La vulnerabilità dei conti pubblici dell’Italia

Sono passati ormai 10 anni dall’Appello degli economisti più o meno marxisteggianti in favore di una stabilizzazione del debito pubblico, cui allora si contrapponevano i fautori del suo abbattimento. In quell’anno, era il 2006, l’economia si stava riprendendo, Prodi aveva appena vinto le elezioni, e il timone dell’economia era affidato al compianto ministro Padoa‐Schioppa.

Però il debito dell’Italia era alto, l’Europa ci invitava a ridurlo, e le agenzie di rating ci tenevano sotto tiro.

Come si sono dunque evoluti i conti pubblici in Italia? E cosa è successo nelle altre principali economie avanzate? Lo spread è forse lo strumento più utilizzato per misurare il grado di vulnerabilità di un paese, ma la differenza fra rendimenti dei titoli di Stato di un paese rispetto a quelli della Germania non è forse l’unico modo per valutare la performance di un’economia. In questo rapporto vedremo alcune misure alternative così come analizzeremo i fattori che influenzano lo spread tradizionalmente inteso.

Vulnerabilità dei conti pubblici




Il Gender gap negli anni della crisi

Questa crisi economica che ormai dura da molti anni ha lasciato segni evidenti sul sistema economico del nostro paese. Il forte calo del potere d’acquisto (-9,1% fra il 2008-2014) si è accompagnato ad una caduta dei consumi delle famiglie (-5,7%). Il Pil è sceso dell’8,1% e il numero dei lavoratori in Italia è complessivamente calato di circa 800mila unità.

Il rallentamento dell’economia ha avuto un impatto molto forte, riducendo dal punto di vista quantitativo il potenziale produttivo dell’Italia. Ciò che però questi soli dati non ci consentono di capire è se questa lunga recessione abbia modificato il sistema anche da un punto di vista qualitativo.

In questo rapporto cercheremo dunque di capire se la crisi abbia contribuito a modificare alcuni squilibri del nostro paese, in due settori chiave per la crescita economica: l’istruzione (scuola e università) e il mercato del lavoro.

Valuteremo l’evoluzione del gender gap prima (2004-2008) e dopo (2008-2014) l’inizio della fase recessiva. Il calcolo di questa “doppia differenza”, una differenza nel tempo (pre-post) e una differenza di genere, ci permetterà di capire se la crisi abbia contribuito o meno ad accentuare i divari di genere.

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La Terza Società

Quando si parla del sistema sociale e delle sue divisioni si fa per lo più riferimento a due tipi di fratture sociali fondamentali.

La prima è quella dei livelli di reddito, che permette di suddividere la popolazione in strati più o meno numerosi, dai poveri assoluti fino all’élite dei super-ricchi, passando per la vasta area dei ceti medi. E’ in questo filone che si collocano le indagini campionarie sui bilanci familiari, come quelle dell’Istat e della Banca d’Italia.

Il secondo tipo di frattura riguarda i rapporti sociali, e conduce a suddividere la popolazione in grandi classi sociali. Un filone che nel mondo anglosassone deve molto agli studi di Golthorpe, e che in Italia era stato inaugurato da Sylos Labini, con il suo famoso Saggio sulle classi sociali.

Oggi entrambi gli approcci precedenti mostrano limiti piuttosto severi. L’approccio in termini di livelli di reddito, inevitabilmente condotto a partire dalle condizioni economiche della famiglia, finisce per cancellare le differenze, storicamente sempre più importanti, fra percettori di reddito e membri mantenuti o sussidiati. L’approccio in termini di grandi classi sociali, a sua volta, deve fare i conti con lo svuotamento tendenziale delle grandi classi sociali del passato, come la classe operaia e i contadini.

Ma la difficoltà fondamentale di un’analisi attuale delle divisioni sociali sta nel fatto che oggi nel luogo centrale che genera le differenze sociali, ossia il mercato del lavoro, opera ormai una minoranza della popolazione (circa 25 milioni di persone su 60, nel caso italiano), minoranza al cui interno i capifamiglia che lavorano costituiscono, a loro volta, una ancor più esigua minoranza (circa 12 milioni di persone su 60).

Il fenomeno centrale del nostro tempo, almeno in un paese come l’Italia, è la formazione di un segmento sociale che, pur facendo parte della popolazione potenzialmente attiva (in quanto disponibile a lavorare) vive nondimeno una condizione di grave e radicale esclusione dal circuito del lavoro regolare. In un precedente Rapporto della Fondazione David Hume abbiamo denominato questo segmento “Terza società”, in contrapposizione alla “Prima società” (la società dei garantiti) e alla “Seconda società” (o società del rischio” (Vedi FDH 2005, Ricolfi 2007).

In questo Dossier approfondiamo l’analisi di questo segmento di esclusi, o outsider, da tre prospettive:

  1. la sua evoluzione nel tempo;
  2. la sua ampiezza in Italia, in confronto ad altri paesi avanzati;
  3. il suo orientamento politico.

Per ricostruire gli orientamenti politici dei membri della Terza Società abbiamo commissionato un’apposita indagine demoscopica alla Società Ipsos.

Terza società




Luci ed ombre del Mezzogiorno

L’analisi delle cause del ritardo del Mezzogiorno va avanti da molto tempo. Di “questione meridionale” si parla ormai dalla seconda metà dell’Ottocento (Ricolfi, 2010), dai tempi l’Unità d’Italia.

Che nel nostro Paese ci siano ancora oggi differenze territoriali evidenti è indubbio. Basta dare uno sguardo al tenore di vita della popolazione misurato in termini di Pil pro-capite: quello del Centro-Nord è circa una volta e mezzo quello del Mezzogiorno. E questo rapporto di svantaggio si ripresenta anche quando si passa ad osservare il tasso di occupazione. Lo sviluppo del Sud, dunque, continua a rappresentare un nodo strategico per lo sviluppo del Paese.

In una fase di crisi economica come quella che ancora oggi stiamo vivendo, diventa interessante chiedersi come ha reagito il Mezzogiorno alla lunga fase recessiva. Il divario territoriale si è forse allargato o il Sud ha seguito le dinamiche del Centro-Nord?

Possiamo fare un primo e sintetico bilancio, considerando alcuni indicatori chiave non soltanto economici.

Mezzogiorno




Tre bugie “politiche” (e tre amare verità)

“Le bugie hanno le gambe corte”. Si potrebbe pensare che il detto popolare riguardi solo la vita quotidiana di noi comuni mortali, ma non quella dei politici, che paiono godere di una sorta di “licenza di mentire”.

In parte è così. E tuttavia, quando si esagera, la realtà presenta il conto anche ai politici. E’ quel che in questi mesi sta succedendo all’ex presidente del consiglio Matteo Renzi. Una dopo l’altra le sue sparate di questi tre anni si trovano a dover fare i conti con la dura, pietrosa realtà delle cose, o con la “verità effettuale”, come avrebbe detto Niccolò Machiavelli.

Tre, in particolare, sono le verità che stanno venendo inesorabilmente a galla. La prima è quella dello stato di salute del nostro sistema bancario. Dopo essere stati rassicurati innumerevoli volte sulla sua solidità, dopo essere stati avvertiti che il nostro sistema è più forte e più sano di quello tedesco, dopo aver assistito a ripetuti rinvii degli interventi sulle banche in dissesto in attesa di momenti politici più opportuni (dopo il referendum, dopo le amministrative, …), ecco che, alla fine, la soluzione trovata è stata quella di appesantire i bilanci delle banche sane (fondo di risoluzione Atlante), penalizzare gli azionisti, fare altro debito pubblico, come se quello che abbiamo non bastasse. Qualcuno ha provato a fare i conti, e la cifra totale viaggia sui 30 miliardi di euro, una parte dei quali peseranno sulle nuove generazioni, che vedono aumentare il fardello del debito pubblico. E il grave è che, secondo tutti gli osservatori, il conto sarebbe stato molto meno salato se si fosse agito prima, anziché rispolverare l’antica arte democristiana di spostare i problemi avanti nel tempo.

C’è poi una seconda verità. Ci è stato detto che le tasse sono state ridotte, e così la spesa pubblica. Il commissario alla spending review, Yoram Gutgeld, è arrivato a parlare di 29.9 miliardi di “capitoli di spesa eliminati e/o ridotti” nel 2014-2017. Un esempio da manuale di mezza verità che, a ben guardare, si rivela una bugia. Quel che si dimentica, infatti, è un particolare essenziale, e cioè che le nuove spese superano ampiamente le vecchie spese cancellate o ridotte, sicché la spesa pubblica complessiva è aumentata, non diminuita.

Di quanto? Difficile dirlo, perché ovviamente mancano ancora i dati del 2017, però qualcosa di abbastanza preciso si può desumere dal Conto Economico delle Amministrazioni Pubbliche (dati 2013-2016). Nel 2016 le spese correnti sono aumentate di 14.7 miliardi rispetto al 2014 e di 22 miliardi rispetto al 2013, il che vuol dire che, se i conti di Gutgeld sono corretti, il governo guidato da Renzi ha fatto circa 50 miliardi di spesa pubblica corrente addizionale. Quanto alle entrate totali della Pubblica Amministrazione, i dati più recenti (primo trimestre del 2017) mostrano che la pressione fiscale è leggermente più alta di quanto fosse tre anni prima (primo trimestre del 2014). Della più volte sbandierata promessa di abbattere le tasse non v’è traccia nei conti ufficiali dell’Istat.

Ci sarebbe, poi, una terza verità, che seppellisce anni di bugie sulla sostenibilità dei nostri flussi migratori. Dopo aver predicato ai quattro venti l’ impossibilità di fermare gli sbarchi, dopo aver deriso e disprezzato le tesi di quanti ritenevano eccessiva ed autolesionistica la nostra politica di accoglienza, tanto generosa nelle intenzioni quanto stracciona e disorganizzata nei fatti, ora è addirittura il ministro dell’Interno, Marco Minniti, a ipotizzare l’eventualità di un blocco navale, che fermi l’ingresso nei nostri porti delle navi straniere che raccolgono migranti in prossimità delle coste africane e li riversano in Italia. Quel che era giuridicamente impossibile (“il diritto internazionale non ce lo permette”) quando a proporlo erano gli altri, diventa improvvisamente un’opzione sul tavolo del Governo quando a ipotizzarlo è un ministro del Pd.

Strano modo di ragionare. Il numero di sbarchi ha raggiunto livelli insostenibili fin dal biennio 2013-2014, giusto ai tempi in cui Renzi disarcionava Enrico Letta ingiungendogli di star sereno. Da allora le cose non sono mai cambiate, anzi sono peggiorate un po’. Il numero di sbarchi del 2014-2017 è 10 volte quello degli anni precedenti. Ci sono persino stati, in questo triennio, momenti in cui gli sbarchi di un solo giorno hanno superato quelli di un intero anno del passato. Eppure, il problema viene scoperto solo ora. Solo ora si comincia a notare che la maggior parte dei migranti non ha diritto allo status di rifugiato. Solo ora ci si accorge che le strutture di accoglienza sono al collasso. Solo ora ci si accorge dell’enorme costo che la gestione dei migranti comporta per il bilancio pubblico. Solo ora ci si rende conto che i ceti popolari non vedono affatto bene l’ingresso continuo di migranti irregolari.

E non hanno torto. E’ strano che nessuno l’abbia ancora fatto notare, ma il bilancio economico dei flussi migratori è imbarazzante. Oggi lo Stato spende, per combattere la povertà assoluta, meno della metà di quello che spende per l’accoglienza, e circa un decimo di quel che sarebbe necessario per debellare la povertà. E, paradosso nel paradosso, più di un terzo degli stranieri residenti in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta.

Questo significa che uno degli esiti dell’immigrazione è di aumentare l’esercito dei poveri. Ma l’altro esito è di rendere impossibile una vera lotta contro la povertà, perché le politiche di accoglienza bruciano più risorse di quante i governi siano disposti a spendere per combattere la povertà.

Pubblicato su Panorama il 06 luglio 2017