il carbone, guarda caso entrambi largamente usati dalla Cina per la produzione di elettricità. L’impatto è quindi enorme sia per gli utenti di gas domestici e industriali sia sulla bolletta elettrica di quei Paesi – come purtroppo l’Italia – che d’inverno hanno ancora un contributo modesto da parte delle fonti rinnovabili (fonte: Trading Economics)

Dunque, nonostante il danno che ha fatto ad alcune categorie di esportazione con le sue tariffe e altre sanzioni, la Cina non è stata in grado di danneggiare i produttori australiani delle due grandi materie prime che contano davvero: ferro e gas naturale liquido. Come spiega inoltre Bartholomeusz, “la Cina potrebbe acquistare più GNL dal Qatar e dagli Stati Uniti (in effetti si è impegnata nell’ambito della tregua commerciale dell’era Trump per acquistare più GNL dagli Stati Uniti, ed è in trattative con il Qatar per acquisire azioni nel più grande nuovo progetto del mondo e ha ampliato le sue relazioni con Turkmenistan), ma il GNL è un prodotto scambiato a livello internazionale e la domanda nell’Asia del Pacifico è abbastanza forte da consentire la ridistribuzione dei carichi australiani altrove, come è avvenuto per il carbone. Un fattore di complicazione sussidiario è che le società energetiche statali cinesi hanno grandi partecipazioni azionarie multimiliardarie e contratti a lungo termine con i principali esportatori australiani di GNL, quindi danneggiare l’industria australiana danneggerebbe le stesse imprese pubbliche cinesi”.

Come chiarisce ancora il giornalista australiano, “la Cina ha cercato di ritirare lo stimolo correlato alla pandemia che ha iniettato nella sua economia lo scorso anno come parte di uno sforzo più ampio per ridurre l’indebitamento, decarbonizzare e migliorare la produttività della sua base industriale. C’è anche il sospetto che la Cina stia accumulando le sue scorte di materie prime vitali in mezzo a crescenti tensioni geopolitiche. Naturalmente, non è nell’interesse a lungo termine né dell’Australia né della Cina che le relazioni diplomatiche e commerciali continuino a deteriorarsi, ma nel frattempo, nonostante i danni che ha arrecato ad alcune categorie di esportazione con i suoi dazi e altre sanzioni, la Cina non è stata in grado di ferire i produttori australiani delle due grandi materie prime che contano davvero. Infatti, le sue azioni hanno spinto le aziende australiane – dai produttori di vino ai minatori di carbone agli esportatori di GNL – a cercare nuovi mercati e ridurre la loro dipendenza dalla Cina, cosa probabilmente positiva per gli interessi nazionali a lungo termine dell’Australia”. Forte della lezione di questo “harakiri”, la Cina ha concordato con gli USA di Biden una “exit strategy” sulla questione dell’origine del SARS-CoV-2, in forza della quale il Dragone ammetterà che è sfuggito accidentalmente dal laboratorio di Wuhan [39].

Conseguenze del “caos” cinese sull’economia dell’Italia: il possibile “contagio”

Quando in Italia arriveranno nel pieno gli effetti che lo shock energetico sta provocando in Cina, e se dovesse arrivare entro qualche mese anche il default del colosso immobiliare Evergrande, la situazione nel nostro Paese diverrebbe – verosimilmente – seria. La crescita del Pil e il “miracolo economico” di cui hanno parlato molti giornali italiani si manifesterebbero per quello che sono: pura propaganda. L’inflazione potrebbe raggiungere valori senza precedenti da quando c’è l’euro (nonostante il mantenimento del quantitative easing della BCE), mettendo in ulteriore difficoltà soprattutto le famiglie e le fasce più povere della popolazione. Dunque, la situazione attuale in Cina è pericolosa non solo per i cinesi, ma per tutti, specie in Paesi con un elevatissimo debito pubblico come l’Italia. Il principale quotidiano economico-finanziario, Il Sole 24 Ore, ha scritto, in queste settimane: “Se la storiella raccontata dai banchieri centrali, che raccontano ai giornali finanziari che l’inflazione è temporanea, fosse solo una favola? Se così fosse, il boom economico post-Covid potrebbe essere vicino al capolinea. Di fronte ai problemi della Cina, alle code dei benzinai in Gran Bretagna, i mercati hanno avuto un brusco risveglio”. Anche la banca giapponese Nomura ha sottolineato che “i mercati hanno due problemi combinati: Evergrande e lo shock energetico”.

Insomma, la realtà è assai meno rosea – per usare un eufemismo – di quel che ci viene raccontato dalla narrazione ufficiale (che poi è, né più né meno, quanto succede con il Covid su temi rilevanti quali vaccini, green pass, terapie domiciliari, scuole e trasporti, etc.). D’altra parte, è comprensibile che su certi temi Mario Draghi sia “intoccabile” da parte dei giornali italiani, e che il green pass abbia funzionato anche come un’eccezionale “arma di distrazione di massa”. Tuttavia occorre tornare alla (cruda) realtà. Quanto fin qui illustrato rischia di contagiare l’economia mondiale. Una delle più note testate economiche del mondo, Bloomberg, ci dice che “il rischio è che le filiere degli approvvigionamenti vadano in pezzi proprio sul finire dell’anno, quando la produzione raggiunge il picco, in vista delle festività natalizie, degli ordini da evadere in mezzo mondo. In Cina, gli imprenditori sono colpiti dai pesanti tagli alle forniture energetiche. Si stanno chiudendo porti, scali aerei”. Insomma, come prosegue l’articolo, “la tempesta perfetta comincia a profilarsi all’orizzonte. La filiera di prodotti USA di alto contenuto tecnologico è a rischio: Apple, Tesla, Microsoft, HP, Dell, etc. Tanto è vero che i fornitori di iPhone e di microprocessori hanno imboccato la strada del lavoro svolto di notte”. Nonostante ciò, il sistema potrebbe incepparsi.

Infatti, quanto può davvero essere temporaneo un shock nella catena dei rifornimenti che sembra derivare da premesse di natura decisamente strutturale? Il reperimento di componenti (ad esempio i chip), materie prime (ad es. il grano) e di materiali (ad es. l’acciaio) è un grosso problema: c’è scarsità sul mercato. L’anno scorso molte aziende italiane si sono fermate per il Covid, mentre ora rischiano di fermare le produzioni per i materiali che non arrivano o che costano troppo. Negli ultimi 20 anni abbiamo creato sistemi economici basati su una supply chain (la catena di produzione e distribuzione) globale, e abbiamo sviluppato anche un modello di produzione just in time, dove tutto viene prodotto e consegnato al cliente in tempi brevi. Tutto ciò rende il nostro sistema produttivo molto fragile. E che succederà in futuro ai prezzi, ai ricavi di vendita e ai margini aziendali se la prima manifattura del pianeta opera 2 giorni a settimana da qui a marzo, se non oltre? D’altra parte, i prezzi di materie prime, carburanti, energia e prodotti finiti sono già di per sé destinati ad andare alle stelle perché, come ho spiegato nel mio articolo di aprile [32]: (1) una frenata dell’economia cinese esercita pressioni al ribasso sui prezzi delle commodities mentre, viceversa, un’impetuosa ripresa come quella in atto per la sostanziale risoluzione dell’emergenza pandemia in USA ed Europa, li fa impennare; (2) noi ora siamo appena nella prima fase di un cosiddetto “superciclo” delle materie prime, quella in cui i primi investitori cominciano a investire, esacerbando la salita dei prezzi.

Ho cercato di chiarire le cose nella figura qui sotto. All’origine di tutto c’è stato un boom della domanda dovuto alla ripresa post-Covid, prima in Cina e poi negli altri paesi, ma favorito anche dalle grandi masse di liquidità immesse in questi anni nel sistema economico da tutte le principali banche centrali [40]. A questa già di per sé eccezionale domanda si è sommata, verosimilmente, una crescente domanda di prodotti cinesi generata dal boom dell’e-commerce avvenuto durante il lockdown, che ha spostato ormai gli acquisti (spesso superflui) di moltissime persone sulle piattaforme online [36], che tendono a far comprare i prodotti di origine cinese, sui quali hanno maggiori margini di guadagno. Questo boom della domanda – parallelamente al venir meno, alla Cina, di importanti fonti energetiche – ha causato l’aumento dei prezzi delle materie prime e la carenza di elettricità, con l’interruzione di molte produzioni per diversi giorni alla settimana (Goldman Sachs ha svelato che il problema energetico sta creando problemi al 40% delle aziende cinesi). Questa situazione, a sua volta, sta causando, anche in Italia numerosi problemi: (1) la scarsità di componenti essenziali (con la conseguente interruzione delle filiere di rifornimento); (2) la scarsità di prodotti (con le conseguenti difficoltà economiche per molti rivenditori finali); (3) l’aumento dei prezzi (con il conseguente aumento dell’inflazione e delle difficoltà di arrivare a fine mese per le famiglie).

Una figura che illustra le varie cause e gli effetti a breve termine della complessa situazione attuale illustrata nel testo, che parte dalla Cina e impatta sulla maggior parte dei Paesi occidentali (e non solo), Italia in primis per la sua vocazione manifatturiera. (fonte: elaborazione dell’Autore)

L’espressione che ho usato nel titolo di un precedente paragrafo, “quasi sull’orlo del caos”, potrebbe esservi apparsa un po’ forte per la situazione attuale (seppur gravida di pericoli); ma a molti sfugge il fatto che le moderne società tecnologiche, a differenza di quelle rurali, sono in realtà estremamente fragili, come del resto già evidenziato dall’ing. Roberto Vacca nel suo famoso libro Medioevo prossimo venturo. Pochi ricordano che, nel 2008, quando i prezzi del petrolio e dei carburanti toccarono il loro record assoluto, la conseguente serrata degli autotrasportatori in Francia rischiò di mettere in ginocchio il Paese. Infatti, sono sufficienti soli tre giorni di mancati approvvigionamenti di cibo per svuotare i supermercati, e solo qualche giorno di più senza rifornimenti di cibo e carburanti per passare, potenzialmente, dalla civiltà al caos. Quello vero. Come ho scritto in passato, gli impatti della crisi da Covid sono essenzialmente di tre tipi: sanitari, economici e sociali; tuttavia, mentre conosciamo piuttosto bene le soglie “di rottura” del sistema sanitario, poco o nulla sappiamo delle soglie di rottura dei sistemi economici e sociali in un Paese avanzato, e quindi non abituato a gestire crisi caratterizzate da stress molto forti e prolungati di varia natura.

Come osserva Marco Lupis sull’Huffington Post, “la crisi energetica cinese è ancora più preoccupante quando si pensi che arriva proprio quando i produttori e gli spedizionieri fanno a gara per soddisfare la domanda di ogni cosa, dall’abbigliamento ai giocattoli all’elettronica, per la stagione dello shopping natalizio di fine anno, e si sommano alle problematiche in materia di approvvigionamento già sconvolte dall’aumento dei costi delle materie prime, dai lunghi ritardi nei porti e dalla carenza di container” [42]. “La crisi energetica cinese sta iniziando a colpire le persone nel luogo in cui vivono, ha scritto invece Bloomberg, “aggiungendo il rischio di instabilità sociale alle potenziali interruzioni della catena di approvvigionamento globale”. Ma, al di là dell’impatto sociale – dai contorni al momento imprevedibili – quello che a mio avviso più preoccupa, specie in Paesi ad altissimo indebitamento pubblico come l’Italia o con banche imbottite di derivati (come ad es. la Deutsche Bank tedesca), è la ricaduta, il “contagio”, di questa “tempesta perfetta” sia nei confronti del sistema finanziario (quando il mercato borsistico, ancora drogato dal “monetadone” delle banche centrali, si concentrerà sui fondamentali, ovvero sul fatturato e sulla redditività delle società quotate) sia, soprattutto, del sistema bancario, perché è in caso di default bancari che la situazione può sfuggire di mano e diventare potenzialmente irreparabile [32].

Le tensioni geopolitiche fra Cina e USA e la “spada di Damocle” su Taiwan

Se un eventuale “cigno nero” potrebbe venire da quanto fin qui illustrato, il fatto di scamparvi non significherebbe comunque che con la Cina si possano dormire sonni tranquilli sul breve e medio termine. Infatti, vi è sul tappeto anche la “questione Taiwan”, che alimenta forti tensioni geopolitiche fra la Cina da un lato e gli Stati Uniti (ed i suoi alleati nell’area) dall’altro. Ricordo che Cina e Taiwan (grossa isola a sud-est della Cina con 23 milioni di abitanti) hanno governi separati dalla fine della guerra civile cinese nel 1949. Pechino ha cercato a lungo di limitare le attività internazionali di Taiwan ed entrambe si contendono l’influenza nella regione del Pacifico. La tensione è aumentata negli ultimi anni e Pechino non ha escluso l’uso della forza per riprendersi l’isola, in quanto – al di là delle dichiarazioni ufficiali che vedremo – Xi Jinping ha lanciato la politica dell’autosufficienza cinese, e quest’isola è strategica in tal senso perché lì ha luogo oltre il 50% della produzione mondiale di semiconduttori (chip), fondamentali per realizzare computer, auto, smartphone, etc. Sebbene Taiwan sia ufficialmente riconosciuta solo da una manciata di nazioni, il suo governo democraticamente eletto ha forti legami commerciali e informali con molti paesi. Come la maggior parte delle nazioni, gli Stati Uniti non hanno relazioni diplomatiche ufficiali con Taipei (la capitale di Taiwan), ma una legge statunitense richiede di fornire all’isola i mezzi per difendersi.

Come riportato dalle cronache internazionali [4] – piuttosto trascurate dalla maggior parte dei media italiani – a gennaio Taiwan ha segnalato per due giorni consecutivi una “grande incursione” di aerei da guerra cinesi, una dimostrazione di forza che ha coinciso con i primi giorni del mandato del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ed a cui ha fatto seguito un’esercitazione simile che ha portato a un avvertimento da parte di Washington. Il ministero della Difesa di Taiwan ha detto che otto bombardieri cinesi in grado di trasportare armi nucleari, quattro caccia e un aereo antisommergibile sono entrati nella sua zona di identificazione della difesa aerea sudoccidentale autodichiarata. Come spiegava la corrispondente della BBC [4], “la Cina vede la Taiwan democratica come una provincia separatista, ma Taiwan si considera uno stato sovrano. Gli analisti affermano che la Cina ha voluto così testare il livello di sostegno di Biden a Taiwan. Le esercitazioni, infatti, sono arrivate giorni dopo l’insediamento del nuovo presidente americano, che dovrebbe mantenere la pressione sulla Cina su un’ampia gamma di questioni tra cui diritti umani, controversie commerciali e la questione di Hong Kong e Taiwan, che è stata una delle principali spine nel deterioramento delle relazioni tra i due poteri. E, da quando Biden è salito al potere, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha riaffermato il suo ‘solido impegno’ per aiutare Taiwan a difendersi”.

La corrispondente della BBC dava poi altre informazioni utili per capire la situazione: “L’amministrazione Trump aveva stabilito legami più stretti con Taipei, aumentando le vendite di armi e inviando alti funzionari nel territorio nonostante i feroci avvertimenti della Cina. Giorni prima di lasciare l’incarico, il segretario di Stato Mike Pompeo ha però revocato le restrizioni di vecchia data sui contatti tra funzionari americani e taiwanesi. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian ha affermato a gennaio che le attività militari statunitensi nella regione non sono buone per la pace: ‘Gli Stati Uniti inviano frequentemente aerei e navi nel Mar Cinese Meridionale per mostrare i muscoli. Questo non favorisce la pace e la stabilità nella regione’. Ha poi condannato un gruppo di portaerei statunitensi che all’epoca navigava nel Mar Cinese Meridionale come ‘una dimostrazione di forza’. Gli Stati Uniti affermano che si tratta di un esercizio di ‘libertà di navigazione’. La sostanza delle politiche della nuova amministrazione statunitense su Cina e Taiwan resta da vedere ma, in risposta, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che gli Stati Uniti continueranno ad approfondire i propri legami con l’isola”.

Si noti che, per anni, la Cina si era astenuta dal volare nella zona di identificazione della difesa aerea sud-occidentale di Taiwan, anche se ne aveva il diritto: tali zone, infatti, non sono riconosciute dal diritto internazionale. Quindi il governo taiwanese chiama “incursioni” i sorvoli della Cina, ma tecnicamente non lo sono. Gli analisti ritengono che la Cina abbia voluto mostrare insoddisfazione nei confronti di come l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente taiwanese Tsai Ing-wen abbiano cambiato lo status quo negli ultimi quattro anni [4]. Solo perché c’è stato un cambiamento nel presidente degli Stati Uniti, non significa che Pechino smetta di affermare quello che ha visto a lungo come suo diritto di volare nel proprio cortile. Ha voluto anche mettere in guardia il presidente Tsai dal compiere ulteriori passi verso l’indipendenza formale. Verosimilmente – e cosa ancora più importante – Pechino ha voluto inviare un messaggio forte all’inizio della presidenza di Joe Biden sul fatto che la questione di Taiwan è pericolosa e ha voluto ricordargli di non giocare con il fuoco incoraggiando la signora Tsai, come fatto dall’amministrazione Trump. Sperava che Biden riducesse il rischio riducendo il sostegno a Taiwan. Indipendentemente dal motivo, potrebbe essere però ora difficile convincere Pechino a tornare ai vecchi tempi più gentili.

I taiwanesi sono abituati a vivere all’ombra di un conflitto latente in corso. Da quando il Partito Nazionalista Cinese, o Kuomintang, ha perso la guerra civile cinese ed è fuggito a Taiwan nel 1949, il Partito Comunista Cinese ha voluto prendere il controllo [5]. Ma la calma potrebbe essere ingannevole. Non è completamente chiaro cosa stia realmente pianificando la Cina e se gli Stati Uniti interverranno per conto di Taiwan, se necessario. La Cina, intanto, si arma e aumenta la pressione militare su Taipei. Già l’anno scorso l’aviazione cinese ha ignorato la linea mediana dello Stretto di Taiwan, che funge da linea di demarcazione non ufficiale, più spesso di quanto non avesse fatto da decenni, con gli aerei militari che sono entrati nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan (ADIZ) quasi ogni tre giorni. La Cina rivendica Taiwan come proprio territorio. “Stiamo affrontando una gigantesca minaccia militare”, ha affermato in primavera l’ex ministro della Difesa taiwanese Michael Tsai. Al Congresso nazionale del popolo di marzo, i governanti comunisti della Cina continentale hanno chiarito quanto Taiwan fosse importante per la loro strategia. Il ministro degli Esteri Wang Yi ha affermato che non c’è “spazio per compromessi o concessioni” sulla questione. Ha anche avvertito gli Stati Uniti di smettere di “giocare con il fuoco” [5].

Al momento, sembra che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, come il suo predecessore Donald Trump, continuerà a sostenere Taiwan, che è di grande importanza geostrategica nella regione del Pacifico occidentale. Quando a marzo il presidente cinese Xi Jinping – che il finanziere George Soros ha definito “repressivo in casa e aggressivo all’estero” – ha chiesto all’esercito popolare di essere pronto per la battaglia, la parola “Taiwan” non è stata pronunciata, ma l’idea è rimasta sospesa nell’aria. Il morale e l’addestramento dell’esercito taiwanese giocheranno probabilmente un ruolo importante nel determinare se Taiwan sia davvero pronta a difendersi in caso di emergenza. Ma sia in termini di numero di truppe che di modernizzazione, Taiwan è molto indietro rispetto alla Cina, nonostante le forniture regolari di armi del valore di miliardi dagli Stati Uniti. Il budget militare ufficiale della Cina da solo è 16 volte quello di Taiwan. In termini di dimensioni, l’esercito di 170.000 uomini di Taiwan (di cui la metà attivi) è paragonabile a quello della Germania, che ha un numero di abitanti tre volte e mezzo superiore. In mare, la Cina ha decisamente il sopravvento: è in procinto di costruire una terza portaerei mentre Taiwan ha due sottomarini operativi, che risalgono però agli anni ’80. Nel 2016, a Taiwan il servizio militare, che i giovani di solito completano dopo gli studi, è stato ridotto a quattro mesi, ma Tsai non pensa che sia abbastanza lungo.

Le differenti forze militari della Repubblica Popolare Cinese da una parte e di Taiwan dall’altra a confronto. Per quanto riguarda i soldati di Taiwan, sono state considerate solo le truppe attive. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati dello U.S. Department of Defense)

Anche l’amministrazione Biden e la Cina non hanno desistito dal “mandarsela a dire”. A giugno, una delegazione di senatori statunitensi ha visitato Taiwan per annunciare la donazione di 750.000 dosi di vaccino contro il Covid-19 [6]. Ma l’offerta è stata una grande provocazione secondo Pechino, che ha imbrigliato l’apparente rifiuto di Taipei di accettare la sua offerta di vaccini contro il coronavirus di fabbricazione cinese. Taipei, d’altra parte, ha accusato Pechino di bloccare i suoi sforzi per acquistare vaccini a livello internazionale, piuttosto che cercare di aiutare. Ma il più grande pugno nell’occhio a Pechino non è stato l’accordo sulla donazione del vaccino in sé, ma l’aereo militare americano (un C-17 cargo) parcheggiato sulla pista. Lv Xiang, un esperto cinese di relazioni internazionali, ha osservato che la visita è stata “la provocazione più seria” degli Stati Uniti da quando Biden è entrato in carica, e che la Cina “non resterà a guardare”. In precedenza, i media statali cinesi avevano avanzato minacce di guerra contro la presenza di aerei militari statunitensi a Taiwan. Ad agosto, alla notizia che un aereo spia della Marina USA poteva essere decollato da Taiwan, il Global Times – giornale controllato dal Partito Comunista cinese – aveva affermato che Taipei e Washington stavano “giocando con il fuoco”.

La risposta cinese non si è fatta attendere. Alcuni giorni dopo, nella prima metà di giugno, la Cina ha fatto volare 28 aerei da guerra nello spazio aereo controllato da Taiwan, la più grande sortita del suo genere da quando il governo taiwanese ha iniziato a pubblicare informazioni sulle frequenti incursioni lo scorso anno [7]. Il ministero della Difesa di Taiwan ha dichiarato di aver fatto decollare gli aerei, dispiegare sistemi di difesa missilistica e di aver emesso allarmi radio mentre gli aerei cinesi sono entrati nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan. L’incursione è arrivata un giorno dopo che i leader della NATO avevano espresso preoccupazione per la Cina come una crescente minaccia alla sicurezza. Il giorno prima, i leader del Gruppo dei Sette nazioni riuniti in Europa si erano impegnati a lavorare insieme contro le politiche economiche “non di mercato” della Cina e avevano criticato la Cina per i diritti umani. Il ministero degli Esteri cinese aveva condannato entrambe le dichiarazioni. L’amministrazione Biden ha promesso legami più stretti con Taiwan, anche se i due non hanno relazioni diplomatiche formali. Il Dipartimento di Stato ha esortato Pechino a cessare gli sforzi per intimidire l’isola e ad avviare invece il dialogo [7].

La Cina descrive tali voli come di routine. Grandi sortite hanno spesso seguito azioni di Taiwan o degli Stati Uniti che Pechino disapprova. Ad aprile, la Cina aveva inviato 25 aerei militari nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan dopo che il Dipartimento di Stato aveva affermato che stava rendendo più facile per i funzionari statunitensi incontrare i funzionari taiwanesi. Il numero totale di intrusioni, quest’anno, ha già superato le circa 380 che si sono avute in tutto il 2020 [52]. Ad aprile, le navi di Pechino hanno circumnavigato Taiwan con i gruppi d’attacco delle sue portaerei e hanno supportato le forze di terra e i marines in esercitazioni anfibie che simulavano un’invasione di Taiwan. Il 1° ottobre, giorno in cui la Cina ha celebrato la sua festa nazionale, Pechino ha inviato nello spazio aereo di Taiwan ben 38 aerei da guerra (seguiti da altri 39 il giorno dopo e nei due giorni successivi), con quelle che sono le più grandi incursioni mai registrate nei confronti dell’isola [10]. Il premier di Taiwan Su Tseng-chang ha subito commentato che la Cina “sta costruendo in modo disperato il suo potere militare e sta minando la pace regionale, compiendo atti di bullismo. È evidente che il mondo, la comunità internazionale, respinge con forza un simile comportamento da parte della Cina”. Il ministero della Difesa ha specificato che sono stati inviati messaggi radio e che il sistema di difesa anti missilistica è stato attivato. Tra gli aerei inviati da Pechino erano presenti anche dei cacciabombardieri H-6, in grado di trasportare armi nucleari.

La Cina sta andando davvero verso una possibile guerra nel Pacifico?

Come ha detto a giugno, davanti al Congresso americano, il presidente dei capi di stato maggiore congiunti, il generale Mark Milley [8], “la Cina vuole la capacità di invadere e tenere Taiwan entro i prossimi sei anni, ma potrebbe non volerlo fare a breve termine”. Milley ha affermato che la testimonianza al Congresso, a inizio anno, dell’ex comandante del comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, l’ammiraglio Phil Davidson, e dell’attuale comandante John Aquilino, secondo cui la Cina si stava preparando a prendere Taiwan entro i prossimi sei anni, si basava sui commenti fatti dal leader cinese Xi Jinping all’Esercito Popolare di Liberazione. “È dunque una capacità”, ha spiegato Milley, “non un intento di attaccare o impadronirsi. La mia valutazione è una valutazione operativa. Hanno l’intento di attaccare o sequestrare l’isola nel breve termine, definito come il prossimo anno o due? La mia valutazione di ciò che ho visto in questo momento è no, ma potrebbe sempre cambiare. L’intento è qualcosa che potrebbe cambiare rapidamente. La difficoltà di un’invasione di Taiwan è ancora una grande barriera. Non lo vedo accadere di punto in bianco. Non c’è motivo per questo e il costo per la Cina supera di gran lunga il beneficio. Il presidente Xi ed i suoi militari fanno il calcolo e sanno che un’invasione – per conquistare un’isola così grande, con così tante persone e con le capacità difensive dei taiwanesi – sarebbe straordinariamente complicato e costoso”.

A marzo, l’ammiraglio Davidson aveva detto al Senato americano che la minaccia di un’invasione di Taiwan era accelerata [8]: “Temo che stiano accelerando le loro ambizioni di soppiantare gli Stati Uniti e il nostro ruolo di leadership nell’ordine internazionale basato su regole; da tempo affermano di volerlo fare entro il 2050. Sono preoccupato che spostino questo bersaglio più vicino. Taiwan è chiaramente una delle loro ambizioni prima di allora. E penso che la minaccia si manifesti durante questo decennio, anzi nei prossimi sei anni”. Sempre a marzo, l’ammiraglio Aquilino disse al Senato che la difesa di Taiwan era il più grande problema militare nella regione [8]: “La preoccupazione più pericolosa è quella di una forza militare contro Taiwan. Questo problema è molto più vicino a noi di quanto la maggior parte di voi pensi”. Intanto, la presentazione del budget per l’anno fiscale 2022 non conteneva fondi adeguati per la costruzione di navi per mantenere la flotta statunitense ai livelli numerici attuali, né denaro sufficiente per la cosiddetta “Pacific Deterrence Initiative”, lanciata l’anno prima proprio per contrastare la Cina e le crescenti minacce nel Pacifico. Inoltre, con appena un terzo della flotta di caccia F-122 realmente operativo e con i problemi legati agli aerei F-35, vari osservatori militari si domandano se gli Stati Uniti avrebbero una potenza di combattimento credibile – con le sole armi convenzionali – in un’eventuale crisi contro una potenza come la Cina, o anche solo nel caso in cui dovessero combattere un singolo aggressore alla pari [51].

Il fatto che le sorti del mondo siano oggi in mano a due persone piuttosto anziane – come il settantottenne Biden (ritenuto dai suoi stessi elettori “non mentalmente idoneo”) e il sessantottenne presidente cinese Xi Jinping (che aspira a rimanere al suo posto a vita, costi quel che costi) – non lascia del tutto tranquilli. Il discorso tenuto, il 1° luglio, al centenario del Partito Comunista Cinese (PCC) dal presidente Xi Jinping ha trasmesso la determinazione del suo regime in molti modi [9]: “Coloro che tentano di creare un cuneo tra il partito e la nazione cinese”, ha affermato, “incontreranno un grande muro d’acciaio forgiato da oltre 1,4 miliardi di cinesi”. Si è poi impegnato a rafforzare il controllo centrale sul partito, avvertendo coloro che si oppongono alla sua missione che saranno eliminati “come virus”. Ha elogiato il “coraggio di combattere e la forza d’animo per vincere” del partito, rendendo il Partito Comunista Cinese “invincibile”. Si è impegnato ad espandere e modernizzare l’Esercito di Liberazione Popolare (PLA) per difendere la “sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo” cinesi. Ha insinuato che Taiwan è una parte del territorio sovrano cinese, e qualsiasi sforzo verso l'”indipendenza di Taiwan”, quindi, sarà ostacolato con forza. Ad alcuni sono sembrate le dichiarazioni di un leader che prepara il suo paese al conflitto.

Joe Biden sta diventando il presidente più imbarazzante della storia degli Stati Uniti fra gaffe, vuoti di memoria, discorsi senza senso, come si è visto quest’estate in occasione di eventi internazionali. Nonostante ciò, è accompagnato dalla valigetta contenente i codici che il presidente degli Stati Uniti userebbe per autenticare un ordine di lancio di missili nucleari quando non è alla Casa Bianca. Sebbene qualsiasi presidente presumibilmente si consulterebbe con dei consiglieri prima di ordinare un attacco nucleare, non vi è alcun obbligo di farlo, e l’attacco avverrebbe nel giro di pochi minuti dalla decisione.

Xi Jinping, nel discorso del centenario, ha insistito sul fatto che “risolvere la questione di Taiwan e realizzare la sua completa riunificazione con la madrepatria sono i compiti storici incrollabili del Partito Comunista Cinese e l’aspirazione comune di tutto il popolo cinese” [52]. Inoltre, se per raggiungere questo obiettivo inizia un conflitto, Xi sa che la linea rossa taiwanese degli Stati Uniti, anche se a volte sfocata e fugace, probabilmente esiste ancora. L’intervento americano potrebbe portare con sé Giappone, Australia, probabilmente Corea del Sud, Filippine e Vietnam, e forse perfino la NATO, con il rischio di una escalation che potrebbe portare all’impiego di armi di distruzione di massa. Secondo alcuni, Xi comprende che un conflitto regionale è probabile, e un conflitto globale possibile, se la Cina attacca Taiwan; da qui, forse, un certo “candore” del suo discorso. Al tempo stesso, “l’Esercito Popolare di Liberazione Cinese (PLA) può espellere, sparare colpi di avvertimento o persino abbattere aerei militari stranieri che sconfinano nello spazio aereo cinese”, hanno avvertito gli osservatori militari cinesi a metà luglio, dopo che un secondo aereo dell’aeronautica statunitense (un C-146A) è atterrato sull’isola di Taiwan in meno di due mesi (il primo era stato quello dei senatori per i vaccini) senza chiedere il permesso del governo cinese [12]. Ciò ha innescato risposte severe da parte del Ministero della Difesa cinese, il quale ha dichiarato che “qualsiasi intrusione di navi o aerei stranieri nello spazio aereo o nelle acque territoriali cinesi comporterà gravi conseguenze”, ed ha avvertito gli Stati Uniti, per l’ennesima volta, di smettere di “giocare con il fuoco”.

Ad altri osservatori, come il prof. Michele Marsonet [47], il discorso di Xi Jinping per il centenario ha ricordato “il celebre discorso in cui Benito Mussolini definì l’Italia ‘una nazione di proletari, armati di 8 milioni di baionette’, pronti a combattere contro i carri armati delle plutocrazie, e pure contro quelli russi. A ben guardare, il Duce nutriva davvero ambizioni belliche, come la sua politica successiva dimostrò ampiamente”. La presa militare di Taiwan potrebbe essere dunque la prossima tappa, dopo la forzata “normalizzazione” di Hong Kong con leggi speciali, repressioni e l’introduzione di una pesante censura [48, 49]. “I servizi segreti americani e britannici”, spiega Marsonet, “hanno chiarito ai rispettivi governi che Pechino ha già elaborato dettagliati piani d’invasione, nei quali marina, aviazione e forze da sbarco anfibie sono destinate a giocare un ruolo cruciale. Ciò che resta da capire è sino a che punto USA, Regno Unito e Giappone siano disposti a correre in difesa di Taiwan qualora lo scenario teorico dianzi delineato diventasse realtà. Parimenti, occorre appurare sino a che punto la Repubblica Popolare sia davvero pronta a innescare un conflitto che ben difficilmente resterebbe circoscritto alla sola Taiwan. Molto dipende, ovviamente, dall’atteggiamento di Joe Biden. Gli USA sono gli unici a poter davvero contrastare l’eventuale invasione, pur con un supporto più limitato di britannici e giapponesi. Pechino ha il vantaggio della grande vicinanza all’isola, mentre gli alleati occidentali dovrebbero agire da distanza ben maggiore”.

Le notizie degli ultimi giorni, purtroppo, non contribuiscono a ridurre la minaccia. Infatti, da una parte Biden, dopo la 4 giorni di incursioni aeree cinesi su Taiwan, ha cercato di stemperare i toni (pur avendo i militari USA, in questi mesi, aumentato l’attività di addestramento a Taiwan [61]), dichiarando ai giornalisti “ho parlato con Xi di Taiwan. Siamo concordi, ci atterremo all’accordo di Taiwan. Abbiamo chiarito che non si dovrebbe fare altro che rispettare l’accordo” [59]. Dall’altra parte, subito dopo Xi Jinping gli ha risposto, alle celebrazioni per i 110 anni dalla Rivoluzione del 1911, “Taiwan è una questione interna alla Cina e non ammette interferenze esterne. Il secessionismo di Taiwan è il più grande ostacolo alla riunificazione nazionale, una seria minaccia al ringiovanimento nazionale”, assicurando con toni perentori che “la riunificazione completa del nostro Paese ci sarà e potrà essere realizzata [..] I compatrioti su entrambi i lati dello Stretto di Taiwan dovrebbero stare dalla parte giusta della storia e unire le mani per ottenere la completa riunificazione della Cina e il ringiovanimento della nazione cinese, ma coloro che dimenticano la loro eredità, tradiscono la loro madrepatria e cercano di dividere il paese, non avranno una buona fine”. “Nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione, la volontà e la capacità del popolo cinese nel salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale”, ha infine messo in guardia il presidente [60].

Insomma, Pechino considera Taiwan come una provincia cinese ribelle ed è pronta a riunificarla a sé anche con l’uso della forza, se necessario. Dalla salita al potere della presidente Tsai Ing-wen, la Cina ha intensificato la pressione militare e politica su Taipei, che, al contrario, ha rafforzato la sua convinzione di essere un Paese indipendente, libero e democratico. Le incursioni aeree sull’isola sono, per il momento, realizzate per “proteggere la sua sovranità” e per contrastare la “collusione” tra Taiwan e gli Stati Uniti. “La Cina sarà in grado di organizzare un’invasione su vasta scala di Taiwan entro il 2025”. Lo ha affermato nei giorni scorsi il ministro della Difesa dell’isola Chiu Kuo-cheng [41]. E l’establishment cinese, da parte sua, ha avvisato che, “se ci saranno truppe americane sull’isola di Taiwan, le schiacceremo con la forza”. Infatti, rispondendo a un tweet del senatore repubblicano John Cornyn, che ad agosto, per errore, aveva scritto che gli USA hanno 30.000 soldati a Taiwan (in realtà, oggi i militari USA nell’isola sono poche decine di istruttori), il cinese Global Times ha ammonito sul fatto che [11] “le truppe di stazionamento statunitensi nell’isola di Taiwan violano gravemente gli accordi firmati quando Cina e Stati Uniti hanno stabilito le loro relazioni diplomatiche, nonché tutti i documenti politici tra i due paesi. Sono anche in contrasto critico con il diritto internazionale e persino con il diritto interno degli Stati Uniti. Equivalgono a un’invasione e occupazione militare della provincia cinese di Taiwan. Sono un atto di dichiarazione di guerra alla Repubblica popolare cinese”. Con queste premesse, chi tocca Taipei si scotta.

Sullo sfondo, vi è inoltre l’aspra guerra commerciale in atto fra Stati Uniti e Cina, iniziata sotto la presidenza Trump con la famosa “guerra dei dazi” ed il ritiro delle licenze a Huawei (scomparsa così da Android e dai servizi Google) e proseguita con le accuse pubbliche del tycoon al Paese asiatico “di aver rubato la proprietà intellettuale statunitense a un tasso di centinaia di miliardi di dollari all’anno”, condita dall’invito alle aziende americane “a tornare a casa” [45]. Ed in effetti, come osservava a luglio Il Sole 24 Ore [44], “nell’intercertezza generale che caratterizza i rapporti attuali tra le due prime potenze mondiali, è cominciata una vera e propria fuga delle multinazionali dalla Cina. Le multinazionali che hanno già deciso di lasciare la Cina sono più di 50. L’elenco è lungo. Ad esempio Apple, una delle società simbolo americane, ha cominciato a produrre i suoi auricolari wireless AirPods in Vietnam e sta per avviare l’assemblaggio degli ultimi modelli di iPhone in India”. Stessa cosa, peraltro, stanno facendo molti colossi giapponesi (Sharp, Nintendo, Kyocera, etc.), trasferendo in Filippine e Vietnam i siti produttivi. Con Biden, la guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina non ha cambiato rotta, ma si è trasformata in una sorta di “guerra fredda” spinta da ideologie diverse, una battaglia fra democrazia e autocrazia [46]: egli ha finora amplificato le politiche del suo predecessore rafforzando le alleanze anti-cinesi e implementando ulteriori sanzioni, per cui le relazioni bilaterali fra i due Paesi sono al loro minimo.

Le altre dispute della Cina nel Pacifico e gli attriti al confine con l’India

Ma se in questi ultimi due anni la forza aerea cinese ha violato la zona di difesa aerea di Taiwan più volte di quanto mai registrato prima del 2020, con un marcato aumento in sortite simili, i rischi di una guerra regionale – o addirittura globale – non sono legati solo alle mire verso quest’isola. Nel 2020, infatti, la Cina è stata coinvolta in una serie di litigi [50], alcuni dei quali hanno provocato la morte di 20 soldati nel caso della disputa sul confine del Kashmir tra Pechino e l’India, paese (come USA e Cina) dotato di un fornito arsenale nucleare e di missili balistici, ed ora orientato a schierarsi con gli Stati Uniti proprio per le acuite tensioni con Pechino. È stata anche coinvolta in controversie con il Giappone, l’Australia e molti dei paesi che circondano il Mar Cinese Meridionale, come ora accenneremo brevemente. Laddove una volta il Partito Comunista Cinese evitava molteplici coinvolgimenti con i suoi vicini, la nuova politica del Dragone sembra essere un riflesso della posizione molto più aggressiva del presidente cinese Xi Jinping, con tutto ciò che potenzialmente ne potrebbe conseguire, volutamente o per errori di valutazione.

Nella primavera del 2010, i funzionari cinesi hanno comunicato agli omologhi funzionari statunitensi che il Mar Cinese Meridionale era “un’area di ‘interesse principale’ non negoziabile” e alla pari con Taiwan e il Tibet nell’agenda nazionale [14]. Nel 2013, la Cina ha iniziato a costruire isole artificiali nelle Isole Spratly e nella regione delle Isole Paracel. In realtà, la costruzione di isole nel Mar Cinese Meridionale, principalmente da parte del Vietnam e delle Filippine, va avanti da decenni. Sebbene la Cina sia arrivata tardi al “gioco della costruzione dell’isola”, i suoi sforzi sono stati tuttavia su una scala senza precedenti, poiché dal 2014 al 2016 ha costruito più nuova superficie in isole di quanto tutte le altre nazioni abbiano costruito nel corso della storia; e dal 2016 ha posizionato attrezzature militari su una delle sue isole artificiali, a differenza degli altri pretendenti [14]. Dal 2015, gli Stati Uniti e altri stati come la Francia e il Regno Unito hanno condotto operazioni di  libertà della navigazione nella regione. Il presidente Donald J. Trump aveva sottolineato l’importanza di tali operazioni e di garantire un accesso libero e aperto al Mar Cinese Meridionale, rafforzando il sostegno ai partner del sud-est asiatico. Anche in risposta alla presenza decisa della Cina nel territorio conteso, il Giappone ha venduto navi militari e attrezzature alle Filippine e al Vietnam per migliorare la loro capacità di sicurezza marittima e per scoraggiare l’aggressione cinese.

Le isole Spratly e le isole Paracel, due delle zone del Mar Cinese Meridionale – ricco di risorse energetiche sottomarine (petrolio e gas) – dove la Cina sta costruendo delle isole artificiali.

Le vaste rivendicazioni di sovranità della Cina sul mare – e gli 11 miliardi di barili stimati di petrolio non sfruttato ed i 4 trilioni di metri cubi di gas naturale – hanno antagonizzato i pretendenti concorrenti: Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam [15]. Già negli anni ’70, i vari paesi hanno iniziato a rivendicare isole e varie zone nel Mar Cinese Meridionale, come le Isole Spratly, che possiedono ricche risorse naturali e aree di pesca. Le tensioni tra la Cina e le Filippine si sono recentemente riaccese, anche a seguito di esercitazioni congiunte con gli USA. Nel luglio 2016, la Corte permanente di arbitrato dell’Aia ha emesso la sua sentenza su un ricorso presentato contro la Cina dalle Filippine nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), pronunciandosi a favore delle Filippine su quasi tutti i fronti. Sebbene la Cina sia firmataria del trattato internazionale che ha istituito il tribunale, rifiuta tuttavia di accettare l’autorità della corte [15]. Negli ultimi anni, oltre ad accumulare sabbia sulle barriere coralline esistenti aumentando fisicamente le dimensioni delle isole o creando del tutto nuove isole, la Cina ha costruito porti, installazioni militari e piste di atterraggio, in particolare nelle già citate isole Paracel e Spratly, dove ha ora, rispettivamente, venti e sette avamposti. La Cina, inoltre, ha militarizzato Woody Island, schierando aerei da combattimento, missili da crociera e un sistema radar.

Gli Stati Uniti, che mantengono importanti interessi nell’assicurare la libertà di navigazione e nel garantire le linee marittime di comunicazione (SLOC), hanno espresso sostegno per un accordo su un codice di condotta vincolante e altre misure di rafforzamento della fiducia [15]. Le affermazioni della Cina minacciano gli SLOC, importanti passaggi marittimi che facilitano il commercio e il movimento delle forze navali. Gli Stati Uniti hanno un ruolo importante nella prevenzione dell’escalation militare derivante dalla disputa territoriale. Il trattato di difesa di Washington con Manila potrebbe trascinare gli Stati Uniti in un potenziale conflitto tra Cina e Filippine per i notevoli giacimenti di gas naturale o le lucrose zone di pesca nel territorio conteso. L’incapacità dei leader cinesi e del sud-est asiatico di risolvere le controversie con mezzi diplomatici potrebbe anche minare le leggi internazionali che disciplinano le controversie marittime e incoraggiare l’accumulo di armi destabilizzanti. A settembre, l’amministrazione Biden ha annunciato che gli Stati Uniti e il Regno Unito aiuteranno l’Australia a schierare sottomarini a propulsione nucleare, che potrebbero consentire all’Australia di pattugliare parti del Mar Cinese Meridionale, rendendo questo Paese il settimo al mondo a possedere questo tipo di armamento [15, 22]. Si noti che non riuscire a impedire a Pechino di impossessarsi di Taiwan o di completare il suo dominio sul Mar Cinese Meridionale rischierebbe di far retrocedere gli Stati Uniti a potenza militare di secondo livello nel Pacifico Occidentale.

Quest’anno, gli Stati Uniti hanno inviato il gruppo d’attacco della portaerei USS Ronald Reagan nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale per ben due volte. Ma è interessante fare un breve riassunto cronologico [15] delle tensioni “marittime” che hanno riguardato, negli ultimi mesi, Cina da una parte e Filippine e Stati Uniti dall’altra. Il 5 aprile le Filippine hanno protestato per le centinaia di barche cinesi nel sud della Cina. Il 12 aprile gli Stati Uniti hanno messo in guardia la Cina dall’aggressione verso le Filippine. Il portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti Ned Price ha affermato che un attacco alle Filippine “innescherà” gli obblighi degli Stati Uniti nell’ambito di un trattato di difesa comune. Il 4 maggio le Filippine e gli Stati Uniti hanno dato il via a due settimane di esercitazioni militari tra le crescenti tensioni tra Filippine e Cina sul Mar Cinese Meridionale. Il 12 luglio la Cina ha protestato contro le attività navali statunitensi nel Mar Cinese Meridionale, la sua seconda denuncia in due giorni: la Cina ha affermato che il cacciatorpediniere missilistico USS Curtis Wilbur è entrato illegalmente nelle sue acque intorno alle contese Isole Paracel. Il 3 agosto la storia si ripete con un’altra nave USA e Pechino ha esortato le forze armate statunitensi a fermare tali “provocazioni”. La settima flotta USA risponde che la nave ha condotto un’operazione per la libertà di navigazione, in conformità con il diritto internazionale [15].

Ma il problema vero è ora l’ambiguità strategica degli Stati Uniti, evidente soprattutto sulla questione di Taiwan [62]: le posizioni volutamente ambigue di Biden sul tema, come sottolinea Lorenzo Vita su InsideOver [59], “non stanno consentendo al Dragone di sapere con certezza se gli americani scenderebbero mai in campo per difendere Taiwan da un’ipotetica invasione dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese. Per decenni, la cosiddetta Dottrina dell’ambiguità strategica adottata dagli USA ha funzionato alla grande. Adesso Biden è chiamato a un sostanziale cambio di passo, visto che i rapporti di forza nell’area indo-pacifica stanno cambiando a velocità folle. Fin qui, gli Stati Uniti sapevano di essere tecnologicamente e militarmente più avanzati rispetto alla Cina. Dunque, l’adozione dell’ambiguità strategica su Taiwan consentiva a Washington di congelare una situazione spinosa e, al tempo stesso, di mantenere le relazioni commerciali con Pechino. Nei decenni passati il Dragone non avrebbe mai osato superare la linea rossa, con il rischio di ritrovarsi i cannoni delle navi USA puntati addosso. Ora la situazione è completamente capovolta. Gli Stati Uniti si mostrano vicinissimi a Taiwan, senza però dire esplicitamente di esser disposti a intraprendere azioni belliche per difendere l’alleato. Tutto ciò non basta più, perché la Cina, consapevole dei propri mezzi bellici, è ora disposta a scoprire le carte americane e correre il rischio di un conflitto armato”. Con il rischio di una escalation che potrebbe portare a uno scambio nucleare.

Occorre poi segnalare le tensioni fra Cina e Giappone per le contese Isole Senkaku, che si trovano nel Mar Cinese Orientale tra il Giappone, la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan. Esse sono state di proprietà privata di una serie di cittadini giapponesi per la maggior parte degli ultimi 120 anni. Il 24 gennaio 2021 il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin ha riaffermato l’impegno dell’America a difendere le isole Senkaku, che è previsto dall’articolo 5 del Trattato di Sicurezza USA-Giappone [16]. Gli USA si oppongono anche a qualsiasi tentativo unilaterale di cambiare lo status quo nel Mar Cinese Orientale. Sebbene Taiwan e la Cina abbiano rivendicato pubblicamente le isole per la prima volta nel 1971, non ci sono stati incidenti di rilievo fra i tre stati riguardo alle isole fino agli anni ’90. Dal 2004, tuttavia, diversi eventi, tra cui scontri navali, aerei da combattimento, sforzi diplomatici e massicce proteste pubbliche, hanno aggravato la disputa. Le tensioni Cina-Giappone continuano ad aumentare poiché entrambi i paesi migliorano le loro capacità militari (in particolare i loro sistemi radar e missilistici) nella regione. Tuttavia, sebbene il Ministero della Difesa giapponese abbia riferito che il numero di volte in cui l’esercito giapponese ha dovuto far decollare i jet in risposta alle incursioni aeree cinesi è diminuito del 41% nel 2017, il numero è aumentato nel 2018 e nel 2019 [17]. Un incidente militare accidentale o un errore di calcolo politico da parte della Cina o del Giappone potrebbero dunque coinvolgere gli Stati Uniti in ostilità armate con la Cina.

In ultimo, ma non meno importanti, ci sono le tensioni con l’India. Infatti, a oltre un anno dal sanguinoso scontro al confine tra India e Cina del giugno 2020, le due parti rimangono in una situazione di stallo e la linea sfocata di controllo effettivo (LAC) che segna il loro confine himalayano è più militarizzata che forse in qualsiasi momento dai tempi della guerra sino-indiana del 1962. I rapporti indicano che circa un quarto di milione di soldati sono di stanza vicino al confine, principalmente dalla parte indiana, ma entrambe le parti hanno aumentato gli schieramenti nell’ultimo anno [18]. L’India ha ora circa 200.000 truppe concentrate sul confine, che è un aumento di oltre il 40% rispetto allo scorso anno e un aumento di 50.000 negli ultimi mesi. La Cina, da parte sua, ha gradualmente aumentato la sua presenza di truppe, per lo più negli ultimi mesi, ad almeno 50.000, da circa 15.000 dell’estate dello scorso anno, secondo l’intelligence indiana e funzionari militari. E ricercatori del James Martin Center for Nonproliferation Studies hanno studiato le immagini satellitari per scoprire “più di 100 nuovi silos per missili balistici intercontinentali in un deserto vicino alla città nord-occidentale di Yumen” [18], il che segnala un’importante espansione delle capacità nucleari di Pechino, preoccupante se si considera che pure l’India ha un arsenale nucleare.

I rischi latenti fra strategie geopolitiche, “fame” di risorse energetiche e Covid-19

Insomma, anche a livello geopolitico e militare la situazione cinese è gravida di grandi potenziali pericoli che in Europa sembrano essere largamente sottovalutati dai media generalisti, forse distratti dalla pandemia. USA, Giappone, Australia e India sono tutti legati alla Cina da rivalità storiche e attriti contingenti. A luglio, un alto funzionario della difesa degli Stati Uniti – il contrammiraglio Mike Studeman, il massimo ufficiale dell’intelligence per il comando dell’Asia orientale – in una conferenza ripresa anche dal Washington Times [13] ha emesso un duro avvertimento sulle intenzioni cinesi in Asia e oltre, affermando che la crescente potenza militare di Pechino ha aumentato il rischio di scatenare una guerra contro uno stato vicino, in particolare Taiwan. Ha inoltre detto che l’attuale situazione di stallo degli Stati Uniti con Pechino potrebbe essere riassunta in due parole usate dal generale Douglas McArthur nel discutere il fallimento nell’evitare la Seconda guerra mondiale: “Troppo tardi. Troppo tardi per comprendere lo scopo mortale di un potenziale nemico. Troppo tardi per rendersi conto del pericolo mortale. Troppo tardi nella preparazione. Troppo tardi per unire tutte le forze possibili per la resistenza”. Ha inoltre affermato che le forze militari statunitensi stanno rafforzando armi e attrezzature per quando potrebbe scoppiare un conflitto nella regione nei confronti di Taiwan o di un altro Alleato o partner americano.

In questi giorni l’esercito USA sta dispiegando nella sua base sull’isola di Guam, nel Pacifico, due batterie del sistema israeliano “Iron dome” di difesa anti-aereo e anti-missile come deterrente per eventuali attacchi cinesi [57]. Nel frattempo, il 7 ottobre il “Connecticut”, un sommergibile nucleare d’attacco statunitense della classe Seawolf (come quello in figura), mentre navigava in immersione nel Mare Cinese Meridionale (acque in cui la Cina rivendica la quasi totale sovranità), ha avuto una collisione contro un misterioso “oggetto non identificato” (si esclude un altro sottomarino) ed undici membri dell’equipaggio sono rimasti feriti [58]. Sono in corso delle indagini per capire l’accaduto. (fonte: U.S. Department of Defense)

D’altra parte, gli Stati Uniti hanno anche un altro problema. Come scrive Roberto Vivaldelli [19], “‘Joe Biden è un politico ritenuto non all’altezza ed adeguatamente preparato per guidare la superpotenza USA’. Ad affermarlo non un nemico qualunque di Washington ma per tanti anni l’uomo più ricercato d’America, Osama Bin Laden, in una lettera datata maggio 2010 diffusa dalla stampa americana, quando Biden era vicepresidente degli Stati Uniti”. In effetti, la disastrosa ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan sta costando caro al Presidente USA in termini di consenso e credibilità: per la prima volta l’inquilino della Casa Bianca è seriamente messo in discussione dall’opinione pubblica in maniera bipartisan, compresa quella democratica e progressista. Ma questo potrebbe essere solo l’inizio. Nel frattempo, Giappone e Australia, potenze regionali, sono accomunate dal problema di contenere l’aggressiva politica cinese. Non a caso, quest’estate l’ambasciatore del Giappone ha invitato il governo australiano a prendere in considerazione esercitazioni militari congiunte nel Mar Cinese Orientale [20]. E anche l’Australia non è stata con le mani in mano, dato che a metà settembre ha annunciato, insieme a Stati Uniti e Regno Unito, la nascita di un patto militare Australia-USA-UK (Aukus), volto a limitare la potenza cinese nell’area indo-pacifica [22].

Come spiegato di recente da Manuel Pietrobon – sintetizzo un po’ il suo articolo [21] – “gli Stati Uniti si trovano in quella sterminata regione biogeografica che è l’Indo-Pacifico per ottemperare ad un imperativo strategico: impedire alle potenze dell’Eurasia di scardinare il sistema degli stretti costruito dalla Compagnie delle Indie Orientali di Sua Maestà durante l’epoca del cosiddetto imperialismo del libero commercio. La sopravvivenza di Taiwan e lo status del Mar Cinese Meridionale sono dunque fondamentali nel quadro del contenimento della Repubblica Popolare Cinese in una condizione terrestre, la lotta alla transizione multipolare e il boicottaggio del secolo asiatico. E come gli Stati Uniti intendono affrontare ognuno dei succitati fascicoli è noto: ricorrere alla collaudata ‘strategia della catena di isole’ (Island Chain Strategy), concepita dall’ex Segretario di Stato USA John Foster Dulles agli albori della guerra fredda, più precisamente nel contesto della guerra di Corea. Dulles credeva che il potenziale destabilizzativo di un’alleanza sino-sovietica in chiave antiamericana, se non azzerato completamente, potesse essere ridotto in maniera critica stabilendo una catena contenitiva nel Pacifico occidentale. Senza conoscere questa strategia, non si potrebbero comprendere la centralità di Taiwan per gli Stati Uniti e il rafforzamento del dispositivo militare americano nelle acque del Mar Cinese Meridionale”.

La Cina, da parte sua, è mossa pure dall’interesse per le risorse di quell’area: gas e petrolio. Del resto, con i costi di produzione in aumento, i produttori di energia cinesi stanno già facendo pressioni sul governo per consentire l’impensabile: lasciare che i consumatori sostengano i costi [29]. Fino a due anni fa, il governo consentiva ai produttori di energia di aumentare le tariffe elettriche di appena il 10% per tenere conto di un improvviso aumento dei costi operativi. Ma, nell’ottobre 2019, il pianificatore statale cinese – ovvero la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (NDRC) – ha ordinato il congelamento degli aumenti dei tassi e non ha fissato una data di fine per la politica. Ad agosto, 11 produttori di energia nel nord della Cina hanno presentato una petizione al governo per consentire agli operatori di rete di aumentare i prezzi per gli utenti finali. Se i costi alle stelle non possono essere trasferiti agli utenti, hanno avvertito i produttori di energia, quelle 11 società rischiano il fallimento. Secondo alcuni, “se vuoi avere un approccio alla decarbonizzazione guidato dal mercato devi esporre gli utenti finali al vero costo dell’energia”. Ma ciò in realtà è falso, perché i maggiori costi sostenuti dai consumatori finali riflettono semplicemente gli aumenti dei prezzi della materia prima, per cui né ripagano i danni prodotti dall’inquinamento delle centrali né, tanto meno, finanziano la transizione verso fonti di energia rinnovabili e/o più pulite.

La sfida, per Pechino, sarà dunque ridurre al minimo l’interruzione delle forniture elettriche costringendo la sua gente, in qualche modo, a finanziare il cambiamento. Insomma i problemi cinesi, anche in questo ambito, non sono molto diversi da quelli che angustiano i Paesi occidentali, Italia in primis (avendo il nostro Paese, già in epoca pre-Covid, sostanzialmente i costi dell’energia più alti fra i Paesi dell’UE). Fra l’altro, si potrebbe pensare che in Cina il Covid abbia impattato poco, dato che il lockdown interessò una regione relativamente piccola del Paese e che la circolazione virale fu rapidamente soffocata, ma non è così. La chiusura economica in risposta all’epidemia di Covid-19 ha lasciato il suo impatto drammatico e senza precedenti sull’intera economia cinese, non ultime le sue piccole e medie imprese (PMI), le quali, rappresentando la parte del leone del Pil e dell’occupazione, sono cruciali per la stabilità della Cina. Nel primo trimestre del 2020, il prodotto interno lordo (Pil) cinese si è contratto del 6,8%. Era la prima volta che la Cina registrava una crescita negativa dal 1976. Xi Jinping dichiarò quindi di voler aumentare il sostegno alle grandi imprese statali, ma nel frattempo molte delle PMI cinesi stavano cedendo alla pressione (fra l’altro, a marzo 2020, oltre il 95% delle aziende più grandi aveva ripreso le operazioni, ma delle PMI solo il 60%). Per questo, Pechino ha poi messo anche il sostegno delle PMI in cima all’agenda, rendendolo un punto focale nella sua battaglia contro i danni economici causati dall’epidemia di Covid-19 [38].

Il Governo cinese, molto meglio di quello italiano, ha capito che, se le PMI vengono lasciate fallire, l’effetto sul tessuto economico e sociale potrebbe essere diffuso e grave. Infatti, a differenza dei grandi gruppi o conglomerati con ampie riserve di liquidità, linee di credito e sostegno del governo come protezione, le PMI hanno poco riparo dalla tempesta. L’importanza di una rapida ripresa per i piccoli imprenditori cinesi non può essere sopravvalutata. Le PMI in Cina rappresentano l’80% dei posti di lavoro dipendente, il 60% del Pil e circa la metà del gettito fiscale nazionale. Sono motori vitali dell’economia cinese, popolano la classe media e guidano la transizione del paese verso una crescita basata sui consumi. Liquidazioni su larga scala minaccerebbero non solo la performance economica complessiva del paese, ma anche la sua stabilità sociale [38]. Siamo sicuri che il Governo italiano sia conscio del fatto che un rischio simile lo sta correndo anche l’Italia, da una parte per l’“onda lunga” dei lockdown totali e di quelli “a colori” e, dall’altra, per l’introduzione del green pass obbligatorio nel mondo del lavoro? La mia sensazione è che si stia pure da noi scherzando con il fuoco, e – sostanzialmente – improvvisando, senza nemmeno fare uno straccio di previsioni su quale sarà l’impatto concreto di queste misure sui generis sulle imprese, sulle famiglie e sul Pil. Non dico che occorra essere pragmatici come i Governi inglese e cinese, ma almeno non essere “ciechi”!

Il peso delle PMI nell’economia cinese ed in quella italiana a confronto. In entrambi i casi, si tratta di un peso assai rilevante. Nel 2017 le PMI italiane hanno fatturato 886 miliardi (pari al 51% del Pil di quell’anno) e impiegavano 4,1 milioni di lavoratori (2,2 lavoravano in aziende piccole e 1,9 in aziende di medie dimensioni), pari al 77% dei lavoratori dipendenti italiani (che nel 2017 erano circa 5,3 milioni).

In conclusione, risulta evidente come, a parte le questioni geopolitiche che ho cercato di evidenziare, all’origine dei principali problemi di due Paesi così lontani come Cina e Italia vi siano, da una parte, il Covid con l’impatto dei suoi prolungati lockdown e le tante “magagne” da nascondere (compresa quella dell’origine del virus) e, dall’altra, la carenza di risorse energetiche, che non pare essere un problema di soluzione né facile né, tanto meno, immediata. Se si considera che siamo solo all’inizio del periodo invernale e che la dinamica dei prezzi delle materie prime difficilmente potrà essere invertita – a meno che non si verifichi, nel frattempo, qualche “cigno nero” non certo auspicabile – si può capire come sia fondamentale comprendere a fondo le cause che ci hanno portato in questa situazione ed iniziare, al tempo stesso, a considerare delle soluzioni “serie” (non limitandosi a “pannicelli caldi”, come l’aver annullato temporaneamente, fino al 31 dicembre, gli “oneri generali di sistema” e l’aver potenziato il “bonus sociale” per le famiglie povere [55]). L’Asia, infatti, è un’area del mondo che divorerà sempre più energia, essendo diventata con la globalizzazione il cuore produttivo del mondo. E l’energia elettrica è vitale, per una civiltà tecnologica e complessa come la nostra, un po’ come il sangue lo è per una persona; se questa è insufficiente, per qualsiasi motivo, oppure troppo costosa per essere usata, la civiltà stessa – esattamente come nel caso di una persona che ha un’emorragia o una ferita seria – rischia. E moltissimo.

Riferimenti bibliografici

[1]  Bartholomeusz S., “China’s not winning its trade war with Australia”, The Sydney Morning Herald, 17 maggio 2021.

[2]  Carpenter P., “Australia-China Trade War And Its Implications”, Intuition, 13 aprile 2021.

[3]  Meyer J., “Winners and Losers: The Real Consequences of the China-Australia Trade War”, Young Australians in International Affairs, 21 giugno 2021.

[4]  Sui C., “Taiwan reports ‘large incursion’ by Chinese warplanes for second day”, BBC, 25 gennaio 2021.

[5]  Bardenhagen K., “Taiwan’s army ‘ill-prepared’ for potential Chinese attack”, Deutsche Welle, 5 aprile 2021.

[6]  Gan N., “US senators took a military aircraft to Taiwan to announce vaccine donation. To Beijing, that is a major provocation”, CNN, 7 giugno 2021.

[7]  Ruwitch J., “China Sends A Record 28 Military Planes Into Airspace Controlled By Taiwan”, npr.org, 15 giugno 2021.

[8]  LaGron S., “Milley: China Wants Capability to Take Taiwan by 2027, Sees No Near-term Intent to Invade”, USNI News, 23 giugno 2021.

[9]  Cropsey S., “China’s military prepares for war, while America’s military goes ‘woke’”, The Hill, 7 luglio 2021.

[10]  “Cina, l’accusa di Taiwan: «Ha inviato nei nostri cieli 38 aerei dacaccia». La più grande incursione mai registrata”, Il Messaggero, 2 ottobre 2021.

[11]  “If there are US troops present on Taiwan island, China will crush them by force: Global Times editorial”, Global Times, 17 agosto 2021.

[12]  “US, DPP warned as military aircraft lands in Taipei”, Global Times, 15 luglio 2021.

[13]  Zhao W., “US Pacific intel chief warns of likely Chinese military attack against Taiwan”, i24News, 12 luglio 2021.

[14]  “Territorial disputes in the South China Sea”, Wikipedia, 2 ottobre 2021.

[15]  Council on Foreign Relations, “Territorial Disputes in the South China Sea”, Global Conflict Tracker, 1° ottobre 2021.

[16]  “Senkaku Islands dispute”, Wikipedia, 2 ottobre 2021.

[17]  Council on Foreign Relations, “Tensions in the East China Sea”, Global Conflict Tracker, , 1° ottobre 2021.

[18]  Niewenhuis L., “China beefs up military position with more Indian border units, desert missile silos, navy forces”, SupChina, 2 luglio 2021.

[19]  Vivaldelli R., “Joe Biden? Totalmente impreparato, parola di Bin Laden”, InsideOver, 22 agosto 2021.

[20]  Hurst D., “‘We are in the same boat’: Japan urges Australia to join forces to address challenge of China”, The Guardian, 21 luglio 2021.

[21]  Pietrobon M., “Nella mente degli Stati Uniti: l’Indo-Pacifico e la catena di isole”, InsideOver, 1° ottobre 2021.

[22]  “Aukus, il nuovo patto militare Australia-USA-UK spaventa la comunità internazionale: ‘Rischio proliferazione nucleare incontrollata’”, Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2021.

[23]  Hoskins P., “China: What is Evergrande and is it too big to fail?”, BBC News, 30 settembre 2021.

[24]  Dimaggio S., “Evergrande è praticamente al default. L’immobiliare mondiale trema”, I love trading, 2 ottobre 2021.

[25]  Marsonet M., “Dopo il Covid un’altra minaccia dalla Cina: la bolla immobiliare spaventa i mercati e il Partito comunista”, Atlantico Quotidiano, 25 settembre 2021.

[26]  Muratore A., “La ‘bomba’ Evergrande pronta ad esplodere?”, InsideOver, 23 settembre 2021.

[27]  Rodio G., “Ma che Evergrande, la tempesta perfetta Cinese arriva da Energy & Gas”, Wall Street Italia, 28 settembre 2021.

[28]  Wang O., “China electricity shortage: industrial production grinds to halt and traffic lights fail amid rationing”, China Macro Economy, 27 settembre 2021.

[29]  Barrett E., “Unlit streets, no AC, and higher bills: China’s energy crisis is finally hitting households where it hurts”, Fortune, 27 settembre 2021.

[30]  Magnani A., “Crisi energetica nel Regno Unito, cosa sta succedendo con gas e benzina?”, Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2021.

[31]  “Brexit, un quarto dei distributori di benzina del Regno Unito è a secco: interviene l’esercito”, Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2021.

[32]  Menichella M., “Il “boom” dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la “tempesta perfetta”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[33]  “Obbligo green pass al lavoro, attenzione: piccole imprese rischiano lo stop”, La Voce Apuana, 27 settembre 2021.

[34]  Canessa F., “Green pass, allarme camionisti: ‘Il 25% non è vaccinato, a Genova possibili blocchi a oltranza’”, Genova24, 2 ottobre 2021.

[35]  Savelli F., “Chip, perché non ce ne sono più? Le ragioni della crisi (e gli effetti su di noi)”, Il Corriere della Sera, 7 settembre 2021.

[36]  Itlab Srl, “Boom degli e-commerce e delle vendite online.Come sono cambiati gli acquisti online durante Covid-19”, Ansa.it, 25 gennaio 2021.

[37]  Valentini C., “Il 40% non paga le bollette”, Italia Oggi, 3 novembre 2020.

[38]  Holzmann A. & Karbflet M., “Supporting China’s SMEs affected by Covid-19 is crucial to avoid a socioeconomic disaster”, Mercator Institute for China Studies, 12 maggio 2020.

[39]  “Coronavirus fuggito dal laboratorio, Usa e Cina trovano l’accordo sulla exit strategy: ‘Pechino ammetterà l’errore’”, Tgcom24, 19 luglio 2021.

[40]  Cottarelli C. et al., “Che fine ha fatto la liquidità immessa dalle banche centrali?”, Osservatorio Conti Pubblici Italiani, 14 luglio 2020.

[41]  “Taiwan: ‘La Cina pronta a invaderci entro il 2025’. Biden cita il rispetto di un ‘imprecisato’ accordo con Xi”, La Stampa, 6 ottobre 2021.

[42]  Lupis M., “Il gigante Cina ha fame di energia e rallenta”, Huffington Post, 28 settembre 2021.

[43]  Westcott B., “China’s ‘political pressure’ on Australian economy isn’t working, treasurer says”, CNN Business, 6 settembre 2021.

[44]  Baarlam R., “Cina, la grande fuga delle multinazionali dai dazi americani”, Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2019.

[45]  “Trump: la Cina ruba la nostra proprietà intellettuale, imprese USA tornino a casa”, HDBlog.it, 25 agosto 2019.

[46]  Huang Y., “The U.S.-China Trade War Has Become a Cold War”, Carnegie Endowment for International Peace, 16 settembre 2021.

[47]  Marsonet M., “L’ora di Taiwan? Pechino minaccia l’opzione militare. L’Occidente la difenderebbe?”, Atlantico Quotidiano, 19 luglio 2021.

[48]  “Hong Kong’s national security law: 10 things you need to know”, Amnesty International, 17 luglio 2020.

[49]  Modolo G., “L’attivista Nathan Law: ‘A Hong Kong ormai è un crimine anche solo parlare’”, msn.com, 28 luglio 2021.

[50]  Cuscito G., “Oltre il confine, tutte le dispute tra India e Cina”, Limes Online, 11 giugno 2020.

[51]  Mauri P., “Gli Stati Uniti saranno in grado di combattere e vincere la prossima guerra?”, InsideOver, 15 luglio 2021.

[52]  Mauri P., “Biden e Xi Jinping d’accordo sul mantenere lo ‘status quo’ su Taiwan”, InsideOver, 6 ottobre 2021.

[53]  Modolo G., “Paghe basse e orari infiniti: i giovani cinesi dicono “basta”. E le fabbriche restano senza lavoratori”, la Repubblica, 29 agosto 2021.

[54]  Ricolfi L., “Reddito di cittadinanza, perché non farlo gestire alle imprese?”, Il Messaggero, 25 settembre 2021.

[55]  Arera, “Energia: intervento del Governo riduce impatto aumenti, +29,8% per elettricità e +14,4% per gas. Impatto zero sulle famiglie in difficoltà”, arera.it, 28 settembre 2021.

[56]  Pagni L., “Industrie in allarme per il caro-gas: a Ferrara il primo stop alla produzione”, la Repubblica, 7 settembre 2021.

[57]  Trevithick J., “The Iron Dome Air Defense System Is Heading To Guam”, The Drive, 8 ottobre 2021.

[58]  Trevithick J., “One Of The Navy’s Prized Seawolf Class Submarines Has Suffered An Underwater Collision (Updated)”, The Drive, 7 ottobre 2021.

[59]  Vita L., “La strategia di Biden sulla Cina può rivelarsi un boomerang”, InsideOver, 8 ottobre 2021.

[60]  Redazione ANSA, “Xi: ‘Taiwan sarà riunificata alla Cina, no a interferenze esterne’”, ansa.it, 9 ottobre 2021.

[61]  Trevithick J., “American Forces Have Been Quietly Deployed To Taiwan With Increasing Regularity: Report, The Drive, 7 ottobre 2021.

[62]  Marsonet M., “Pechino aumenta la pressione su Taiwan: il vero banco di prova della presidenza Biden”, Atlantico Quotidiano, 9 ottobre 2021.

[63]  Speranza M., “Non solo Evergrande: ecco Fantasia, un altro gigante cinese è a un passo dal default”, money.it, 7 ottobre 2021.

13 ottobre 2021




Il “boom” dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la “tempesta perfetta”

Quando, poco più di un anno fa, l’epidemia cinese del SARS-CoV-2 è diventata una pandemia, in realtà per il nostro Paese temevo più gli impatti economico-sociali che non quelli sanitari, sebbene i primi tendano sempre a passare in secondo piano nelle valutazioni quantitative dei media, lasciando passare inconsciamente il messaggio che siano qualcosa di secondario, mentre così non è (non fosse altro perché impattano su una platea di persone di un paio di ordini di grandezza maggiore).Oggi è possibile capire molto meglio questo discorso. Quella che incombe sull’Italia è, infatti, la “tempesta perfetta”, combinazione tra: (1) effetti della pandemia sulle attività commerciali, (2) forte ascesa dei prezzi delle materie prime, dell’energia e dei trasporti che impatta su industrie e famiglie, e (3) ritardi nella campagna vaccinale italiana rispetto agli altri Paesi industrializzati, che rischiano di esacerbare ulteriormente gli effetti delle altre due componenti. Ciò aumenta di molto la fragilità rispetto a eventuali ulteriori “sorprese” negative e non di poco il rischio che la situazione possa degenerare sotto l’aspetto sociale e che si possa verificare, sul breve termine (12-24 mesi), un “cigno nero” con effetti sistemici che cambierebbe il corso della Storia. Per tali motivi, il rapporto rischio-beneficio dei lockdown sembra essere ormai pessimo.

L’aumento dei prezzi di materie prime, energia e trasporto merci

Rincari abnormi (quasi sempre a doppia cifra) e continui da mesi delle materie prime, irreperibilità dei materiali necessari per le lavorazioni e dei container per le esportazioni dei beni prodotti, allungamento dei tempi di consegna, aumento dei costi del trasporto: molte aziende manifatturiere italiane – dal Nord al Sud della penisola – stanno riscontrando tutte insieme queste criticità [15]. Anche i costi del petrolio, dei carburanti alla pompa e quello dell’energia sono in forte rialzo. Infine, a livello internazionale, i prezzi dei generi alimentari crescono da 9 mesi consecutivi, con il mais a tirare la volata [12].

La pandemia è stata accompagnata da significative interruzioni della catena di approvvigionamento che hanno causato molti diversi tipi di carenze che hanno afflitto il settore manifatturiero già durante i mesi invernali e che si stanno ora acuendo. Infatti, la rapida ripresa dell’economia globale iniziata alla fine della prima ondata è arrivata con una ripresa del commercio globale molto più rapida di quanto inizialmente previsto, e ciò non ha fatto altro che aumentare la richiesta di materie prime e di componenti. I risultati sono tempi di approvvigionamento più lunghi e prezzi di produzione aumentati.

Una delle principali interruzioni che incidono, ad esempio, sull’elettronica di consumo è rappresentata, al momento, dalla carenza di chip per computer. In parte a causa dello stesso problema che causa il picco della domanda di container – la rapida ripresa della domanda di beni (semi-)durevoli – la domanda di semiconduttori è aumentata rapidamente negli ultimi mesi, anche perché è supportata da altri fattori a lungo termine, come il lancio del 5G, che sta aumentando la domanda di nuovi telefoni cellulari e l’elettrificazione dei veicoli che aumenta la domanda di chip per computer.

Il rapido ritorno del commercio mondiale ha inoltre causato un aumento inaspettato della domanda di spedizioni e container già dopo la fine della prima ondata del coronavirus. Con le partenze a vuoto – cioè le partenze annullate delle navi merci – ancora elevate e con i container molto richiesti, i tempi di approvvigionamento sono aumentati, le scorte sono diminuite drasticamente e le tariffe di trasporto sono aumentate vertiginosamente dalla fine del 2020. L’indice dei costi di spedizione suggerisce un aumento del 200% dall’inizio della pandemia, circa un quarto del quale si è verificato quest’anno [1].

Sebbene non ci si aspetti che l’intero aumento dei costi delle materie prime e delle tariffe di trasporto venga trasferito al consumatore, esso dovrebbe avere comunque un effetto al rialzo sui prezzi al consumo, che ovviamente si concentreranno – oltre che sui costi dei carburanti e dell’energia – principalmente sul costo delle materie prime e delle merci importate, e in particolare di quelle che hanno costi di trasporto più alti. L’impatto sui prezzi alla produzione, per un Paese come l’Italia che dipende quasi totalmente dall’estero per materie prime e merci, potrebbe quindi essere presto notevole.

I prezzi delle materie prime hanno storicamente eseguito cicli che spesso si svolgono nel mondo di un determinato mercato – il prezzo del petrolio greggio, ad esempio, può aumentare mentre quello del mais crolla – ciascuno per ragioni separate. Ma cosa succede se un gruppo di materie prime si unisce alla festa nello stesso momento? Ciò è chiamato un “superciclo” delle materie prime e vari professionisti del mercato ritengono che un tale fenomeno stia accadendo ora [2, 14]. Ciò, non sarebbe una novità, poiché ciò è già successo dopo la SARS del 2003, culminando con la grande crisi finanziaria del 2008.

Andamento storico dell’indice dei prezzi delle materie prime (include sia carburanti che metalli e altri tipi di commodities). Si vede molto bene il “superciclo” iniziato proprio dopo l’epidemia di SARS del 2003 e culminato nel 2008, quando il petrolio (e altre materie prime) erano “alle stelle”, a seguito della grossa crisi bancaria innescata da quella dei mutui sub-prime, avvenuta nel 2007 negli Stati Uniti.

I dati, d’altra parte, sembrano parlare chiaro. Il rame e altri metalli industriali sono già aumentati enormemente di prezzo, così come i semi di soia. Pare che la crescente domanda globale di cibo, petrolio e metalli, così come la domanda di automobili e cibo in Cina, stiano guidando un nuovo superciclo che potrebbe durare nel tempo, con tutte le conseguenze del caso. Infatti, oggi non è necessario scambiare materie prime per trovare opportunità in un superciclo, ovvero per fare speculazione, ma ciò non fa altro che incrementare il problema, come avvenne già nel già citato periodo 2003-2008.

Dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione

Nel 2007, vi è stata la famosa crisi dei mutui subprime. A causarla sono stati gli hedge fund, le banche e le compagnie di assicurazione. Infatti, gli hedge fund e le banche hanno creato titoli garantiti da ipoteca. Le compagnie di assicurazione li hanno coperti con i cosiddetti “credit default swap” (CDS). E la domanda di mutui ha portato a una bolla patrimoniale nel settore immobiliare. Quando la Federal Reserve americana ha alzato il tasso sui fondi federali, ha fatto salire alle stelle i tassi di interesse sui mutui regolabili. Di conseguenza, i prezzi delle case sono crollati e i mutuatari sono andati in default [3].

I derivati – e alcuni dei prodotti derivati più complessi sono proprio i CDS all’origine alla crisi dei mutui subprime – diffondono il rischio in ogni angolo del globo, specie se sono “in pancia” alle banche. Ciò ha causato la crisi bancaria del 2007, la crisi finanziaria del 2008 (con il crollo dei mercati delle materie prime e azionario) e la cosiddetta “Grande Recessione”, la peggiore recessione dalla Grande Depressione, la grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni Venti, cui fece seguito il crollo della Borsa valori del 24 ottobre 1929, dopo anni di boom azionario.

In pratica, la crisi dei mutui subprime scoppiata nell’agosto 2007 si è trasformata in pochissimo tempo nel più grande shock finanziario dalla Grande Depressione, infliggendo gravi danni ai mercati e alle istituzioni al centro del sistema finanziario. Ma alla fine la crisi finanziaria ha iniziato ad avere gravi effetti sull’economia reale, portando il mondo in una profonda recessione. Dunque, i mutui subprime sono stati l’innesco di un incendio che si è poi propagato alle banche (come la Lehman Brothers, il più grande fallimento bancario della Storia), successivamente ai mercati finanziari e, infine, all’economia reale.

È però importante tornare indietro ed esaminare gli eventi che hanno portato alla crisi dei mutui subprime [4]. All’inizio del 2000, l’economia era a rischio di una profonda recessione dopo lo scoppio della bolla delle dotcom. Prima dello scoppio della bolla, le valutazioni delle società tecnologiche erano aumentate notevolmente, così come gli investimenti nel settore. Le società junior e le startup che non producevano ancora entrate stavano ottenendo denaro da venture capitalist e centinaia di aziende si quotarono in borsa. Questa situazione fu aggravata dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.

Le banche centrali di tutto il mondo cercarono allora di stimolare l’economia come risposta. Creavano liquidità di capitali attraverso una riduzione dei tassi di interesse. A loro volta, gli investitori cercavano rendimenti più elevati attraverso investimenti più rischiosi. I prestatori si assumevano anche rischi maggiori, approvando prestiti ipotecari subprime a mutuatari con scarso credito, nessun patrimonio e, a volte, nessun reddito. Questi mutui sono stati riconfezionati dai prestatori in titoli garantiti da ipoteca e venduti agli investitori. Ciò ha portato alla bolla immobiliare, che dopo un po’ è scoppiata.

Nel frattempo, però, erano accadute anche altre cose che ci interessano molto da vicino. Dal novembre 2002 al luglio 2003, la SARS, una grave polmonite atipica di origine virale apparsa nel Guandgong (in Cina) produsse un’epidemia che causò 774 decessi in 17 Paesi, per un tasso di letalità finale (CFR) del 9,6%. Sebbene la SARS sia scoppiata nel novembre 2002, non iniziò a influenzare i mercati finanziari fino ad aprile 2003, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) emise un avviso globale su questa nuova malattia. L’impatto negativo sulle borse cinesi (indice MSCI China) segnò quasi un -10%.

All’inizio dell’epidemia di SARS, il mercato azionario USA (che rappresenta il punto di riferimento per gli investitori di tutto il mondo) stava appena uscendo da un mercato ribassista, ma raggiunse un altro minimo nel primo trimestre del 2003 a causa delle preoccupazioni per l’epidemia. Il risultato è stato un nuovo test dei minimi del 2002 nel marzo 2003, ma poi quella è stata la fine di quel mercato ribassista. Una situazione del tutto simile si è avuta per l’indice del mercato azionario mondiale (MSCI Global Index), che da allora ha galoppato nella sua crescita – insieme all’indice delle materie prime – fino al crash del 2008.

Andamento storico dell’indice del mercato azionario globale (MSCI World Index). Anche in questo caso si assiste a una galoppata dei prezzi azionari, iniziata dopo l’epidemia di SARS, fino agli eventi del 2007-2008 che provocano il crollo delle Borse e dei prezzi delle materie prime, portando alla Grande Recessione.

Il diverso impatto sui mercati della SARS nel 2003 e del SARS-CoV-2 oggi

È interessante vedere le differenze fra la situazione attuale e quella della SARS del 2003, a cominciare dagli indici di borsa e delle materie prime. L’indice azionario mondiale (MSCI Global Index) è crollato dai 2177 punti del 10 febbraio 2020 al minimo di 1694 (-22%) del 16 marzo 2020, dopodiché ha iniziato a risalire ed è ora in fase di forte crescita. Anche l’indice del prezzo del petrolio (WTI) è precipitato dai circa 61 $ al barile del 1° gennaio 2020 al minimo di 16,5 $ (-73%) del 20 aprile 2020, ma poi ha preso a salire ed è in forte ascesa, come il prezzo di varie altre materie prime diverse dai carburanti (metalli, mais, etc.).

Mentre l’impatto sui mercati finanziari globali della SARS nel 2003 fu sostanzialmente modesto (comportando un calo inferiore al 10% sia dell’indice azionario globale sia di quello delle materie prime) e passa quasi inosservato nei grafici storici, l’impatto del SARS-CoV-2 contro cui combattiamo oggi è stato notevolmente superiore, non tanto sul mercato azionario (dove il circa -30% avutosi si può considerare una forte “correzione”) quanto piuttosto sul mercato delle materie prime (in particolare, per quanto riguarda il prezzo del petrolio, crollato di ben due terzi raggiungendo valori di prezzo decisamente bassi).

L’indice del mercato azionario globale (MSCI World Index), dopo essere crollato all’incirca di un 30%, sta decollando anticipando la ripresa dell’economia, essendo ormai stata superata la fase più critica della pandemia. Il problema è che anche i prezzi delle materie prime stanno facendo altrettanto, in un rally che fa pensare a un nuovo “superciclo”, sulla falsariga di quanto accaduto nel periodo 2003-2008.

Infatti, l’improvvisa epidemia di COVID-19 ha portato a un declino globale nell’impiego delle materie prime, influenzando notevolmente la domanda e l’offerta. Il mercato del petrolio è stato gravemente colpito a causa del crollo della domanda principalmente a causa delle restrizioni di viaggio e dei lockdown. Anche i prezzi dei metalli preziosi e industriali sono diminuiti, sebbene tale calo sia stato inferiore a quello del petrolio. L’industria agricola (e relative materie prime) sono risultate invece meno colpite, finora, da questa pandemia a causa della sua relazione indiretta con le attività economiche [5].

Come ai tempi della SARS, l’economia cinese è stata relativamente poco colpita dal nuovo coronavirus, soprattutto se si confronta l’impatto con quello sull’Unione Europea e sugli Stati Uniti. Tuttavia l’economia cinese, le dinamiche di mercato e la geopolitica sono cambiate drasticamente negli ultimi 17 anni [6]. Da una prospettiva internazionale, la quota della Cina del PIL mondiale è balzata dal 4% nel 2003 al 16% nel 2019, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale. Sul piano interno, invece, l’economia cinese è passata da una crescita trainata dalle esportazioni a una più guidata dai consumi.

La Cina rimane il più grande esportatore di merci al mondo, spedendo il 17,1% dei suoi 2,5 trilioni di dollari di merci nell’Unione europea nel 2019, il 16,7% negli Stati Uniti e l’11,1% a Hong Kong secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica cinese. Rispetto al 2003, la Cina è cresciuta fino a diventare il “polo produttivo” del mondo, trainando il consumo di materie prime come petrolio greggio e gas naturale. Essere il secondo importatore al mondo (dopo gli Stati Uniti) implica che un rallentamento dell’economia cinese smorza la domanda globale di materie prime, mentre una ripresa lo accelera.

Pertanto, una frenata dell’economia cinese esercita pressioni al ribasso sui prezzi delle materie prime mentre, viceversa, un’impetuosa ripresa come quella che ci si aspetta con la fine della pandemia in USA ed Europa, li fa impennare. Allo stesso tempo, un rallentamento della produzione cinese interrompe le forniture per coloro che fanno affidamento sulle esportazioni cinesi per i loro processi di produzione (ad esempio, case automobilistiche, società tecnologiche e prodotti di consumo). L’importanza della Cina nella catena di fornitura globale sempre più intrecciata non può essere più sottovalutata.

In Italia ora i nodi verranno al pettine: gli errori nella gestione del Paese

L’analisi, fin qui fatta, della situazione a livello mondiale può forse apparire rassicurante per qualche politico italiano, ma non è purtroppo per nulla rappresentativa dello stato attuale in cui si trova il nostro Paese, il quale presenta delle peculiarità notevoli (che ora illustrerò in maniera sintetica) e tutti gli ingredienti per una “tempesta perfetta” sul breve o medio termine. Insomma, dopo essere stato l’“ombelico” del COVID in Europa, l’Italia rischia di esserlo anche della crisi post-COVID.

  1. L’Italia è fra i Paesi d’Europa con elettricità e gas più cari. Il nuovo sistema di tariffazione di recente introdotto, paradossalmente, ha penalizzato moltissimo chi consuma poco: su 100 euro, circa la metà se ne vanno fra cosiddetti “oneri di sistema”, tasse e accise, cioè vengono pagati anche se non si consuma nulla! Inoltre, il mercato libero in realtà ha sfavorito – anziché favorire – il calo dei prezzi dell’energia per famiglie e piccole imprese, come mostrato da un rapporto pubblicato dall’allora Autorità per l’Energia (oggi ARERA) [24]. Per molte famiglie, di fatto, le bollette di luce e gas sono oggi le più care d’Europa.
  2. L’Italia ha il prezzo del carburante fra i più cari d’Europa. In Italia i costi di benzina, gasolio e altri carburanti sono fra i più alti d’Europa, essenzialmente per due motivi. Il primo è la presenza di tasse e accise, che pesano per circa due terzi sul costo totale pagato per litro alla pompa. Il secondo – ma non meno importante – è il fatto che il prezzo dei carburanti alla pompa si comportano in modo molto rigido e lento rispetto al prezzo del petrolio quando quest’ultimo cala, mentre i rialzi dei prezzi dei carburanti sono forti e immediati quando il prezzo del petrolio cresce [10], come ad es. in questo periodo.
  3. I pedaggi delle autostrade italiane sono i più alti in Europa. Come se non bastasse, le tariffe autostradali in Italia sono di gran lunga le più elevate del Vecchio Continente. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono gratuite. In Svizzera si paga solo una vignette di circa 38 euro valida tutto l’anno. In Italia, ad es. già fare la tratta Ventimiglia-Bologna (460 km) sola andata costa 40 euro (pari a 8,7 euro ogni 100 km) [11]. Ciò impatta in modo estremamente rilevante sui trasporti su strada di persone e merci, specie per le piccole attività e le PMI, che non possono “spalmare” più di tanto questa voce di costo.
  4. L’Italia è ai primi posti nel trasporto su gomma in Europa. Secondo i dati forniti da Eurostat, nel 2017 in Italia circa il 60% delle merci totali (e ben l’80% di quelle movimentate su terra) erano veicolate da camion, mentre il resto era veicolato via nave, con solo una quota residuale che viaggiava via aereo. Delle merci movimentate su terra, il 20% che non viaggia su camion era veicolato da treni merci [9]. Nella graduatoria dei maggiori paesi d’Europa (inclusa la Gran Bretagna), l’Italia nel 2010 si collocava addirittura al secondo posto (dopo la Spagna) con la quota più elevata di trasporto su gomma. Ciò si traduce in maggiori costi e minore competitività.
  5. I ritardi nella campagna vaccinale. L’Unione Europea è in grande ritardo nella campagna vaccinale rispetto al Regno Unito, agli USA, etc. L’Italia, come ho illustrato nel mio precedente articolo [8] è ancora più in ritardo avendo usato per 3 mesi circa metà delle dosi per vaccinare persone con meno di 60 anni, mentre il 95% della mortalità per COVID si verifica fra gli over 60, perciò – complice la scarsità di vaccini – si è di molto dilatato il tempo di “uscita dal tunnel”. Ciò impatta sia sulle attività turistiche sia sui costi pagati per forniture e container, nel frattempo ordinati o opzionati da altri Paesi anche europei.
  6. La crisi e il caos all’ex Ilva. Senza acciaio un Paese non può funzionare e per la ripresa ce ne sarà tanto bisogno. La ex Ilva di Taranto, nel 2018, aveva una produzione annuale di acciaio stimata in 4,5 milioni di tonnellate. In base ai dati della World Steel Association, ciò corrispondeva a circa il 20% di quella italiana, che ammontava a 24,5 milioni di tonnellate, pari a circa il 15% della produzione europea, secondi solo alla Germania. La Cina conta da sola per poco più della metà della produzione globale, mentre l’Italia era decima in classifica [7]. Con uno stop dell’ex Ilva, i prezzi dell’acciaio avrebbero ulteriori picchi.

Gli effetti a medio e lungo termine della pandemia e l’incubo del “superciclo”

Quando, nel 1986, si verificò il disastroso incidente nucleare di Chernobyl, i morti nell’immediato furono solo poche decine, mentre furono 100 volte di più (secondo i dati ufficiali e 10.000 volte di più secondo alcune stime) nei vent’anni successivi, poiché le Autorità fecero diversi errori durante la gestione della crisi, fra cui quello di non far evacuare – se non con grandissimo ritardo – la popolazione delle città vicine e quello di non somministrare alle persone lo iodio-131 (come fatto invece in Polonia), causando così la morte di tantissime persone per tumore alla tiroide, che è l’organo più radiosensibile.

Verosimilmente anche nella crisi del COVID, a causa di una gestione largamente inappropriata, i danni avuti nell’immediato rischiano di essere relativamente modesti rispetto a quelli che il Paese pagherà sul breve termine (prossimi 12-24 mesi) e sul medio termine (anni). Naturalmente, mentre i morti immediati sono facili da contare, i danni a breve e medio termine – esattamente come nel caso di Chernobyl – sono più difficili da quantificare e sono di varia natura: morti per mancata cura e prevenzione di malattie croniche, aumento dei suicidi, della povertà e della disoccupazione, solo per limitarsi a quelli più ovvi.

Sostanzialmente, gli impatti della crisi da COVID sono – e saranno – di tre tipi: sanitari, economici e sociali. In realtà, vi sono forti interconnessioni fra questi tre aspetti, mentre la lettura che viene di solito superficialmente fatta si limita a evidenziare la sola connessione fra salute ed economia, che per quanto importante è solo un aspetto della questione. Inoltre, mentre conosciamo piuttosto bene le soglie del sistema sanitario, poco o nulla sappiamo delle soglie dei sistemi economici e sociali in un Paese avanzato, e quindi non abituato a gestire crisi caratterizzate da stress molto forti di varia natura.

I tre grandi impatti prodotti dalla pandemia sul nostro Paese: l’impatto sanitario da una parte e quello sui sistemi economici e sociali dall’altra. La loro quantificazione o stima è necessaria per determinare il rapporto rischi-benefici dei lockdown, una grandezza che non è fissa ma evolve nel tempo e che, come sarà chiaro alla fine dell’articolo, ha ormai raggiunto un valore enorme (nel senso che i potenziali rischi derivanti dall’impatto economico e sociale appaiono superare quelli – calcolabili – derivanti dall’impatto sanitario).

A differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, l’impatto economico su centinaia di migliaia fra attività commerciali al dettaglio (in Italia nel 2018 erano circa 735.000) e piccole e medie imprese (che erano circa 148.000 a inizio 2020), nonché su intere filiere (cultura, turismo, ristorazione, sport, etc.), è stato disastroso, soprattutto perché da noi i “ristori” sono stati praticamente simbolici e non accompagnati da altre misure tese a mitigare i danni, per cui in questi mesi un numero enorme di attività hanno già chiuso per sempre i battenti e ancor più sono, a loro volta, sull’orlo della chiusura definitiva. Fra l’altro si noti che, Grecia a parte, nessun Paese europeo ha una quota di lavoro autonomo alta come l’Italia.

Ma nell’analisi dell’impatto economico della pandemia ci si limita di solito, nel dibattito pubblico ad es. sui media televisivi, a evidenziare solo questi effetti assolutamente “ovvii” mentre, come ho illustrato in precedenza, vi sono tutti i presupposti per un impatto ancora più forte – e riguardante una platea di soggetti economici più vasta, comprendente la media e grande industria manifatturiera – nel prossimo futuro, per la prevedibile dinamica di aumento dei prezzi di materie prime e trasporti, che presto si potrebbe tradurre anche in rincari generalizzati per ortofrutta, alimentari e quant’altro.

Infatti, mentre un ciclo normale delle materie prime può durare pochi mesi o alcuni anni, un superciclo, al contrario, può durare un decennio o più e di solito include (o è guidato da) molte delle materie prime industriali più utilizzate e negoziate attivamente come petrolio greggio, rame e cereali [2]. E chi conosce il trading sa bene che entrambi i cicli – normale o “super” – sono caratterizzati da più fasi, e noi ora siamo appena nella prima fase, quella in cui la domanda supera l’offerta ed i primi investitori cominciano a investire “online” nelle materie prime, esacerbando ulteriormente la salita dei prezzi.

E nonostante siamo solo all’inizio del rally di un superciclo, gli effetti si sentono già, come ben illustrato da un articolo di Bloomberg [14]. Il petrolio è salito del 75% dall’inizio di novembre, da quando cioè le principali economie hanno iniziato a vaccinare le loro popolazioni ed a riaprire dopo la pandemia che ha chiuso fabbriche e bloccato aerei. Il rame, utilizzato in tutto, dalle automobili alle lavatrici e alle turbine eoliche, è scambiato ai livelli visti l’ultima volta ben dieci anni fa. I prezzi del cibo sono aumentati ogni mese da maggio. Il flusso di denaro che ne è derivato è stato un sollievo solo per i Paesi esportatori.

Un impatto sottovalutato del mix di fattori: quello su industria, edilizia, etc.

Insomma, le ripartenze disallineate tra diversi paesi con filiere che invece restano globali hanno creato e creano diversi scompensi che stanno già presentando il conto alle nostre imprese manifatturiere [15]. Innanzitutto quello dei prezzi. Quasi tutti i fornitori hanno aumentato i prezzi. Le quotazioni di materie prime come i metalli sono infatti salite ai massimi livelli. L’altro problema è quello del reperimento dei materiali: c’è scarsità sul mercato. L’anno scorso molte aziende italiane si sono fermate per il COVID, mentre quest’anno rischiano di fermare le produzioni per i materiali che non arrivano.

Negli ultimi mesi sono raddoppiati i prezzi di molte materie prime provenienti da Cina, Corea, USA, etc. e si sono dimezzate le forniture, il che potrebbe far “saltare” ad esempio il sistema edilizia in Italia e non solo quello [13]. Si fa sempre più fatica a reperire sul mercato materie plastiche, materiali ferrosi e i semilavorati con cui confezionare i propri prodotti [15]. Alla Electrolux, la grande fabbrica di lavastoviglie, le linee di produzione sono già ferme per la mancanza di componenti elettronici e di circuiti stampati [16]. Perfino le concerie sono in ginocchio, con i prezzi delle pelli bovine che crescono senza sosta da mesi.

Possono sembrare casi isolati, ma in realtà si tratta di una situazione generalizzata legata ai rincari delle materie prime, con aumenti che per il legname hanno raggiunto il 20%, con forti ripercussioni per il comparto dell’arredo, mentre per acciai e lamiere si parla di incrementi dal 15% al 45%, a seconda delle tipologie, con apici che addirittura arrivano al 60-70% [16]. Stesso discorso per la plastica, con prezzi cresciuti alle stelle. Molteplici le ragioni, a iniziare dall’accelerazione dei mercati di Stati Uniti e Cina, che hanno visto l’impennata della domanda a cui è seguito il rialzo dei prezzi.

Le dinamiche della domanda, però, non giustificano da sole questi aumenti. In effetti, il trend è sostenuto e amplificato dagli investimenti finanziari (non a caso i grandi investitori si sono spostati dall’oro, il cui prezzo sta crollando, alle materie prime, che permettono grandi guadagni tramite i futures, gli ETF, etc.), con riflessi sui trasporti che – a loro volta – hanno registrato aumenti delle tariffe, il che ora induce le aziende a rallentare la produzione nonostante la ripresa degli ordini. Questa crescita abnorme dei prezzi è per l’Italia destabilizzante e rischia di inibire qualsiasi potenziale ipotesi di strenua ripartenza.

Anche le  imprese del settore plastica si trovano ad affrontare un passaggio molto delicato [13]: “per tutti i polimeri di interesse per il settore – dal polietilene al PVC e al PET, compresi i biopolimeri ed i riciclati – gli incrementi di prezzo superano in molti casi il 100%. Questo quando li si trova: ma le quantità a disposizione sui mercati mondiali sono nettamente inferiori ai bisogni e quindi accade spesso di non riuscire affatto a reperire i materiali necessari alla produzione. Con la plastic tax prevista a luglio, il risultato è una marginalità troppo bassa, che mette a repentaglio gli equilibri di bilancio delle imprese”.

Come spiega molto bene un ingegnere, le cose non vanno bene neppure nel settore edilizio: “I container ed i bancali per le spedizioni non si trovano e ora costano il triplo. Molte resine – fondamentali per le costruzioni – sono introvabili, e con aumenti di prezzo superiori al 100%. Non si trova l’acciaio. Di conseguenza i fornitori e le imprese bloccano la firma di nuovi contratti, ed a rischio ci sono le forniture di molti cantieri. Infatti, la normativa attuale non prevede, purtroppo, adeguati meccanismi di revisione prezzi; in tale contesto, quindi, i contratti non risultano più economicamente sostenibili”.

Il rischio, insomma, è che nelle prossime settimane si debbano bloccare non solo le attività più piccole,che saranno le prime ad andare in crisi (non potendo contare su grandi scorte, economie di scala e sul maggiore potere contrattuale), ma anche i grandi cantieri delle opere pubbliche. Pure l’ANCE ha lanciato l’allarme [13]: “Il caro materiali non è più sostenibile per le imprese. Con un aumento del 130% dell’acciaio, del 40% dei polietileni, con i rincari di rame e petrolio e con la conseguente difficoltà di approvvigionamento, tanti cantieri pubblici e privati rischiano di bloccarsi con gravi ripercussioni economiche e sociali”.

L’impatto sul tessuto economico e sociale: la prevedibile crisi post-COVID

Se si considera che per l’industria manifatturiera il prezzo di un prodotto è composto da cinque elementi fondamentali – (1) il costo delle materie prime e/o dei componenti utilizzati, (2) il costo dell’energia usata per la lavorazione, (3) il costo del trasporto per consegnare il prodotto al cliente, (4) costi di manodopera, spese fisse, tasse, etc., (5) il margine di guadagno – è evidente che, poiché i costi dei prime tre fattori sono in aumento e destinati a crescere ulteriormente, il margine di guadagno per aziende già colpite dalla pandemia si riduce di parecchio e il mix può facilmente risultare “letale”.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Il fenomeno fin qui illustrato preoccupa e la soluzione non sembra a portata di mano perché le manovre speculative, che non rispondono alla normale legge della domanda e dell’offerta, sono difficili da arginare e governare. Il risultato è che il rischio di impresa si accentua di molto, e le aziende sono costrette a scegliere se accettare una forte riduzione dei margini di utile attesi e che variano al basso fra il momento dell’offerta e quello dell’ordine o proporre la ricontrattazione del prezzo definito, cosa che rischia di far perdere la commessa – o addirittura il cliente – a favore dei concorrenti stranieri che hanno costi più bassi.

Mentre i negozi sono stritolati soprattutto dalle chiusure del lockdown, dalle tasse dei rifiuti cresciute e dagli affitti insostenibili, le imprese sono in forte sofferenza perché i citati forti incrementi di costi si aggiungono alle già ingenti sofferenze finanziarie e patrimoniali connesse all’evento pandemico. Se a tutto ciò si aggiunge il divario temporale nell’“uscita dal tunnel”, dovuto ai ritardi nella campagna vaccinale italiana, rispetto alle maggiori economie mondiali (Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, etc.), si capisce come – a livello economico – il nostro Paese rischi di pagare un prezzo triplo per la pandemia.

Primo, perché il lockdown ha avuto un impatto enorme sulle piccole attività commerciali e su interi settori dell’economia; secondo, perché il boom dei prezzi di materie prime, semi-lavorati, energia, container e trasporti impatta (e impatterà) in modo pesante sull’industria; terzo, perché – complice anche la mancanza di programmazione del nostro Governo – si rischia di perdere pure il treno della ripresa costituito dalla stagione turistica, e che le nostre imprese siano le ultime perfino in Europa a fare gli ordinativi ed a cercare di rimpinguare le scorte, incontrando quindi maggiore scarsità e costi rispetto ai concorrenti.

Non è certo incoraggiante il fatto che, secondo il Rapporto sulla Competitività 2021 dell’Istat, già a novembre scorso quasi un terzo delle imprese italiane considerassero a rischio la propria sopravvivenza. Il crollo del valore aggiunto registrato nel 2020 è stato, secondo l’Istituto di statistica, dell’11,1% nell’industria in senso stretto, dell’8,1% nei servizi, del 6,3% nelle costruzioni e del 6,0% nell’agricoltura. Tra i servizi, commercio, trasporti, alberghi e ristorazione (-16%) hanno pagato il conto più alto; e nella manifattura il comparto del tessile, abbigliamento e calzature ha subito il crollo più grave (-23%).

Anche le famiglie non se la cavano meglio, e non solo per la crescita vertiginosa dei disoccupati. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari mette sotto pressione, a livello internazionale, i Paesi più poveri e, nel nostro Paese, le persone sotto la soglia di povertà, che spendono più di un terzo del loro reddito in cibo. Finora i prezzi sono aumentati solo di 2-3 punti percentuali nell’Unione Europea [12], ma solo perché, esattamente come i morti per COVID, sono l’ultimo anello della catena di eventi e quindi l’impatto vero si vedrà più avanti, e potrà superare di molto i bassi livelli di inflazione degli ultimi anni.

Nel passato, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari ha coinciso nel mondo con periodi di disordini sociali. Già solo un continuo aumento dei prezzi potrebbe scatenare rivolte sociali, specie nei Paesi più poveri ed economicamente e politicamente meno stabili, scatenando un effetto a catena che potrebbe coinvolgere anche le regioni in cui la pandemia sta creando tensioni politiche e difficoltà economiche [12]. Inoltre, la scarsità di offerta in economie interconnesse rischia di generare un nuovo protezionismo. E questo colpirebbe i Paesi meno autosufficienti e con uno scarso potere negoziale.

Il rischio del superamento di soglie critiche a causa dei trend crescenti

Come anche la casalinga di Voghera ha imparato durante la pandemia, quando si superano soglie critiche nascono grossi problemi, e ancor più quando le si superano in tempi rapidi, cosa che facilmente manda un sistema in crisi. Lo abbiamo ben visto, infatti, con le terapie intensive, che sono andate in tilt quando il numero di ricoverati ha superato una determinata soglia. Ma mentre la soglia delle terapie intensive è ben nota quantitativamente, non altrettanto si può dire per le soglie dei sistemi economici e sociali. Pertanto, queste soglie potrebbero venire a un certo punto superate, con conseguenze imprevedibili.

La crisi economica generata dalla pandemia ha colpito in modo generalizzato tutto il settore privato, cioè quello che genera entrate per lo Stato, risparmiando solo i dipendenti pubblici, che però dipendono da tali entrate. Inoltre, ha esacerbato in pochissimo tempo le disuguaglianze. Tra i più colpiti vi sono stati i giovani – tanto che la metà dei nuovi poveri ha meno di 35 anni – le famiglie di immigrati e quelle più numerose, con più di cinque componenti. Ma i rischi maggiori sono previsti per quest’anno, quando gli effetti della congiuntura economica negativa si acuiranno e gli ammortizzatori sociali termineranno.

Una delle cose che colpiscono della crisi attuale è che impatta negativamente su quasi tutti i soggetti economici privati, quelli che producono ricchezza ed entrate per lo Stato. Si salvano per il momento dagli effetti della crisi solo i dipendenti pubblici, che però vivono grazie alle entrate prodotte dai primi. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Negli ultimi dati Istat è segnalato il fatto che l’anno della pandemia, nonostante il blocco dei licenziamenti imposto dal Governo, ha mandato in fumo quasi un milione di posti di lavoro, 945.000 per la precisione. Le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione , registrate dall’inizio dell’emergenza sanitaria fino a gennaio 2021– spiega l’Istituto di statistica – hanno determinato un crollo dell’occupazione del 4,1%. La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-590.000) e autonomi (-355.000 se si adotta la nuova definizione Istat di occupato, se no la diminuzione è minore) e tutte le classi d’età. Il tasso di occupazione è sceso, in un anno, di 2,2 punti percentuali toccando il 56,5%.

Si può immaginare cosa potrà succedere una volta che verrà tolto il blocco dei licenziamenti, che comunque ha già un costo perché mette ancor più in difficoltà le piccole imprese già alla canna del gas. Non a caso, nel 2020 il tasso di mortalità delle aziende rispetto al 2019 risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio (dal 6,6% all’11,1%) e addirittura più che triplicato per i servizi di mercato (dal 5,7% al 17,3%). In pratica, oltre 390.000 imprese del commercio non alimentare e nei servizi di mercato hanno chiuso i battenti nel 2020, un fenomeno certamente non compensato dalle sole 85.000 nuove aperture [18].

Pertanto, la riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305.000 imprese (-11,3%). C’è poi tutta la filiera del tempo libero che, tra attività artistiche, sportive e di intrattenimento, fa registrare complessivamente un vero e proprio crollo, con la sparizione di un’impresa su tre. Alla perdita di imprese va poi aggiunta quella dei lavoratori autonomi: Confcommercio ha stimato la chiusura, nel solo 2020, di circa 200.000 partite Iva di persone operanti nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrazione e servizi, attività culturali, sportive e altro.

E nel 2021, come spiega Andrea Muratore, “sull’economia italiana aleggia lo spettro di un’ondata di fallimenti nel mondo delle imprese all’esaurimento delle misure di sostegno economico alla liquidità e di rimborso di cassa integrazione e strumenti di sostegno simili. Ritorna a gravare sulla nostra società, in prospettiva, il fantasma della povertà e dell’esclusione sociale, che secondo uno studio di Unimpresa riferito a fine 2020 minaccia oltre 10 milioni di italiani. Il perimetro della minaccia riguarda oltre 1,2 milioni di soggetti in più rispetto a un’analoga rilevazione relativa al 2015, con una crescita del 13%” [17].

L’impatto della crisi pandemica sullo Stato e sulle banche italiane

Infine, la crisi provocata dal coronavirus ha peggiorato i conti pubblici. Secondo Carlo Cottarelli, nel 2021 il deficit per gli “scostamenti” (compreso quello di questo mese) sarà, verosimilmente, di almeno 195 miliardi e sarà coperto per intero da acquisti della BCE [19]. L’aumento del deficit si riflette anche sull’andamento del debito pubblico italiano, che secondo le stime arriverà quest’anno al 160% del PIL, dal 135% del 2019. Nella migliore delle ipotesi, questa cifra potrebbe stabilizzarsi nei prossimi due anni. Inoltre, nel 2020 la recessione ha causato un crollo del PIL dell’8,9%, a 1652 miliardi, maglia nera nell’UE [25].

Famiglie, imprese, banche, Stato: le prime due sono sotto forte stress, gli altri due potrebbero esserlo presto. Pur se non venissero superate soglie critiche, anche grazie al sostegno delle istituzioni europee (che alla fine dell’anno deterranno il 27% del debito pubblico), i margini di manovra per far fronte a eventuali future emergenze sono sempre più ridotti. Un discorso analogo si può fare per le attività, per le imprese e per le famiglie che non “salteranno” nel frattempo: saranno comunque assai più fragili nei confronti di nuove “sorprese” negative, e in questo senso il “boom” generalizzato dei prezzi non aiuta.

Ancor meno aiuta – anzi rappresenta un pericoloso “catalizzatore” negativo – la normativa imposta dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) che dal 1° gennaio comporta, in caso di scoperto per 90 giorni di 100 euro per le persone fisiche e di 500 euro per le aziende, il blocco del conto corrente (impedendo quindi la riscossione di eventuali crediti attesi) e la segnalazione alla centrale rischi come “cattivi pagatori”. Ciò nel migliore dei casi frena gli investimenti degli imprenditori, ma nel caso peggiore può tradursi, in pratica, nel fallimento per un’azienda ed in una sorta di “espulsione” dalla società per le persone fisiche.

Ci sono diversi modi per pagare come Paese il prezzo di una crisi, la peggiore che potesse capitare in oltre 70 anni di storia italiana ed europea. Bisogna sempre ricordare che lo Stato italiano, per funzionare, ha bisogno di circa 700-800 miliardi l’anno, forniti dalle tasse sotto forma di entrate tributarie (dirette e indirette) e dai contributi sociali. Mentre le centinaia di miliardi di liquidità che ci vengono “prestati” dai mercati finanziari acquistando i nostri Titoli di Stato sono rinnovi del debito pubblico che viene a scadenza (e che ci costa circa 60-70 miliardi all’anno di interessi). Una domanda che bisogna allora porsi, perché se la faranno – prima o poi – anche gli investitori è la seguente: come può un Paese nella situazione fin qui illustrata sostenere il debito pubblico terzo al mondo per volume (2.500 miliardi)?

Anche se la BCE al momento protegge con una sorta di “paracadute” il nostro Paese dall’esposizione verso i mercati finanziari e dalle relative speculazioni, non sappiamo fino a quando ciò potrà avvenire, né fino a quando riusciremo a evitare un downgrade a “spazzatura” dei nostri Titoli di Stato da parte delle agenzie di rating, cosa che potrebbe [20]: (1) fermare l’acquisto dei titoli italiani da parte dei grandi fondi sovrani e degli investitori istituzionali; (2) far impennare lo spread (costringendo lo Stato a promettere un alto premio di rischio per collocare il debito); (3) portare le banche italiane a pagarne lo scotto.

Infatti, le nostre banche di Titoli di Stato italiani ne hanno “in pancia” ben 370 miliardi. Se i nostri Titoli di stato fossero declassati a “spazzatura”, gli Istituti di credito stessi andrebbero successivamente incontro a svalutazioni, con tutti i riflessi del caso. I rischi sarebbero quindi: da una parte, dei fallimenti bancari, poiché ciò si aggiungerebbe ai crediti deteriorati prodotti dal fallimento delle imprese; e, dall’altra, quello di una ristrutturazione del nostro debito – verosimilmente coinvolgendo anche l’FMI, in uno scenario che ricorda vagamente quello già vissuto dalla Grecia – se non quello di un default più o meno pilotato.

L’impatto della pandemia sui conti pubblici e sulle banche italiane. In questa tabella ho riassunto i principali numeri illustrati nel testo. Dal primo scostamento di bilancio per 20 miliardi dell’11 marzo 2020, al secondo del successivo 24 aprile per 55,3 miliardi, per finire con i 25 miliardi del terzo scostamento (23 luglio), gli 8 miliardi del quarto (20 novembre) – più i 40 miliardi della Legge di Bilancio 2021 (anche per vaccini, assunzione medici, mascherine, etc.) – le risorse stanziate nei famosi “decreti Conte” sono servite solo in piccola parte per indennizzi e ristori, peraltro poco più che simbolici. I recenti D.L. Sostegni arrivano quindi, in molti casi, ormai “a babbo morto”. (fonti: Carlo Cottarelli [19], Istat e altre citate nel testo)

Se pensate che tutto ciò sia fantasia, guardate le righe rosse della tabella qui sopra. Non notate nulla di strano? Nel 2020 i soldi della Legge di Bilancio e dei vari scostamenti di bilancio con indebitamento netto (deficit) da parte dello Stato all’apparenza compensano il crollo del PIL. Ma in realtà non è così, perché sono stati impiegati per il Fondo di garanzia per i finanziamenti delle banche alle PMI (ne sono stati usati 83 miliardi), per pagare la cassa integrazione COVID (16 miliardi anticipati dall’INPS) e per numerose altre cose (a cominciare dall’acquisto di materiali sanitari, il cash-back, il Superbonus 110%, etc.). Difatti, sappiamo che le imprese più colpite hanno ricevuto fra il 2% e il 5% del fatturato perso: in pratica “briciole”.

Il “cigno nero”: l’impatto devastante dell’altamente (ma ora non poi così tanto) improbabile

Infine, con la pandemia è aumentato anche il rischio del cosiddetto “cigno nero”, l’evento inatteso che travolge tutto e tutti, cambiando il corso della Storia. Si noti che il coronavirus non è tecnicamente un cigno nero poiché manca una connotazione essenziale, l’imprevedibilità, anche se – a posteriori – molti eventi in realtà vengono giudicati prevedibili solo con il senno di poi. La teoria del cigno nero è però utile per capire il ruolo sproporzionato di eventi a forte impatto, rari e difficili da prevedere rispetto alle aspettative, e che potrebbero avere delle conseguenze addirittura sistemiche per l’economia e la società.

In realtà, quel che potrebbe accadere nei prossimi mesi o 1-2 anni non sembra così imprevedibile né così improbabile. Già a ottobre scorso il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati: “Questo shock senza precedenti della crisi COVID potrebbe causare qualche vittima fra le banche” [21]. Ed a novembre la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ma l’Europa è ancora una volta in ritardo, perché nel frattempo non ha varato veicoli appositi per gestire i crediti non deteriorati né ha modificato le norme sul tema.

Già a gennaio nelle banche italiane c’erano circa 70 miliardi di crediti deteriorati a causa della pandemia. Tale cifra salirà certamente di molto nel corso dell’anno, quando potrebbe avvenire il grosso dei fallimenti delle imprese. C’è quindi il rischio del tutto concreto che, per la prima volta, a pagare le conseguenze di un default bancario siano anche i correntisti, come previsto dalla nuova normativa sul bail-in. E se la banca è abbastanza grande, potrebbero facilmente essere coinvolti anche i conti dei risparmiatori sotto i 100.000 euro, poiché il Fondo interbancario di garanzia dei depositi non sarebbe in tal caso sufficiente.

Ciò, però, avrebbe verosimilmente due effetti già di per sé assai pericolosi: il primo è il panico e il caos più totali, con la corsa agli sportelli e non solo; il secondo è la propagazione di questo ben più veloce e temibile “contagio” ad altre banche italiane “pericolanti”. Infatti, come ha spiegato lo stesso Visco, “non c’è nulla nel quadro dell’Unione Europea di gestione delle crisi in grado di evitare che le difficoltà delle banche non sistemiche si trasformino in liquidazioni disordinate”. Insomma, se nei prossimi mesi si verificasse per più banche questo scenario, la pandemia sarebbe probabilmente l’ultimo dei nostri problemi.

Infatti, il rischio è che questi fallimenti iniziali facciano da “innesco” (trigger) per il fallimento di una o più banche italiane sistemiche (le famose “too big to fail”), che in quanto tali potrebbero estendere il problema ad altri Paesi europei, portandolo a una dimensione tale da non essere più gestibile. In tal caso si aprirebbero – verosimilmente  – scenari tali da far gelare il sangue nelle vene. Difatti, ciò non solo rischierebbe di far saltare l’area Euro ma anche, attraverso i derivati di cui sono imbottite alcune banche (ad es. Deutsche Bank), di propagare il contagio con fallimenti a catena al di fuori dell’area UE.

Come Andrea Muratore ha molto ben illustrato nei suoi articoli [22, 23], “il rischio di fallimenti a catena di imprese e istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shock bancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Con la fine del blocco dei licenziamenti e con l’onda lunga delle garanzie sui prestiti, lo Stato dovrà affrontare una tempesta estremamente problematica”. E infine, come ricorda Il Sole 24Ore: “Rimuovere troppo presto gli aiuti potrebbe avere l’effetto collaterale di provocare un aumento dei crediti deteriorati nei bilanci bancari. Nonché problemi per gli stessi governi a cui gli istituti potrebbero escutere le garanzie pubbliche che i governi hanno stanziato in abbondanza durante la crisi sanitaria”.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari.

In conclusione, l’impatto economico della pandemia sull’Italia è ormai enorme, e non sembra che ci si possa permettere ulteriori chiusure (lockdown) né nelle prossime settimane né, tanto meno, nel caso in cui la variante sudafricana – o altre nuove varianti ancora non emerse – dovessero portare a una “quarta ondata”, ad esempio nel prossimo autunno. Per questo è fondamentale: (1) preparare quanto prima l’implementazione di un “piano B” (oggetto di un futuro articolo) che prescinda dai vaccini; (2) puntare fin d’ora alla produzione nel nostro Paese di vaccini a mRNA (facili e veloci da aggiornare alle nuove varianti e da produrre), per garantire in tempi ultra-rapidi le dosi quando saranno necessarie.

 

Riferimenti bibliografici

[1]  ING, “Container and shipping sgortage piles pressures on prices”, Hellenic Shipping News, 2 aprile 2021.

[2]  Blythe B., “COVID-19 Recovery May Be Driving New Commodity Supercycle”, The Ticker Tape, 22 marzo 2021.

[3]  Estevez E., “The Causes of the Subprime Mortgage Crisis”, The Balance, 17 settembre 2020.

[4]  Investopedia Staff, “Who Was to Blame for the Subprime Crisis?”, Investopedia, 12 gennaio 2020.

[5]  Rajput H., “A shock like no other: coronavirus rattles commodity markets”, Environ. Dev. Sustain., 11 agosto 2020.

[6]  FactSet Insight, “The stress of coronavirus”, FactSet, 20 febbraio 2020.

[7]  Pagella politica di AGI, “Come va la produzione di acciaio in Italia, in Europa e nel mondo”, AGI, 6 dicembre 2019.

[8]  Menichella M., “Un’analisi interdisciplinare: come (e perché) ottimizzare la campagna vaccinale in Italia”, Fondazione David Hume, 3 aprile 2021.

[9]  Massariolo A., “Trasporto merci: più del 60% avviene ancora su strada”, Il Bo Live, 22 febbraio 2019.

[10]  Rubini F., “Prezzo benzina non crolla con il petrolio: ecco perché”, Money.it, 23 aprile 2020.

[11]  Gabanelli M., “Perché le autostrade italiane sono le più care d’Europa”, Corriere.it, 10 giugno 2018.

[12]  Paganini P., “Tutti i rischi della geopolitica dei prezzi delle materie prime”, Formiche.net, 14 marzo 2021.

[13]  Dari A., “Aumento senza precedenti dei costi delle materie prime: salta l’edilizia?”, Ingenio, 26 marzo 2021.

[14]  Wallace P., “The Winners and Losers From Surging Oil and Commodity Prices”, Bloomberg.com, 11 marzo 2021.

[15]  Loschi I., “Rincari delle materie prime fino al 25% e difficoltà nel reperimento: aziende trevigiane in difficoltà”, Oggi Treviso, 30 marzo 2021.

[16]  Spezia M., “Materie prime scarse e troppo care, Electrolux in difficoltà”, TGR Friuli Venezia Giulia, 2 aprile 2021.

[17]  Muratore A., “Come l’Italia può reagire alla catastrofe economica in corso”, InsideOver, 6 aprile 2021.

[18]  Redazionale, “Covid e calo dei consumi, Confcommercio: ‘Sparite oltre 390mila imprese in un anno’”, LaStampa.it , 28 dicembre 2020.

[19]  Cottarelli C., “La terza ondata Covid peggiora i conti pubblici: verso 2.750 miliardi di debito. Ma sarà ancora di più nelle mani delle istituzioni UE”, Repubblica.it, 27 marzo 2021.

[20]  Zapponini G., “E se il rating dell’Italia fosse ‘spazzatura’? La mannaia S&P e la carta Bce”, Formiche.net, 23 aprile 2020.

[21]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[22]  Muratore A., “Lo Tsunami bancario che può travolgere l’Europa”, InsideOver, 30 gennaio 2021.

[23]  Muratore A., “La marea crescente del debito privato ci sommergerà”, InsideOver, 14 gennaio 2021.

[24]  Comunicato stampa di ARERA, “Energia: mercati di massa dinamici, ma concorrenza ancora non matura”, Arera.it, 12 febbraio 2015.

[25]  Comunicato stampa dell’Istat, “PIL e indebitamento delle AP”, Istat.it, 1° marzo 2021.




Investimenti: ritorno agli anni ’70?

Nel mondo degli investimenti, il sentimento che si rileva spesso da parte dei risparmiatori è la nostalgia per gli anni ’80. Si ha spesso la sensazione che fosse più facile investire e far crescere i propri risparmi in quegli anni: era sufficiente investire in un buono postale, tenerlo lì fermo 10 anni, e alla fine ritrovarsi il capitale ben rivalutato, senza che fosse necessario avere una grande cultura finanziaria per far fare le scelte giuste.

Oggi, invece, molti risparmiatori si sentono quasi sopraffatti dal fatto di dover “seguire” i mercati, mentre in passato non era affatto così.

Insomma, molti vorrebbero rendimenti “certi” e senza sorprese, e così, si sono abituati a vivere l’investimento obbligazionario come un investimento con pochissimi rischi, però oggi questo non corrisponde più alla realtà.

L’investimento obbligazionario piace a molti perché c’è un punto di partenza, una scadenza, e paga cedole fisse (che sono viste come rendimento fisso): anche se il prezzo dell’obbligazione scende, questo tende a creare poche preoccupazioni in genere, perché molti sono disposti ad “aspettare la scadenza” per riavere il capitale (nominale) investito.

La possibilità che il titolo possa rendere molto meno del tasso di inflazione, e dare cioè un rendimento reale negativo, non sembra preoccupare, forse perché è da oltre 30 anni che l’inflazione scende e dunque questa possibilità non preoccupa più. Oggi forse ci siamo dimenticati che l’obiettivo dell’investimento finanziario è proprio quello di mantenere il passo con l’inflazione, ed evitare la svalutazione nel tempo dei propri risparmi.

Negli ultimi 40 anni, l’investimento in obbligazioni a cedola fissa è stato il miglior investimento possibile, proprio perché durante tale periodo, il tasso di inflazione è stato in costante discesa.

All’inizio degli anni ’80, il tasso di inflazione toccò un picco massimo in tutto il mondo occidentale, superando il 15% in molti paesi. Per cercare di far scendere il tasso di inflazione, le banche centrali introdussero una politica monetaria stringente, facendo salire i tassi di interesse, e così l’inflazione iniziò il suo percorso di discesa. Tale discesa sarebbe durata quasi 40 anni, e con buona probabilità sta giungendo a termine.

Nel grafico seguente vengono invece riportati il tasso di inflazione negli USA (linea nera) e nei paesi G7 (linea blu) dagli anni Sessanta ’60 ad oggi, insieme ai tassi di rendimento dei titoli di stato decennali americani (linea rossa) e dei titoli di stato dei paesi G7 (linea arancione).

Si vede bene come i tassi di rendimento dei titoli di stato abbiano seguito nel tempo il tasso di inflazione. Negli anni ’80 non soltanto le obbligazioni rendevano molto più di oggi, in linea con un tasso di inflazione più elevato, ma le obbligazioni decennali avevano un rendimento reale positivo, cioè ben superiore rispetto al tasso di inflazione. Negli ultimi 15 anni, invece, i rendimenti reali, cioè i rendimenti al netto dell’inflazione, si sono ridotti notevolmente.

Quando acquistiamo un titolo obbligazionario con cedole fisse, blocchiamo quel rendimento fisso fino alla scadenza. Se poi, successivamente all’acquisto, l’inflazione scende rispetto al momento in cui abbiamo acquistato il titolo, finiamo per aver bloccato un rendimento superiore all’inflazione che va via via scendendo (esempio nel terzo grafico sotto). In pratica, finiamo per ottenere un rendimento reale positivo.

Negli anni ’80 e ’90, gli investitori in obbligazioni in particolare hanno beneficiato di questa possibilità di bloccare rendimenti fissi mentre l’inflazione scendeva.

Nei periodi di inflazione crescente, invece, com’è accaduto dagli anni ’50 fino al 1981/1982, accadeva l’opposto: investire in obbligazioni a tasso fisso non permetteva di avere un rendimento reale positivo, anzi. Acquistare un titolo di stato con cedole fisse portava a vincolarsi ad un rendimento fisso che si rivelava penalizzante in quanto c’era una situazione di inflazione crescente, risultando in un rendimento reale negativo.

Negli ultimi anni, a causa dei rendimenti bassi offerti dai titoli di stato e dalle obbligazioni “sicure” dette “investment grade”, è partita la ricerca per il rendimento da parte dei risparmiatori, arrivando ad investire in obbligazioni “sub prime” (2005–2008), in obbligazioni bancarie subordinate (2012–2015), in obbligazioni high-yield, in certificates, ecc. Si tratta comunque di strumenti complessi e più rischiosi.

Molti risparmiatori quindi scelgono di tenere i soldi sul conto corrente e di non investire, questo per paura di restare scottati, oppure perché investire sembra diventato veramente troppo complicato. Tenere i soldi sul conto va bene fino a quando continuiamo ad avere un tasso di inflazione vicino allo zero: in una situazione di inflazione crescente, situazione che potrebbe arrivare nei prossimi anni, è la scelta peggiore.

L’idea di investire in strumenti “senza rischio” è un’ illusione: è come dire di voler guidare l’auto senza correre il rischio di incidente. Possiamo ridurre il rischio, possiamo minimizzarlo, ma non possiamo eliminarlo del tutto. In questa ricerca di certezze, molte persone si affidano a polizze o a prodotti a “capitale garantito”. I prodotti a capitale garantito garantiscono il rimborso del capitale nominale, non del capitale in termini reali: non garantiscono il rimborso di un capitale rivalutato al tasso dell’inflazione.

Questi prodotti devono inoltre sostenere dei costi per poter dare una garanzia del capitale nominale; pertanto, i prodotti a capitale nominale garantito spesso hanno costi impliciti più alti a parità di altri fattori rispetto ad investimenti uguali che non offrono la garanzia del capitale nominale, e dunque alla fine il prezzo del capitale nominale garantito è quello di ottenere rendimenti più bassi.

La ricerca di certezze negli investimenti è la vera bolla

È comprensibile voler evitare il rischio di perdita definitiva di capitale, come accade quando un emittente di un titolo non rimborsa e fa default: è un rischio che viene ridotto tramite la diversificazione del portafoglio. Voler eliminare invece completamente la volatilità e l’incertezza sui singoli componenti di un portafoglio è un’illusione: è come coltivare un orto avendo la pretesa di poter prevedere le condizioni climatiche e garantire che tutte le coltivazioni andranno bene in ogni momento. Le previsioni finanziarie sono simili alle previsioni del meteo: vanno riviste e rettificate man mano che escono nuove informazioni, e anche le strategie di portafoglio vanno rettificate in funzione delle nuove informazioni. Sono queste incertezze che creano volatilità e incertezze nei risultati di breve periodo.

Molti si innamorano dell’idea di poter fare un investimento dove non ci sono sorprese o incertezze, ed è forse per questo motivo che qualcuno sceglie di investire in strumenti che promettono certezze, come le polizze vita.

Le polizze vita sono prodotti di tutela, non sono investimenti finanziari in senso stretto. Hanno una componente di investimento finanziario, a cui si abbina qualche tutela legale per proteggersi da rischi personali, in copertura per i beneficiari della polizza. Queste tutele in alcuni casi possono essere utili, però le tutele costano!

È giusto pagare i costi per certe tutele offerte da una polizza solo se c’è una vera esigenza personale. Non è sempre giustificabile scegliere una polizza come investimento finanziario semplicemente perché promette un capitale o un rendimento nominale garantito a scadenza.

La diversificazione vera e la diversificazione finta

Invece di cercare a tutti i costi prodotti che promettono rendimenti certi, credo che sia più utile “gestire” la volatilità invece che cercare di comprimerla. Se è così diffusa la ricerca di rendimenti certi, probabilmente i prodotti che promettono certezze saranno sopravalutati: possiamo avere un vantaggio netto se abbandoniamo le false illusioni di avere rendimenti certi e garanzie inutili, in favore della gestione della volatilità. Così, invece di pagare costi per avere garanzie nominali, possiamo operare nella realtà e tenere per noi il denaro non speso per tali costi.

Il primo passo: suddividere il patrimonio per obiettivi.

Può essere una buona idea avere più di un conto/dossier titoli: un conto può essere dedicato alle spese ed entrate quotidiane, dove va tenuta una cifra che serve per affrontare imprevisti e che non va mai investita. Sul secondo conto con dossier, invece, teniamo il capitale che serve per affrontare l’obiettivo di investimento di medio periodo; sul terzo dossier teniamo il capitale che serve per affrontare gli obiettivi di lungo periodo (oltre 10 anni). Molte banche offrono la possibilità di avere di più di un dossier titoli senza spese; in questo modo possiamo essere prudenti con il capitale che serve magari entro tempi brevi, ed accettare più volatilità sul capitale che serve tra 10 anni, ad esempio.

Questo non vuol dire correre rischi non calcolati, significa avere aspettative realistiche.

Secondo passo: costruire una diversificazione utile

Diversificare non vuol dire investire piccolissime cifre in tantissimi fondi simili tra loro: significa abbinare investimenti che hanno andamenti molto diversi tra loro tramite strumenti che danno un valore aggiunto. Noto spesso che molte persone investono in titoli di Stato italiani non tramite acquisti diretti, ma tramite fondi o ETF.

Se il prodotto in questione investe solo in titoli di Stato italiani, dobbiamo chiederci che valore aggiunto offre questo prodotto, dato che si possono comprare titoli di Stato direttamente presso un qualsiasi intermediario. Se invece il fondo diversifica davvero, investendo in obbligazioni di emittenti molto diversi tra loro, allora posso anche trovare il valore aggiunto. In altre parole, è una buona idea analizzare il contenuto dei prodotti che abbiamo in portafoglio. Se abbiamo fondi o ETF che investono solo in Btp, possiamo chiederci se non sia il caso di sostituire il fondo con l’acquisto diretto di Btp, ad esempio.

Poi dobbiamo chiederci se il portafoglio di fondi che abbiamo offre una vera diversificazione oppure una “finta” diversificazione. Vediamo un esempio: qui sotto, nel grafico 4, (sotto) si vede l’andamento di un ETF che investe in obbligazioni societarie globali (linea nera) ed un ETF che investe nell’indice azionario globale (linea rossa).

I due prodotti non hanno un andamento identico, però sono sicuramente molto simili, cioè molto correlati. La diversificazione tra questi due strumenti quanto valore aggiunto crea la qualità del portafoglio?

Nel grafico 5, (sotto) invece, si vede l’andamento di un ETF che investe in titoli di Stato americani in dollari (linea nera) ed un ETF azionario globale (linea rossa): hanno un andamento molto divergente e poco correlato: diversificare in investimenti con andamento divergente può dare un valore aggiunto e servire per migliorare la qualità del portafoglio.

Per capire in quali fondi o ETF investire con l’obbiettivo di diversificare sul serio, è opportuno conoscere il contenuto dei singoli fondi, verificando di non avere troppi prodotti che siano delle “repliche” tra loro, cioè che abbiano andamenti identici.

Tradizionalmente si tende ad investire sia in azioni che in obbligazioni a tasso fisso, con una strategia cosiddetta bilanciata. Le strategie bilanciate di questo tipo sono una scelta sicuramente giusta nei periodi di inflazione calante, mentre possono essere una scelta non ottimale in periodi di inflazione crescente, scenario che potrebbe diventare realtà nei prossimi anni.

[le opinioni espresse in questo articolo sono personali, e non possono essere interpretate come suggerimenti finanziari]




Il debito e il sonno dei mercati

Capisco che sentirsi seduti sopra una montagna di euro sia inebriante. E’ la sensazione che doveva provare lo zio Paperone quando si tuffava fra le monete del suo deposito. E dev’essere la sensazione che provano i nostri governanti quando parlano dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

Ci sono due importanti differenze, tuttavia. I soldi che arriveranno in Italia non saranno dollari, bensì euro. Ma soprattutto: lo zio Paperone sedeva su soldi propri, perché li aveva guadagnati. Invece i nostri governanti si accingono a sedersi su soldi altrui, che dovranno essere restituiti.

Qualcuno potrebbe obiettare: una parte dei soldi che attendiamo dall’Europa, più di 80 miliardi, sono a fondo perduto. Ma è un’illusione. Chi ha provato a fare i conti, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, avverte che, dal momento che l’Italia è contributore netto al bilancio europeo, il beneficio effettivo per il nostro paese potrebbe aggirarsi sui 46 miliardi. Che sono meno della metà del nuovo debito che il Governo ha contratto con i tre scostamenti di bilancio approvati durante il primo semestre, e circa un terzo dell’incremento del debito pubblico intervenuto in appena 5 mesi, da febbraio a luglio di quest’anno.

In poche parole: i soldi “veri” (diversi dai prestiti) che prima o poi arriveranno dall’Europa non bastano nemmeno a ripianare il debito aggiuntivo (più di 100 miliardi) che abbiamo già accumulato nella prima parte dell’anno. L’occasione meravigliosa e “senza precedenti” che l’Europa ci offre è di aggiungere ai debiti già contratti nei mesi scorsi altri 130 miliardi di ulteriori debiti, destinati a diventare quasi 170 se ci decideremo a ricorrere anche al MES.

E’ in questa situazione che, da qualche giorno, è partito l’assalto alla diligenza delle “risorse” in arrivo dall’Europa. Centinaia e centinaia di progetti si contendono l’accesso ai nuovi fondi, come se si trattasse solo di decidere che cosa è importante per il nostro futuro. Parole fumose e astratte si inseguono nella speranza di incontrare la comprensione e la benevolenza delle autorità europee cui spetta approvare i nostri progetti di spesa: digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, formazione, equità, inclusione sociale.

Quel che resta del tutto in ombra è il punto decisivo: a conti fatti la manna che arriverà dal cielo europeo è fatta solo di prestiti, e i prestiti andranno restituiti. Il che significa: il problema non è di spendere in cose che riteniamo utili al paese (su questo ognuno ha ovviamente le sue idee), il problema è di far sì che, alla fine, ogni euro speso generi più di un euro di nuovo Pil. Solo così potremo rimborsare domani i prestiti che ci vengono erogati oggi.

E’ questo che i vari piani e progetti dovrebbero essere in grado di garantire, o perlomeno rendere verosimile. E non è affatto un requisito facile. La spesa pubblica corrente di norma distrugge più risorse di quante ne crei, e gli investimenti stessi non sempre sono in grado di far crescere il Pil più di quanto costino. Molto dipende dai settori in cui si investe, dalla qualità dei piani, dai manager chiamati ad attuarli, ma ancor più da un fattore che troppo spesso trascuriamo: l’ambiente economico e istituzionale in cui l’investimento avviene. Se la burocrazia soffoca l’iniziativa privata, la giustizia civile non funziona, il mercato del lavoro è ingessato, il fisco asfissia i produttori, anche i migliori investimenti e i migliori stimoli all’economia rischiano di generare benefici modesti, o addirittura nessun beneficio netto.

Perché la politica non si pone il problema della restituzione del debito? Perché si parla e si ragiona come se i prestiti fossero finanziamenti a fondo perduto, o come se il creditore potesse dimenticarsi del debitore, o rimettere i suoi debiti “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

Sinceramente non lo so. Alle volte penso che sia la nostra cultura cattolica che ci rende così irresponsabili. Come il peccatore pecca e ripecca sereno in attesa della prossima confessione o indulgenza che lo laverà di tutti i suoi peccati, forse allo stesso modo il politico pensa che alla fine si troverà una quadra, e che i debiti non debbano essere davvero restituiti.

Altre volte, invece, mi capita di pensare che dietro la rimozione del problema del debito vi sia un calcolo preciso, e cioè: il problema riguarda chi verrà dopo, noi intanto spendiamo e acquisiamo consenso, poi chi vivrà vedrà. Può darsi che sia così, che il governo giallo-rosso pensi di durare fino al 2023, spendendo allegramente i 209 miliardi del Recovery Fund, e che la restituzione del debito tocchi a Salvini-Meloni-Berlusconi, quando sarà il loro momento.

Se fosse così, sarebbe un calcolo alquanto cinico. Però, a mio parere, sarebbe anche un calcolo azzardato. La scommessa di poter fare tranquillamente le cicale per 2-3 anni, lasciando a chi verrà dopo la gestione della bancarotta del Paese, non tiene nel debito conto un’eventualità tutt’altro che remota: i mercati finanziari, che in questi mesi sono stati drogati dalle politiche dei bassi tassi di interesse, potrebbero anche svegliarsi. I calcoli della Fondazione Hume sui rendimenti dei titoli di Stato dei paesi europei segnalano che, in questi mesi, gli interessi richiesti alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona (compresa la Francia, ma escluse Germania e Irlanda) sono molto più bassi di quanto i fondamentali dei vari paesi suggerirebbero e giustificherebbero. Il che significa: domani potrebbero essere più alti, anche molto più alti.  A quel punto i paesi indebitati fino al collo, come l’Italia, la Grecia, e il Portogallo potrebbero salvarsi da una spirale di innalzamento dei rendimenti (come quella del 2011) solo se le loro economie fossero state nel frattempo risanate, e poste su un robusto sentiero di crescita.

Perché è inutile illudersi: il debito “buono” non è quello che serve a fare le cose che i politici di turno ritengono prioritarie per il paese, ma è quello che i mercati giudicano rimborsabile. E, quando il rapporto debito/Pil è molto alto, ci sono due modi soltanto di rassicurare i mercati: l’austerità (più tasse e meno spese), che serve a diminuire il numeratore, e la crescita, che serve ad aumentare il denominatore.

Ecco perché l’enfasi esclusiva su “come spendiamo questa montagna di soldi”, e la demonizzazione delle riduzioni fiscali (fra le poche misure in grado di dare una spinta alla crescita) sono estremamente pericolose. Certo, potrebbero creare problemi solo ai governi successivi, quando i mercati si sveglieranno. Ma ne potrebbero creare anche al governo in carica, ove esso dovesse durare più a lungo del sonno dei mercati.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 settembre 2020




Also sprach Mario Draghi

    1.- Questo agosto mi sono preso una pausa sui temi giuridici per cimentarmi con l’attualità, in particolare col noto discorso di Mario Draghi al meeting di CL tenutosi a Rimini. Ovviamente la lettura che darò del discorso dell’ex governatore della BCE è del tutto personale, ma mi sforzerò di indicare le ragioni per cui ritengo che Draghi abbia voluto in quella sede mandare una serie di messaggi indirizzati a certi ambienti. Del resto è noto che le parole hanno il senso che gli attribuisce chi le ascolta, che non necessariamente coincide con la volontà di chi le ha pronunciate. Se chi parla è responsabile di quel che dice, chi ascolta è responsabile di quel che capisce. Dunque io vi racconto quel che ho capito, correndo il rischio che sia cosa diversa da quel che Draghi intendeva dire (o che, magari, intendeva davvero dire, ma senza volerlo).

Quel che è certo è che quello di Draghi a Rimini è stato un discorso indubbiamente assai denso di spunti e – secondo me – assai più profondo ed incisivo di quanto abbiano saputo o voluto cogliere opinionisti e commentatori, specie quando non ci si limiti ad analizzare il “cosa” Draghi ha detto (e magari tenendo conto della successione di tutto quel che ha detto, non di uno o due passaggi opportunamente scelti, come per lo più hanno fatto i media nazionali), ma si ponga attenzione anche al contesto di “quando” e “dove” Draghi ha deciso di parlare. Prima ancora di tutto questo, tuttavia, va considerato anche il fatto “che” Draghi abbia scelto di parlare.

Quando qualcuno sente il bisogno di parlare in pubblico (viepiù quando si tratta di un personaggio prestigioso e ascoltato, ma di regola assai riservato e misurato nelle sue uscite pubbliche) ritiene di avere delle buone ragioni per farlo. E solitamente le ragioni di un personaggio importante che dice qualcosa in pubblico sono che intende dare un proprio contributo al dibatto sui temi in cui ritiene di avere voce in capitolo. I contributi al dibattito servono però solo quando si pensa di avere qualcosa da aggiungere al dibattito stesso e – dunque – quando si ritiene che lo stato attuale del dibattito non sia del tutto soddisfacente. Tutto questo per dire che a mio avvisto Draghi ha scelto di parlare a Rimini perché ritiene che il modo in cui viene affrontata l’emergenza economica che sta seguendo all’epidemia di Covid – a livello di Unione Europea e anche in Italia – non sia ottimale e sia soprattutto connotato, per quel che concerne l’UE, da una pesante sottovalutazione delle possibili ricadute sistemiche degli errori commessi a livello unionista. Si tratta di un’impressione che – come vedremo – appare confermata dal contenuto di un discorso che, in diversi punti, appare velatamente critico circa le ricette sinora elaborate dall’UE per reagire alla crisi.

    2.- Svolta questa essenziale premessa vediamo dunque di capire il senso che potrebbe celarsi dietro al “dove” Draghi ha scelto di parlare (credo sia chiaro che un personaggio importante e riservato come Draghi viene infatti “invitato” a un evento solo se fa capire che desidera parlarvi). Il meeting di CL è infatti un evento di un certo rilievo a livello nazionale, ma non è di sicuro tanto prestigioso a livello internazionale da giustificare di per sé l’interesse di un big internazionale del calibro di Mario Draghi. Va tuttavia considerato che Draghi – devoto a Sant’Ignazio di Loyola e considerato vicino all’ambiente dei gesuiti, che notoriamente domina la politica vaticana in tempi recenti – è stato da poco nominato membro dell’Accademia Pontificia delle scienze sociali, organo consultivo che si occupa dello sviluppo della dottrina sociale della Santa Sede. A sua volta Comunione e Liberazione – che organizza il meeting di Rimini – mentre in epoca passata era stata catalogata tra i movimenti cattolici “di destra”, sotto l’ultimo pontificato (il primo nella storia retto da un gesuita) ha svoltato piuttosto nettamente “a sinistra”, aderendo in toto all’agenda, che potremmo definire come vagamente global-peronista, della chiesa Bergogliana.

Questa potrebbe essere una delle ragioni per cui Draghi ha accettato (ma, in realtà, scelto) di tenere proprio in quella sede un discorso, come vedremo, assai “forte” per contenuti. Interessante notare a tale riguardo (per ragioni che chiariremo alla fine di questo articolo) anche che lo stesso Giuseppe Conte, attuale capo di Governo, è uomo politico considerato vicino ad ambienti vaticani e gesuiti, di guisa che vi è “fungibilità” dell’uno con l’altro in termini di vicinanza a certe posizioni ideologiche e a certi interessi di cui si fa portatore attualmente la Santa Sede. La mia impressione è insomma che la scelta del pulpito riminese ci indichi uno dei due ambienti in nome del quale Draghi intendeva parlare, vale a dire quello della (neo-)chiesa (post-)cattolica a trazione gesuitica (e di tutta la costellazione di enti e associazioni che le gravitano intorno), impegnata a definire e proporre al mondo la sua nuova dottrina politico-sociale; dottrina della quale il discorso di Draghi potrebbe dunque rappresentare una sorta di essai.

Mario Draghi è tuttavia anzitutto un uomo di potere che ha molta familiarità con gli ambienti della grande finanza di Wall Street, ossia con quei “signori dello spread” che – potendo muovere capitali immensi in un secondo e potendo in via di fatto influenzare le decisioni delle agenzie di rating – danno le carte a livello di investimenti globali. Oltre ad essere stato manager di Goldman Sachs per parecchio tempo, Draghi è stato a suo tempo appoggiato e sostenuto come presidente della BCE anche dagli ambienti finanziari statunitensi, che lo hanno sostenuto contro candidati graditi ad esempio alla Germania. Il discorso di Rimini, dunque, potrebbe rappresentare anche un riassunto ragionato e sistematizzato di una serie di percezioni e impressioni raccolte da Draghi presso esponenti di quegli ambienti finanziari.

Che Draghi possa aver parlato manifestando la sensibilità attuale di alcuni ambienti di Wall Street e degli ambienti vaticani assume valenza politica non trascurabile, quanto si considera che l’attuale Presidente della Repubblica (dunque il solo soggetto che può in autonomia decidere le sorti di governo e legislatura) si è mostrato in più di una occasione – per un verso – attento e sensibile alle opinioni dell’attuale pontificato e – per altro verso – viene considerato anche un solido altantista. Mario Draghi, dal punto di vista dell’attuale capo dello stato italiano, sarebbe dunque senz’altro un candidato premier tra i favoriti (se non addirittura – considerando la sua preparazione tecnica e il suo prestigio internazionale – il migliore in assoluto), qualora la situazione dovesse richiedere una sostituzione di Conte senza indire nuove elezioni. Non sarebbe del resto una novità per il nostro paese il fatto che un ex banchiere centrale si insedi a Palazzo Chigi per condurre un esecutivo con il compito di “traghettare” il paese – in situazione di crisi economica – verso le elezioni politiche. La differenza tra Draghi e Conte sta nel fatto che il secondo è un burocrate romano – in quota cattolicesimo di sinistra – che ha ricoperto sinora solo qualche carica amministrativa di media caratura sostenuto da Berlino (cui fa riferimento in sostanza la corrente più europeista del PD, che attualmente controlla il MEF) e da Pechino (grazie alla corrente sinofila del movimento cinque stelle e dei prodiani), laddove il secondo è un importante uomo di potere assai rispettato ed influente a livello internazionale – pure gradito al Vaticano – che potrebbe portare invece in dote il consenso dei padroni di Wall Street e dell’amministrazione USA, ma che di sicuro non piace ai tedeschi.

    3.- Passiamo ad esaminare ora il “quando” del discorso di Draghi, partendo dalla considerazione che quella di Rimini non è stata in realtà la prima uscita pubblica di Draghi sulla crisi Covid, bensì la seconda. Draghi si era infatti manifestato sull’argomento per la prima volta con un breve articolo apparso il 25 marzo 2020 sul Financial Times, vale a dire l’organo ufficioso della finanza di Wall Street. Si trattava di un articolo assai stringato ma che già prefigurava ricette per certi versi eterodosse per la soluzione della crisi e che – forse proprio per questa ragione – è stato largamente ignorato sia dal nostro esecutivo che dalle istituzioni dell’UE, che – si sarebbe visto poi – avrebbero battuto vie assai più consuete rispetto a quelle ipotizzate in quell’articolo.

Questo potrebbe spiegare la scelta di Draghi di partire alla carica in agosto e in Italia, ossia alla vigilia di un autunno 2020 che, proprio nel nostro paese, sarà caldissimo sotto il profilo economico e sociale, essenzialmente in ragione delle ricette (insufficienti) scelte dal nostro governo (e dall’UE) per affrontare la crisi economica indotta dal Covid. Si tratta di una tempistica tutt’altro che casuale, a mio avviso dovuta alla considerazione che – secondo Draghi – l’Italia potrebbe essere il paese in cui la mancanza di coraggio mostrata dall’UE di fronte all’emergenza (insieme all’insufficienza delle misure messe in campo dal Governo nazionale) rischiano di far deflagrare una crisi, sociale prima e politica poi, di portata tale da condurre – in un quadro di grave incertezza e di debolezza economica mondiale destinato a protrarsi per diverso tempo – ad un effetto domino che potrebbe passare dapprima dall’Italia all’UE per poi incidere anche sugli assetti economici e finanziari anche a livello globale.

Agosto, infatti, non è solo il mese che viene prima del disastro economico e sociale che già si profila all’orizzonte per il prossimo autunno: è anche il mese immediatamente successivo a quel luglio 2020 in cui l’UE – dopo settimane di travaglio – ha infine partorito le sue “ricette” per aiutare gli stati a uscire dalla crisi, tra le quali il cosiddetto recovery fund e il famigerato MES sanitario. Ricette che – per quanto siano state definite epocali dai nostri media, essenzialmente per fornire un sostegno di immagine al governo – secondo alcuni osservatori, specie d’oltre atlantico, hanno in realtà solo confermato l’incapacità degli stati dell’UE di superare i loro egoismi nazionali e non hanno di conseguenza segnato una svolta rispetto all’impostazione (rigorista, deflattiva, pro ciclica e poco coraggiosa) con cui l’UE – a partire dalla crisi Greca – intende gli “aiuti” agli stati membri che si trovano in difficoltà economica.

    4.- Prima di iniziare ad affrontare il tema di “cosa” Draghi ha detto a Rimini, occorre peraltro a mio parere fare un salto indietro a quello che potremmo definire come il preambolo al discorso di Rimini, rappresentato dal già citato articolo sul Financial Times del 25 marzo scorso.

L’articolo in questione si apriva con un chiaro monito: “a deep recession is inevitable” e, di conseguenza, altrettanto inevitabile sarà negli anni a venire “a significant increase in public debt”. Dunque la recessione – per Draghi – non può essere evitata e sarà tanto grave da non poter essere affrontata se non a colpi di spesa pubblica in deficit. Sin qui, dunque, nulla di nuovo sotto il sole.

Però Draghi aggiunge che “Much higher public debt levels will become a permanent feature of our economies and will be accompanied by private debt cancellation”. E qui invece già troviamo una piccola sorpresa, consistente nell’indicazione della cancellazione (vale a dire in forme di socializzazione a carico del bilancio pubblico) del debito privato come soluzione praticabile per uscire dalla crisi. Si tratta – è bene sottolinearlo – di una soluzione del tutto contraria alla cosiddetta “austerity” che sinora ha ispirato l’UE a trazione tedesca, che ha prodotto sinora solo strumenti come i regolamenti di Basilea 2, il bail in e i prestiti condizionati del MES. Ma soprattutto in questa piccola frase, apparentemente innocua, Draghi chiarisce che quello che viene ritenuto dai più (soprattutto nell’UE) un problema di debito pubblico in realtà lo è solo di riflesso, trattandosi semmai di un problema di trasferimento al bilancio pubblico di una consistente quota di quel debito privato che – per effetto delle varie crisi economiche susseguitesi negli ultimi anni (e, mi viene da aggiungere, anche per le politiche deflattive e pro cicliche adottate in UE) – risulta ormai inesigibile.

Poi Draghi passa ai dettagli della reazione all’emergenza economica, mettendo al primo posto il sostegno al reddito delle famiglie da conseguire sia mediante misure di alleggerimento fiscale che di sussidi diretti: “employment and unemployment subsidies and the postponement of taxes are important”. In secondo luogo, Draghi parla di possibili finanziamenti alle imprese da parte del sistema bancario “banks must rapidly lend funds at zero cost to companies prepared to save jobs” , specificando però che “the cost of these guarantees should not be based on the credit risk of the company that receives them, but should be zero regardless of the cost of funding of the government that issues them”. Si noti in particolare che – per Draghi – lo stato dovrebbe consentire alle banche di erogare a costo zero il credito anche a debitori che sarebbero considerati ad alto rischio, fronteggiando con risorse pubbliche (ecco dunque il trasferimento del debito privato sul bilancio pubblico) l’eventuale insolvenza dei creditori mediante forme di garanzia pubblica a favore delle banche per i crediti che non verranno restituiti. Draghi non si allinea dunque alla narrazione rigorista (e tutta nordica) del debito/Schuld che deve essere sempre puntualmente e integralmente restituito dal creditore privato, quasi appunto per purgare la colpa di averlo contratto. Particolarmente significativo in questo senso appare il passo seguente dell’articolo sul FT, in cui Draghi sostiene quanto segue: “and, were the virus outbreak and associated lockdowns to last, they (riferendosi alle imprese) could realistically remain in business only if the debt raised to keep people employed during that time were eventually cancelled”.

Ma è nel finale che Draghi – parlando della specifica situazione europea – manda messaggi inaspettati, ancorché in punta di penna: “Faced with unforeseen circumstances, a change of mindset is as necessary in this crisis as it would be in times of war. The shock we are facing is not cyclical. The loss of income is not the fault of any of those who suffer from it”. Qui dunque si ribadisce il concetto secondo cui l’Europa, di fronte ad un evento grave ed eccezionale che colpisce persone incolpevoli, dovrebbe mostrarsi capace di un cambio di paradigma rispetto a quello tradizionale – quasi calvinista – del debito-colpa che deve per forza essere sempre integralmente ripagato, dunque rispetto alla narrazione che ispira attualmente la politica economica e monetaria dell’UE. Ancora più chiara in tal senso appare la chiusura: “and, as Europeans, supporting each other in the pursuit of what is evidently a common cause”.

In sintesi: il messaggio mandato da Draghi al mondo e all’Europa nell’articolo di marzo pare consistere nella necessità di attenuare il rigore e l’austerità, in favore sia di politiche a sostegno del reddito delle famiglie e della continuità delle attività d’impresa (niente concessioni, dunque, per narrazioni – à la Attali – imperniate sulla supposta efficacia salvifica della “distruzione creatrice”, che tanto va di moda in certi ambienti economici e finanziari), sia di un facile accesso al credito bancario per far fronte alla crisi di liquidità delle imprese, ma facendo gravare il costo ultimo delle misure adottate sul debito pubblico.

    5.- Come si è già avuto modo di accennare, l’UE non pare aver ascoltato un granché le proposte di Draghi, contando che – giunti a fine agosto 2020 – l’unica vera misura “solidaristica” che è stata messa in campo dalle istituzioni unioniste è consistita nell’aumento del quantitative easing della BCE, ormai esteso a qualunque emissione di titoli di stato e – dunque – in deroga alle quote di sottoscrizione e agli altri limiti previsti ordinariamente dal diritto UE. Misura certamente importante, ma che, da un lato, non risolve il problema della restituzione del debito contratto (una volta che la BCE decidesse di far cessare il programma di acquisti, l’immenso debito accumulato potrebbe infatti non essere più rinnovabile a scadenza, con tassi bassi, dai singoli stati mediante emissioni sul mercato privato di nuovi titoli del debito pubblico) e che – d’altro canto e soprattutto – lascia ai singoli stati membri il compito di decidere se, quanto e come spendere le risorse finanziarie ottenute grazie al QE (con il rischio che questo mare di danaro, come avvenuto in passato, finsica per lo più a rimpinguare i bilanci della banche, piuttosto che non a sostenere l’economia reale).

Quanto infatti agli strumenti di soccorso individuati a luglio dall’UE e amministrati dalla Commissione o da altri enti sovranazionali (Sure, recovery fund e MES sanitario), si tratta di misure ancora largamente in fieri e che, comunque, si basano in larga parte sulla collocazione di titoli sul mercato, dunque – di nuovo – su debiti “normali” che, prima o poi e in un modo o nell’altro, andranno per intero ripagati dagli stati. Questo è vero – si badi – anche in relazione ai cosiddetti contributi a fondo perduto, in quando si tratta comunque di contributi concessi dall’UE che dovrebbero essere finanziati a bilancio con la creazione di nuove tasse comunitarie. Nulla di particolarmente diverso, insomma, rispetto alle vecchie ricette unioniste, salvo una piccola concessione all’aumento dell’entità del bilancio comune, ma finanziate con nuove entrate, dunque senza fare del vero debito condiviso.

Passando all’Italia, non ci vuole un genio dell’economia che capire che le soluzioni adottate per fronteggiare la crisi sono state assai poco incisive. A fronte di massicci scostamenti di bilancio non sono state infatti state messe in campo misure di sostegno strutturale alla ripresa proporzionate alle dimensioni della disastrosa contrazione economica che sarebbe poi arrivata, dal momento che – nonostante un periodo di chiusura delle attività più lungo ed esteso rispetto ad altri paesi – non c’è stato un sostanziale contributo pubblico diretto alle imprese (in termini di finanziamento diretto in conto capitale o di sgravio fiscale), ma soprattutto alle banche non è stato consentito di derogare ai criteri ordinari di valutazione del merito di credito per finanziare le imprese in maggiore difficoltà (se non per importi minori). A fronte di un sostegno all’occupazione esteso e prolungato (con una pioggia di cassa integrazione straordinaria e divieti di licenziamenti per causa economica protratti per mesi e mesi) e a fronte di una tutela pressoché totale di reddito e stabilità dell’impiego pubblico, non c’è stata sostanziale sospensione o riduzione del carico fiscale per le imprese e – anzi – le imprese (specie quelle piccole) e le attività professionali non hanno avuto aiuto immediato e concreto in termini di liquidità, a differenza di quanto avvenuto nella maggioranza degli altri paesi europei. Le imprese medie e quelle piccole, dunque quelle che sostengono la grande parte dell’economia italiana, sono state insomma dapprima costrette a sospendere l’attività per mesi e poi lasciate sole ad affrontare una gravissima crisi simmetrica.

Infine, l’atteggiamento ondivago e poco chiaro del governo su temi quali la riapertura delle scuole e degli uffici pubblici e – in generale – sulle regole per la transizione del sistema dalla fase di epidemia a quella di endemia e per la gestione di quest’ultima (specie con riferimento alla questione del lavoro a distanza e delle responsabilità dei datori di lavoro per eventuali infezioni da Covid) hanno creato una insidiosissima situazione di incertezza, che sta lasciando in sospeso a tempo indeterminato – salvo per le grandi imprese che hanno risorse sufficienti per adattarvisi – ogni ipotesi di investimento e/o di ristrutturazione diversa da un taglio di risorse e costi o dalla chiusura delle saracinesche.

Tutto questo lascia presagire che in autunno assisteremo a una progressione crescente di fallimenti (spesso chiesti dalla stessa impresa ormai decotta causa chiusura Covid) seguita, tra la metà di novembre e gennaio, da massicci licenziamenti collettivi (si stima già oltre il milione di persone), che potrebbero far crescere la tensione sociale a un livello tale da portare alla crisi di governo, dunque – in sostanza – rinnovando il dilemma (tutto italiano) tra un “governo tecnico” di salute pubblica e le elezioni politiche anticipate (che sarebbero verosimilmente stravinte dal centrodestra). Proprio in previsione di questo (ormai quasi scontato) scenario – come si diceva – Draghi ha probabilmente sentito l’esigenza di parlare subito, dunque già ad agosto, da Rimini. Ma veniamo, finalmente e appunto, al “cosa” l’ex governatore della BCE ha detto.

    6.- Il discorso di Rimini è un discorso articolato e di ampio respiro in cui – a differenza di quanto aveva fatto nell’articolo di marzo – Draghi illustra in dettaglio il suo pensiero su come l’Unione Europea dovrebbe affrontare la crisi economica che seguirà al Covid. Non si tratta ovviamente di un discorso politico che prefigura un programma di governo, ma nondimeno è un discorso in cui si possono individuare tutti gli spunti necessari per elaborare il programma di politica economica di un futuro governo che volesse (o fosse incaricato di) affrontare la seconda fase (quella economica) della crisi provocata dal Covid. Draghi stesso – del resto – riconosce che a Rimini avrebbe potuto limitarsi a fare una semplice lectio magistralis sulle conseguenze dell’emergenza Covid sull’economia globale, ma che invece ha preferito dare indicazioni chiare e specifiche in termini di “cosa fare” per uscire in piedi dal guado. Questa notazione a mio avviso chiarisce che l’intento di Draghi a Rimini è stato proprio quello di offrire la “sua” ricetta per la crisi. E – come vedremo – si tratta di una ricetta che non coincide né con quella adottata dal Governo italiano né – soprattutto – con quello che sta facendo l’Unione Europea.

Il punto di partenza del discorso è che la crisi indotta dal Covid giunge in realtà come l’ultima – e senz’altro la più grave – di una serie di crisi che hanno lasciato l’economia mondiale (e in particolare quella di alcuni stati, tra cui l’Italia) in una situazione di cronica debolezza economica. Questa è la ragione per cui l’emergenza sanitaria potrebbe divenire l’evento scatenante per una fase di vera e propria depressione assai duratura. Il rischio prefigurato da Draghi è in particolare quello dell’incertezza e della paura che paralizza assunzioni, consumi e investimenti. Dunque, in sintesi: per Draghi il Covid potrebbe dare inizio a una spirale deflattiva, provocata da una prolungata debolezza della domanda, che a sua volta provoca una contrazione dell’offerta, generando disoccupazione che si traduce in una ulteriore compressione della domanda (e così via in un circolo infernale che dalla stagnazione porta alla recessione e dalla recessione porta alla depressione economica). Questo rischio si manifesta in particolare per le economie che – come ad esempio quella del nostro paese – non si erano ancora del tutto riprese dalle crisi precedenti.

Per questa ragione – secondo Draghi – la politica dei semplici sussidi di necessità non basta: i sussidi risolvono forse i problemi del presente ma non rilanciano il futuro. Per creare un futuro occorre ricostruire, non medicare. E qui arriva la prima “bomba”, quando Draghi sostiene senza troppi giri di parole che “molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni. Una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo ci ricorda “When facts change, I change my mind. What do you do sir?”. La citazione di Keynes (definito dallo stesso Draghi come l’economista più influente del secolo scorso) segna a mio parere il primo punto focale del discorso: anche Mario Draghi, tutore dell’Euro sino all’altro ieri, alla fine ammette di essersi convinto del fatto che, di fronte alle possibili conseguenza di un disastro di questa portata, occorre cambiare ricetta in politica economica, perché la situazione è cambiata rispetto al passato.

Ed è cambiata non da oggi, tanto che Draghi cita – tra le conseguenze dei modelli errati di gestione adottati sinora per rimediare alle crisi economiche degli ultimi anni – il declino della giurisdizione WTO e del multilateralismo (i due pilastri su cui si fonda la cosiddetta globalizzazione), il mancato raggiungimento di un accordo sul clima, il diffondersi dell’euroscetticismo e del sovranismo anche nei grandi stati europei. Draghi non si allinea però al coro di chi vorrebbe risolvere comodamente il problema demonizzando sovranisti e populisti, per riconoscere anzi che “l’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era da tempo evidente. Ma, piuttosto che procedere celermente a una loro correzione, cosa che fu fatta, parzialmente, solo per il settore finanziario, si lasciò, per inerzia, timidezza e interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una protesta contro tutto l’ordine esistente”. Il crescente successo dei populismi è insomma, per Draghi, anche dovuto all’incapacità del sistema attuale di individuare le proprie criticità e di mettersi in discussione.

La crisi Covid – ci ricorda Draghi – interviene in un simile scenario come catalizzatore ed amplificatore di una serie di tendenze certifughe già in atto. Dunque si tratta di una crisi che – al di là degli effetti economici diretti – porta con sé soprattutto una forte carica destabilizzante per il sistema anche in termini di spostamento del consenso politico. In sintesi: Draghi segnala che nel dopo Covid ci troviamo per la prima volta davvero in una situazione di “crisi” (secondo l’etimo greco) del sistema nel suo complesso, che non va sottovalutata e che tanto meno può essere risolta ignorando e disprezzando – dunque sottovalutandone la potenzialità disgregante – le istanze di chi apertamente critica il sistema.

Draghi scende poi nello specifico, indicando i principi che secondo lui occorrere salvare ma che potrebbero anche “saltare” se non si avrà la forza di affrontare crisi economica e sociale provocata dal Covid in modo adeguato, vale a dire “l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà” e “il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale”. Dunque Draghi non usa troppi giri di parole per dire che – se non si agisce rapidamente e con forza per affrontare la crisi nel modo giusto – il Covid potrebbe mettere in pericolo la costruzione politica dell’Unione Europea, il cui eventuale crollo – provocato dal successo dei movimenti definiti come sovranisti e/o populisti – potrebbe minare lo stesso multilateralismo (ossia il modello di politica internazionale che ha consentito e ancora oggi sostiene la globalizzazione economica).

Non è dunque un caso che in questa parte del suo discorso Draghi citi Bretton Woods, Keynes e De Gasperi per sostenere che la riflessione sul come gestire il post-covid deve iniziare già ora, durante il Covid, non domani, quando la crisi sarà passata (almeno per gli stati meglio attrezzati ad affrontarla). Si noti bene che qui Draghi non paragona il Covid alle crisi dei subprime o del debito pubblico greco, ma alla seconda guerra mondiale. E lo fa a mio avviso per due ragioni: la prima – più evidente – è che la crisi Covid, come un evento bellico, è crisi simmetrica, nel senso colpisce domanda e offerta allo stesso tempo, e la seconda – più sottile – è per sottolineare che si tratta di una crisi che, proprio perché colpisce domanda e offerta a livello planetario, non può essere risolta con le ricette che erano state adottate in passato per le precedenti crisi economiche, che erano di origine finanziaria e soprattutto asimmetriche.

   7.- Appurato che occorre fare in fretta qualcosa di diverso rispetto al passato, resta ovviamente da capire cosa fare. Ed è proprio su questo punto che Draghi cala il carico da undici (l’enfasi è aggiunta): “È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito”. Frase che non sarà piaciuta affatto dalle parti di Berlino, dato che si sostanzia in una supposta inevitabilità – se si vuole superare questa ultima crisi – di un cambiamento del modello economico unionista rispetto a quello attuale (deflattivo, rigorista e mercantilista) che, come è noto, avvantaggia la Germania e i suoi paesi satelliti.

Draghi prosegue ribadendo quel che aveva già anticipato nell’articolo sul FT, ossia che questo nuovo modello di politica economica sarà fondato essenzialmente sull’aumento del  debito pubblico, tracciando tuttavia la distinzione – che tanto ha attirato l’attenzione dei commentatori – tra debito buono e debito cattivo. Debito “buono” è quello utilizzato “a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc.” mentre debito cattivo è tutto quello usato “a fini improduttivi”. Si potrebbe liquidare questa distinzione – e alcuni commentatori l’hanno fatto – come una velata tiratina d’orecchi al nostro governo (che ha impiegato tutte le risorse dello scostamento di bilancio per spese assistenziali e comunque largamente improduttive), ma la mia opinione è che la vera chiave di lettura della distinzione tracciata da Draghi tra categorie di debito si collochi nella frase seguente, in cui l’ex governatore della BCE sostiene che “Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto”. In parole povere: di fronte alla prospettiva di una depressione causata da un evento eccezionale occorre tornare ad una politica economica incentrata sul valore della “persona”, ossia a mirata a una crescita espansiva che si sostanzi in investimenti produttivi finanziati con l’aumento del debito pubblico.

Riassumendo, dunque, Draghi a Rimini ha messo in fila i seguenti concetti:

  • la crisi Covid è simmetrica e di portata e tipo simile a quella seguita alla seconda guerra mondiale e – dunque – non può essere affrontata come le precedenti crisi finanziarie dei subprime e dei debiti sovrani;
  • Keynes è stato l’economista più influente del secolo passato in quanto – insieme ad alcuni politici dotati di visione – ha indicato, mentre la guerra era ancora in corso, la ricetta per la ricostruzione postbellica;
  • la politica economica dell’UE, per come condotta sinora, non potrà essere ripristinata,
  • una crescita economica che tenga conto del valore e della dignità della persona dovrà essere l’imperativo categorico per poter uscire dalla crisi;
  • questo genere di crescita può essere conseguito con investimenti pubblici in capitale umano (formazione e piena occupazione), infrastrutture produttive e ricerca, ma non attraverso investimenti improduttivi (e – si badi bene, perché a mio avviso è importante – anche la pura speculazione finanziaria è investimento improduttivo, dato che non crea crescita economica).

Altrettanto importante rispetto a quel che ha detto è infatti quel che Draghi ha non ha detto: in tutto il suo discorso, Draghi non ha infatti mai parlato una sola volta della necessità di tutelare o aiutare gli investitori e/o il sistema creditizio.

In sintesi, a me pare che ce ne sia più che abbastanza per sostenere che Mario Draghi a Rimini abbia proposto all’Unione Europea il passaggio a una vera e propria “svolta keynesiana” (ossia uno spostamento verso politiche economiche espansive con l’obiettivo di risollevare anzitutto l’economia reale, anche eventualmente a scapito – almeno sul breve e medio periodo – degli interessi del sistema finanziario e degli investitori) come unico efficace antidoto a un disastro economico e sociale ormai annunciato e che – questa volta – si prefigura di dimensioni e durata tali, se non verrà affrontato adeguatamente ed in tempi rapidi, da mettere a rischio l’intero sistema dell’economia finanziaria e globalizzata. Il messaggio di Draghi agli investitori e ai governi è insomma piuttosto chiaro: fate attenzione che – vista la gravità della crisi – se continuate a guardare solo ai vostri singoli vantaggi a breve termine, rischiate davvero di far morire di inedia la mucca che sinora vi ha garantito così tanto latte.

   8.- Si badi che una simile posizione non dovrebbe suonare del tutto sorprendente agli analisti più attenti, tenendo conto di come Draghi ha interpretato in passato il proprio ruolo di guardiano dell’Euro. Anche la politica monetaria di Draghi quale governatore della BCE, sintetizzata nel celeberrimo “whatever it takes”, è consistita infatti in un “disallineamento espansivo” della prassi della BCE rispetto alle regole ferree (e scritte nei trattati) di divieto di acquisto da parte della banca centrale del debito degli stati membri. Che Draghi abbia salvato l’Euro – di fatto – aggirando i trattati fondativi dell’UE è cosa ben nota, tanto che la sua azione ha in passato creato forti malumori alla Bundesbank e ha addirittura provocato un ricorso alla Corte Costituzionale tedesca, la quale – di recente – ha dichiarato che una parte dei programmi di acquisto di titoli di stato della BCE sarebbe stata adottata “ultra vires” rispetto alle regole (rigoriste) dei trattati dell’UE.

Per questa ragione non dovrebbe stupire più di tanto che Draghi manifesti nuovamente il pragmatismo tutto latino di chi vuole “salvare” un sistema in cui crede, correggendone gli errori, onde evitare di portarlo alla sconfitta finale (esito tipico quest’ultimo – quanto meno sul piano storico – della ben nota inflessibilità teutonica). Questo pragmatismo – consistente nel far quel che serve hic et nunc per salvare il sistema (anche se si tratta di andare contro principi e regole) – è dunque la ragione per cui Draghi (ieri ha creato il bazooka “nonostante” la Germania ed ha avuto ragione) e oggi – di nuovo, “nonostante” la Germania – suggerisce all’UE di adottare politiche economiche espansive. Occorre infatti considerare che la banca centrale europea ormai da diverso tempo (sia sotto Draghi che con la direzione Lagarde) sottolinea come il protrarsi e l’ampliarsi della politica monetaria espansiva, per quanto essenziale in fase di crisi, non può da sola creare crescita, specie se i flussi di moneta che genera finiscono in pancia alla banche private che li usano per i loro investimenti speculativi e non vengono invece utilizzati per condurre politiche economiche a loro volte orientate a sostenere una crescita equilibrata dell’economia. E questo – come Draghi ben sa – è ancora più vero oggi, in una situazione in cui un quadro di debolezza economica già sistemico viene colpito dallo shock – improvviso, violento e simmetrico (su domanda e offerta) – provocato dall’emergenza Covid.

   9.- A questo punto del discorso, Draghi si prende una pausa per trattare alcuni temi specifici più vicini alla sensibilità degli organizzatori del meeting (quali ecologismo, agenda digitale, promozione del sistema sanitario e istruzione dei giovani), ma che rivestono minore interesse in termini politico-economici. Si tratta di un intermezzo piuttosto breve, quasi per alleggerire la tensione, terminato il quale l’ex governatore della BCE riprende a parlare di questioni generali. Stupisce dunque – o, meglio, non stupisce affatto quelli sanno a quali interessi rispondono i media mainstream nazionali – che cosi tanti commentatori si siano concentrati su questo intermezzo, senza invece sottolineare i temi di fondo (ben più interessanti e soprattutto “densi” di significato) del discorso di Rimini.

Nell’ultima parte – infatti – Draghi tira le fila del suo discorso, traendo in particolare le conseguenze politiche delle considerazioni economiche svolte nella prima, segnalando per prima cosa che “la pandemia ha severamente provato la coesione sociale a livello globale e resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei”. Si tratta di un ulteriore monito a non sottovalutare le tensioni sociali e politiche che potrebbe causare l’emergenza economica e sociale causata dal Covid. Draghi sostiene poi che “da questa crisi l’Europa può uscire rafforzata”, ma si premura di indicare anche le condizioni perché questo accada (dunque mostrando di non dare affatto per scontato che l’UE sopravviva al colpo Covid), che sono “Il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le nostre economie, l’inizio di emissioni di debito comune, sono importanti e possono diventare il principio di un disegno che porterà a un Ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all’area dell’euro è stata affermata da tempo. Dopo decenni che hanno visto nelle decisioni europee il prevalere della volontà dei governi, il cosiddetto metodo intergovernativo, la Commissione è ritornata al centro dell’azione”.

Si noti anzitutto che questa parte del discorso di Draghi si fonda su una premessa non manifestata expressis verbis, ma che rappresenta il presupposto logico necessario del suo discorso, ossia che Draghi non ritiene sufficienti per salvare il sistema dell’UE le misure adottate sinora, dunque – in particolare – Sure, MES sanitario e Recovery fund. Che gli ambienti di Wall Street la vedano proprio in questo modo pare del resto confermato dal fatto che l’editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau, ha avuto modo non molto tempo fa di sostenere che l’accordo raggiunto sul Recovery Fund – spacciato dai nostri media per un “accordo storico” – in realtà non intacca affatto l’impostazione (rigorista, deflattiva e finanziaria) con cui l’UE è stata sinora disposta ad elargire “aiuti” agli stati membri che si trovano in difficoltà economica. Dunque Draghi, a Rimini, potrebbe aver voluto far capire a chi di dovere che questa è l’opinione che sta maturando in ambienti che – come quelli della grande finanza d’oltre atlantico – contribuiscono in modo determinare a dettare le politiche di investimento a livello globale.

E’ tuttavia l’auspicio espresso da Draghi nel senso della creazione di un ministero del tesoro europeo ad essere veramente la chiave di volta dell’intero discorso, in quanto chiunque sia un po’ pratico di cose europee sa benissimo che si tratta del peggiore incubo della Germania. Draghi, si badi bene, non ha parlato della creazione di un ministero delle finanze europeo (ossia di un organo che definisce e raccoglie le tasse con cui finanziare il bilancio dell’unione), ma proprio di un ministero “del tesoro”, ossia del tipo di organo che – analogamente a quanto accade negli stati nazionali – avrebbe il compito di emettere Eurobond “puri”, ossia titoli di debito comune collocati sul mercato e garantiti da tutti quanti gli stati membri dall’UE (e magari – ma questo Draghi a Rimini non è arrivato a dirlo – acquistabili, in caso di necessità, dalla stessa BCE, che diverrebbe a quel punto un vero prestatore di ultima istanza dell’area euro). La strada indicata da Draghi per evitare un collasso in Europa, dunque, è quella di finanziare la ripresa con una politica economica espansiva a sua volta finanziata con l’emissione da parte dell’UE di titoli di “vero” debito condiviso (in cui cioè i tassi di interesse siano determinati dal fatto che il maggiore rischio di insolvenza degli stati più deboli viene compensato dalla solidità degli stati più forti).

Questa parte del discorso contiene dunque il messaggio più forte e dirompente. Draghi sa infatti benissimo che – da un lato – il ministero del tesoro UE non è affatto all’ordine del giorno (e che, anzi, proprio la Germania non ne vuole sentire parlare). Ma Draghi sa anche bene che – dall’altro lato – nell’ultima tornata di consultazioni per la definizione delle misure di aiuto agli stati in difficoltà a causa dell’emergenza Covid, la Commissione ha avuto ben poca voce in capitolo, nel senso che – al di là delle dichiarazioni di facciata – l’UE si è mostrata divisa a livello di eurogruppo e di conferenza di capi di governo, in cui si sono manifestate feroci lotte tra fazioni (“frugali” contro “latini” con Berlino a far la parte del poliziotto buono) che alla fine hanno portato all’adozione dell’ennesimo compromesso al ribasso (sul recovery fund, appunto) di incerta adozione e ancor più dubbia efficacia pratica.

Ed infatti lo stesso Draghi – subito dopo aver parlato del (preteso) ruolo centrale della Commissione nelle consultazioni di luglio – chiosa: “in futuro speriamo che il processo decisionale torni così a essere meno difficile, che rifletta la convinzione, sentita dai più, della necessità di un’Europa forte e stabile, in un mondo che sembra dubitare del sistema di relazioni internazionali che ci ha dato il più lungo periodo di pace della nostra storia”. E ancora: “non dobbiamo dimenticare le circostanze che sono state all’origine di questo passo avanti per l’Europa: la solidarietà che sarebbe dovuta essere spontanea, è stata il frutto di negoziati. Né dobbiamo dimenticare che nell’Europa forte e stabile che tutti vogliamo, la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà”.

Dunque – proprio perché Draghi sa tutto questo e sa anche che in Europa tutti sanno che lui sa come davvero stanno le cose nell’UE – in realtà Draghi, in questa ultima parte del discorso, sta mandando un messaggio alle cancellerie di alcuni stati europei, dicendo loro – seppure in modo trasversale e garbato – che se andranno avanti come prima a concepire l’unione europea come uno strumento per perseguire i propri interessi nazionali a danno di altri stati membri, questa volta rischiano davvero – per effetto della crisi economica e sociale che seguirà al Covid – di far saltare il banco per tutti quanti (e non solo in Europa).

Mario Draghi è del resto la persona più qualificata per mandare un simile messaggio. Come si è già avuto modo di segnalare, già una volta Draghi ha infatti salvato il sistema dal collasso con il suo bazooka (per cui pure, nonostante ciò, è stato a suo tempo fortemente criticato dai soliti rigoristi del nord) e ora – sapendo bene che la leva monetaria della BCE potrebbe iniziare a girare a vuoto se, come accaduto sinora, il quantitative easing non venisse indirizzato verso l’economia reale in modo da farla tornare a crescere a ritmi sostenuti – dice a chi di dovere che, di fronte a una crisi epocale e simmetrica come quella del Covid, il “whatever it takes” è oggi che l’UE riesca ad adottare una politica economica espansiva fondata sull’emissione di “veri” eurobond da parte di un “vero” ministero del tesoro UE (e – possibilmente, ma questo Draghi non l’ha detto – con una BCE che abbia gli strumenti per giocare il ruolo di “vero” prestatore di ultima istanza).

Altrimenti – se si continuerà ad insistere con la vecchia ricetta dell’unione monetaria in uno spazio di libero scambio, i cui squilibri potrebbero essere risolti da “salvataggi” a colpi di prestiti e austerità, dunque senza strumenti di compensazione solidaristica che riducano gli effetti deflattivi degli “aiuti” sulle economie più deboli – il Covid potrebbe realmente innescare una successione di eventi che, partendo dall’Europa, potrebbe mandare a gambe all’aria tutto il sistema. E ricordiamoci che per “sistema” non deve intendersi, questa volta, solo la moneta unica e neppure solo l’Unione Europea, bensì l’intero sistema fondato sul multilateralismo che consente la globalizzazione degli scambi economici e finanziari. E questo è uno scenario che non può non preoccupare i signori di Wall Street, che sulla globalizzazione hanno costruito le loro (immense) fortune.

Che questo sia il messaggio sotteso al discorso di Draghi risulta anche per il fatto che – subito dopo – lo stesso Draghi afferma che sarebbe un errore derubricare i timidi passi in avanti fatti sinora nel senso di una costruzione europea “diversa” come altrettanti rimedi temporanei dovuti al Covid: “questo passo avanti dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale. Allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia sono temporanei. Potremo bensì considerare la ricostruzione delle economie europee veramente come un’impresa condivisa da tutti gli europei, un’occasione per disegnare un futuro comune, come abbiamo fatto tante volte in passato”.

Chi vuole che la moneta unica e l’Unione Europea abbiano un futuro – per Draghi – deve dunque spingere oggi per “la creazione di nuove regole e di nuove istituzioni” tendenzialmente stabili, che possano adottare strumenti di aiuto economico finalizzati alla crescita e finanziati con emissione di titoli di debito comune, non certo con un allentamento temporaneo delle rigide regole sul rapporto deficit/pil insieme a qualche “vecchio” strumento finanziario (come MES, Sure o recovery fund), pure temporaneo e rigorosamente vincolato a uno scopo, con cui si crea debito da ripagare secondo le regole consuete e magari pure imponendo a chi ne fruisce altri giri di austerità (ossia soluzioni pro cicliche che, in temi di deflazione, innescano solo recessioni peggiori). In pratica: se è vero – come è vero – che l’introduzione dell’euro, la creazione del mercato unico, la condivisione europea di una disciplina dei bilanci nazionali e l’unione bancaria (tutte misure che Draghi diligentemente elenca nel suo discorso come altrettanti risultati positivi della costruzione unionista), hanno sinora avvantaggiato le economie di alcuni stati membri a scapito di altri, è arrivato il momento – se non si vuole veder franare il progetto (col rischio che questo fallimento trascini con sé la stessa globalizzazione economica e il sistema finanziario che su questa globalizzazione fonda i propri profitti) – di rimettere in equilibrio l’architettura fondamentale dell’unione, introducendo – non certo rimedi temporanei e pezze provvisorie – bensì correttivi strutturali e duraturi che rimedino in via definitiva ed effettiva alle sue asimmetrie.

In sintesi: il messaggio mandato da Rimini potrebbe essere che alcuni ambienti (finanziari e non solo) al di fuori dell’Europa – segnatamente tra quelli che sono in grado di muovere immensi capitali con un click, di influire sull’andamento dello spread e di indicare la rotta alle agenzie di rating – potrebbero non avere più interesse a sostenere l’ostinazione con cui certi stati impongono alle istituzioni dell’UE una agenda di politiche economiche (pro cicliche, deflattive e mercantiliste) che non vengono più ritenute da questi stessi ambienti la risposta più adeguata a una fase di prolungata depressione economica e di forti tensioni politiche e sociali, quale quella che si prospetta per gli anni a venire. Per farla ancora più breve: i signori del danaro fanno capire ai politici europei che in questa fase occorre ricostruire e che per ricostruire occorre far crescere l’economia facendo debito pubblico, non prestare soldi a strozzo agli stati più deboli, anche a costo di smenarci qualcosa sul breve periodo, perché i danni potenziali sul lungo periodo potrebbero essere immensamente maggiori.

   10.- Ma veniamo alle ricadute del discorso di Draghi sulla situazione italiana, facendo anzitutto un riassunto di quel che abbiamo detto sin qui. Il discorso di Draghi, come si è detto, intendeva probabilmente far capire – dalle parti di Berlino e Bruxelles – che a Wall Street temono che l’Unione Europea – di fronte all’aggravarsi della crisi economica globale provocata dal Covid – se non cambia registro potrebbe prima perdere pezzi essenziali e poi implodere. E non è improbabile che un simile processo di disgregazione possa partire proprio dall’Italia, il cui governo nazionale – sostenuto da uno scarso consenso nel paese, tecnicamente poco attrezzato per reagire ad eventi epocali e che, per prestare ossequio all’europeismo ad oltranza del PD, ha risposto all’emergenza economica da Covid con misure deboli nel quantum e assai poco espansive nel quomodo – si troverà, già da settembre, a fronteggiare una grave crisi sociale ed economica che potrebbe condurre il paese ad esprimere alla prossima tornata elettorale una maggioranza che potrebbe portarla ad uscire dall’Euro e, a quel punto, anche dall’Unione Europea (un’Italia che resta nell’UE, ma senza più la palla al piede dell’Euro sopravvalutato rispetto alla moneta nazionale, sarebbe infatti un concorrente troppo pericoloso per la Germania).

L’italexit potrebbe tuttavia a sua volta indurre qualche altro stato ad uscire dal sistema, ma soprattutto – a quel punto, ossia con il suo principale concorrente che torna ad essere competitivo con una moneta svalutata – potrebbe essere la stessa Germania a non avere più tutto questo interesse a restare nell’unione insieme a stati come Spagna e Francia (dunque a Berlino potrebbero pensare di crearsi una nuova unione con Olanda e Danimarca, i paesi baltici e scandinavi e alcuni paesi dell’est). Sennonché l’indebolimento (o, ancora peggio, la caduta) dell’UE in una situazione di debolezza economica mondiale (e di aspra conflittualità tra gli USA e la Cina) implica la possibilità – specie se a novembre Trump dovesse ottenere il suo secondo mandato presidenziale – di un ritorno alla logica del bipolarismo dei blocchi contrapposti est-ovest, mettendo fine alle condizioni che hanno sinora consentito lo sviluppo ottimale del sistema del commercio globalizzato fondato su WTO, OCSE e FMI e che attualmente avvantaggia non solo (gli investitori di) USA ed Europa ma anche la stessa Cina.

Il timore che questo scenario si avveri, come si diceva, rende auspicabile – per chi trae vantaggi dal sistema attuale (dunque in particolare i grandi investitori finanziari istituzionali, ma forse anche della stessa Cina) – che, sul medio-lungo periodo, venga avviata una riforma del sistema UE in senso più espansivo e keynesiano e, di conseguenza, meno sbilanciato a favore degli interessi della Germania. Questo significa anche che quegli stessi investitori e stakeholder – nel breve periodo, ossia prima di verificare se e in che tempi sia possibile un eventuale processo di ristrutturazione dell’unione europea – potrebbero avere un preciso e convergente interesse a che l’UE riesca efficacemente ad arginare la crisi economica in Italia (ma anche in Spagna e Francia, che non stanno messe tanto meglio di noi), in modo appunto da evitare che l’avvento al potere, in questi stati, delle forze euroscettiche possa portare all’uscita di qualche paese “pesante” dal sistema dell’Euro o dall’UE. Sennonché – quanto meno a giudicare da quel che si è visto nelle trattative di luglio –  non pare proprio che l’UE di oggi – ancora monopolizzata dagli interessi strategici della Germania e dei suoi paesi satelliti e  dunque ancora sostanzialmente sorda a qualunque tentativo di discostarsi dalle consuete politiche di rigore e austerità – sia in grado (ma sopratutto manifesti una volontà politica) di adottare gli strumenti che consentirebbero di ovviare a questo rischio.

Mettere un Mario Draghi al timone dell’Italia in tempi brevi potrebbe essere allora un buon modo (forse l’unico) per creare una convergenza (magari – appunto – proprio con Spagna e Francia e con l’importante “appoggio esterno” della finanza di Wall Street) per tentare di convincere i “falchi del nord” circa la necessità di una riforma strutturale dell’UE. Altrimenti – vuoi per l’intransigenza teutonica nel difendere i propri interessi nazionali e vuoi per la ormai conclamata incapacità dell’attuale esecutivo italiano di affrontare la crisi economica in da indurre una ripresa nel paese – si potrebbe venire a creare proprio in Italia la tempesta sociale ed economica perfetta. Tempesta in seguito alla quale – a valle delle prossime elezioni politiche – si potrebbe avviare il processo politico che, verosimilmente passando per una serie di “dure” proposte di Roma altrettanto duramente rifiutate da Berlino e Bruxelles, porterà all’italexit, dunque ad un colpo micidiale per la tenuta dell’UE, la cui esistenza è a sua volta un fattore di equilibrio per la conservazione del sistema economico e finanziario fondato sulla globalizzazione degli scambi di merci e capitali.

E’ insomma immaginabile che – specie se Trump dovesse vincere le presidenziali di novembre – giocare la carta Draghi in Italia potrebbe rappresentare un scelta obbligata per quelli che – dentro e fuori Europa – hanno interesse a evitare che l’eventuale indebolimento progressivo dell’UE porti a ripercussioni globali che potrebbero recare danni ai loro interessi economici, finanziari e strategici. Mi riferisco ovviamente ai padroni di Wall Street, a Washington (specie se vincerà Trump) e a parte dell’industria europea. Ma non solo. Contando infatti che la globalizzazione – proprio in questa fase di uscita dal Covid – sta avvantaggiando l’economia cinese più di altre, stabilizzare l’Europa potrebbe divenire una priorità anche per il dragone, che – messo di fronte al rischio di Italexit (e soprattutto di una Italia antitedesca che a quel punto potrebbe essere attratta totalmente nell’orbita USA, lasciando sguarnita la via della seta) – potrebbe non avere più tutto questo interesse a sostenere ad ogni costo né la leadership tedesca in Europa né – di conseguenza – un governo filotedesco in Italia.

Se si manifestasse dunque questa convergenza di interessi tra Wall Street, Washington e Pechino, ecco che Mario Draghi primo ministro a Roma potrebbe essere lo strumento ideale con cui mettere Berlino e i suoi alleati europei di fronte a una scelta: o accettano di rinegoziare le regole dell’unione in modo meno favorevole ai loro interessi o si assumono il rischio – e la responsabilità politica – di mandare a gambe all’aria l’Unione Europea e, con essa, forse l’intera globalizzazione. In questo scenario non va sottovalutato il ruolo di Parigi, che a sua volta potrebbe anche non voler entrare – per causa dei tedeschi – in rotta di collisione (ossia in una guerra commerciale di altri quattro anni) con gli USA, anche contando che nello scacchiere africano sarà prima o poi inevitabile che gli interessi di Parigi finiranno per incontrare l’ostacolo dell’espansionismo cinese.

   11.- Al termine di questo lungo discorso possiamo dunque tentare di dare una (mezza) risposta alla domanda da un milione di dollari (quella che anche voi lettori con tutta probabilità vi starete facendo in questo momento): il discorso di Rimini prelude all’assunzione di ruolo attivo di Mario Draghi nella politica nazionale? La risposta è che si tratta di uno scenario probabile, ma che si manifesterebbe comunque non prima di novembre.

Prima di capire in che modo gestire lo scacchiere europeo (e – di riflesso – come trattare la questione Italia), a Wall Street, Parigi e Pechino devono infatti sapere chi darà le carte oltre atlantico per i prossimi quattro anni. In particolare, a Wall Street devono capire se il tesoro americano continuerà a fornire la garanzia, come ha fatto sinora Trump, che – in caso di dissesto del sistema bancario Tedesco (e Francese) – la Fed coprirà con l’emissione di nuova moneta le perdite delle banche e dei fondi statunitensi esposti verso quei sistemi. A Parigi devono capire se restare alleati con Berlino implicherà il fatto di essere trascinati in una guerra commerciale contro gli USA – combattuta a colpi di dazi – per almeno altri quattro anni. A Pechino devono capire se dovranno affrontare altri quattro anni di scontro con Trump e soprattutto se Berlino – che, con l’elezione di Trump, entrerebbe in altri quattro anni di guerra commerciale con gli USA e che, con la sua intransigenza nell’esercitare la propria egemonia nella politica economica unionista, rischia davvero di spingere l’Italia in crisi nelle braccia di Trump e verso l’italexit – è ancora un cavallo su cui puntare incondizionatamente.

Tutto questo mi induce a ritenere che se le prossime presidenziali USA saranno vinte da Trump è probabile che – per evitare elezioni anticipate in Italia – “qualcuno” potrebbe far presente a chi di dovere che è arrivato il momento di mandare a casa un governo chiaramente inadeguato (sinora mantenuto in vita solo per tatticismi politici nazionali) per chiedere a Mario Draghi di scendere in campo per salvare il salvabile nel nostro paese, ma – soprattutto – per tentare di creare le condizioni per iniziare ad attuare il programma di Rimini a livello di UE. Se le mie supposizioni sono anche solo in parte vere si tratterà peraltro di “qualcuno” cui le nostre istituzioni e le nostre forze politiche non avranno grande possibilità di dire no. Se invece a novembre negli USA vincesse Biden, è meno probabile che un governo Draghi arrivi in tempi brevi, dovendo gli stakeholder capire prima quale sarà l’atteggiamento che la nuova amministrazione USA assumerà sia nei confronti del dragone che – soprattutto – del mercantilismo tedesco.

Sta di fatto che – appena un paio di giorni dopo il discorso di Draghi a Rimini – sulla stampa tedesca è uscito un articolo che definiva il governo Conte come “molto affidabile” per i tedeschi ed è pure arrivato in visita in Italia niente meno che il ministro degli esteri Cinese, dunque il rappresentate di un paese che appoggia (oltre all’attuale governo italiano) anche la leadership tedesca in Europa. Sarà una coincidenza? Forse. O forse per niente. Al di là delle alpi – infatti – Mario Draghi, non solo non è mai stato un granché amato, ma anzi è molto temuto, proprio per il fatto che – quando era Governatore della BCE – è stato l’unico (italiano) che è riuscito a far fare all’UE qualcosa che i tedeschi non volevano fare (qualcosa che però ha salvato l’UE, anche se questo a Berlino non lo ammetteranno mai apertamente e forse li fa irritare ancora di più).

La paura di Frau Kanzler Merkel – e forse anche di Pechino – è infatti che si possa creare la situazione per cui un Supermario appoggiato da Washington e Wall Street potrebbe promuovere un bis del suo celeberrimo “whatever it takes” come capo del governo italiano, magari come primo passo verso un gran finale come Presidente delle Repubblica italiana (invece dell’ultasinofilo Romano Prodi) se non, addirittura, come primo Ministro del Tesoro UE. Che ai tedeschi non piaccia perdere è noto, così come è noto che sono anche molto bravi nell’esercitare la propria egemonia per ottenere la vittoria. La storia degli ultimi due secoli dimostra tuttavia che la Germania ha finito per perdere tutte le grandi guerre a causa della smania di voler stravincere (mettendosi contro tutti quanti) quando stava già vincendo. Tutto questo per dire che – causa Covid – è verosimile che nei prossimi mesi si creino i presupposti storici e geopolitici per qualche sorpresa di non poco conto ed è probabile che Mario Draghi faccia (già ora) parte del quadro.