Ritorno alla lira?

C’è una narrazione che i potenti di oggi cercano di imporre al Paese, e che per ora ha avuto un discreto successo. Più o meno suona così: noi ci siamo presentati davanti all’elettorato promettendo determinate cose, l’elettorato ci ha dato la maggioranza, quindi abbiamo non solo il diritto ma il dovere di fare quel che abbiamo promesso. Non solo: chiunque ci critici, così facendo nega al popolo il sacrosanto diritto di esercitare la sua volontà, liberamente espressa attraverso il voto.

Molto si potrebbe dire sull’idea di democrazia (e di opinione pubblica) implicita in questo ragionamento. Ad esempio che chi ragiona così disprezza la Costituzione, che come ha ricordato il presidente della Repubblica prevede esplicitamente meccanismi di delimitazione e distribuzione del potere, volti ad evitare l’instaurarsi di una “dittatura della maggioranza”.

Ma non è su questo che vorrei attirare l’attenzione. Quel che mi pare interessante domandarci non è se gli attuali governanti si muovano con il dovuto senso dello Stato e il necessario rispetto delle istituzioni, perché chiunque non sia accecato dalle proprie credenze politiche sa perfettamente che la risposta è: NO. Quel che a me sembra degno di discussione è semmai se sia vera, oppure no, la pretesa dei nuovi padroni del potere statale di rappresentare le istanze del popolo che li ha eletti. E’ vero o non è vero quel che sentiamo ripetere fino alla noia, ovvero che la “manovra del popolo” realizza finalmente le promesse?

Per quanto riguarda la promessa principale del Movimento Cinque Stelle, ossia il reddito minimo (impropriamente chiamato “di cittadinanza”), la risposta è: sì, forse fin troppo (10 miliardi). Se partirà senza aver riorganizzato i centri per l’impiego, e non terrà conto del livello dei prezzi, il cosiddetto reddito di cittadinanza di soldi ne distribuirà addirittura più di quelli che servono, almeno in certe aree (quelle in cui il costo della vita è molto sotto la media nazionale). Quindi Di Maio ha tutte le ragioni di essere soddisfatto. Ma per quanto riguarda la promessa principale di Salvini, ovvero la flat tax?

Qui è il disastro. La flat tax doveva costare 50 miliardi, se non di più: la “manovra del popolo”, invece, non introduce alcuna flat tax, e di miliardi non ne stanzia neppure uno (l’aliquota del 15% per le piccole partite Iva produrrà sgravi per 600 milioni, cioè per 0.6 miliardi). Non vorrei essere crudele, ma la realtà è questa: Di Maio porta a casa (al suo popolo, concentrato al Sud) più o meno il 70% del suo impegno più importante, Salvini porta a casa (al suo popolo, concentrato al Nord) circa l’1% del suo impegno più importante. Dopo aver ripetuto in tutte le salse, durante la campagna elettorale, che non ci sarebbero stati problemi di copertura, scopre improvvisamente che quei problemi sono enormi (perché la pace fiscale non manterrà le promesse) e quindi le tasse non si possono ridurre. E non è tutto: se ci prendiamo la briga di ricostruire tutte le voci di bilancio della manovra scopriamo che, rispetto al 2018, gli italiani dovrebbero pagare 19 miliardi di euro di tasse e contributi in più, di cui 8.1 previsti dalla manovra stessa, in quanto necessari per finanziare le nuove spese (reddito di cittadinanza e revisione della legge Fornero).

Quindi, tanto per cominciare, diciamo una cosa: non è vero che c’è un governo che ha ricevuto un mandato elettorale dal popolo, e che sta mantenendo le promesse. Semmai esistono due forze politiche popolari, una molto forte al Sud, l’altra al Nord, di cui la prima sta mantenendo la sua promessa economica principale (reddito di cittadinanza), mentre l’altra ha preferito mettere in stand by la sua (flat tax), forse pensando che – elettoralmente – potesse bastare intestarsi i respingimenti dei barconi e l’affondamento della Fornero.

C’è un altro motivo, ben più importante, per cui l’idea che questo sia il governo del popolo, che agisce in nome e nell’interesse del popolo stesso, mi lascia alquanto perplesso. Non mi riferisco qui al fatto che, secondo molti osservatori, saranno i ceti popolari e i giovani a pagare le conseguenze più nefaste della manovra del popolo. Questo è molto verosimile, ma lo dirà solo il tempo. Il punto che mi lascia perplesso è che questo governo non sta facendo nulla per ridurre il rischio di una crisi finanziaria, il cui esito potrebbe essere la nostra uscita dall’euro e il ritorno alla lira. E dicendo “non sta facendo nulla” uso un eufemismo, perché la realtà è che sta facendo di tutto per aumentare la tensione, quasi che cercasse l’incidente.

Ebbene, io penso che sia giunto il tempo di dire in modo netto e chiaro almeno tre cose. Primo, una larghissima e crescente maggioranza degli italiani (7 a 3, secondo un sondaggio Ipsos di pochi giorni fa), certamente molto più ampia di quella che ha votato Lega e Cinque Stelle, non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro: da questo cruciale punto di vista l’attuale governo è profondamente anti-popolare. Secondo, l’eventualità di una crisi finanziaria drammatica, che sfoci in un ritorno alla lira non è remota come pare ai più: una stima recente, basata sul prezzo dei Cds, assegna 24 probabilità su 100 all’eventualità di una “Italexit”. Terzo, se all’incidente si arrivasse, tutto si potrebbe dire tranne una cosa: che il nostro governo abbia fatto tutto il possibile per evitarlo.

E’ questo che è poco accettabile: continuare a dire che si vuole restare nell’euro, ma comportarsi come se si desiderasse arrivare all’incidente che ci costringerebbe ad uscirne.

Sarebbe il colmo: infliggere alla maggioranza degli italiani quel che non vogliono (il ritorno alla lira) e arrivarci in nome del popolo sovrano.




Manovra del popolo, l’azzardo gialloverde

Dopo la presentazione della Nota di aggiornamento al Def (Documento di Economia e Finanza) le cose sono un po’ più chiare. Sappiamo finalmente qual è la crescita del Pil che ci si attende per i prossimi 3 anni, sappiamo qual è il deficit pubblico programmatico, sappiamo qual è la traiettoria prevista per il rapporto debito/Pil.

In estrema sintesi, la Nota di aggiornamento ci dice che nel prossimo triennio la crescita sarà circa una volta e mezza quella prevista dai maggiori organismi internazionali (1.5% contro 1%), il deficit pubblico passerà dall’1.8% del 2018 al 2.4% dell’anno prossimo, per poi tornare all’1.8% entro il 2021. Quanto al rapporto debito-Pil, esso è previsto in lentissima ma costante diminuzione, dal 130.9% del 2018 al 126.7% del 2021.

Sono inquietanti questi numeri? E’ giustificato il nervosismo dei mercati? Sono fondate le preoccupazioni della Commissione Europea e della Banca Centrale?

A mio parere a queste domande non esiste una risposta, ma ne esistono due molto diverse fra loro. La prima risposta è rassicurante: se questi numeri venissero rispettati, ovvero se le cose andassero precisamente come previsto, potremmo anche tranquillizzarci. Un ritmo di crescita dell’1.5% per tre anni non sarebbe granché, ma risulterebbe comunque superiore a quello medio degli ultimi 3 anni (1.2%). Un aumento del deficit dall’1.8% al 2.4% è semplicemente quel che avremmo dovuto aspettarci da qualunque governo che avesse scelto di limitarsi a non far scattare gli aumenti dell’Iva, ovvero di disinnescare la micidiale clausola di salvaguardia lasciata dai precedenti governi. Quanto alla riduzione del rapporto debito-Pil, è vero che se ne prevede una diminuzione di soli 4.2 punti in 3 anni, ma non si può non osservare che negli ultimi anni la diminuzione era stata ancora minore, per non dire irrisoria: appena 0.9 punti in un triennio, ossia meno di un quarto di quella messa nero su bianco dal governo gialloverde.

La seconda risposta che possiamo dare, invece, non è rassicurante per niente: i numeri della Nota di aggiornamento sono brutti non in sé, ma perché sono scritti sulla sabbia, e come tali non verranno creduti né dagli investitori, né dalle Agenzie di rating. Vediamo perché.

Una prima ragione è che la manovra non è affatto espansiva quanto si sente dire. E’ vero, sono stati annunciati 20 miliardi di benefici elettorali equamente divisi fra Lega e Cinque Stelle. Più esattamente 9 miliardi per il reddito di cittadinanza, 1 miliardo per i centri per l’impiego, in totale 10 miliardi in quota Di Maio. E poi 7 miliardi per andare in pensione anticipatamente, 1 miliardo per assumere più poliziotti, 2 miliardi per la flat tax per le partite IVA, in totale 10 miliardi in quota Salvini. Altri 1.5 miliardi sono per i truffati dalle banche, e 3.5 miliardi per aumentare gli investimenti pubblici. In tutto fa circa 25 miliardi, che si aggiungono ai 12 miliardi abbondanti necessari per sterilizzare l’Iva. Poiché l’aumento del deficit, dall’1.8% al 2.4%, serve a malapena a coprire il non-aumento dell’Iva, se ne deduce che gli ingenti aumenti di spesa pubblica (circa 23 miliardi) e le esigue riduzioni fiscali (circa 2 miliardi) dovranno essere finanziati con tagli di spesa e maggiori entrate, senza ricorrere a ulteriore deficit.

Su questo la Nota di aggiornamento è evasiva, e si capisce perché: per disporre di questi 25 miliardi elettorali (noi manteniamo le promesse!), che ahimé si aggiungono ai 12 miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva, Salvini e Di Maio dovrebbero fare una spending review piuttosto sanguinosa, nonché introdurre nuove tasse. Poiché difficilmente riusciranno a farlo nella misura necessaria, quel che è ragionevole attendersi è un deficit ben maggiore del 2.4% annunciato.

Non è tutto, però. Da quel che si riesce a capire fin qui, fra i provvedimenti che potrebbero finanziare le promesse elettorali vi sono ben pochi tagli di spesa (la Nota di aggiornamento li quantifica nello 0.2% del Pil, pari a 3.5 miliardi), mentre abbondano gli interventi cha aumentano il gettito fiscale: taglio delle cosiddette tax expenditures, ossia dei regimi fiscali agevolati; condoni e sanatorie, ribattezzati “pace fiscale”; inasprimento della tassazione sulle banche (con prevedibili gravi conseguenze sul credito a famiglie e imprese).

Ecco perché definire “espansiva” la manovra è abbastanza azzardato. Non solo gli investimenti pubblici aggiuntivi sono di entità assai modesta, non solo le nuove spese dovranno essere coperte da nuove entrate (si danno più soldi ad alcune categorie togliendone ad altre), ma alcune delle nuove entrate sono chiaramente dannose per la crescita (penso, in particolare, a quelle che graveranno sulle banche, ma anche alla cancellazione dei benefici fiscali settoriali). Davvero arduo pensare che da tutto ciò possa scaturire un impulso capace di accelerare la crescita dall’1 all’1.5%.

C’è anche una seconda ragione, tuttavia, che giustifica un certo pessimismo. Anche nel caso i numeri indicati nella Nota di aggiornamento non dovessero peggiorare nel tempo (come è sempre successo, con qualsiasi governo), anche nel caso il governo riuscisse a trovare coperture per tutte le spese che ha messo in cantiere, resterebbero due problemi non da poco: lo scetticismo dei mercati, che ha fatto imbizzarrire lo spread, e il rischio imminente di downgrading dei nostri titoli di Stato da parte delle Agenzie di rating, che potrebbe materializzarsi già alla fine di questo mese. Uno spread di 3-400 punti base e un declassamento dei nostri titoli di Stato credo proprio che non possiamo permetterceli, perché significherebbe tornare alla situazione del 2011, con conseguente nuovo collasso dell’economia.

Questo temo sia il vero pericolo per l’Italia, un pericolo che la Nota di aggiornamento finge di non vedere. Per capire quanto esso sia grave, però, dobbiamo smetterla di guardare solo allo spread dei nostri titoli di Stato rispetto ai soli titoli tedeschi, e guardare come i titoli italiani (e di altri paesi) si comportano rispetto a quelli degli altri paesi dell’Eurozona.

Ebbene, se si fa questo confronto (vedi grafico) si possono notare tre cose.

La prima è che ormai, Grecia a parte, siamo il paese dell’Eurozona di cui i mercati  meno si fidano: all’inizio di quest’anno, infatti, i rendimenti dell’Italia hanno superato quelli del Portogallo, ossia del paese (finora) più vulnerabile dopo la Grecia.

La seconda è che lo spread standardizzato, che tiene conto della nostra posizione relativamente a quella del nucleo dei paesi dell’Eurozona, è al suo massimo storico dal 2011.

La terza, forse la più inquietante, è che l’allarme dei mercati verso i conti pubblici dell’Italia non ha preso forma con la nascita del governo giallo-verde, bensì un anno e mezzo prima, più o meno in corrispondenza con la vittoria del “no” al referendum e la caduta del governo Renzi. Da allora, come mostra chiaramente il grafico, lo spread standardizzato ha cominciato a crescere, e lo ha fatto con impressionante regolarità, senza alcuno strappo o accelerazione, in parallelo alla discesa dello spread del Portogallo.

Spread standardizzato: Italia e Portogallo 2011-2018

Elaborazione Fondazione David Hume su dati Bloomberg e Investing

Anche se può recare qualche conforto agli esponenti dell’attuale governo, un simile andamento dovrebbe preoccuparci tutti moltissimo. Esso mostra, infatti, che la diffidenza dei mercati verso l’Italia ha un’origine più profonda e più remota del semplice insediamento di un governo euroscettico e populista. Essa deriva, più verosimilmente, dalla comparazione con le dinamiche dei conti pubblici negli altri paesi, e in particolare di quelli che hanno attraversato gravi crisi finanziarie: Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Cipro. In questi cinque paesi, i più fragili dell’eurozona, lo spread standardizzato, negli ultimi tre anni, ha mostrato una chiara tendenza alla diminuzione, cioè al miglioramento. In Italia no. In Italia, da circa 22 mesi, lo spread standardizzato continua a salire, inesorabilmente.

Un segnale per il governo, ma anche per l’opposizione, infantilmente convinta che prima tutto andasse bene, e solo ora i nostri conti pubblici siano diventati a rischio.  L’opposizione ha mille e una ragioni di stigmatizzare le inutili, anzi pericolosissime, esternazioni anti-europee dei nuovi venuti. Ma farebbe bene a interrogarsi anche sul proprio ruolo, perché le condizioni in cui ha lasciato il Paese sono una delle concause delle tensioni attuali.




Una manovra coraggiosa?

A proposito della “manovra del popolo”

Il presidente del Consiglio ha definito “coraggiosa” la manovra del suo governo, che rifiuta di ridurre il deficit pubblico e anzi pianifica di mantenerlo per tre anni al 2.4% del Pil. I critici del governo giallo-verde, per parte loro, vedono nella manovra una sorta di svolta epocale, una specie di contro-riforma che capovolge la linea di prudenza adottata dai governi che lo hanno preceduto (Renzi e Gentiloni).

Mi permetto di dissentire radicalmente con entrambi. No, si possono scegliere mille aggettivi per definire questa manovra, ma “coraggiosa” no, quello non è l’aggettivo giusto. Nella lingua italiana un comportamento è coraggioso se comporta l’assunzione di un rischio per chi lo mette in atto, e solo per chi lo mette in atto. Se ti butti in un fiume in piena per salvare un bambino che sta annegando, stai compiendo un atto coraggioso. Ma se induci un tuo amico a fare un investimento che potrebbe anche fargli perdere metà del suo patrimonio, e magari pretendi anche una provvigione per i consigli che gli dai, non ti stai comportando in modo coraggioso, ma semmai in modo opportunista e irresponsabile.

Ora, comunque la si pensi sulla “manovra del popolo”, l’aggettivo giusto non è certo coraggioso. Non pretendo di stabilire quale sia l’aggettivo giusto, perché questo dipende dal giudizio che diamo sulle intenzioni dei nostri governanti e sulle conseguenze delle loro azioni. Ma la gamma degli aggettivi è tutta un’altra: “audace”, se pensiamo che anche loro corrano qualche rischio, “imprudente” se pensiamo che tutti corriamo dei rischi, “miope” se pensiamo che le conseguenze di lungo periodo siano negative per l’Italia, “suicida” se pensiamo che porterà (solo) alla caduta del governo, “incosciente” se pensiamo che porterà anche alla nostra rovina, “avventurista” se pensiamo che porterà alla catastrofe del Paese ma che “loro” troveranno il modo di salvarsi.

Ecco perché parlare di coraggio è del tutto fuori luogo. Coraggioso è un governo che, per il bene del Paese, mette in atto misure impopolari, e perciò corre, consapevolmente, il rischio di perdere il consenso. Una misura popolare, giusta o sbagliata che sia, non richiede alcun coraggio, perché il consenso lo alimenta. Ecco perché della “manovra del popolo” tutto si può dire, tranne che sia coraggiosa.

Detto questo, possiamo almeno ammettere che la manovra, giusta o sbagliata che sia, audace o incosciente, sia comunque una svolta radicale rispetto a quelle attuate dai passati governi?

Prima di provare a rispondere a questa domanda, vorrei far notare una cosa: la tesi della svolta epocale accomuna i critici più feroci e i difensori più accaniti dell’attuale governo. I critici considerano saggi e gloriosi gli anni dei governi Pd, i difensori del governo (specie i Cinque Stelle) non perdono occasione per dire che siamo entrati nella Terza Repubblica, e che ora – finalmente – tutto cambierà. In poche parole: il giudizio sul passato è opposto, ma l’idea di una rottura radicale con esso è perfettamente condivisa.

E’ su questa analisi comune che vorrei sollevare qualche dubbio. Io vedo tanta, tanta continuità con il passato, sia con quello recente sia con quello remoto. E mi conforta di non essere il solo a notarlo. Come non essere d’accordo, ad esempio, con Giorgia Meloni quando nota che, più che traghettarci nella terza Repubblica, Di Maio sta riesumando le peggiori pratiche della prima, quella dei Fanfani e dei Cirino Pomicino? E’ allora che la politica imparò a comprare il consenso con misure assistenziali (ricordate le baby pensioni? le false pensioni di invalidità?) che fecero esplodere il debito pubblico che ora soffoca l’economia e limita i margini di manovra della politica stessa. Ma non è solo il passato più remoto che ritorna. L’economista Roberto Perotti, per qualche tempo collaboratore del governo Renzi, ha ricordato che nei gloriosi anni del Pd (2013-2017) il disavanzo è sempre stato maggiore di quello programmato, e comunque superiore al 2.4% che ora tanto ci preoccupa. Altri hanno giustamente fatto notare che fu Renzi, appena un anno fa, a proporre di mantenere il disavanzo al 2.9% per ben 5 anni, contro il 2.4% (per 3 anni) dell’attuale governo.

Ma c’è molto di più e molto ancora. Si pensa giustamente che la fretta di Di Maio sul cosiddetto reddito di cittadinanza sia dettata dall’approssimarsi delle elezioni europee (maggio 2019), cui vuole arrivare con una misura-simbolo già in vigore, pur sapendo benissimo che quella misura non potrà che risolversi in pura assistenza finché i centri per l’impiego non saranno stati riformati, e la crescita non avrà acquistato vigore. Ma che cosa c’è di diverso rispetto agli 80 euro di Renzi, anche allora presentati come sostegno alla domanda, ma in realtà concepiti essenzialmente per vincere alle elezioni europee?

E la cosiddetta pace fiscale? Che cos’altro nasconde dietro l’eufemismo “pace” se non l’ennesimo condono, la solita sanatoria, di nuovo in perfetta continuità con la prima e la seconda Repubblica?

Per non parlare dell’orientamento generale della politica economica. Ci viene presentato come un cambio di rotta rispetto all’austerità che avremmo infruttuosamente praticato in questi anni. Ma la realtà è che in questa legislatura, lo ha ricordato più volte l’economista Veronica De Romanis, l’orientamento della politica economica è sempre stata espansivo, non restrittivo. Ancora una volta, la differenza con il passato è solo che, di una medicina che non ha funzionato (siamo tuttora ultimi in Europa per crescita del Pil), ora si prova ad aumentare la dose, anziché cambiare la medicina stessa. So che ricordarlo suscita incredulità (e qualche malumore), ma la realtà è che di austerità l’Italia ha fatto esperienza solo sotto il governo Monti, e l’austerità “buona” – quella che aggiusta i bilanci pubblici riducendo la spesa e tagliando le tasse – semplicemente non l’ha mai sperimentata, né con Berlusconi, né con Monti, né con Letta-Renzi-Gentiloni.

Ecco perché l’opposizione a questo governo è impotente, o addirittura si capovolge in consenso (è il caso della sinistra radicale, da sempre fautrice della spesa in deficit). La ragione è semplicemente che non c’è una differenza qualitativa vera con i governi precedenti, ma solo una differenza di grado, un “salto di imprudenza” mi verrebbe da chiamarlo, perché la medesima politica di prima ci viene somministrata in dosi più massicce, e quindi più rischiose.

Con questo non intendo dire che la politica economico-sociale di questo governo ci porterà necessariamente al disastro, o addirittura a uscire dall’euro. Questo non può saperlo nessuno, e l’opposizione che se ne proclama certa dà solo prova di isteria e di disfattismo. Quel che voglio dire è semplicemente che il cocktail che ci stanno somministrando è pericoloso, molto pericoloso. Non tanto perché il deficit programmato è al 2.4%, ovvero al medesimo livello degli ultimi anni. Ma perché quel deficit si accompagna a due ingredienti altamente infiammabili, se mi si consente l’immagine: una manovra sbilanciata dal lato della spesa, un drammatico deficit di credibilità, aggravato dall’umiliazione inflitta al ministro dell’Economia, uno dei pochi che un po’ di credibilità ce l’aveva.

Per questo, tutto possiamo pensare di questo governo, persino che le cose alla fine andranno bene (dopotutto nessuno ha la palla di vetro), ma su una cosa sarebbe meglio non autoingannarci: ci sono già stati parecchi danni per il bilancio pubblico, per i risparmiatori, per le imprese, e nulla assicura che non ve ne saranno altri, anche molto più gravi, quando dovessero aumentare le rate dei mutui e le banche stringessero i cordoni del credito. Insomma la “manovra del popolo” apre molte speranze, forse anche qualche opportunità reale, ma carica sul popolo stesso una notevole dose di incertezza e di rischio.

Questo è il motivo per cui possiamo chiamarla come vogliamo, ma non coraggiosa. Almeno finché continuiamo a pensare, con il dizionario della lingua italiana, che coraggioso è chi mette in pericolo sé stesso a beneficio degli altri, non chi il rischio lo fa correre a un intero paese e si comporta come se il rischio fosse zero. Proprio come, ironia della sorte, facevano le (giustamente) vituperate banche fallite, che vendevano obbligazioni ad alto rendimento senza avvertire i risparmiatori dei rischi che si assumevano.

 




Troppi paradisi

2008-2018, anniversario della lunga crisi

15 settembre 2008, esattamente 10 anni fa. Fu allora che, dopo un anno difficile, in cui la crisi americana dei mutui subprime aveva interrotto un lungo periodo di crescita, l’economia mondiale ricevette il colpo di grazia. A infliggere quel colpo fu il fallimento di Lehmann Brothers, una banca d’affari americana che, a differenza di altre società, venne lasciata fallire dal governo USA e dalla Federal Reserve.

Anche se, allora, vi fu chi salutò il fallimento di Lehman Brothers come “una buona giornata per il capitalismo”, col senno di poi sono quasi tutti concordi nel considerare quel mancato salvataggio come uno dei fattori cruciali che, nel giro di poche ore, trasformarono una recessione in una crisi epocale.

Ma come si presentano le economie dei paesi avanzati a un decennio di distanza?

La prima cosa che si può notare è che la crisi ha agito in modo fortemente asimmetrico: ci sono paesi che, oggi, hanno un tenore di vita e un tasso di occupazione superiori a quello del 2008 (è il caso della Germania, ma anche di Regno Unito, Polonia, Svezia, Giappone), ci sono paesi che, tutto all’opposto, nemmeno in 10 anni sono riusciti a recuperare i livelli di reddito e di occupazione pre-crisi: è questo il caso della Grecia, di Cipro, della Finlandia, dell’Italia.

Altrettanto diseguale è stata la evoluzione della vulnerabilità dei conti pubblici dei vari paesi. L’indice VS (vulnerabilità strutturale), calcolato dalla Fondazione David Hume per 40 economie relativamente avanzate, è peggiorato in molti paesi dell’eurozona (Grecia, Cipro, Spagna, Finlandia, Slovacchia, Slovenia) ma è sensibilmente migliorato per la maggior parte dei paesi dell’est, in particolare Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Lettonia, Lituania.

La vera domanda, però, forse è un’altra: dopo 10 anni di passione, le nostre economie hanno imparato la lezione? Le nostre economie, oggi, sono meno fragili di 10 anni fa?

La mia impressione è che la risposta sia negativa. Dieci anni, infatti, non sono bastati a rimuovere quelli che, per molti analisti, restano i due principali elementi di fragilità del sistema capitalistico quale si è affermato negli ultimi decenni.

Il primo è la mancata separazione fra banche commerciali e banche di investimento. La grande crisi del ’29, come la lunga crisi del 2007, sono entrambe figlie del medesimo errore di regolazione. Consentire al medesimo intermediario finanziario di raccogliere il risparmio, finanziare l’economia reale, e supportare la speculazione finanziaria è stato uno dei fattori della crisi del ’29, ma anche di quella del 2008. La sovrapposizione fra queste funzioni è fra le concause della crisi del ’29, mentre la loro separazione per legge (sancita dal Glass Steagall Act del 1933) è stata una delle condizioni dei “gloriosi trent’anni”, il lungo periodo di stabilità e crescita che seguì la fine della seconda guerra mondiale. Specularmente, l’abolizione della separazione (avvenuta nel 1999, sotto la presidenza di Bill Clinton) è stata una delle concause della crisi scoppiata nel 2007-2008.

Ma c’è anche un secondo elemento di fragilità, forse ancora più importante, che non è stato rimosso, ed è la possibilità di operare su mercati non regolamentati, i cosiddetti mercati OCT, in cui le transazioni avvengono “over the counter”, ossia sul bancone, come per le transazioni in contanti. Nessuno sa esattamente a quanto ammontino le attività finanziare negoziate su questi mercati rispetto a quelle negoziate sui mercati regolamentati, ma l’ordine di grandezza è conosciuto: secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali il loro valore nozionale è dell’ordine di 10 volte il Pil mondiale. E anche se il loro valore lordo di mercato è molto inferiore (circa un quinto del Pil globale, secondo alcune valutazioni), resta il fatto che si tratta di una massa di denaro enorme, i cui movimenti hanno un potenziale di destabilizzazione molto elevato. Un potenziale, peraltro amplificato dalle Agenzie di rating, spesso in sonno quando avrebbero dovuto avvertire dei pericoli, e fin troppo severe a cose fatte, ovvero quando i pericoli erano già stati segnalati dai mercati.

Se questo è il quadro, viene naturale chiedersi: ci attende una nuova crisi?

Ovviamente nessuno lo sa, ma se devo esprimere un’opinione la mia risposta è: sì, e piuttosto presto. La ragione è abbastanza semplice, e la riassumerei in quattro punti.

Primo. Quel che doveva essere fatto, separare banche commerciali e di investimento, imporre limiti ai mercati non regolamentati, attenuare i conflitti di interessi delle Agenzie di rating, non è stato fatto, o è stato fatto in modo insufficiente. Non aver corretto questi fattori di instabilità ci rende vulnerabili in caso di crisi.

Secondo. Il principale rimedio escogitato, negli Stati Uniti come in Europa, è stato inondare di liquidità i mercati, con i bassi tassi di interesse e le iniezioni di liquidità (Quantitative Easing e affini). Ma la liquidità è, al tempo stesso, il lenimento che attenua le crisi e il combustibile che le prepara.

Terzo. Diversi indicatori segnalano che la crescita di questi anni, in particolare quella dell’economia americana, sia arrivata al limite. Quel che si è formato in questi anni non è una bolla speculativa di tipo immobiliare, come nel 2007-2008, ma una bolla speculativa di tipo azionario, come nel 2000, quando crollò l’indice dei titoli tecnologici (NASDAQ). Per accorgersene basta osservare la corsa degli indici borsistici in rapporto al Pil: la capitalizzazione della Borsa americana rispetto al Pil USA ha superato il livello record del 2000, quando scoppiò la bolla tecnologica. E anche se, verosimilmente, i fondamentali delle aziende tecnologiche americane sono migliori di quelli di vent’anni fa, il rischio di una brusca frenata è tutt’altro che trascurabile.

Quarto. Anche in Europa si manifestano segni di tensione, in particolare sul mercato dei titoli di stato decennali. Il coefficiente di variazione dei rendimenti, una delle più semplici misure di allerta dei mercati, dopo aver toccato un minimo alla fine di gennaio di quest’anno, da 7 mesi è in costante ascesa. Anche se non siamo ancora entrati in una fase di “flight to quality” (cercare rifugio nei titoli sicuri, come i bund tedeschi), potremmo già essere nell’anticamera che la precede.

Se una crisi verrà, nei prossimi anni o già nei prossimi mesi, essa sarà anche il frutto delle omissioni di questi anni. Dopo aver proclamato ai quattro venti che l’importante era l’economia reale, non quella di carta (Main Street contro Wall Street), i regolatori dell’economia ben poco hanno fatto per ridurre le nostre fragilità, prime fra tutte una legislazione bancaria troppo permissiva e l’estensione del cosiddetto Sistema bancario ombra (Shadow Banking System), fondamentalmente sottratto ad ogni forma di vigilanza: “troppi paradisi”, verrebbe da dire, riprendendo il titolo del romanzo di Walter Siti. Perché quel che si è fatto, o meglio non si è fatto, è proprio questo: permettere la sopravvivenza di troppi luoghi in cui l’economia di carta soggioga e inquina l’economia reale.

 




Nazionalizzare tutto?

La parola d’ordine è quella: nazionalizzare tutto. La agitano i Cinque Stelle, e pare aver fatto breccia anche in alcuni esponenti della Lega, se è vero che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti ritiene che si debbano rivedere tutte le concessioni. Quanto all’opposizione, la sinistra e Forza Italia paiono contrarie, ma Fratelli d’Italia, per bocca di Giorgia Meloni, pare sottoscriverla senza riserve, almeno per quanto riguarda le infrastrutture strategiche (trasporti, acqua, energia, telecomunicazioni, poste).

E’ una buona idea?

Credo che dare una risposta generale, univoca, pro o contro le nazionalizzazioni, sia impossibile, anche da un punto di vista politico o ideologico. Contrariamente a quanto molti credono, le nazionalizzazioni e il loro opposto (le privatizzazioni) non dividono la destra e la sinistra, ma spaccano al loro interno i due schieramenti che – fino a ieri – si sono contesi il governo, in Italia come altrove. Le nazionalizzazioni sono piaciute ai fascisti (negli anni ’30) ma anche ai socialisti (negli anni ’60), le privatizzazioni sono piaciute alla sinistra riformista, ma anche alla destra berlusconiana, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso. La posizione verso le nazionalizzazioni, insomma, ha ben poco a che fare con la divisione fra destra e sinistra.

Se prendere posizione sulle nazionalizzazioni in base all’ideologia è impossibile, ancor meno facile è farlo sulla base dell’esperienza, almeno in Italia. Il guaio del nostro paese è che, se guardiamo agli ultimi decenni, sono innumerevoli sia i casi di fallimento dei privati, sia quelli di fallimento dello Stato. Alitalia è stata un disastro sia come impresa pubblica sia come impresa privata. Lo stesso caso del ponte Morandi è emblematico: Atlantia e la società Autostrade per l’Italia hanno fallito, su questo non vi sono dubbi, ma lo Stato ha fallito per certi versi ancora di più: doveva solo controllare il rispetto della convenzione, e non è stato capace di fare neppure quello. Come si possa, a questo punto, immaginare che la nostra elefantiaca ed inefficiente Amministrazione Pubblica, di cui si conoscono gli innumerevoli sprechi e malversazioni, possa sobbarcarsi il compito di gestire tutta la rete autostradale, resta per me un mistero.

Posto che sia i monopoli di Stato sia le società private spesso non sono state all’altezza dei loro compiti, resta comunque il problema di scegliere una via: puntare sulle nazionalizzazioni, proseguire nelle privatizzazioni iniziate negli anni ’90, decidere caso per caso, concessione per concessione, come saggiamente pare suggerire Giorgetti. L’impressione è che si punterà sulle nazionalizzazioni, capovolgendo la politica messa in atto negli anni ’90, che puntava a ridurre il perimetro dell’intervento pubblico. E’ vero che la Lega sembra opporre qualche resistenza, ma ritengo più probabile che alla fine a riportare qualche vittoria siano i nazionalizzatori: il controllo pubblico dell’economia, con la possibilità di governare la spesa pubblica, gli investimenti, le commesse pubbliche, le nomine, le elargizioni e i favori, è qualcosa che interessa ai politici di governo in quanto tali, indipendentemente dalla loro ideologia.

Resta il dubbio che una politica che punta sull’allargamento del perimetro dell’intervento pubblico sia, fondamentalmente, più nell’interesse dei governanti che in quello dei cittadini. E questo per almeno tre buoni motivi.

Il primo è che non è affatto detto che un controllo e una gestione diretta (statale) delle infrastrutture sia, per i cittadini, più sicuro di una seria sorveglianza sui concessionari.

Da questo punto di vista è davvero curiosa l’idea del ministro Toninelli che il ministero delle Infrastrutture possa costituirsi parte civile conto la società Autostrade: tutto lascia pensare che, nel processo per il ponte Morandi, sul banco degli accusati saranno chiamati sia Atlantia sia il Ministero di Toninelli, magari nella persona di qualche ex ministro delle infrastrutture.

Il secondo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è che, anche in regime di monopolio statale, è prevedibile che i lavori di ricostruzione dei ponti, manutenzione delle autostrade, costruzione di nuove arterie sarebbero in gran parte affidati a società private, ossia a chi ha le competenze e l’esperienza per realizzare le opere. La nazionalizzazione, in altre parole, potrebbe risultare più nominale che sostanziale.

Il terzo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è il loro costo. Mentre privatizzare porta risorse nel bilancio dello Stato, nazionalizzare brucia risorse pubbliche: la sola revoca della concessione ad Atlantia potrebbe costare allo Stato 20 miliardi, e non è affatto detto che i ricavi netti di una gestione statale delle autostrade sarebbero superiori a quelli che si potrebbero ottenere con una concessione. Se moltiplichiamo queste cifre per tutte le attività e funzioni che potrebbero essere nazionalizzate, è abbastanza evidente che i costi per lo Stato, cioè per i contribuenti, sarebbero esorbitanti. La nazionalizzazioni, in altre parole, aggraverebbero il nostro problema centrale, quello di un debito pubblico enorme, che non si riesce né a stabilizzare né a far scendere.

Nonostante tutto ciò, penso che alla fine la linea delle nazionalizzazioni finirà per prevalere. Oggi come ieri, infatti, quel che è decisivo non è il bene dei cittadini, ma sono le esigenze dei governanti. E ai governanti di ieri (1996, governo Prodi) conveniva ridurre il debito pubblico per guadagnare il biglietto di ingresso nell’Eurozona, di qui una delle più colossali operazione di dismissione del patrimonio pubblico che si ricordino (oltre 100 miliardi di euro). Ai governanti di oggi (2018, Salvini e Di Maio), conviene assumere il controllo più ampio possibile della macchina dello Stato, costi quel che costi, non certo guadagnare il rispetto delle autorità europee, che detestano e con cui (forse) cercano l’incidente.

Con quale prezzo per tutti noi, contribuenti, risparmiatori, lavoratori, nessuno lo sa. Ma io temo che sarà alto.