La battaglia delle tasse

Un tempo era l’Irpef. Negli anni ’90 la sinistra si preoccupava di ridisegnare la curva delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche. Poi vennero Berlusconi e il suo “Contratto con gli italiani”, che al primo punto prometteva due sole aliquote Irpef, una al 23%, l’altra al 33%. E poi venne Renzi, che nel dubbio fra ridurre l’Irap o ridurre l’Irpef, alla fine scelse l’Irpef anche lui: meglio mettere 80 euro in busta paga ai ceti medio-bassi che alleggerire le tasse sulle imprese (Irap e Ires).

Oggi la stagione dell’Irpef, vista come imposta super-star da cui tutto dipende, sembra perdere un po’ dello smalto di un tempo. Un po’ perché tutte le forze politiche si stanno rendendo conto che è sul sistema fiscale e contributivo nel suo insieme che occorre agire, anziché su una singola imposta. Ma un po’, anche, perché le uniche proposte abbastanza precise in campo sono quelle basate su qualche forma di flat tax, o “aliquota unica”, che tenderebbe a unificare, in tempi più o meno rapidi, le principali imposte vigenti, ovvero Irpef (persone), Iva (valore aggiunto), Ires (imposta sulle imprese), nonché le tasse sulle rendite finanziarie. Per non parlare di un ulteriore elemento che spinge verso un approccio sistemico: la crescente consapevolezza che il costo del lavoro è gravato, in Italia, da contributi sociali eccessivi, che fanno lievitare i costi delle imprese e scoraggiano le assunzioni.

In questo quadro in movimento, mi pare si stiano perdendo di vista alcuni elementi di criticità.

Il primo è che qualsiasi proposta di riduzione delle tasse che non abbia potenti coperture dal lato della spesa o da quello delle privatizzazioni significa solo, in buona sostanza, proseguire sul cammino su cui l’Italia è avviata dal lontano 1964, quando, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, nel bilancio pubblico si aprirono le prime crepe: spostare l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni future. Su questo l’unica forza politica che sembra avere le idee chiare (o, se preferite, che ha avuto l’onestà di dichiarare le proprie intenzioni) è il Pd: al partito di Renzi va bene fermare la discesa del rapporto deficit/Pil e riportarlo in prossimità del 3% per diversi anni, il che, in concreto, significa che a pagare i nuovi debiti che faremo saranno le future generazioni. Quanto al centro-destra e al Movimento Cinque Stelle è difficile decifrare le loro intenzioni, ma tutto fa pensare che, al momento buono, anch’essi cercheranno di ottenere dall’Europa il massimo della “flessibilità” possibile, dove la parla flessibilità è solo un eufemismo per più deficit e più debito pubblico.

Un secondo elemento di criticità è l’impatto della flat tax, ovvero di un’imposta unica su tutti i tipi di redditi. L’idea che essa sia incostituzionale (perché la nostra Carta fondamentale prevede la progressività) è una scempiaggine, dal momento che tutte le proposte di flat tax in campo sono progressive (grazie a no tax area, deduzioni, scaglioni, ecc.). Ma il timore che essa, in assenza di una adeguata emersione del sommerso, possa allargare la voragine del debito pubblico o costringere a tagli della spesa pubblica assai dolorosi, è tutt’altro che infondato.  Specie se, anziché adottare la già audace (ma ben articolata) proposta dell’Istituto Bruno Leoni, che prevede un’aliquota unica al 25%, ci si spingesse verso un’aliquota del 23% (Forza Italia) o addirittura del 15% (Lega).

Una terza criticità riguarda il sostegno delle famiglie al di sotto della soglia di povertà, un tema che non può essere eluso da una riforma complessiva del sistema fiscale. Ebbene su questo nessuna forza politica pare aver fatto i conti con un gravissimo problema di giustizia distributiva: calcolare la soglia di povertà in modo nominale, ovvero senza tenere conto del livello dei prezzi (più alto al Nord e nelle città), significa discriminare i poveri delle regioni settentrionali rispetto a quelli delle regioni meridionali, gli abitanti delle città a favore di quelli delle campagne. Fra le proposte in campo, mi pare che solo quella dell’Istituto Bruno Leoni prenda sul serio il problema, ma sfortunatamente il think tank guidato da Nicola Rossi e Alberto Mingardi non è una forza politica.

Ci sarebbe, infine, un’ultima criticità da segnalare. Le proposte fiscali, in Italia, sembrano avere un unico vero scopo: massimizzare il consenso di breve periodo. Non è sempre e ovunque così, nel resto delle economie avanzate. Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, stanno puntano molto su una riduzione della pressione fiscale sui produttori, a partire dall’abbattimento dell’imposta societaria (Ires e Irap, nel nostro ordinamento). E lo stanno facendo per una ragione molto semplice: solo così, in un mondo in cui la concorrenza internazionale è sempre più agguerrita, possono pensare di attrarre investimenti esteri e dare una spinta significativa al Pil.

Credo che dovremmo pensarci anche noi, perché l’anomalia degli ultimi 20 anni è che il tasso di crescita del Pil e quello dell’occupazione sono rimasti sostanzialmente appaiati, un fatto che significa una cosa soltanto: la produttività media del sistema Italia è sostanzialmente ferma dalla fine degli anni ’90. Forse, anziché incentivare direttamente le assunzioni, dovremmo chiederci se non sarebbe meglio mettere le imprese nelle condizioni di crescere abbastanza in fretta da costringerle ad assumere. Il risultato, verosimilmente, non sarebbe solo una dinamica dell’occupazione più vivace, ma anche un aumento della quota di assunzioni a tempo indeterminato: che non dipende dalla benevolenza degli imprenditori, ma dalla ragionevole convinzione che domani si dovrà produrre più di oggi.

Pubblicato su Il Messaggero




Conti pubblici, una farsa che dura da molti anni

La Commissione europea non è soddisfatta dei nostri conti pubblici. Nel linguaggio paludato e un po’ criptico che caratterizza gli scambi fra gli uffici del ministero dell’Economia e quelli della Commissione, ci ha fatto sapere che i nostri conti non la convincono, né sul 2017 né per il 2018.

Una prima lettera è partita alla fine di ottobre. Ma la risposta del ministro Padoan non ha convinto. Lo ha detto chiaramente il vicepresidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, la settimana scorsa: “Tutti possono vedere che la situazione in Italia non migliora”.

Quindi un’altra lettera è in corso di preparazione, e sarà inviata a breve al nostro Governo. Ma il giudizio finale della Commissione sui conti pubblici dell’Italia arriverà solo a maggio 2018, quando i buoi della spesa pubblica saranno già scappati dalle stalle.

Questo rituale, che si ripete tutti gli anni, è curioso. In autunno il Governo vara la cosiddetta Finanziaria, con relativo assalto alla diligenza da parte di sindacati e gruppi di pressione. La Commissione europea esprime dubbi e richieste di chiarimento, ma poi lascia fare, rimandando il giudizio definitivo alla primavera dell’anno dopo. Quando la primavera arriva si comincia a capire che i numeri dei conti pubblici non potranno mai essere quelli promessi perché l’economia, quella birichina, vuol fare tutto di testa sua e non si adegua alle previsioni dei governanti italiani. A quel punto però è tardi, e tutto quel che la Commissione Ue può fare è raccomandare una “manovrina” correttiva, e di comportarsi meglio l’anno successivo. Il nostro governo risponde che sì, si impegnerà molto (da un po’ di tempo però preferisce parlare di “sforzi” messi in atto, o da mettere in atto), e che gli obiettivi mancati quest’anno saranno raggiunti l’anno prossimo. L’anno prossimo arriva, le cifre non sono quelle messe nero su bianco l’anno prima, e la commedia ricomincia.

Poiché si tratta di una commedia, è abbastanza inutile rileggersi il copione nei minimi dettagli, entrando nelle infinite diatribe che caratterizzano questi balletti di cifre, apparentemente tecnici ma in realtà tutti politici: con quale modello statistico calcolare il PIL potenziale e l’output gap, come determinare l’avanzo primario strutturale, quali sono i margini di flessibilità cui l’Italia ha diritto.

Meglio andare direttamente al punto: come stanno evolvendo i conti pubblici dell’Italia?

Per rispondere a questa domanda occorre, a mio parere, distinguere due aspetti del problema. Il primo aspetto è la salute delle nostre finanze pubbliche, il secondo è la loro capacità di resistere ad un’eventuale impennata dei tassi di interesse. Anche se, nel lungo periodo, si tratta di due facce della stessa medaglia, nel breve periodo possono divergere un po’: un paese come il nostro, con conti in cattiva salute, può risultare più o meno vulnerabile a seconda dell’andamento di altri aspetti della sua economia.

Se ragioniamo sulla salute, quel che dobbiamo chiederci è come stanno evolvendo i due fondamentali indicatori di malattia, ovvero il rapporto debito/PIL e l’avanzo primario strutturale (corretto per il ciclo e le una tantum). Ebbene, su entrambi i fronti le cose non vanno bene, come ha mostrato in modo inoppugnabile Veronica De Romanis usando serie storiche prodotte da organismi internazionali (dati e grafici reperibili sul nostro sito). Nonostante le promesse renziane di ridurlo, il rapporto debito/PIL è oggi più alto che nel 2013-2014, e presumibilmente non inizierà a scendere in modo apprezzabile neanche quest’anno (anzi, secondo la Commissione europea aumenterà leggermente). Ancora più grave la situazione dell’avanzo primario corretto per il ciclo, che negli ultimi anni è sempre peggiorato, e presumibilmente continuerà a farlo quest’anno.

Se dalla salute dei conti pubblici passiamo alla capacità di resistenza (o al suo opposto: la vulnerabilità), il quadro si fa un po’ meno scoraggiante. La vulnerabilità dei conti pubblici, ovvero il rischio che una nuova crisi finanziaria faccia schizzare in alto lo spread (come nel 2011-2012), non dipende solo dall’ampiezza del debito pubblico ma anche da altri fattori, come il debito privato, l’andamento del Pil e quello dell’inflazione. Se, per misurare la vulnerabilità, usiamo l’indice di vulnerabilità strutturale elaborato dalla Fondazione David Hume, possiamo notare che la vulnerabilità dei nostri conti pubblici è leggermente aumentata nel triennio 2014-2016, ma nel corso del 2017 risulta in diminuzione, cioè in sensibile miglioramento (dati e grafici sul nostro sito). La ragione è molto semplice: grazie alla ripresa in atto in tutta Europa, anche l’economia italiana sta andando meglio, e questo rende i nostri conti pubblici un po’ meno vulnerabili di quanto lo fossero negli anni scorsi.

Possiamo stare tranquilli, dunque?

Direi proprio di no. Sfortunatamente stiamo per entrare in un periodo di forti rischi finanziari, non solo perché lo scudo del Quantitative Easing della Bce sta per venir meno, ma perché è piuttosto probabile che, in futuro, cambino le regole che oggi consentono alle banche di contabilizzare fra gli attivi i titoli di Stato del proprio Paese, anche se quest’ultimo è fortemente indebitato. Se queste regole venissero cambiate, e i titoli del debito pubblico venissero svalutati in base al grado di deterioramento dei conti pubblici di ogni paese, l’Italia correrebbe rischi molto seri. E, forse, qualche politico si pentirebbe amaramente di aver sciupato questi anni, in cui – grazie alla riduzione dei tassi di interesse – qualcosa si poteva fare e invece così poco è stato fatto.

Articolo pubblicato su Panorama



Più tardi in pensione, meno posti per i giovani?

La domanda aleggia ormai da una decina d’anni, ovvero da quando ci si è resi conto che, alla lunga, il nostro sistema pensionistico non sarebbe stato in grado di erogare pensioni decenti, o perlomeno pari a quelle attuali, alla totalità dei futuri pensionati. La domanda è: siamo sicuri che mandare in pensione sempre più tardi i lavoratori anziani ancora occupati non finisca per penalizzare i giovani, che un’occupazione la cercano ma non la trovano, o la trovano solo a tempo determinato?

Il dubbio è stato sollevato più volte, specie in occasione delle riforme che hanno progressivamente spostato in avanti l’età della pensione, e l’anno agganciata in modo pressoché automatico alla speranza di vita. Un percorso che ha inciso soprattutto sulle donne lavoratrici, che hanno progressivamente perso il diritto di andare in pensione prima dei lavoratori maschi.

Ma il massimo della tensione e del dubbio si è toccato nelle ultime settimane, quando l’Istat, che l’anno scorso aveva annunciato una (lieve) riduzione della speranza di vita (registrata nel 2015), ha invece confermato la tendenza all’aumento, e che il picco, o l’anomalia, del 2015 era stata riassorbita, dando così il via libera ad uno spostamento in avanti dell’età della pensione. Dal 2019, ha annunciato il governo, fatte salve alcune eccezioni (lavori usuranti), si andrà in pensione tutti quanti, uomini e donne, all’età di  67 anni, ovvero qualche mese dopo il limite attuale. Peccato che nei medesimi giorni l’ultima rilevazione Istat sulle forze di lavoro, relativa al mese di settembre, annunciasse un calo dell’occupazione giovanile, un dato che non faceva che allungare l’elenco delle cattive notizie degli ultimi anni: l’occupazione giovanile ristagna, i nuovi posti di lavoro occupati dai giovani sono quasi sempre a termine, l’emigrazione dei giovani verso l’estero pare un fiume inarrestabile.

Ecco perché, sempre più insistentemente, ci si chiede: ma siamo sicuri che a forza di trattenere al lavoro i vecchi, non stiamo creando un “tappo” che impedisce ai giovani di entrare sul mercato del lavoro? Non sarebbe meglio lasciare andare in pensione i vecchi e fare spazio ai giovani?

Messa così, l’obiezione pare convincente. Molti economisti, tuttavia, pensano che sia un’obiezione sbagliata. In estrema sintesi, le contro-obiezioni sono tre.

Primo, nei paesi in cui si va in pensione più tardi il tasso di occupazione dei giovani non è affatto più basso che negli altri, anzi mediamente è un po’ più alto.

Secondo, se si ritarda l’innalzamento dell’età pensionabile diventerà inevitabile alzare i contributi sociali, una misura che potrebbe costare assai cara ai giovani stessi sotto forma di minore occupazione e buste paga più leggere.

Terzo, spesso i posti di lavoro lasciati liberi dagli anziani potrebbero semplicemente sparire (quante aziende hanno tutt’ora forza di lavoro in eccesso!), o non essere facilmente ricopribili da lavoratori giovani, cui spesso mancano le conoscenze e l’esperienza dei lavoratori più anziani.

La prima obiezione è molto debole, perché dimostra solo che, da qualche parte, è stato possibile dare un lavoro a tutti, vecchi e giovani. La seconda è molto forte, perché nessuno sa come tamponare la voragine che il mancato adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita aprirebbe nei conti pubblici.

Ma l’obiezione veramente interessante è la terza, secondo cui anziani e giovani non sarebbero intercambiabili, in quanto dotati di competenze troppo diverse. Qui, per sapere come stanno veramente le cose, occorrerebbe una ricerca, molto approfondita e inevitabilmente più costosa delle poche indagini che finora si sono avvicinate a questa delicata questione. E’ scontato che una parte dei posti occupati da anziani in prossimità della pensione non sono occupabili da giovani, o lo sarebbero solo dopo un più o meno lungo tirocinio, ma la questione cruciale non è “se” questo sia vero, ma “quanto” lo sia. Nessuno sa se i posti di questo tipo siano, poniamo, il 20% o l’80%. Il che fa una differenza enorme.

Io tendo a pensare che siano parecchi, ma non siano la stragrande maggioranza, e che quindi un po’ di vero ci sia nell’idea che – in qualche misura – i vecchi sottraggano posti di lavoro ai giovani. E’ possibile, in altre parole, che gli economisti sopravvalutino un po’ il grado di segmentazione del mercato del lavoro, o i costi di strategie volte a rendere più comunicanti i vasi del sistema.

E’ questa, del resto, un’abitudine mentale contratta in anni e anni di battaglie per negare che gli immigrati portino via il posto di lavoro agli italiani. Anche in quel caso, nessuno sa con precisione in che misura i posti di lavoro occupati da stranieri riguardino lavori che gli italiani rifiuterebbero, o non accetterebbero alle medesime condizioni. E tuttavia colpisce quanto stereotipati siano gli esempi addotti per sostenere la tesi che i due mercati del lavoro non comunichino: muratori, braccianti impegnati nella raccolta del pomodoro, badanti, facchini, colf. Raramente si pensa, ad esempio, all’esercito dei commessi, spesso alle dipendenze di medie e grandi aziende, ai dipendenti pubblici, ai portieri di albergo, agli addetti delle pompe di benzina, ai fattorini, per non parlare dell’arcipelago delle partite Iva. Tutte posizioni abbondantemente occupate, e spesso più che meritoriamente conquistate, da lavoratori stranieri, ma non certo invise ai lavoratori italiani, specie nel Mezzogiorno.

Insomma: certe affermazioni, un po’ perentorie, sulla segmentazione del mercato del lavoro forse meriterebbero qualche analisi empirica in più. Quando si parla di vecchi e di giovani, ma anche quando si parla di italiani e di stranieri.

Pubblicato sul numero di Panorama del 9 novembre 2017



Ma la crescita non è nemica del risanamento

Se c’è un punto su cui tutte le forze politiche concordano, è quello dei nostri conti pubblici. Non già nel senso che esista un piano comune e condiviso per affrontare il problema del debito pubblico, ma per la ragione opposta: a nessun partito piace toccare il tema, meno che mai impegnarsi con cifre precise. E comunque, a giudicare dai discorsi con cui i leader cercano di attirare consensi, per nessuno, proprio per nessuno, la riduzione del debito è una priorità.

E’ questo, a mio parere, il più importante elemento di convergenza e di sostanziale unità del ceto politico italiano, al di là delle quotidiane scaramucce su tutto il resto. Alla maggior parte dei politici, che stiano al governo o stiano all’opposizione, piace raccontare le cose così: la nostra priorità è la crescita, ovvero l’aumento del reddito e dell’occupazione, e non possiamo certo comprometterla sottostando ai diktat dell’Europa (ma qualcuno semplifica: ai diktat della Merkel), che ci impongono l’austerità e così bloccano lo sviluppo.

Questo tipo di argomentazione ha due punti deboli, innanzitutto sul piano logico. Il primo è che non si può contrapporre fra loro un obiettivo (la crescita) e uno strumento di politica economica (l’austerità). Sarebbe come se, in un viaggio verso Parigi, con un’automobile che va ancora avanti ma fa fumo dal cofano, chi vuole portare l’automobile da un meccanico venisse accusato dagli altri passeggeri di non volerli portare a Parigi. Il secondo punto debole è che, a sua volta, l’austerità non è una politica ma è uno spettro di politiche possibili, accomunate soltanto dall’obiettivo di ridurre l’indebitamento pubblico di un paese. A un estremo le politiche che puntano tutte le loro carte sull’aumento delle tasse, all’altro le politiche che si concentrano sulla riduzione e la riqualificazione della spesa.

Il vero problema, quindi, non è di scegliere fra austerità e crescita, ma come conciliare crescita e risanamento dei conti pubblici. O, meglio ancora, come risanare i conti pubblici secondo modalità che favoriscano la crescita, evitando che il risanamento indebolisca il paziente anziché guarirlo. Il dilemma, in altre parole, non è fra crescita e austerità ma, semmai, fra austerità “buona” e austerità “cattiva”, per usare l’efficace terminologia dell’ultimo libro di Veronica De Romanis (L’austerità fa crescere, Marsilio 2017). Dove per austerità buona si intende una correzione dei conti pubblici che privilegia la riduzione della spesa corrente, anziché l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, cavalli di battaglia dell’austerità cattiva.

Ma a che punto si trova l’Italia, su questo percorso?

Piuttosto indietro, purtroppo. Nel periodo più acuto della crisi (2012-2013) la politica economica ha privilegiato l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, ossia precisamente i due caposaldi dell’austerità cattiva. Quanto agli ultimi anni, purtroppo, la tenuta dei conti pubblici è stata assicurata più dalla riduzione degli interessi sul debito (in gran parte imputabile alla politica della Bce) che da un aumento dell’avanzo primario, che è anzi un po’ peggiorato tra il 2013 e il 2016. E, anche se il peso delle tasse e delle spese rispetto al Pil si è ridotto di qualche decimale, il livello dell’interposizione pubblica resta molto alto, e non certo a causa di un rilancio degli investimenti.

Accanto a queste criticità, per fortuna, esiste anche qualche segnale confortante. L’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici (indice VS), elaborato dalla Fondazione David Hume per 40 paesi e 18 anni (dal 1999 a oggi), mostra sì un peggioramento dell’Italia fra il 2011 e il 2013, ma anche una stabilizzazione fra il 2014 e il 2016, e una tendenza al miglioramento nel corso del 2017. Inoltre, un confronto con le valutazioni delle Agenzie di rating (Fitch, Moody’s, Standard & Poor’s), suggerisce che il loro giudizio sia troppo severo nei confronti dei conti pubblici italiani, specie riguardo alla situazione dell’anno in corso.

E tuttavia sarebbe un grave errore prendere spunto da questi, pochi e limitati, elementi rassicuranti, per rimuovere per l’ennesima volta il risanamento dei conti pubblici dall’agenda politica. Questo per almeno due buoni motivi.

Il primo è che il miglioramento dell’indice VS (Vulnerabilità Strutturale) nel corso del 2017 è dovuto soprattutto alle previsioni di crescita del Pil e al ritorno dell’inflazione, non certo a una riduzione del rapporto debito/Pil. Il secondo è che l’indice non rivela soltanto che le Agenzie di rating sono (forse) troppo severe con noi, ma anche che i mercati sono stati (finora) troppo generosi, nel senso che hanno permesso all’Italia di indebitarsi a tassi più favorevoli di quelli che i mercati stessi fisserebbero in assenza di fattori più o meno contingenti (il Quantitative Easing della Bce, ad esempio). Una tendenza, quella a concederci tassi relativamente bassi, che si sta rapidamente esaurendo, e potrebbe persino cambiare di segno quando il Quantitative Easing volgerà alla fine.

Ma la vera ragione che suggerisce di non rinunciare a percorrere risolutamente la strada del risanamento è che esso non è essenziale solo per proteggerci da nuove tempeste finanziarie, ma anche per permettere un ritorno alla crescita che sia solido, duraturo e, soprattutto, abbastanza vivace da consentire un aumento significativo dell’occupazione. Il fatto che, sia pure lentamente e faticosamente, si stia tornando ai livelli occupazionali pre-crisi, non deve farci dimenticare che, in questi ultimi anni, l’Italia ha anche conquistato un triste primato, che prima non deteneva: siamo il paese con il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 28 ottobre 2017



Slide del Convegno “La mente dei mercati”

Le seguenti slide sono parte del Convegno «La mente dei mercati», in cui è stato presentato il rapporto a cura del Prof. Luca Ricolfi – con la collaborazione della Fondazione David Hume – , sull’Indice di Vulnerabilità dei mercati.

Link alle slide Veronica De Romanis-MISE- 25 ottobre 2017