E se smettessimo di fingere? Investire contro il cambiamento climatico: ma è la strada giusta?

Quando si parla di Pnrr, la preoccupazione prevalente è di spenderli bene, spenderli tutti, i quattrini che l’Europa ci impresterà. C’è però anche un secondo problema, di cui si parla di meno, o meglio si parla in modo obliquo: per che cosa spenderli.

La risposta canonica è: portare a termine le sei “missioni” indicate dall’Europa, dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, dalle infrastrutture alla ricerca, dall’inclusione alla salute. Ma è una risposta convincente?

Forse non del tutto, per vari ordini di ragioni. Intanto perché forte è il rischio che gli enti locali siano chiamati a spendere pur di spendere, senza una chiara e previa individuazione delle priorità. In secondo luogo, perché non è detto che i costi futuri di mantenimento delle nuove opere (infrastrutture e personale) abbiano le dovute coperture. Ma soprattutto perché le due voci principali, digitalizzazione e transizione ecologica (circa 120 miliardi di euro), non sono esenti da rischi e criticità.

Sulla digitalizzazione, andrebbero prese molto sul serio le preoccupazioni, culturali e pedagogiche, che da qualche tempo sono emerse nel mondo della scuola (vedi ad esempio il manifesto “Insegnare contro vento”, firmato da insegnanti e illustri studiosi). Quanto alla transizione ecologica, credo che dovremmo affrontare di petto il dubbio che, pochi anni fa, sollevò Jonathan Franzen nel suo pamphlet E se smettessimo di fingere?  (Einaudi 2020).

Lo riassumo brutalmente. Il riscaldamento globale, ammesso che sia imputabile prevalentemente alle emissioni di anidride carbonica, avremmo avuto qualche chance di contenerlo se avessimo cominciato ad agire con determinazione 30-40 anni fa. Ora non più. Ora è tardi, ora contenere il surriscaldamento anche solo di qualche decimo di grado ha costi enormi, che la maggior parte dei paesi inquinatori non ha la minima intenzione di sostenere, se non altro perché comporterebbe un drastico ridimensionamento del tenore di vita delle popolazioni “virtuose” (pensiamo, per fare giusto due esempi, alle conseguenze delle direttive europee in  materia di auto green e classi energetiche delle abitazioni).

In breve: perché fingere che sia ancora possibile raggiungere un obiettivo che è chiaramente fuori della nostra portata?

Detto così, sembra un messaggio disfattistico, che spegne la speranza, e tutt’al più disturba gli enormi interessi, economici e politici, dell’establishment climatico e delle lobby green. C’è però un risvolto cruciale del ragionamento di Franzen: lo spaventoso  costo-opportunità della “scelta climatica”, ossia del convogliamento di enormi risorse economiche nel tentativo (disperato?) di mitigare di qualche decimo di grado il surriscaldamento globale.

Che cos’è il costo-opportunità di una scelta? È il valore delle alternative cui si rinuncia per il fatto di aver scelto una determinata alternativa a scapito di altre. Se spendi 100 miliardi per fare A, rinunci a tutte le cose (B, C, D,…) che avresti potuto fare con quei soldi se non li avessi spesi per fare A.

Ed ecco l’idea Franzen: “una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente”.

Le alternative cui rinunciamo, in altre parole, sono le innumerevoli azioni il cui scopo non è fermare l’innalzamento delle temperature, ma fronteggiare le sue drammatiche conseguenze. Azioni che, dirottando la maggior parte delle risorse sul cambiamento climatico, non possono essere messe in atto risolutamente, efficacemente, e nella misura necessaria.

La posizione di Franzen è interessante perché non è affatto anti-ambientalista (lo scrittore americano è da anni fra i più impegnati nella difesa dell’ambiente e nella tutela della biodiversità). Quello che Franzen, con il suo piccolo pamphlet, ha provato a fare, è semplicemente di metterci una pulce nell’orecchio: siete sicuri che abbia senso concentrare la maggior parte delle risorse su un problema quasi sicuramente irrisolvibile, quando ci sono innumerevoli problemi ambientali, dal dissesto idrogeologico alla protezione delle foreste, dalla tutela della biodiversità alla gestione dei rifiuti, che possiamo affrontare con successo spostando i nostri investimenti su quei problemi?




Economia cannibale

Per migliaia di anni le più antiche comunità umane hanno praticato il cannibalismo, o fatto ricorso a sacrifici umani a scopo rituale. Poi si sono stabiliti dei tabù e queste pratiche sono state messe al bando per sempre. Per questa ragione dobbiamo essere ottimisti sulla possibilità di riuscire a superare, nella faticosa strada del divenire umani, anche quella che Jean Daniel Rainhorn, professore dell’Università di Ginevra, chiama ‘economia cannibale’.

Rientrano in questa categoria le pratiche di economia globalizzata neo-liberale che hanno per oggetto di scambio, singole parti del corpo umano o corpi nella loro interezza. Banche -non a caso si chiamano così- del seme e degli ovociti, uteri in affitto per la maternità surrogata, compravendita di gameti, di organi e di patrimonio genetico, traffico di esseri umani per la loro riduzione in schiavitù e/o prostituzione. È una nuova branca dell’economia che cannibalizza gli esseri viventi. Il corpo degli umani è considerato puro assemblaggio di organi e il vivente diventa una risorsa materiale. A chi può permettersi di acquistarlo è riconosciuto il ‘diritto’ o la facoltà di farlo. Questa economia neo-liberale ha progressivamente ridotto gli esseri umani a ‘risorse biologiche’ introducendo un processo di reificazione e riduzione a merce dei soggetti.

Il processo è cominciato negli anni ’80 del Novecento con la pratica della brevettabilità. Sulla spinta di società di bio-ingegneria coadiuvate da genetisti di fama e da una certa lobby di medici sono stati depositati brevetti su organismi viventi, geneticamente modificati e non, e su intere sequenze genetiche, comprese quelle umane.

La filiera del mercato globale per la produzione di bambini come prodotti di qualità (quelli difettosi sono scartati e le madri surrogate in questo caso non vengono pagate) è -dopo la riduzione in schiavitù -la più grande violenza che si possa immaginare fatta a donne e bambini. Ma l’economia cannibale produce enormi profitti.

Un altro ramo fiorente di questa economia è quello legato ai percorsi di transizione da maschio a femmina e viceversa. Percorsi che richiedono un precoce bombardamento ormonale di bambine e bambine al fine di adeguare attraverso la chimica il senso di sé al corpo considerato ‘sbagliato’.

Alcune di queste pratiche sono intimamente legate al filone di pensiero conosciuto come transumanesimo. Se vogliamo sconfiggerle e metterle al bando per sempre è necessario fare un passo indietro e risalire alle riflessioni di alcune pensatrici che con le loro teorie hanno fortemente contribuito all’affermazione di questa deriva .

Donna Haraway col suo Manifesto cyborg (1985) e Judith Butler col suo Gender trouble (1990) hanno ingaggiato vere e proprie colluttazioni teoriche con la carne umana come ha acutamente osservato M.Terragni in un recente articolo.

Judith Butler ha sempre sostenuto che il sesso è costruito culturalmente proprio come il genere, frutto di un atto linguistico performativo. Anche il corpo è dunque una costruzione e non ha un significato prima di essere ‘marcato’ dal punto di vista del genere. La realtà del corpo ha perso ogni consistenza fino a scomparire. E il primo corpo a dover scomparire è quello della donna. Ma il dato biologico cacciato dalla porta finisce col rientrare dalla finestra quando si teorizza la ‘vulnerabilità’ dei corpi viventi (Bodies that matter). Essa non è una costruzione linguistica ma attiene strettamente alla fragilità e mortalità dell’essere umano.

Donna Haraway invece ha spinto fino in fondo le sue riflessioni sulle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita degli esseri umani. Il cyborg, organismo cibernetico, ibrido tra macchina ed essere umano permette di comprendere come la pretesa ‘naturalità’ dell’uomo sia in realtà una costruzione culturale. Il corpo diventa territorio sperimentazione e di manipolazione. Il corpo smette dunque di essere inalterato e intoccabile: può essere trasformato e gestito a piacimento. Cade il mito che vede il corpo come sede di una naturalità opposta all’artificiosità e crolla di conseguenza il sistema di pensiero occidentale incentrato sulla contrapposizione degli opposti. Il cyborg non è né macchina né uomo, né maschio né femmina. Cadono tutti i confini e tutti i dualismi. Uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente, umano /animale ecc. In questo percorso Donna Haraway è cosi approdata a quella che J.F. Braunstein definisce zoofilia cosmica. Nel suo ‘Manifesto delle specie compagne’ e nel successivo ‘Quando le specie si incontrano’ esalta la relazione sessuale molto soddisfacente con la sua cagnetta Cayenne Pepper e i suoi baci profondi e umidi. Siamo quindi arrivati a una sorta di butlerismo reale egemonizzato dal mercato che ha saputo intercettare i desideri e le fantasie circolanti per farne prodotti liberamente acquistabili.

Il lavoro da fare per superare le risposte del mercato neoliberale capitalistico è quello di una battaglia culturale e politica profonda e senza compromessi. ‘Liberi di…liberi da ‘ lo slogan che faceva presagire una mitica età dell’oro in cui tutto sarebbe stato concesso (fors’anche l’immortalità) e non ci sarebbero stati vincoli di sorta al desiderio di onnipotenza, ha mostrato crepe insanabili.

Ci si può liberare dagli stereotipi e dalle costrizioni con un assiduo lavoro di introspezione, ma c’è una cosa da cui in nessun modo ci si può liberare: la condizione umana. Quella che Hannah Arendt ha messo al centro della sua riflessione in Vita Activa. ’La condizione umana designa ciò che segna il nostro essere al mondo, quel che non dipende da noi, che ci è dato senza averlo scelto. Ciò da cui si parte. Essa condiziona qualsiasi posizione noi assumiamo nei suoi confronti, compresa quella della sua negazione. Detto in altri termini la sua caratteristica è l’irriducibilità, rappresenta di fatto il limite primo costitutivo da cui non si può prescindere in quanto oltrepassa il nostro controllo e la nostra presa’( D.Sartori).

Questo non impedisce beninteso la nostra libertà che si sperimenta come realtà concreta nello spazio pubblico, nell’agire politico con gli altri esseri umani dando inizio a qualcosa di inedito e di inatteso. É la natalità che designa questo aspetto della condizione umana in virtù della quale siamo capaci di introdurre qualcosa di nuovo .

Per tornare alla differenza sessuale da cui siamo partiti essa non è riducibile al discorso e al linguaggio ma è un dato reale nell’accezione corrente del termine. Le teorie del gender si sono affermate e imposte sulla scia dei rivolgimenti seguiti all’onda lunga del ’68, al ‘vietato vietare’, ’l’immaginazione al potere’….come un vero e proprio imperialismo culturale. Esse hanno cancellato con un colpo di spugna il senso della differenza sessuale, che non attiene soltanto all’ordine simbolico, ma all’ordine di quei dati di fatto irriducibili che lo stesso ordine simbolico deve assumere muovendosi tra la condizione di necessità e quella di libertà. Il taglio della differenza sessuale operato dal femminismo ha rimesso in gioco la linea di demarcazione tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Non siamo liberi dalla condizione data ma liberi nell’attribuzione di senso di quella condizione. Dobbiamo tenere insieme i due poli, necessità/ libertà, sapendo riconoscere quel che dipende da noi e quel che non dipende da noi.

La teoria gender ha finito per dimenticare il corpo, ma il corpo è il primo confine. E non bisogna dimenticare mai che non c’è simmetria tra i sessi. C’è solo un corpo che ha la capacità di generare, quello delle donne, e non sarà certo il linguaggio che invoca un presunto ‘diritto di procreare’ a cambiare il dato puro e semplice.

Il pensiero queer, che prende le mosse da quello gender, punta all’indifferenza sessuale esaltando l’egualitarismo. In questo modo la differenza sessuale diventa una sorta di variabile corporea buona per tutti gli usi che se ne vogliano fare in continuità col sogno prometeico di liberarsi dal peso del corpo superando quella che Gunther Anders chiamava la vergogna di non essersi fatti da sé.

Il pensiero della differenza ci ha reso libere dalla coercizione di ruoli imposti e accettati come destino naturale dovuto alla nostra differenza ma ci ha ha anche liberato dalla ossessione emancipazionista che ci vuole uguali agli uomini in tutto e per tutto, neutre, rendendo insignificante la nostra differenza. Noi però non abbiamo mai dimenticato che la nostra libertà non è onnipotente, non è incondizionata ma è capace di riconoscere la condizione umana incarnata che può fondare un nuovo umanesimo a radice materna, dove la relazione madre/figli sia nuovamente centrale nel percorso del divenire umani.

Luciana Piddiu
Ferney Voltaire 31 Maggio 2023




Nel segno dell’inflazione

Che l’inflazione sia, in questo momento, il nostro maggior problema economico-sociale è cosa di cui pochi dubitano. Dove invece i pareri divergono è sulle sue cause, le sue prospettive, le sue conseguenze sociali, i mezzi per combatterla.

Le cause. Temporalmente, l’inflazione dei prezzi al consumo è esplosa quest’anno, in corrispondenza con lo scoppio della guerra in Ucraina. Ma l’impulso che l’ha alimentata, spesso ce ne dimentichiamo, risale a circa due anni prima, quando – nella primavera del 2020 – è partita la corsa dei prezzi delle materie prime (specialmente metalli, gas, petrolio) e sono iniziate le prime difficoltà di approvvigionamento globale legate alla pandemia, e successivamente anche al blocco del canale di Suez. C’è voluto circa un anno perché gli aumenti si trasferissero sui prezzi all’importazione e sui costi di produzione delle imprese, e un ulteriore anno perché si scaricassero sui prezzi al consumo. È quel che è successo nel 2022, e continua nel 2023. La guerra ha ovviamente peggiorato le cose, ma non è l’origine delle tensioni attuali sui prezzi, che risentono anche della ripresa della domanda, favorita dagli stimoli fiscali dei governi e dall’ingente risparmio accumulato durante la pandemia.

Le prospettive. Su questo, come quasi sempre accade, gli economisti sono divisi. Se l’inflazione è prevalentemente da domanda, ha ragione la Bce che tenta di raffreddarla con l’aumento dei tassi di interesse, ma se invece è da costi, allora le politiche restrittive rischiano di essere poco efficaci, se non controproducenti. Per il 2023 la previsione dominante è di un rallentamento della corsa dei prezzi, ma sulla sua entità c’è grande incertezza. Contrariamente a una percezione molto diffusa, i prezzi del petrolio attuali non sono particolarmente alti, e il problema, semmai, è che sono destinati a salire in corso d’anno (così Davide Tabarelli, uno dei nostri massimi esperti di questioni energetiche). Il rischio che al 10-12% di inflazione attuale si aggiunga un 5-6% nei prossimi mesi è reale.

Le conseguenze sociali. Se, come non è inverosimile, il biennio 2022-2023 dovesse registrare un aumento (cumulativo) dei prezzi al consumo prossimo a 20% (rispetto al 2021), a fronte di un aumento del Pil nominale di poco superiore al 10%, dovremmo attenderci una erosione del potere di acquisto compresa fra il 5 e il 10%.

Ma chi pagherà il conto?

La risposta standard è: i pensionati e i lavoratori dipendenti che, a differenza delle imprese e dei lavoratori autonomi, non possono trasferire sui prezzi gli aumenti dei costi. Ma è una risposta un po’ affrettata, che non fa i conti con la complessità del tessuto produttivo del paese e con la legislazione vigente.

Per quanto riguarda i pensionati, ad esempio, occorre notare che le fasce basse saranno protette dalla indicizzazione delle pensioni al costo della vita (mantenuta dal governo Meloni), mentre a perdere pesantemente potere di acquisto saranno le fasce alte e medie, per le quali l’indicizzazione è stata attenuata dalla legge di Bilancio.

Riguardo ai lavoratori dipendenti, non è detto che il loro destino sarà peggiore di quello dei lavoratori autonomi. Il fatto è che entrambe le categorie sono molto eterogenee al loro interno. Fra i lavoratori dipendenti rischiano di più i lavoratori a termine e gli addetti delle piccole imprese, poco coperti dalla contrattazione sindacale e dallo Statuto dei lavoratori. Fra i lavoratori autonomi rischiano di più quanti, operando sul mercato internazionale, non possono scaricare sui prezzi di vendita l’aumento dei costi. Per questi lavoratori, e per i loro dipendenti, la spada di Damocle non è una riduzione del 5 o del 10% del loro potere di acquisto, bensì la perdita del posto di lavoro conseguente alla chiusura dell’attività. La vera frattura, in Italia, non è fra lavoro autonomo e lavoro dipendente, ma fra chi opera nella società delle garanzie (dipendenti pubblici e lavoratori stabili delle imprese medio-grandi) e chi opera nella società del rischio (lavoratori autonomi e loro dipendenti).

Che fare. Se l’obiettivo è contenere l’aumento dei prezzi, forse sarebbe saggio prendere atto della realtà: a dispetto delle campagne contro gli speculatori, l’inflazione italiana, come quella degli altri paesi europei, è un fenomeno esogeno, su cui i governi nazionali hanno pochissima influenza. Fondamentalmente, l’andamento dei prezzi dipenderà dalla guerra in Ucraina, dalle scelte della Russia, dalla pandemia, dalla Bce, dalle misure più o meno protezionistiche adottate dagli Usa e dalle contromosse europee. Inutile pensare che l’Italia, da sola, possa spostare il tasso di inflazione interno più di uno o due decimali. Tanto più che un’inflazione elevata è un toccasana per i conti pubblici dei paesi più indebitati.

Dove invece qualcosa si può fare, è nella gestione delle conseguenze dell’inflazione. Ma che cosa, posto che non possiamo indebitarci ancora di più?

Forse, se il rischio maggiore che corriamo è un’ulteriore riduzione della base produttiva, con chiusura di imprese e perdita di posti di lavoro, le poche risorse disponibili potrebbero essere concentrate su due obiettivi, circoscritti ma di grande importanza.

Il primo potrebbe essere di stimolare la formazione di nuovi posti di lavoro con massicce riduzioni del cuneo fiscale concentrate sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Il secondo obiettivo potrebbe essere di garantire uno speciale supporto ai lavoratori (autonomi e dipendenti) i cui redditi andranno a zero come effetto di fallimenti e chiusure. Un’operazione, questa, che sarebbe naturale condurre nell’ambito della annunciata ristrutturazione del reddito di cittadinanza: dopotutto, proprio perché hanno appena perso il lavoro, quei lavoratori sono sicuramente occupabili, nonché provvisti di qualche professionalità.




Le due facce della diseguaglianza

Che le diseguaglianze siano molto aumentate negli ultimi anni è nozione di senso comune. Alcune statistiche ufficiali sembrano supportare questa percezione: la percentuale di famiglie in condizione di povertà assoluta, ad esempio, è più che raddoppiata negli ultimi 15 anni. Se però, anziché rivolgerci alle statistiche della povertà, ci rivolgiamo a quelle della distribuzione del reddito, il quadro che emerge è molto più sfumato. L’indice di concentrazione del reddito di Gini (una statistica di cui esistono molte varianti) conferma che siamo uno dei paesi europei più diseguali, ma non mostra una chiara e univoca tendenza all’aumento della diseguaglianza. Alcuni studi rivelano anzi che il grado di diseguaglianza attuale è minore di quello degli anni ’70, e che gli interventi redistributivi attuati in questi anni di pandemia hanno attenuato il grado complessivo di diseguaglianza.

Come stanno dunque le cose? Perché una parte delle statistiche pare in conflitto con le nostre percezioni?

Un primo ordine di ragioni è che l’indice di diseguaglianza e quello di povertà assoluta misurano fenomeni diversi. Una crescita della quota di famiglie in povertà assoluta può benissimo non accompagnarsi a un aumento del grado di diseguaglianza. Un’eventualità del genere, ad esempio, può verificarsi se il potere di acquisto di tutti i ceti si abbassa nella medesima misura, facendo precipitare le famiglie più povere sotto la soglia (assoluta) di povertà. O se l’aumento della distanza fra ceti bassi e ceti medi è compensato da una diminuzione della distanza fra ceti medi e ceti alti.

Ma la vera origine dello scarto fra le nostre percezioni e le statistiche della concentrazione del reddito sta in una nostra confusione. Una sorta di spiazzamento temporale. Noi continuiamo a pensare i problemi della diseguaglianza con gli occhiali della prima Repubblica, e non abbiamo ancora ben compreso come le cose hanno iniziato a funzionare nella seconda, ossia dopo il 1992-1993. La differenza cruciale fra i due periodi è che solo nel primo c’erano larghi margini per assicurare processi di mobilità assoluta, o strutturale: da contadini si diventava operai (anni ’50 e ’60), e poi da operai impiegati (anni ’70 e ’80), per la semplice ragione che lo stock di posizioni sociali “pregiate” era in aumento, e quello delle posizioni sociali marginali era in diminuzione. Di qui un flusso di transizioni ascendenti, cui corrispondeva un flusso di transizioni discendenti molto minore, in quanto era la struttura stessa dell’occupazione a evolvere in modo sempre più generoso. Di qui, anche, la sensazione di un pieno funzionamento del cosiddetto ascensore sociale.

Nella seconda Repubblica non è più così, e per forza di cose: la struttura occupazionale offre un mix di posizioni alte, medie e basse sostanzialmente stazionario, senza una significativa formazione di posti pregiati aggiuntivi. E, se le caselle da occupare sono più o meno le stesse, con i medesimi privilegi e i medesimi handicap, il grado di diseguaglianza complessiva non può variare granché. La competizione sociale diventa un gioco a somma zero: per ogni ragazzo che sale nella scala sociale rispetto ai suoi genitori, deve essercene uno che scende. Addio ascensore sociale, se per ascensore sociale intendiamo quel che abbiano sempre inteso: un mondo di opportunità, in cui la mobilità verso l’alto prevale nettamente rispetto a quella verso il basso.

In queste condizioni, l’unico tipo di eguaglianza concepibile diventa l’indipendenza del destino sociale di ogni ragazza o ragazzo dalle condizioni familiari di origine. I sociologi parlano in questo caso di mobilità relativa perfetta: c’è mobilità perfetta quando, pur rimanendo la struttura sociale quella che è, il figlio dell’operaio e quello del dirigente hanno le medesime possibilità di raggiungere posizioni elevate. Il che implica logicamente che, per ogni figlio di operaio che sale, dovrà esserci un figlio di dirigente che scende. Quanto si sia lontani da questa situazione teorica, è cosa che si vede ad occhio nudo. E spiega perché, nonostante le statistiche ci dicano che il grado di diseguaglianza è abbastanza stabile, la nostra impressione è di vivere in una società sempre più diseguale. Il fatto è che noi pensiamo l’eguaglianza in termini di pari opportunità, e constatiamo ogni giorno che, anche grazie al fallimento del sistema educativo, siamo sempre più lontani dalla situazione ideale.

Ma è solo questo cui aspiriamo quando parliamo di eguaglianza? Soprattutto, è solo questo che abbiamo in mente quando rimpiangiamo i tempi dell’ascensore sociale?

Non credo proprio. Quel che rimpiangiamo è un tempo in cui erano le opportunità a crescere, il che permetteva a molti di salire senza che fossero in troppi a scendere. Quel che dobbiamo chiederci, allora, è che cosa rendeva tutto questo possibile. O, se preferite, che cosa, nel passaggio fra prima e seconda Repubblica, ha alterato così radicalmente il gioco della mobilità sociale.

Ebbene, la risposta è di una sconcertante banalità: quel qualcosa è il trend del Pil e della produttività che, dopo essere cresciuti vigorosamente per tre decenni, dopo il 1992-93 sono rimasti al palo. L’ascensore sociale richiede aumento dei posti pregiati, e l’aumento dei posti pregiati, a sua volta, richiede che l’economia cresca, almeno nel medio periodo. È prosaico, ma senza un ritorno della crescita anche i problemi della diseguaglianza avranno ben poche chance di fare passi avanti significativi.




M: la lettera più importante dell’acronimo STEM. Sta per Matematica

Quasi fosse una parola magica in grado di mutare, come la pietra filosofale, ogni vile metallo in oro, l’acronimo STEM, ormai massicciamente usato anche nel nostro italico idioma, viene evocato in pressoché tutti i documenti emessi da importanti istituzioni internazionali (quali le Nazioni Unite con l’Agenda Vision 2030 per lo sviluppo sostenibile) a cui, almeno sulla carta, stiano a cuore le tematiche della cooperazione con i paesi, cosiddetti, in via di sviluppo.

Per chi non lo ricordasse,  STEM sta per Science, Tecnhology, Engineering e Mathematics, un quadrinomio che ha tutto il piglio della via maestra che presiede all’elaborazione di progetti di sviluppo solidi e sostenibili.  E’ anche latore, però, di  un messaggio che, a volerlo leggere attentamente, non può non suscitare curiosità e attenzione. Che la prima lettera dell’acronimo stia per Scienza va bene, è ragionevole, ci mancherebbe altro. Un po’ vago, magari o, eventualmente, troppo onnicomprensivo.  La T di Tecnologia, anch’essa imprescindibile,  sembra tuttavia voler fare il paio con la E di ingegneria, suggerendo un non so che di ridondante, non foss’altro per una approssimativa tendenza ad assimilare l’una all’altra, dato che la tecnologia attinge alll’ingegneria e questa da quella in una mutua simbiosi la cui efficacia, nel bene o nel male, è sotto gli occhi di tutti. Sorprende quindi che, a fronte di una certa qual vaghezza di significato delle prime tre iniziali, l’ultima di STEM, la M,  indichi con accurata precisione la  Matematica. Si badi. Non fisica, non  biologia o non, persino, medicina che, forse, anzi sicuramente,  già sono state pensate, e riassunte, nel più onnicomprensivo Scienza. Bensì matematica.  Che pure scienza è, ma che è richiamata quasi come se estratta dalla sua propria nicchia, fuori dalla repubblica popolata dalle proprietarie delle prime tre iniziali, come per distinguerne un ruolo che vuol sapere molto più di strategia piuttosto che di quella tattica spicciola con cui ci si illude di  poter fomentare l’innovazione con interventi calibrati sul breve periodo.

Tutto ciò non è casuale, naturalmente,  e non solo perché,  come si dice, “la Matematica è dappertutto”,  un pur innegabile dato di fatto. Dai codici a barre a quelli QR  (felici applicazioni della sofisticata teoria dell’omologia persistente), ai PIN delle nostre carte bancarie, dalla teoria dei Big Data agli studi sulla formazione del consenso, la matematica ha invaso ogni piega della vita delle donne e uomini moderni. Per non parlare, ancora,  dei motori di ricerca che rendono così agevole, al modico prezzo di cessione di risibili, si fa per dire, porzioni della nostra “privacy”, l’accesso ai vari contenuti della rete che, già da una ventina d’anni, è divenuta un  “sistema complesso” nel suo più rigoroso senso matematico.

C’è dell’altro, però, su cui potrebbe ragionarsi, a proposito della M di STEM.  Qualcosa certamente non sfuggito agli studiosi o politici impegnati a confezionare ricette di ripresa economica e progresso sociale.

Primo, la matematica è, tra tutte le scienze, quella più affine alle discipline, cosiddette, umanistiche, come provano decine e decine di esempi di grandi scrittori evidentemente soggiogati dal suo fascino. E non occorre risalire a Dante, col suo Euclide Geomètra tra gli Spiriti Magni del Nobile Castello del Limbo. Basti pensare alle immortali pagine sulla geometria non euclidea dei “Fratelli Karamazov” di Dostoeevski. O all’uomo senza qualità di  Robert Musil. il cui protagonista matematico altro non è che un  “Giovane Torless”, l’adolescente sbalordito dai numeri complessi, che, giunto a maturità, lascia che l’entusiasmo ceda il passo ad una osservazione disillusa del mondo. Si può ancora pensare al Borges della Biblioteca di Babele, o al Joyce nelle ultime pagine del capolavoro Dedalus che, artificialmente, conclude una lista che potrebbe naturalmente allungarsi.

Secondo,  a fronte dell’altissima qualità in termini di contributi alla formazione di know-how e di stimolo all’innovazione tecnologica, la Matematica è la disciplina che può essere praticata più a buon mercato. Alla stragrande maggioranza dei matematici professionisti, e inizianti!, non occorre nulla più che un foglio di carta e una penna o una lavagna e un gesso. A supporto di tale tesi, si legga per esempio “La ruota e il ruotino: perche la didattica a distanza non è la soluzione”, di Andrea Ricolfi, il cui grido di allarme e di avviso si leva per scongiurare l’abiura della tradizionale pratica in favore del “digitale è bello”, cavalcato maldestramente durante la pandemia.

La Matematica, per farla breve, non richiede  gli investimenti necessari per allestire una stazione spaziale o fabbricare un acceleratore di particelle.  Al tempo stesso è irrinunciabile. Non si otterrebbero risultati migliori, in un’economia giovane, preferendole un prodotto più caro e più sofisticato, tanto  essa  già finemente lo è, senza rinunciare ad essere “popolare”, cioè a buon mercato, come era ieri, come è oggi e come sarà domani.

Di qui l’importanza che, in via teorica, si attribuisce allo sviluppo della cultura matematica  per la crescita delle economie giovani come, per esempio, quelle dell’Africa subequatoriale che, tra l’altro, non hanno ancora scongiurato il rischio di vedersi catapultare in una crisi alimentare creata artificialmente, innescata da un conflitto, quello Russo-Ucraino, che pur si consuma in aree geograficamente molto distanti.

Il ruolo strategico della matematica per lo sviluppo delle aree depresse del pianeta è un dato ormai così acquisito da attirare investimenti di importanti società scientifiche come l’Unione Matematica Internazionale (IMU) e la London Mathematical Society che, in collaborazione con il prestigioso African Millennium Mathematics Science Initiative (AMMSI), con sede a Nairobi, già da qualche anno  ha lanciato il programma MARM (Mentoring African Research in Mathematics),  affidato sin dall’inizio all’autorevole e mirabile guida del professor Frank Neumann dell’Università di Leicester (UK). Lo schema funziona press’a poco così. Il consorzio LMS-IMU-AMMSI pubblica un bando con cadenza annuale, raccogliendo la disponibilità di matematici professionisti attivi in tutto il mondo ad assumere la mentorship (come si direbbe in italiano? Google dice “tutoraggio”, ma non rende l’idea) di un dipartimento di matematica di uno stato africano tra queli indicati dal bando stesso. Il matematico designato, e assegnato ad una specifica realtà, ha dunque il compito  di agire in modo da innescare un circolo virtuoso, contribuendo a formare un clima di vivacità scientifica che, come si è detto, si può ottenere al prezzo di sole interminabili (e divertenti!) discussioni con gesso e lavagna, che possa perpetrarsi anche, e soprattutto, dopo il termine del mandato del mentor. Nell’ultimo round la London Mathematical Society ha selezionato la Namibia (responsabile locale: Martin Mugochi), il Senegal, l’Etiopia e la Costa D’Avorio (https://www.lms.ac.uk/grants/ mentoring-african-research-mathematics) quali beneficiari del programma. Il Progetto MARM ha inoltre sostenuto, con un contributo finanziario, l’organizzazione, da parte della  National Commission for Research, Science and Technology (NCRST), della  Prima Olimpiade di Matematica della Namibia, un primo piccolo passo per avviare giovani talenti a partecipare alle competizioni regionali e internazionali.

  Val la pena di ricordare che molte Fields Medals (come se fossero i premi Nobel per la matematica) sono state vinte da campioni alle olimpiadi internazionali di matematica.  Un esempio nostrano: Alessio Figalli nel 2018, che vinse le Olimpiadi di Matematica al termine della sua formazione classica in un rinomato liceo di Roma.

Per rafforzare e consolidare i buoni risultati ottenuti con l’implementazione delle Olimpiadi di matematica è bene ricordare, argomento sul quale si ritornerà più avanti, che il 24 Ottobre prossimo si aprirà ufficialmente la prima edizione della Scuola Internazionale Primaverile di Matematica della Namibia, NAISSMA2022, sotto l’egida della London Mathematical Society, del Politecnico e dell’Università di Torino,  dello stesso NCRST e con l’Alto Patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Pretoria (competente anche per  il territorio namibiano), la quale garantirà la sua presenza con la partecipazione del Professor Pierguido Sarti, astrofisico, e Addetto Scientifico presso la Rappresentanza Diplomatica. Del resto l’appoggio diplomatico non è nuovo, poiché già si era materializzato nel corso del primo meeting MARM-NARM (From Mentoring to Networking African Researchers in Mathematics), che al saluto augurale del Primo Segretario di legazione Giulia Casagrande ha aggiunto il  mirabile intervento “International Cooperation. The Italian Way” del professor Pierguido Sarti, una specie di suggeritore occulto che ha sollecitato l’organizzazione e realizzazione diuna scuola internazionale di matematica in Namibia, con forte forte coinvolgimento europeo. NAISSMA2022, appunto.

La rappresentanza diplomatica, confermando la propria sensibilità e lungimiranza  e incarnando nei fatti lo spirito di cooperazione, ha erogato un sostanzioso contributo per l’acquisto dei premi (tablets, libri) da assegnare ai giovani vincitori delle Olimpiadi. Inoltre, quasi come per apporre un  sigillo  all’iniziativa, la cerimonia di premiazione ha visto la convinta ed entusiastica partecipazione della Vice Ambasciatrice Silvia Marrara che, a conclusione del suo intervento (il cui integrale può essere ascoltato attraverso la registrazione della diretta facebook dell’evento), ha affermato che: “In a world that is more and more looking at the new frontiers of the artificial intelligence, let me however to remind you that everything starts with human intelligence and that math sciences are the food for our next generation thoughts. Finally to conclude I would love  to mention Leonardo da Vinci, who said: “The one that fall in love with practice without science are like captains of a ship without a compass. They will never be sure of where they are going”.

Parole certamente opportune, otreché appropriate, per concludere questo articolo.  Non solo in quanto, provenendo da un non matematico, sono esenti da possibili (ma innocui) conflitti di interesse, ma anche perché, allo stesso tempo, fungono da suggerimento autorevole, ancorché  indiretto e magari non intenzionale,  per  future politiche scientifiche che possano consentire al nostro Sistema Paese di non rimanere troppo indietro in tempi resi incerti da una possibile prolungata austerità.

Letterio Gatto

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