La “seconda ondata” di misure restrittive: il DPCM del 4 di novembre alla prova della costituzione

Visto che il Governo – di fronte alla recrudescenza del virus – ha ritenuto, all’inizio di novembre, di procedere nuovamente con una serie di misure di contenimento dell’epidemia tali da limitare diversi diritti fondamentali dei cittadini, occorre verificare se l’Esecutivo – a questo “secondo giro” di restrizioni –  ha evitato di incappare negli errori del primo, che – come detto in un precedente contributo sul tema per la fondazione Hume – sono consistiti nell’adottare, tra le altre, misure potenzialmente tali da comprimere la libertà personale (da tenere distinta rispetto alla semplice libertà di circolazione), ma senza il rispetto della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Costituzione e senza che gli atti amministrativi (i DPCM) che eccezionalmente disponevano simili restrizioni senza l’intervento del Giudice fossero in qualche modo coperti da una autorizzazione contenuta in norme di legge di rango costituzionale. Per compiere questa verifica senza dilungarci in inutili ripetizioni è quindi il caso di limitarci in questa sede a riassumere i principi che – sotto il profilo costituzionale – devono guidare i poteri dello stato nel gestire le misure di reazione a situazioni di emergenza nazionale. Il lettore potrà infatti – se lo desidera – trovare nel nostro precedente contributo un dettaglio degli argomenti giuridici su cui possono essere fondati i principi in questione. Ma veniamo, appunto, all’elenco dei principi di cui si tratta.

Primo: quello che viene normalmente definito come “stato di eccezione” è figura di diritto pubblico e internazionale residuale e vicaria, che dunque non può essere invocata quando la costituzione nazionale disciplina già con apposite norme i corrispondenti casi di emergenza. Assume allora rilievo (per escludere appunto la possibilità di ricorrere allo “stato di eccezione” – eventualmente fatto risalire alla dichiarazione di pandemia dell’OMS – come fondamento delle norme che provocano limitazioni dei diritti fondamentali) la considerazione che la nostra carta fondamentale già prevede norme per disciplinare ogni possibile caso di emergenza nazionale.

Secondo: l’art. 78 Cost. tratta del caso più grave di stato di emergenza nazionale, la guerra, stabilendo la possibilità di una delega del potere normativo generale al potere esecutivo (i famigerati “pieni poteri”), ma ponendo condizioni: anzitutto è il parlamento che deve deliberare lo stato di guerra (dunque non può il Governo conferirsi da solo i pieni poteri); in secondo luogo è ancora il parlamento a decidere quali poteri conferire al Governo (dunque il Governo non può neppure decidere da sé quanto “pieni” dovranno essere, né quanto dureranno, i poteri che potrà esercitare durante il periodo bellico); infine va notato che il parlamento conferisce i poteri eccezionali al Governo nella sua collegialità (neppure in caso di guerra la Costituzione prevede dunque l’attribuzione di “pieni poteri” al Presidente del Consiglio) In sintesi: anche nella peggiore delle emergenze possibili, per i costituenti, resta ferma sia la centralità del parlamento nella decisione iniziale del conferimento dei pieni poteri al Governo (e dei relativi limiti di oggetto e durata) sia il principio che non deve esserci alcun uomo solo al comando (politico) del paese.

Terzo: per ogni stato di emergenza diverso dalla guerra dispone la seconda parte dell’art. 77 Cost., a norma del quale, qualora si dia un caso di emergenza che al Governo appare “straordinario” in termini di “necessità” e di “urgenza”, lo stesso Governo – mediante appositi atti, i “decreti legge” emanati dal Consiglio dei Ministri, controfirmati dal Presidente della Repubblica e pubblicati in Gazzetta Ufficiale – può esercitare una potestà legislativa eccezionale e provvisoria, che resta soggetta a una conferma a posteriori, entro il termine fissato dalla stessa Costituzione stessa, da parte dal Parlamento con maggioranza ordinaria (altrimenti i decreti già emessi diventano inefficaci con effetto retroattivo, salvo il potere del Parlamento – dunque non del Governo – di disciplinare le situazioni pendenti).

Quarto: la dichiarazione di stato di emergenza pronunciata dal Governo in data 31 gennaio 2020 – e poi prorogata in estate – in forza della legge sulla protezione civile [ossia del Dlgs. 2 gennaio 2018, n. 1, in particolare con riferimento all’articolo 7, comma 1, lettera c), e all’articolo 24, comma 1] non è in alcun modo idonea a spostare i termini della questione costituzionale della legittimità dei DPCM, considerando che la legge sulla protezione civile è una semplice legge ordinaria, dunque non di rango costituzionale, con la conseguenza che quella legge – e gli atti adottati in forza di quella legge – non potrebbero in alcun caso legittimamente conferire ad organi del poter esecutivo delle potestà legislative ulteriori rispetto a quelle previste espressamente dalla Costituzione.

Quinto: la stessa legge sulla protezione civile – considerando il contenuto oggettivo delle sue norme – non sembra affatto riconoscere al Governo (e tanto meno al Presidente del Consiglio o ai singoli ministri) il potere di emettere provvedimenti diversi da quelli che rientrano nella ordinaria competenza secondo la legge amministrativa e la Costituzione.

Sesto: nel valutare la legittimità costituzionale di alcune misure occorre sempre tenere distinti i provvedimenti che limitano la libertà di circolazione ai sensi art. 16 Cost. (che possono essere adottati in forza di norme con rango di legge) da quelli che limitano la libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost. (che invece restano soggetti sia a riserva di legge sia a riserva di giurisdizione, dunque non possono essere adottati in forza di una norma di legge che non subordini la restrizione all’intervento – con un provvedimento ad hoc per ciascuna situazione concreta – della magistratura). A tale riguardo occorre in particolare ricordare che la Corte Costituzionale ha sostenuto a suo tempo (Sent. 68/1964) che le limitazioni alla libertà di circolazione sono certamente quelle che limitano l’accesso a determinati luoghi, ma non possono estendersi – quanto agli effetti – sino a tradursi in un obbligo di permanenza domiciliare, altrimenti trasformandosi in limiti alla libertà personale. Secondo la giurisprudenza costituzionale – in altre parole – i limiti della libertà di circolazione hanno per oggetto dei “luoghi” definiti e circoscritti il cui accesso può essere impedito ai cittadini per legge (o in base ad atto amministrativo legittimamente emanato in base ad una norma con forza e rango di legge) perché sono pericolosi, mentre se il divieto di spostamento colpisce direttamente delle categorie di persone, saremmo in presenza anche di limitazioni della libertà  personale, dunque la legge (o un atto amministrativo emesso sulla base di una norma con rango di legge) non sarebbe sufficiente per adottare la limitazione in forma generale ed astratta, ma servirebbe prevedere anche un provvedimento di conferma del Magistrato che autorizzi la limitazione in concreto e in relazione al singolo caso. Sempre in applicazione di questo principio, peraltro, di limiti alla libertà personale, peraltro, si dovrebbe parlare – in forza del principio di prevalenza della sostanza sulla forma quando si tratta di verificare i vulnus costituzionali – ogni volta in cui la limitazione di accesso ad una determinata zona (o di circolazione all’interno della zona) è sì strutturata in modo da riguardare formalmente dei luoghi, ma presenta estensione ed incisività tali da avere gli stessi effetti di un confinamento domiciliare delle persone che in quei luoghi si trovano a dimorare con continuità.

Settimo: secondo la più recente giurisprudenza del Tribunale dei Ministri (quella formatasi in occasione dei famosi casi sui migranti che hanno coinvolto l’ex Ministro dell’Interno), la limitazione della libertà personale in forza di un atto amministrativo che viola norme di rango sovraordinato, anche quando si tratta atto formalmente legittimo perché adottato da un membro del Governo in forza di una norma di legge, può comunque dar luogo a sequestro di persona (aggravato da abuso di potere) e, più in generale, soggiacere al sindacato del giudice penale, che – previa autorizzazione parlamentare a procedere per reati ministeriali – può conoscere delle fattispecie criminose eventualmente integrate, di fatto “disapplicando” anche ai fini penali – in presenza di una norma sovraordinata in senso difforme – la norma che autorizza l’emissione dell’atto amministrativo (formalmente legittimo ma) che contravviene alla norma sovraordinata.

Ottavo: il DPCM è un atto amministrativo, dunque – a voler ritenere che, quanto meno per le procedure di impugnazione, prevalga la forma sulla sostanza – è atto che resta sottratto, per un verso, al controllo previo di costituzionalità prima facie attuato per mezzo della controfirma del Presidente della Repubblica e, per altro verso, al sindacato della Corte Costituzionale, essendo viceversa annullabile dal Giudice amministrativo e disapplicabile dal Giudice civile ordinario nei casi in cui limita diritti soggettivi (oltre che da quello penale, quanto meno secondo l’interpretazione di cui abbiamo detto nel punto sette qui sopra, anche).

Svolte queste necessarie premesse, vediamo ora di analizzare più in dettaglio la struttura degli atti e il contenuto delle norme con cui – all’inizio di novembre – sono state create le famose “zone” di rischio a colore differenziato del territorio nazionale. Partiamo col dire che l’impianto di queste nuove misure è in certa misura diverso da quello precedente (e che, per questa ragione, in parte risolve alcuni problemi costituzionali che affliggevano in particolare le misure restrittive valide per la prima fase dell’emergenza e contenute nei primissimi DPCM della primavera scorsa), mentre – sotto altri profili – i nuovi provvedimenti ricalcano il modello di quelli vecchi e dunque ne ripropongono le criticità.

Il nuovo DPCM – entrato in vigore il 4 novembre 2020 ha anzitutto un’efficacia limitata nel tempo, pari a un mese, di guisa che alla scadenza dovrà essere adottato un nuovo DPCM. Il DPCM dispone due gruppi di restrizioni: alcune riguardano tutto il territorio nazionale e sono entrate in vigore automaticamente per effetto del DPCM stesso, altre – pure definite dal suddetto DPCM – hanno invece valenza solo regionale ed entrano in vigore, sempre automaticamente, in ragione della classificazione della singola regione (a seconda del livello di rischio). La classificazione delle regioni è variabile nel tempo ed è demandata al Ministero della Salute, che provvede con decreto ministeriale, d’intesa con i presidenti delle regioni, sulla base di una complessa serie di indici (si tratta di 21 parametri che si basano su indici e dati medici e di altro genere che si trovano contenuti nel documento condiviso con la Conferenza delle Regioni e titolato “Prevenzione e risposta Covid-19, evoluzione della strategia per il periodo autunno-inverno” allegato al DPCM). I provvedimenti ministeriali di classificazione del rischio sono soggetti a una verifica dei dati su base settimanale, in vista di una loro modifica, ma durano in vigore almeno 15 giorni dall’adozione. Veniamo ora al contenuto delle misure.

Per l’intero territorio nazionale, il DPCM prevede diverse restrizioni: limitazione della circolazione delle persone dalle 22 alle 5, salve ragioni di lavoro, necessità o salute (c.d. “coprifuoco”); chiusura di mostre e musei; didattica a distanza al 100% per scuola secondaria, salva attività di laboratorio; attività in presenza per asili, primarie e secondarie di primo grado (scuole medie), con utilizzo di mascherine, salvo per bambini al di sotto dei 6 anni; chiusura esercizi commerciali, nelle giornate festive e prefestive, dei centri commerciali salvo per le farmacie, negozi di generi alimentari, tabacchini ed edicole presenti nella struttura; 50% di occupazione massima della capienza su mezzi pubblici del trasporto locale e ferroviario regionale; chiusura bar e ristoranti dalle 18, con possibilità di restare aperti per il pranzo della domenica; sospensione dello svolgimento delle prove preselettive e scritte dei concorsi pubblici e privati (comprese le procedure di abilitazione all’esercizio delle professioni) salvo per i casi in cui la valutazione vada effettuata solo su basi curriculari ovvero in modalità telematica; chiusura giochi e scommesse presso bar e tabaccherie; consentiti eventi e competizioni (che siano riconosciuti di interesse nazionale con provvedimento del CONI e del CIP), riguardanti gli sport individuali e di squadra organizzati dalle rispettive federazioni sportive nazionali, discipline sportive associate, enti di promozione sportiva o da organismi sportivi internazionali, all’interno di impianti sportivi a porte chiuse o all’aperto ma senza la presenza di pubblico; “raccomandazione” (ma non obbligo) di non spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, se non per esigenze lavorative, di studio o per motivi di salute.

Al Ministro della Salute – come si diceva – è affidato il compito di regolare l’entrata in vigore di eventuali ulteriori misure restrittive nelle aree dove la diffusione del virus risulta più elevata e le strutture sanitarie più congestionate, classificando – con decreto ministeriale – le regioni in tre “zone di rischio” connotate ciascuna da un diverso colore, cui corrispondono diversi livelli – crescenti – di restrizioni.

Zona gialla: regioni a livello di rischio moderato, in cui si applicano solo le limitazioni a valenza nazionale indicate in precedenza.

Zona arancione: Regioni a criticità medio-alta, per cui sono previste le seguenti misure aggiuntive rispetto a quelle valide su scala nazionale: divieto di spostamento, in entrata e in uscita, dalla Regione (salvo per comprovate esigenze di lavoro, salute e casi di necessità e urgenza); quanto alla didattica, sono consentiti solo spostamenti strettamente necessari ad assicurare lo svolgimento della didattica in presenza e nei limiti in cui la stessa risulta consentita; in ogni caso vi è la possibilità di rientro nel proprio domicilio o nella propria residenza; vietato ogni spostamento in un comune differente da quello di residenza, domicilio o abitazione, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di studio, motivi di salute, situazioni di necessità e urgenza o per svolgere attività o usufruire di servizi non sospesi e non disponibili nel proprio comune; sospese le attività dei servizi di ristorazione, salvo mense, catering e ristorazione con asporto e con consegna a domicilio.

Zona rossa: zona a criticità più elevata, per cui valgono le seguenti misure aggiuntive: divieto di ogni spostamento – non solo in entrata e in uscita dalla Regione e dei confini del comune di residenza, domicilio o abitazione – ma anche all’interno del territorio comunale stesso, salve comprovate esigenze lavorative, di salute ovvero necessità e urgenza; chiusura per i negozi di commercio al dettaglio, ad eccezione di generi alimentari, farmacie, edicole; chiusura dei mercati di generi diversi da quelli alimentari; divieto di attività di somministrazione di alimenti e bevande da parte di bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie, salva la ristorazione con consegna a domicilio e, ma solo fino alle ore 22.00, quella con asporto e – in questo caso – con divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze; sospese le attività sportive, anche svolte nei centri sportivi all’aperto; consentita l’attività motoria in prossimità della propria abitazione, nel rispetto della distanza personale di almeno un metro e con obbligo di mascherina; consentita l’attività sportiva esclusivamente all’aperto e in forma individuale; sospesi eventi e competizioni di enti di promozione sportiva; consentita l’attività scolastica in presenza solo per asili, scuola primaria e prima media; consentite le attività inerenti servizi alla persona; i datori di lavoro pubblici limitano la presenza del personale nei luoghi di lavoro per assicurare esclusivamente le attività che ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente tale presenza.

Questa essendo la sostanza delle nuove misure, vediamo di concentrarci su quelle che appaiono più “problematiche” in termini di diritti fondamentali, che sono il “coprifuoco” dalle 22 alle 5 su tutto il territorio nazionale, il divieto di spostamento tra diverse regioni e/o comuni nelle zone arancioni e, infine, il “confinamento domiciliare” all’interno delle zone rosse. In relazione a tutte queste ipotesi – per cui valgono sempre le eccezioni delle esigenze lavorative, di salute e di altre “necessità” e “urgenze” – si ripropone infatti il problema della riserva di giurisdizione (non garantita dai DPCM, ma) prevista dalla Costituzione per le limitazioni della libertà personale.

Si tratta di un problema che lo stesso Governo ha tentato a suo modo di risolvere quando – dopo un primissimo periodo in cui i suoi DPCM sono risultati “non coperti” da alcuna norma con forza di legge – ha emanato una serie di decreti legge che autorizzavano la successiva adozione, con atto amministrativo, di misure generali di contenimento dell’epidemia. Nelle norme contenute in questi decreti legge (si veda in particolare l’art. 1.2 del Decreto Legge n. 19 del 2020) si menziona infatti espressamente la possibilità di limitare la libertà di circolazione (dunque non la libertà personale), affermando però che queste limitazioni di libertà di circolazione potrebbero essere adottate anche “prevedendo limitazioni alla possibilità di  allontanarsi  dalla  propria residenza, domicilio o dimora se non per spostamenti individuali limitati nel tempo e nello spazio o motivati da esigenze  lavorative, da situazioni di necessità o urgenza, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni”. Questo significa – in sostanza – che il Governo, in veste di legislatore delegato, ha sostenuto nei suoi decreti legge che rappresenterebbe una “semplice” limitazione della libertà di circolazione (e non dunque anche della libertà personale) il fatto di porre limiti agli spostamenti dei cittadini di incisività tale da tradursi in un divieto di allontanamento “senza giusta causa” dal proprio domicilio o dalla propria dimora.

Tali decreti sono stati poi convertiti dal Parlamento, che dunque ha fatto propria la tesi del Governo. E’ tuttavia evidente che né il Governo (e tanto meno il legislatore in sede di conversione) hanno competenza a fornire una interpretazione autentica alle norme della Costituzione, e che neppure possono decidere da sé quali libertà una norma restrittiva comprime, essendo entrambi tenuti al pieno rispetto delle regole e dei principi costituzionali per come definiti e interpretati nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. Va tuttavia aggiunto che il fatto che sia i decreti legge sia le leggi di conversione siano stati controfirmati dal Presidente della Repubblica senza sollevare rilievi significa che il punto di vista del Quirinale è che si tratti di misure – quanto meno secondo una valutazione prima facie – legittime, dunque che anche il Capo dello Stato ritiene non manifestamente infondata la tesi del Governo e del legislatore secondo cui quel tipo di restrizione – per quanto “forte” – potrebbe rappresentare una semplice limitazione della libertà di circolazione e non anche della libertà personale.

Nonostante l’autorevolezza dell’avallo del Quirinale, resta il fatto che – guardando tuttavia ai già citati principi elaborati in passato sul tema dalla giurisprudenza costituzionale – resta lecito sostenere una tesi diversa, ossia che la sola misura certamente legittima (a voler ritenere che il DPCM del 3-4 novembre possa avere forza e valore equiparato ad una legge, per effetto appunto della “copertura” fornita dai decreti legge convertiti dal parlamento) sia quella che limita lo spostamento tra diverse regioni (o tra diversi comuni della stessa regione) quando in almeno uno dei due territori esiste un rischio sanitario classificabile almeno nella categoria “arancione”. In queste ipotesi, in effetti, si limita la libertà di spostamento – dunque la libertà di circolazione – secondo criteri territoriali e sulla base del grado di pericolo rilevato nei relativi territori. Questo consente di sostenere che limitazione alla circolazione non dissimula un limite alla libertà personale e, dunque, incontra solo una riserva di legge, di guisa che con tutta probabilità – a voler ritenere, come pare di potersi fare, che l’ultimo DPCM sia atto “autorizzato” dai decreti legge precedenti – saremmo in presenza di una limitazione alle libertà personali disposta secondo procedure istituzionalmente corrette e con atti legittimi sotto il profilo costituzionale.

Più problematica appare la situazione con riferimento alle misure del cosiddetto “coprifuoco” (divieto di uscire di casa tra le 22 e le 5 su tutto il territorio nazionale) e del “confinamento domiciliare” (divieto di abbandonare senza giusta causa la dimora o il domicilio se si trova nelle regioni “rosse”). Anche in relazione a simili restrizioni, come si è visto, il Governo ha ritenuto di potersela cavare – con l’appoggio del legislatore e con l’avallo del Colle – sostenendo che si tratterebbe sì di limiti più incisivi, ma pur sempre alla sola libertà di circolazione. In realtà, come si diceva, si potrebbe sostenere anche che si tratta di restrizioni che – per quanto facciano salva la possibilità di spostarsi per ragioni di lavoro, salute o casi di necessità e urgenza – si sostanziano in vere e proprie limitazioni di libertà personale destinate a colpire categorie di soggetti (piuttosto che non determinati luoghi o territori) e che di conseguenza – rientrando nel disposto dell’art. 13 Cost. – dovrebbero restare soggette a riserva non solo di legge ma anche di giurisdizione. Il che le renderebbe illegittime anche a voler ritenere che al DPCM del 4 novembre sia attribuito valore e forza di legge per effetto della “delega” di adottare quelle misure concessa con i decreti legge precedenti. Si noti in particolare che l’esistenza delle tre “eccezioni” previste dai DPCM sia per il coprifuoco che per il confinamento domiciliare non pare poter mutare di molto la sostanza delle cose, essendo evidente che obbligare un cittadino a non poter uscire di casa se non per “lavorare”, “curarsi” o “far la spesa nelle vicinanze” e soddisfare altre “necessità urgenti”, significa limitare in misura assai significativa la sua libertà personale. Per capire che le cose stanno in questi termini basta infatti considerare che regimi di “libertà ridotta” di questo genere appaiono (oltre che compatibili con certe forme di schiavitù conosciute nella storia, anche) piuttosto simili al regime che connota alcune misure alternative all’esecuzione delle pene detentive. Tutto questo per dire che, in relazione al coprifuoco notturno nazionale e al confinamento domiciliare in zona rossa, resta assai concreto il rischio di una loro illegittimità costituzionale, sotto il profilo della violazione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost., anche a voler ritenere che si tratti di misure espressamente autorizzate dai precedenti decreti legge.

Ma veniamo ora proprio alla questione – più generale, ma molto importante – del valore, in termini di gerarchia della fonti, del DPCM del 4 novembre. La domanda fondamentale da porsi – come dovrebbe ormai essere chiaro – è infatti se questo DPCM può avere forza cogente pari a una legge, per l’effetto potendo legittimamente comprimere – quanto meno – le libertà fondamentali (di circolazione, di istruzione e di iniziativa economica) soggette a semplice riserva di legge. La risposta alla domanda dipende ovviamente dalla norma su cui quel DPCM si fonda.

Come abbiamo visto, la dichiarazione di stato di emergenza ai sensi della legge sulla protezione civile – sia perché le norme di quella legge non depongono in tal senso sia, e soprattutto, perché si tratta di legge ordinaria e non costituzionale, che dunque non può derogare alle disposizioni della carta fondamentale che tracciano la gerarchia delle fonti del diritto – non consente di attribuire ad alcun organo del potere esecutivo poteri legislativi differenti rispetto a quelli ordinariamente previsti dalla Costituzione. Dunque il DPCM, se fosse stato emesso dal Governo esclusivamente nell’esercizio di poteri fondati su quella dichiarazione o su quella legge, non potrebbe derogare ad alcun diritto costituzionale soggetto a riserva di legge.

A sua volta, come pure abbiamo visto, la Costituzione prevede, in ogni caso di necessità e urgenza diverso dalla guerra, che il potere emergenziale di legiferare attribuito all’Esecutivo sia esercitato sotto forma di decreto legge. Il che esclude ogni possibilità di sostenere che i DPCM possano risultare in qualche modo “coperti” – sotto il profilo della legittimità delle limitazioni ai diritti fondamentali – dallo stato di eccezione (eventualmente fondato a sua volta sulla dichiarazione di pandemia da parte dell’OMS).

Le considerazioni che precedono inducono dunque a ritenere che, per capire se le restrizioni contenute nell’ultimo DPCM siano legittime costituzionalmente, occorre in realtà verificare se le corrispondenti norme del DPCM siano o meno “coperte” da almeno uno dei decreti legge, tra i tanti che sono stati emessi nei mesi passati per la gestione dell’emergenza Covid. Si tratta di una verifica resa in certa misura più complicata del dovuto dal fatto che lo stesso DPCM, nel suo preambolo, menziona in pratica tutti i decreti emessi sino ad ora dal Governo e convertiti dalle Camere (tra i quali anche – in particolare – i Decreti Legge n. 6 e 19 del 2020, entrambi convertiti dal Parlamento), aggiungendovi – giusto per non farsi mancare nulla – la già citata legge sulla protezione civile (con relativa dichiarazione di stato di emergenza e rinnovo) così come due atti di indirizzo politico parlamentare e, infine, la dichiarazione di pandemia dell’OMS.

Quel che si può a mio avviso ragionevolmente sostenere è che le misure restrittive contenute nel DPCM del 4 novembre si fondano sulla “delega” – e dunque sull’autorizzazione – a limitare le libertà dei cittadini che si trova contenuta nel Decreto Legge n. 19/2020, poi convertito dalle Camere. Il che induce a ritenere che – in questo caso – quel DPCM sia sì un atto legittimo nella parte in cui dispone le misure restrittive, ma solo nella misura in cui tali misure limitano diritti soggetti a semplice riserva di legge e non anche quelli che incontrano una riserva di giurisdizione. Questo significa – in ultima analisi – che anche in relazione al nuovo DPCM del 4 novembre, così come si era visto per gli atti emessi nella primavera scorsa, il vero punctum dolens è rappresentato da misure restrittive (il coprifuoco notturno e il divieto di allontanamento da dimora o domicilio, salvo specifiche esigenze, all’interno delle zone rosse) in relazione alle quali esiste – come si è visto – un serio dubbio che si tratti di limitazioni di libertà personale e non della sola libertà di circolazione.

Ritenere che simili misure implichino anche limitazioni alla libertà personale (e non solo alla libertà di circolazione) implicherebbe importanti conseguenze sul piano giuridico. La prima è che le norme dei decreti legge convertiti che – sul presupposto che simili misure rappresentino solo ipotesi di limitazione della libertà di circolazione (ad esempio il già citato art. 1.2 del DL n. 19/2020 così come la corrispondente parte della legge di conversione) – hanno autorizzato l’Esecutivo a disporre con atto amministrativo generale e astratto il coprifuoco e/o i divieti di allontanamento dalla dimora o dal domicilio potrebbero essere impugnate – mediante rimessione di questione incidentale da parte di un qualunque Giudice chiamato ad applicare gli atti sanzionatori nel frattempo irrogati per la loro violazione – dinanzi alla Corte Costituzionale per violazione dell’art. 13 Cost., nella misura in cui, appunto, si potrebbe trattare di norme che hanno attribuito all’Esecutivo un potere (quello di limitare la libertà personale con atto amministrativo) che invece, secondo la norma costituzionale da ultimo citata, avrebbe dovuto essere concesso solo richiedendo un intervento autorizzativo della magistratura. Va da sé peraltro che l’eventuale declaratoria di parziale incostituzionalità dei Decreti Legge e delle leggi di conversione avrebbe – a sua volta – importanti ripercussioni a diversi livelli dell’ordinamento.

L’incostituzionalità del conferimento del potere di adottare certi provvedimenti si rifletterebbe infatti anzitutto in una annullabilità da parte del giudice amministrativo, nella parte de qua, degli atti amministrativi conseguenti a quel conferimento: non solo dunque le norme dei DPCM che prevedono quelle misure, ma anche gli atti derivati con cui sia stata irrogata una sanzione per la loro violazione. Inoltre, considerando che l’eventuale esercizio illegittimo dei poteri pubblici in questi casi inciderebbe certamente su diritti soggettivi, gli atti amministrativi in questione (anche qui: tanto il DPCM quanto gli atti che hanno irrogato sanzioni) saranno disapplicabili dal giudice ordinario, ad esempio ai fini dell’annullamento delle sanzioni amministrative. Questo significa però anche, sotto diverso profilo, che qualunque conseguenza dannosa – in termini patrimoniali, morali, biologici o psicologici – eventualmente causata ai cittadini per effetto della corrispondente parte del DPCM o degli atti sanzionatori successivi, rappresenterà ipotesi di danno ingiusto risarcibile ai sensi degli artt. 2043 e seguenti del codice civile, dunque autorizzando una condanna per danni nei confronti degli enti pubblici coinvolti. Restano invece ancora tutte da chiarire – specie in caso di azioni civili per danni da parte dei cittadini contro lo stato o contro singoli esponenti dell’Esecutivo – le possibili conseguenze in termini di danno erariale dell’eventuale annullamento e/o illegittimità dei provvedimenti di cui si è detto.

Conseguenza ultima (e per certi versi estrema) dell’eventuale illegittimità costituzionale della parte del DPCM del 4 novembre che ha disposto il coprifuoco e il divieto di allontanamento ingiustificato dalla dimora in zona rossa sarebbe peraltro anche l’illegittimità della limitazione della libertà personale provocata dall’attuazione di questi provvedimenti, con possibilità di procedere – anche con iniziativa d’Ufficio – all’apertura di indagini penali (ad esempio per sequestro di persona con abuso di autorità, almeno a voler seguire la più recente giurisprudenza del Tribunale di Ministri in relazione ai noti casi relativi ai migranti). Naturalmente si tratterebbe di reati ministeriali, dunque vi sarebbe in ogni caso, per gli inquirenti eventualmente intenzionati a procedere contro membri del Governo, la necessità di richiedere una previa autorizzazione delle Camere. Proprio in questo senso a mio avviso va letto il fatto che il Presidente del Consiglio, nel preambolo del DPCM del 4 Novembre, abbia menzionato gli atti di indirizzo parlamentare votati nel frattempo dal parlamento: in caso di eventuale richiesta della magistratura di una autorizzazione da parte del parlamento a procedere penalmente contro membri dell’Esecutivo, il Governo potrebbe infatti usare quegli atti di indirizzo politico che sostenere di aver agito nell’ambito di un mandato politico, dunque sottraendosi al sindacato della giustizia penale. Va però precisato che il Parlamento – quando decidere di una autorizzazione a procedere – agisce con discrezionalità politica, di guisa che una “garanzia” per il Governo che il parlamento decida su eventuali future autorizzazioni a procedere in modo coerente ai suoi atti di indirizzo politico precedenti è in realtà una garanzia che vale solo sino a quando la maggioranza parlamentare è la stessa che ha adottato l’atto di indirizzo politico.

Infine – trattandosi di Decreti Legge e Leggi di conversione che sono state controfirmate senza rilievi dal Presidente della Repubblica – nel caso in cui la Corte Costituzionale dovesse mai giungere alla conclusione che le norme in questione rappresentavano una violazione dell’art. 13 Cost. – si aprirebbero inevitabilmente accesi dibattiti circa il fatto che vulnus alla riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost. fosse anche “chiaramente evidente” già al momento dell’adizione dei decreti e della loro conversione, di guisa che il Capo dello Stato ben avrebbe potuto (ma anche – a quel punto – dovuto) esercitare le proprie prerogative per rimandare la legge alle Camere in seconda lettura. In una simile evenienza andrebbe tenuto peraltro in adeguato conto, da un lato, che l’esistenza di una situazione di grave emergenza nazionale – e dunque l’opportunità di lasciare che il Governo reagisse celermente – potrebbe giustificare una minore propensione del Presidente della Repubblica ad esercitare i propri poteri di controllo (rispetto a casi in cui in passato alcuni provvedimenti – oggettivamente ben più “blandi” sotto il profilo del potenziale vulnus costituzionale – sono stati invece rinviati alle camere in seconda lettura). Per altro verso è innegabile che, già al momento della loro adozione, era piuttosto evidente che misure restrittive tanto incisive ed estese, non solo avrebbero limitato pesantemente le libertà fondamentali di milioni di cittadini, ma avrebbero avuto ricadute – in termini economici, di flessione della domanda interna e soprattutto di occupazione – tali da mettere in serio pericolo l’equilibrio dei conti pubblici e la tenuta dell’economia nazionale. Tutto questo per dire che, con ogni probabilità, il vero fulcro del problema – anche in relazione alla questione del potere di controllo del Presidente della Repubblica sulle misure emergenziali – resta quello di capire se le misure più estreme contenute nel DPCM del 4 novembre rappresentano – secondo una valutazione sommaria e dunque prima facie – una “semplice” limitazione della libertà di circolazione e non anche una vera e propria restrizione della libertà personale.

Personalmente ritengo che sollecitare una serena ma rigorosa verifica nelle sedi competenti – dinanzi alle differenti articolazioni della magistratura ordinaria, amministrativa, contabile e costituzionale – circa il fatto che le istituzioni dello Stato, dinanzi a una situazione emergenziale, abbiano saputo sempre tenere distinte le limitazioni alla libertà di circolazione (e delle altre libertà soggette a semplice riserva di legge) da quelle che incidono anche sulla libertà personale dei cittadini (e che invece – così come per l’inviolabilità del domicilio – richiedono sempre l’intervento di un giudice “terzo” anche in presenza di gravi emergenze nazionali diverse dagli eventi bellici) non sarebbe esercizio di sterile. Si tratta anzi di un passaggio essenziale – in uno stato che voglia definirsi liberale – per mantenere saldi i principi dello stato di diritto anche in situazioni di emergenza, ossia in casi in cui – come la storia insegna (e anche i nostri padri costituenti ben sapevano) – è più probabile che i poteri dello stato incappino (più o meno consapevolmente e più o meno in nome una “buona causa”) in derive autoritarie.

Principi come la libertà personale e l’inviolabilità del domicilio – ma non diversamente dovrebbe dirsi anche del divieto di imporre trattamenti sanitari senza il consenso di chi li subisce – non sono infatti un “lusso” che lo stato concede ai cittadini solo in situazione ordinaria (cosa che invece così tanti commentatori – e purtroppo anche qualche giurista – mostrano di ritenere): sono il fondamento ultimo del nostro concetto di rapporti tra società e poteri dello stato. Qualunque stato che voglia infatti chiamarsi davvero “stato di diritto” – tema di cui in sede EU si parla spesso – dovrebbe infatti saper mantenere fermo il principio secondo cui, di fronte a certe libertà individuali, il potere pubblico non può provvedere con atti d’imperio, neppure se adottati o autorizzati dal legislatore. Nessuna maggioranza politica parlamentare ordinaria può arrogarsi il potere di limitare o eliminare certi diritti, neppure per legge, senza l’intervento caso per caso del Giudice, ossia senza l’intermediazione di un potere terzo e imparziale rispetto alle decisioni politiche. Proprio a questo serve del resto la Costituzione: a difendere certi diritti di ciascun singolo cittadini contro l’arbitrio del potere sovrano, anche quando un simile potere viene esercitato da un Parlamento. Lo stato di diritto viene prima della stessa democrazia, in quanto consente che quest’ultima non si trasformi in una tirannia della maggioranza politicamente rappresentata. E questo – si badi – vale certamente anche in situazione di emergenza. Anzi: vale soprattutto in situazione di emergenza.

Una questione di simile portata – ossia la possibile violazione della libertà personale di milioni di cittadini posta in essere dai poteri pubblici al di fuori delle dovute garanzie costituzionali – non si può dunque certo liquidare prendendo come oro colato l’espediente usato dal legislatore di affermare che limitino solo la libertà di circolazione delle misure che – consistendo in una sorta di arresti domiciliari attenutati – ben potrebbero aver anche intaccato e limitato la libertà individuale. La “parola” del Governo (così come della maggioranza che lo sostiene in Parlamento) non basta infatti per tutelare il cittadino quando l’abuso di potere potrebbe essere stato perpetrato proprio da quello stesso governo e legislatore. E anche il controllo del Presidente della Repubblica non pare sufficiente – trattandosi comunque di un controllo sommario e che viene operato da un organo nominato pur sempre da una maggioranza parlamentare – quando i diritti in gioco sono quelli davvero fondamentali per conservare lo stato di diritto. C’è poco da fare, insomma: solo la terzietà di un vero giudice – in simili casi – offre sufficienti garanzie di indipendenza.

Sollecitare una verifica da parte della magistratura sull’operato delle istituzioni di fronte all’emergenza avrebbe dunque il benefico effetto di richiamare l’attenzione di chi governa (ma anche di chi sostiene in Parlamento l’azione di questo Governo) sulla necessità di evitare che anche da noi ci si avvii sulla china che parrebbe essere stata imboccata ad esempio in Germania, paese in cui la maggioranza parlamentare sta mettendo ai voti una proposta di legge che – in caso di emergenza sanitaria – in nome della “protezione del popolo” attribuisce al potere esecutivo, per di più senza specificare limiti di durata, pieni poteri tanto intensi da consentire limitazioni – tra le altre – anche della libertà personale dei cittadini e dell’inviolabilità del loro domicilio. Per non parlare delle voci che – all’estero ma anche qui da noi – si levano sempre più di frequente per invocare un obbligo di vaccino generalizzato imposto per legge. Simili misure – che davvero rappresentano un potenziale vulnus al concetto di “stato di diritto – non appartengono alla nostra cultura giuridica. Ci si chiede peraltro perché mai l’UE, così solerte nel lamentarsi con Ungheria e Polonia per pretese violazioni della rule of law perché le rispettive legislazioni attenterebbero alla divisione dei poteri, nulla abbia da eccepire quando le derive illiberali sono poste in essere da altri stati.

In particolare proprio la proposta di legge attualmente in discussione in Germania – che viene presentata da quel governo come strumento per la “protezione del popolo” – dovrebbe far ricordare che il concetto stesso di costituzione (o quanto meno quello di costituzione rigida) si fonda sull’assunto per cui esistono diritti – quali appunto la libertà personale e l’inviolabilità del domicilio – la cui tutela contro lo stato, anzi: soprattutto contro lo stato, consente di conservare quello che noi chiamiamo “stato di diritto”.  Vivere in uno stato di diritto significa vivere in un ordinamento in cui la costituzione difende alcune libertà del cittadino contro il potere dello stato, obbligando lo stato stesso – se vuole limitarle – a confrontarsi col cittadini davanti a un giudice terzo e indipendente, non potendo i pubblici poteri agire unilateralmente né con atti governativi né sulla base di leggi approvate da maggioranze parlamentare ordinaria).

Questa è del resto anche la semplicissima e chiara ragione –ormai ignorata dai più – per cui ad alcuni diritti fondamentali della persona (la libertà personale e inviolabilità del domicilio) non sarebbe comunque legittimo attribuire rango costituzionale inferiore al diritto alla salute e all’incolumità personale. E tutto questo senza ricordare che così tanti hanno sacrificato la propria vita nei decenni passati per dare a noi oggi la garanzia costituzionale della libertà personale e dell’inviolabilità del domicilio che appare davvero difficile capire per quale ragioni così tanti oggi – anche tra i giuristi e politici che si dichiarano a gran voce democratici e liberali – possano sostenere a cuor leggero che la vita e la salute sono “certamente” più importanti, nella scala costituzionale, della libertà personale.

Chi teme per la salute e la vita di alcune categorie a rischio oggi vorrebbe infatti comprimere “senza se e senza ma” la libertà personale di tutti quanti, senza capire che – seguitando su questa strada – potrebbe trovarsi un giorno senza alcuna difesa legale di fronte a uno stato che – a quel punto – potrà disporre come meglio crede anche della salute (e dunque della vita) di chiunque. Suonano insomma tremendamente attuali – per quanto siano stato pronunciate ormai già più di due secoli fa – le parole di Thomas Jefferson, secondo cui “chi rinuncia alla sua libertà per la sicurezza, non ottiene nessuna delle due”. Stiamo dunque attenti, perché – dopo decenni in cui la politica ci ha abituati a gridare al fascismo o allo stalinismo di fronte a qualunque quisquilia – rischiamo alla fine di non far più caso ai “veri” segnali del fatto che – in Italia e in Europa – i principi fondamentali dello stato di diritto iniziano davvero a essere messi in discussione dalle stesse istituzioni che invece dovrebbero garantirli.




Stato di emergenza e garanzie costituzionali

Oggi parliamo di attualità giuridica. E anche di costituzione. Le due cose non vanno di pari passo, nel senso che la costituzione non è considerata dai più argomento di attualità. Però di recente sono successe diverse cose piuttosto importanti….

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Moneta unica e identità economica costituzionale

1. In un mio precedente contributo pubblicato online sempre sul sito della fondazione Hume avevo trattato per sommi capi il tema dei rapporti gerarchici tra le fonti di diritto UE e le Carte Costituzionali degli Stati Membri, in particolare tedesca e italiana, giungendo a tre conclusioni.

La prima, lapalissiana ma troppo spesso ignorata, è che il diritto di fonte unionista ancora oggi è vigente ed efficace (e dunque esiste) esclusivamente sulla base dei trattati fondativi dell’Unione e, dunque, per effetto del diritto nazionale e della volontà degli stati membri dell’UE, di guisa che – al di là delle dichiarazioni della Corte di Giustizia e degli altri organi UE sull’autonomia e prevalenza del diritto unionista – il diritto in questione – come ha dimostrato la Brexit – vige solo nei limiti in cui (e sino a quando) gli Stati Membri si ritengono vincolati (o, quanto meno, acconsentono) alla sua applicazione nei loro territori. Limiti che – naturalmente – vengono definiti dalle rispettive carte fondamentali nazionali.

La seconda è che è possibile identificare due tendenze di fondo nei rapporti gerarchici tra diritto unionista e ordinamenti costituzionali nazionali: una che abbiamo definito sovranista (adottata ad esempio in Germania) secondo cui il diritto UE non deve porsi in contrasto con i principi fondamentali della costituzione nazionale (secondo il criterio della identity review), dunque facendo prevalere in ogni caso l’identità (giuridica) nazionale rispetto ad eventuali difformi principi di diritto dell’unione. L’altra, più universalista (e seguita nella maggior parte delle decisioni dalla Corte Costituzionale italiana), secondo cui il diritto UE dovrebbe invece cedere il passo alla costituzione nazionale solo nella misura in cui le norme di quest’ultima esprimono principi riconosciuti anche universalmente, ad esempio perché codificati nelle convenzioni multilaterali sui diritti umani.

La terza conclusione è che il diverso atteggiamento delle corti costituzionali nazionali in tema di rapporti tra costituzione e diritto unionista (ossia il fatto che adottino un’impostazione sovranista o universalista nel decidere dei rapporti tra costituzione e diritto di fonte UE) si riflette in una maggiore o minore forza negoziale dei rispettivi stati quando si tratta di decidere – in sede unionista – norme, regole e interventi di sostegno all’economia.

In questo secondo scritto – che rappresenta la continuazione ideale del primo – mi propongo di approfondire il tema con specifico riferimento al rapporto tra i principi della Carta Costituzionale italiana che definiscono la costituzione economica del nostro paese e le fonti di diritto unionista che disciplinano l’adesione del nostro paese al sistema della moneta unica europea.

2. Per trattare correttamente della questione occorre ricordare anzitutto che la vigenza del diritto UE in Italia (e, di conseguenza, i suoi rapporti gerarchici col diritto costituzionale nazionale) è disciplinata dall’art. 11 Cost., a norma del quale l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Vi è poi l’art. 117 Cost., secondo cui la potestà legislativa degli organi (centrali e regionali) nazionali deve svolgersi nel rispetto non solo della costituzione ma anche dei vincoli comunitari. Le due norme hanno peraltro scopo e oggetto differente. Laddove l’art. 117 ha infatti la funzione di vincolare il legislatore nazionale, nei settori di competenza concorrente, al rispetto del diritto UE, l’art. 11 Cost. indica invece i limiti in cui l’ordinamento italiano consente la vigenza sul nostro territorio delle norme di fonte unionista. Proprio l’applicabilità dell’art. 11 Cost alle fonti primarie del diritto UE consente infatti al diritto unionista di godere di uno status privilegiato rispetto ad altre norme di fonte internazionale pattizia: nelle materie che – secondo i trattati unionisti – rientrano nella competenza dell’UE la sovranità dello stato italiano “si ritira”, per lasciare spazio, appunto, al legislatore unionista. In questo spazio giuridico la norma unionista si viene dunque a inserire, risultando direttamente vincolante in Italia come le norme nazionali, ma senza mai divenire a sua volta una vera e propria norma interna (come avviene invece per altre norme di fonte internazionale, secondo la dottrina della cosiddetta “recezione”).

La conseguenza più rilevante di questa particolare ricostruzione dei rapporti tra diritto UE e diritto nazionale è che – secondo la nostra Corte Costituzionale – il diritto di fonte unionista non è soggetto al medesimo sindacato di legittimità che vale per le leggi nazionali (e – di conseguenza – anche per le norme dei trattati che si considerano “recepite” nel nostro ordinamento interno), bensì a un controllo più limitato che si riduce (secondo una dottrina definita dei “contro limiti”) alla sua compatibilità con i “principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale” (così la sentenza n. 183/1973 e – più recentemente – l’ordinanza 454/2006). Principi che sono stati per lo più identificati dalla Corte nei diritti tutelati nella prima parte della Costituzione che – al contempo – siano anche riconosciuti nelle maggiori convenzioni multilaterali sui diritti umani. Vediamo tuttavia di passare in rassegna le decisioni più importanti della Corte sul tema, per capire meglio quale genere di “diritti” la Consulta ha in passato considerato tanto importanti da rilevare – ai sensi dell’art. 11 Cost. – come “contro limite” per la vigenza del diritto unionista.

La sentenza 399/1987 è quella in cui la Corte ha ammesso che il diritto unionista possa derogare anche a norme costituzionali, a patto che non violi i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana. In quella decisione è stato dunque enunciato il principio cardine del sistema dei “contro limiti”, secondo cui – come si diceva poc’anzi – non ogni precetto contenuto nella nostra costituzione limita il diritto unionista, ma solo alcuni, ossia quelli fondamentali, in quanto posti a tutela di diritti inalienabili della persona universalmente riconosciuti. Seguendo la medesima linea interpretativa, nella successiva sentenza n. 132/1990 la Consulta ha ribadito che “[…] per giurisprudenza consolidata di questa Corte (si vedano, in particolare, le sentenze n. 183/73 e n. 170/84), il settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno è sottratto alla competenza della Corte Costituzionale, con le eccezioni rappresentate dalla sindacabilità della legge di esecuzione del Trattato di Roma in riferimento ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana”. In questo precedente la Corte ha sostenuto che il sindacato di legittimità costituzionale (a presidio dei diritti fondamentali) deve ritenersi eccezionale quando viene esercitato nei confronti del diritto UE e – di conseguenza – che l’individuazione dei principi “fondamentali” che valgono come possibili “contro limiti” alla vigenza del diritto unionista dovrebbe essere ispirata a criteri restrittivi, che si traducono in un favor per il legislatore unionista.

Va però segnalata la sentenza 232/1989, in cui la Corte ha manifestato un’opinione in controtendenza rispetto alle decisioni citate in precedenza, affermando che – per quanto improbabile – non è impossibile che alcune norme dei trattati dell’Unione possano ispirarsi a principi giudici che non risultano in accordo con quelli fondamentali della nostra costituzione nazionale. Questo perché, come osserva la Corte in motivazione, non tutti i principi fondamentali che ispirano la nostra Costituzione si ritrovano anche nelle carte fondamentali degli altri stati aderenti all’UE, con la conseguenza che è ben possibile che l’UE adotti uno standard di tutela di certi diritti e valori che si pone a livello inferiore rispetto a quello considerato inderogabile dal nostro ordinamento costituzionale. Questa sentenza della Corte è interessante (e importante ai fini delle tesi che si sosterranno in questo lavoro) in quanto ammette che anche nel nostro ordinamento costituzionale possa trovare applicazione una versione “tedesca” (vale a dire fondata sul criterio della “identy review”) della dottrina dei “contro limiti”, in forza della quale dunque il diritto UE non potrebbe porsi in contrasto con i diritti costituzionalmente garantiti che contribuiscono a definire la specifica identità costituzionale nazionale, anche se si tratta di diritti che non si ritrovano tutelati in egual misura in altre costituzioni nazionali di stati dell’UE o nelle grandi convenzioni internazionali sui diritti umani.

Si noti a tale riguardo che – sempre nel caso oggetto della decisione 232/1989 – uno di questi principi è stato individuato dalla Corte nel diritto di difesa in giudizio sancito dall’art. 24 Cost., che è stato ritenuto (in astratto, giacché poi la norma in concreto impugnata è stata ritenuta rispettosa di quel diritto) il possibile fondamento di una declaratoria di illegittimità costituzionale della legge di esecuzione del trattato di Roma – vigente all’epoca – che aveva legittimato l’adozione da parte degli organi comunitari di norme che potevano dar luogo ad una eccessiva compressione del diritto di contraddire in giudizio. Non sono invece state ritenute tali da poter definire dei “contro limiti” alla vigenza del diritto UE le norme costituzionali riguardanti la struttura dei poteri dello stato e le forme del loro esercizio (in questo senso si è ad esempio espressa la sentenza n. 183/1973).

Dalle decisioni della Consulta si possono trarre alcuni principi fondamentali. Anzitutto è evidente che il solo possibile fondamento di eventuali limiti alla vigenza del diritto UE nel nostro ordinamento è rappresentato dall’art. 11 Cost.. In tal senso depone soprattutto la sentenza 183/1973, che – oltre a menzionare espressamente l’art. 11 – ha specificato anche che la limitazione di sovranità dello stato italiano a favore dell’UE può avvenire solo “a parità di condizioni con altri stati” ed esclusivamente “per le finalità ivi (ossia in quella stessa norma n.d.r.) precisate”. Altro principio importante – questa volta desumibile, come si è visto qui sopra, dalla decisione n. 232/1989 – è che i principi fondamentali rilevanti ai sensi dell’art. 11 Cost (e su cui dunque possono dunque essere fondati i “contro limiti” alla vigenza delle norme UE) non sono solamente quelli che trovano riscontro nelle convenzioni internazionali sui diritti umani, ma neppure sono solo quelli enunciati negli articoli da 1 a 12 Cost, estendendosi viceversa anche a tutti i principi che possono essere desunti dagli artt. da 13 a 54 della nostra Carta fondamentale.

Quanto sopra consente di sostenere che, in ultima analisi, tre sono i criteri per verificare se una norma di fonte unionista (o l’insieme delle norme che disciplina un certo istituto giuridico di diritto unionista) è stata resa efficace nel nostro ordinamento rispettando i limiti posti dall’art. 11 Cost. e – di conseguenza – se quella norma o quell’istituto possono trovare applicazione nel nostro ordinamento.

  • La normativa in questione deve rispettare – almeno in via di principio – il principio di reciprocità con gli altri stati dell’UE (nel senso che l’Italia non deve assumere obblighi che, formalmente, non assumono anche altri stati);
  • Deve trattarsi di normativa “necessaria” per contribuire a un ordinamento internazionale che miri ad assicurare la “pace” e la “giustizia” tra le nazioni;
  • Si deve trattare di una normativa che non si pone in contrasto con i principi desumibili dagli artt. da 1 a 54 della Costituzione, anche se si tratta di principi che esprimono un livello di tutela (sia quanto al diritto che ne forma oggetto sia quanto al livello di tutela che a quel diritto viene assicurato) che non trova un riscontro nelle convenzioni internazionali sui diritti umani.

Se manca anche uno solo dei tre requisiti di cui si è detto, la normativa di fonte unionista può essere dichiarata inefficace erga omnes dalla Consulta, con sentenza che procederà alla declaratoria di illegittimità della legge di ratifica dei trattati istitutivi dell’UE (dunque, oggi, del TUE e del TFUE) nella parte in cui ha consentito agli organi unionisti l’adozione della normativa di diritto secondario unionista che viola il precetto costituzionale nazionale. L’illegittimità parziale della norma di ratifica si tradurrà in una illegittimità parziale della norma unionista di fonte primaria che travolgerà automaticamente la norma unionista di fonte secondaria, rendendola inefficace sul nostro territorio.

3. L’Euro, com’è noto, è la moneta con valore legale comune agli Stati Membri dell’Unione Europea (o, per meglio dire, dovrebbe esserlo, nel senso che ad alcuni Stati che ne hanno fatto a suo tempo espressa richiesta è stata concesso di mantenere in corso legale le vecchie valute nazionali). L’Euro è stato introdotto formalmente in Italia con il regolamento UE n. 974/98 del 3 maggio 1998 (adottato a seguito del precedente regolamento UE n. 1103/97 del 17 giugno 1997, che riguardava la moneta scritturale definita come ECU e che era stata adottata come strumento interlocutorio per la preparazione dell’entrata in vigore della moneta unica). Il fondamento giuridico di diritto primario di questi regolamenti si trova a sua volta nelle norme del titolo VIII della versione attuale del testo consolidato TUE/TFUE. L’emissione di Euro resta affidata in via esclusiva alla Banca Centrale Europea, soggetto indipendente di diritto unionista che, tuttavia, non funge – come accade per le normali banche centrali nazionali – da prestatore di ultima istanza, non potendo la BCE (quanto meno in teoria) emettere moneta per acquistare (sul mercato primario) titoli del tesoro emesso dagli Stati Membri.

La ragione politica ufficiale che veniva indicata al tempo della sua entrata in vigore al fine di sostenere l’opportunità dell’adozione della moneta unica consisteva nella supposizione che l’introduzione – nella zona di libero scambio esistente tra i paesi unionisti – di un’unione monetaria precedente all’unificazione delle rispettive politiche fiscali ed economiche, avrebbe reso più facile una “naturale convergenza” dei sistemi economici degli stati, agevolando il processo di integrazione europea e favorendo di conseguenza la futura adozione di politiche fiscali ed economiche comuni. Come vedremo si tratta di una idea che – alla luce di quel che è accaduto dopo – si sarebbe rivelata largamente illusoria. Tutto questo per ragioni che – in verità – potevano essere facilmente già intuite (e che alcuni economisti, come vedremo, avevano intuito) già al momento della sua adozione.

Passando in rassegna le norme del TFUE che compongono l’impalcatura fondamentale della politica monetaria unionista emerge infatti con una certa chiarezza come lo scopo primario (se non esclusivo, quanto meno al momento della sua adozione) del sistema della moneta unica sia il perseguimento della stabilità dei prezzi. Questa è del resto la ragione per cui l’economista (e premio Nobel) Paul Krugman – già prima dell’adozione della moneta unica – aveva osservato che l’Unione monetaria europea non era stata progettata per soddisfare le esigenze di politica economica comuni a tutti gli stati dell’unione, bensì per soddisfare la Germania, estendendo a tutta l’eurozona la severa disciplina antinflazionistica che da sempre ispirava la politica economica tedesca e alla quale la stessa Germania – per ragioni di politica interna – non sarebbe mai stata disposta a rinunciare neppure in nome dell’integrazione europea. Secondo questo economista, dunque, l’Euro nasceva in sostanza con il (non dichiarato) intento di estendere a tutta l’Eurozona una ricetta monetaria – ma che, come vedremo, implica una serie di conseguenze in termini di politica economica – sostenuta da (e che conveniva soprattutto a) uno stato in particolare.

Lo scopo istituzionale del sistema Euro è infatti in sostanza quello di mantenere l’inflazione media nei paesi dell’eurozona entro un livello ritenuto ottimale, che viene da sempre individuato dalla BCE intorno al tasso del 2% su base annua. Si noti che – nella prima fase di vita della moneta unica, che potremmo dunque definire come “ortodossa” – il 2% era indicato solo come limite da non superare, dunque rendendo evidentissima la natura antinflazionistica dell’Euro. Più di recente (essenzialmente quando le ripetute crisi economiche hanno convinto un po’ tutti quanti che il vero problema dell’economia europea è semmai la deflazione e non certo l’inflazione) si è iniziato a sostenere – in particolare a partire dalla presidenza Draghi alla BCE – che l’inflazione nell’eurozona, oltre che non oltrepassare quella soglia, non doveva mai scendere troppo al di sotto di essa. Questo significa che l’Euro viene concepito oggi (quanto meno dalla BCE, la cui Presidente ha di recente avuto un vivace scambio di opinioni niente meno che con la Corte Costituzionale tedesca) come uno strumento di politica monetaria che serve sia per evitare l’inflazione che per scongiurare una eccessiva deflazione. Questo significa allora che – come dimostrerebbero anche i recenti mal di pancia registrati dalle parti di Karlsruhe – siamo di fonte ad una svolta epocale, nel senso di ammettere che il sistema Euro potrebbe risultare funzionale anche all’adozione di politiche economiche espansive nell’eurozona? Non esattamente, giacché – come spesso accade – sono i piccoli dettagli a fare le grandi differenze.

Anche nella versione attuale del sito internet istituzionale della BCE la giustificazione delle politiche di stimolo monetario per evitare il calo dei prezzi di beni e servizi è che “non è positiva una riduzione dei prezzi continua e diffusa nell’economia che non sia connessa a miglioramenti della produzione”. Con queste parole la BCE conferma infatti che, in realtà, l’Euro resta essenzialmente lo strumento con cui l’UE mira a moderare l’inflazione (e dunque, fra l’altro, a ridurre il costo del danaro) al fine di creare la situazione ideale per consentire l’attuazione di una ben precisa ricetta di politica economica: quella che ha come scopo ultimo il calo dei prezzi di beni e servizi per effetto del miglioramento della produzione. Per capire dunque a cosa davvero serve l’Euro oggi occorre capire cosa intende la BCE quando parla di miglioramento produttivo.

Ebbene: per miglioramento della produzione si intende quello che gli economisti definiscono come “maggiore produttività” a livello di offerta. Le principali strade note per conseguirla sono in sostanza tre: miglioramento tecnologico (che aumenta la resa a parità di costo di altri fattori produttivi), riduzione del costo delle materie prime e taglio del costo del lavoro.  Nell’economia globalizzata di oggi, in cui la domanda aggregata di risorse è in crescita costante (specie negli stati emergenti come Cina, India e Brasile), la riduzione del costo per materie prime è difficilmente pensabile. Quanto all’innovazione tecnologica, è invece quasi impossibile prevedere quali e quante soluzioni innovative verranno individuate per effetto di un certo volume di investimenti in ricerca e sviluppo e, di conseguenza, è difficile prevedere quale potrebbe essere l’impatto che il capitale investito in innovazione tecnologica o di processo potrebbe avere in termini di calo di costi complessivi dal lato dell’offerta.

Tutto questo spiega perché, nell’attuale contesto economico, lo strumento più sicuro ed efficace con cui gli stati possono perseguire un aumento di produttività è il taglio del costo del lavoro, misura che – a differenza dell’investimento in ricerca tecnologica – non richiede cospicui investimenti e soprattutto garantisce risultati immediati in termini di risparmio di costi e dunque di calo di prezzi. D’altro canto, è nozione pacifica dell’economia politica quella secondo cui se la disoccupazione è bassa, l’inflazione tende a salire, mentre quando la disoccupazione è alta, l’inflazione diminuisce. Ed ecco infine spiegato perché l’adozione di politiche volte alla compressione dei salari (in questo si sostanzia infatti il taglio del costo del lavoro) è una delle conseguenze inevitabili dell’adozione della moneta unica (anche in epoca di quantitative easing), dal momento che si tratta della misura che consente più facilmente di giungere a quel calo generalizzato dei prezzi di beni e servizi che – secondo la BCE – sarebbe “buono” in quanto non deriva da una fase di prolungata debolezza della domanda. Altrettanto noto è tuttavia che lo strumento necessario per comprimere le pretese salariali dei dipendenti è ridurre la stabilità del posto del lavoro. Questo significa che il sistema dell’Euro – per soddisfare il suo scopo istituzionale (ridurre i prezzi di beni e servizi in un contesto di inflazione bassa ma stabile) – implica il mantenimento in tutti gli stati dell’eurozona di un certo tasso di disoccupazione.

Sennonché, quando calano sia il numero degli occupati che i salari dei lavoratori, cala di conseguenza anche il rispettivo potere d’acquisto e, dunque, si genera un potenziale effetto depressivo sulla domanda interna, col rischio dell’innesco di fenomeni di deflazione “cattiva” secondo la BCE. Questo calo potrebbe in teoria essere in parte compensato dal calo di prezzo dei prodotti e dei servizi (indotto dal taglio del costo del lavoro), che dovrebbe far crescere il potere d’acquisto reale dei salari, anche a fronte di una discesa di questi ultimi. Il problema è che questa dinamica “virtuosa” – in una situazione di domanda interna debole e tenendo conto della naturale tendenza delle imprese a trasformare in maggiori utili i tagli di costo – ben difficilmente può venire a innescarsi. Quale è stata dunque la ricetta che consente – a fronte di una sostanziale crescita degli utili d’impresa – di comprimere i salari e mantenere un certo tasso di disoccupazione senza al contempo innescare fenomeni di deflazione sufficientemente intensi da innescare una spirale recessiva?

Questo risultato può essere ottenuto in due modi. Anzitutto destinando una quota maggiore della produzione – quella che non può essere assorbita dalla domanda interna indebolita dai salari bassi e dalla disoccupazione – all’esportazione, in sostanza prelevando dagli stati di esportazione la ricchezza liquida che non può provenire da una domanda interna depressa dal taglio dei salari e dalla disoccupazione. In seconda battuta mediante misure pubbliche di sostegno al reddito dei lavoratori che hanno salari più bassi e di assistenza agli inoccupati (i quali, in sostanza, si vedono restituire dall’assistenza pubblica una quota di quel che hanno perso per effetto della compressione dei salari o della impossibilità di trovare una occupazione). Si tratta – di nuovo – del modello adottato da un paio di decenni in Germania, secondo quella che è stata definita “dottrina Hartz”: compressione dei diritti dei lavoratori (specie sotto il profilo della stabilità dell’occupazione) con riduzione progressiva dei salari nominali, compensate da misure di sostegno pubblico per i lavoratori a basso reddito e per gli inoccupati e da un forte incentivo statale all’export. Una simile politica di stampo mercantilista (in cui cioè lo stato favorisce l’impresa, incentivando le esportazioni e sostenendo il reddito di lavoratori a basso reddito e inoccupati invece che sostenerne le rivendicazioni salariali) consente infatti l’aumento della produttività delle imprese (e dunque degli utili di chi vi investe capitale di rischio) fondato sulla riduzione delle dinamiche salariali senza implicare eccessivi problemi di deflazione, anche in situazioni di domanda interna debole.

Ecco spiegato perché l’Euro – per come definito dai trattati e per come “amministrato” dalla BCE anche all’epoca del quantitative easing – rappresenta uno strumento di politica monetaria che in realtà induce gli stati ad adottare politiche economiche di riduzione dei salari mediante la precarizzazione del lavoro, compensando l’indebolimento della domanda interna mediante incentivi all’export (sia verso altri stati aderenti all’eurozona sia verso stati extra UE) e misure pubbliche di assistenza per i lavoratori a basso reddito e/o per gli inoccupati. Tutto questo consente di sostenere che il sistema Euro – per sua stessa struttura e anche dopo l’inizio degli stimoli monetari – resta uno strumento studiato per contribuire a generare una crescita economica moderata (dunque per impedire – fra l’altro – fasi espansive quando pure servirebbero per superare una stagnazione economica), i cui frutti restano per la maggior parte nelle mani di chi controlla e finanzia le imprese, mentre – attraverso la riduzione dei salari e la precarizzazione del lavoro – viene ridotta la quota di ricchezza che viene assegnata dal sistema economico ai lavoratori.

Si tratta di un sistema – si badi – che favorisce non solo chi controlla il capitale delle imprese (che vede crescere gli utili a fronte dell’assunzione da parte dello stato di una quota dei costi sociali ed economici causati da disoccupazione e riduzione dei salari) ma che conferisce dei vantaggi alla stessa classe politica. Questo modello – implicando la necessità di sussidi pubblici per un maggior numero di lavoratori e inoccupati – consente infatti alle forze politiche più propense all’assistenzialismo di intercettare con grande facilità il voto dei lavoratori (e degli inoccupati) che – per effetto della depressione della domanda interna e dell’aumento della produttività perseguito ai loro danni – si troveranno sempre più costretti a rivolgersi appunto all’assistenza pubblica per poter mantenere un tenore di vita decente. Si tratta infine di un sistema gradito anche al sistema finanziario e creditizio, giacché – oltre a generare maggiori utili d’impresa e dunque maggiori rendimenti per l’investimento in venture capital – aumenta anche la propensione all’indebitamento privato da parte dei lavoratori a basso reddito (agevolato anche dal fatto che una bassa inflazione consente al sistema finanziario e bancario di praticare bassi tassi nel credito al consumo o nel credito bancario). Sin qui, dunque, l’esame della politica economica al cui perseguimento l’Euro – anche in epoca attuale – contribuisce.

Sennonché nessuna ricetta di politica economica – quando viene applicata all’interno di uno stato sovrano – può sottrarsi al confronto con i principi costituzionali che, in quello stesso stato, definiscono il perimetro in cui i poteri pubblici sono liberi di muoversi nel definire la politica economica nazionale. All’interno del principio fondamentale del libero mercato e della libertà d’iniziativa economica privata, che ispira ormai tutte le costituzioni dei paesi occidentali, ciascuno stato ha infatti individuato una propria specifica “costituzione economica”, rappresentata – appunto – dall’insieme di principi e limiti ai quali il legislatore soggiace nel regolare l’esercizio delle libertà economiche dei cittadini. Occorre dunque verificare se il modello unionista di politica monetaria ed economica – che ricalca in sostanza il modello di costituzione economica tedesca – sia conforme anche alla costituzione economica di tutti gli altri paesi dell’UE. Vediamo in partuicolare come stanno le cose in Italia.

4. L’art. 1 della Costituzione – dunque certamente la norma di vertice nella gerarchia costituzionale – recita testualmente che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. La democrazia e il lavoro, dunque, nel nostro ordinamento costituzionale sono ritenuti niente meno che il fondamento stesso della Repubblica. L’art. 4 della Costituzione – sempre collocato nei diritti fondamentali – dispone poi che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il rispetto dei due principi in questione rappresenta dunque senza alcun dubbio una manifestazione di quella “utilità sociale” che l’art. 41 Cost. indica come limite per il legittimo svolgimento dell’attività d’impresa privata. Il che a sua volta significa che la particolare attenzione al lavoro fa certamente parte di quella che – secondo la dottrina tedesca dell’”identity test“ – potremmo definire come “identità costituzionale” nazionale. Per altro verso, l’art. 47 Cost. dispone che la Repubblica non solamente “tutela” ma anche “incoraggia” il risparmio dei cittadini, di guisa che parrebbe rientrare tra i fondamenti identitari della nostra Costituzione economica anche il principio secondo cui il compenso del lavoro dipendente (ma forse il discorso si può estendere anche ad altre attività lavorative) non può mai ridursi al minimo indispensabile per vivere (o, anche peggio, ad un livello tale da dover richiedere sussidi statali per farlo) .

Tutto questo induce a ritenere che ben potrebbe rappresentare un principio identitario e fondamentale della nostra costituzione quello secondo cui i cittadini hanno diritto a un lavoro compensato in misura tale da consentire loro, non solo di soddisfare le proprie esigenze primarie, ma anche da poter accumulare un margine risparmio privato. Ammettere questo, significherebbe ammettere anche che – qualunque sia il modello di politica economica che il nostro legislatore decide di adottare – la politica economica nazionale non potrebbe in ogni caso, per poter funzionare, fondarsi sull’esigenza che una parte dei cittadini resti disoccupata e tanto meno potrebbe fondarsi sulla necessità che una significativa quota dei lavoratori abbia necessità di integrare il reddito ricorrendo a sussidi pubblici (o – peggio – all’indebitamento privato) per arrivare a fine mese. L’opzione di costituzione economica definita dalla nostra carta fondamentale mi pare infatti piuttosto chiara nel senso la prima forma di welfare che lo stato deve promuovere non è l’assistenza pubblica a chi versa in stato di bisogno (misura residuale e limitata a determinate e circoscritte ipotesi), bensì dalla prevenzione dello stato di bisogno grazie a politiche economiche che consentano alla maggioranza dei cittadini di ottenere un lavoro con cui mantenersi dignitosamente (senza aver bisogno della beneficienza dello stato) e, magari, riuscendo pure a mettere da parte del risparmio personale.

Senza voler dunque arrivare all’estremo di ritenere che la piena occupazione sia il solo scopo che deve perseguire qualunque iniziativa di politica economica (e monetaria) assunta dal nostro stato, mi pare invece possibile sostenere con una certa forza di argomenti che dovrebbe restare preclusa al nostro legislatore l’adozione (e dunque l’accettazione eterodiretta) di politiche economiche o monetarie che in via di fatto implicano necessariamente la creazione e il mantenimento di un certo tasso di disoccupazione. Discorso che dovrebbe valere a maggior ragione nei casi in cui simili politiche – oltre a creare una “disoccupazione fisiologica” – implichino addirittura la necessità di erodere risparmi e compensi dei lavoratori, con conseguente necessità di provvedere all’integrazione del loro reddito da parte dell’assistenza pubblica e spingendoli a un crescente indebitamento privato.

Le considerazioni che precedono mi inducono dunque a mettere in dubbio che l’adesione al sistema Euro – considerando il genere di politica economica che quello stesso sistema induce gli Stati Membri ad adottare – sia stata un decisione rispettosa dei principi definiti dagli art. 1, 4, 41 e 47 Cost., dunque di principi che senza dubbio possono contribuire a definire l’”identità” della nostra Costituzione economica. Per questa ragione – in applicazione della dottrina dei “conto limiti” (in particolare della sua variante “tedesca” dell’identity test, a suo tempo condivisa anche dalla nostra Corte costituzionale nella citata decisione 232/1989) – si può a mio avviso sostenere che la legge di ratifica dei trattati UE, nella parte in cui – per mezzo dell’accettazione delle norme contenute nel titolo VIII del TFUE nel testo consolidato attuale – ha consentito l’adozione della moneta unica, potrebbe aver rappresentato una limitazione di sovranità accettata dal legislatore nazionale al di fuori dei limiti richiesti dall’art. 11 Cost.. Ma non è ancora tutto.

5. La creazione di una moneta unica tra stati con economie non omogenee (all’interno di un’area di libero scambio e in assenza di trasferimenti di risorse da uno stato all’altro da parte di una autorità che possa agire in modo autonomo e indipendente dagli stati stessi) genera un secondo ordine di conseguenze foriere di pesanti ricadute costituzionali.

All’interno di un’area di libera circolazione delle merci e dei servizi, la competizione tra economie degli stati che vi aderiscono è in sostanza una competizione di prezzo. Quando dunque in una zona di libera circolazione viene imposto un sistema di cambi fissi (in cui non è possibile per ciascuno stato svalutare o rivalutare la moneta) per far calare il prezzo di beni e servizi gli stati – per ragioni che abbiamo già indicato in precedenza – devono per forza dar calare i salari. In questo genere di unioni, dunque, alla flessibilità del cambio nominale viene sostituita la flessibilità dei salari nominali. Ma per flessibilizzare i salari nominali lo strumento principale – come pure si è già avuto modo di verificare – è precarizzare i lavoratori. Il tutto – come, di nuovo, si è già visto – compensando la deflazione interna con un incentivo all’export. Questo significa che un sistema di cambi fissi tra stati che aderiscono a un mercato in cui vige il principio di libera circolazione di merci, capitali e servizi inevitabilmente innesca una competizione tra stati fondata sulla corsa al ribasso dei salari e alla precarizzazione dei lavoratori, compensata da un aumento dell’export rispetto al consumo nazionale interno.

Questa situazione induce gli stati che (grazie a una più rapida compressione dei salari e a più efficaci incentivi all’export) hanno raggiunto per primi una migliore produttività (e dunque una grande competitività sui mercati esteri) a esportare sempre più prodotti a basso costo anche verso gli altri stati dell’unione monetaria (ma che si trovano in ritardo in termini di produttività), dunque dirottando a favore degli stati più forti una quota del residuo potere d’acquisto della domanda interna degli stati più deboli, con la conseguenza di sottrarre ulteriori risorse economiche alle imprese di degli stati più deboli. Il tutto con il risultato evidente di aggravare la situazione di debolezza del sistema produttivo dello stato di esportazione. Si noti peraltro che quando un simile modello – come avviene per l’UE – prevede anche la libera circolazione delle persone all’interno dello spazio comune, la deflazione indotta negli stati meno produttivi dall’aggressività dell’export di quelli più produttivi provoca anche una emigrazione di risorse umane (in special modo quelle più qualificate, che non possono più essere adeguatamente remunerate nell’economia stagnante dello stato meno produttivo) dagli stati meno produttivi a quelli più produttivi, contribuendo dunque anche sotto questo profilo all’aggravarsi della situazione economica (e di minore produttività) di questi ultimi.

Tutto questo per dire che il sistema della moneta unica europea – unito alla zona di libero scambio e circolazione unionista e in assenza di politiche indipendenti dalla volontà delle cancellerie degli stati membri – genera inevitabilmente una dinamica economica che incentiva una forma di darwinismo economico per cui gli stati “più efficienti” usano le esportazioni di beni ad alto valore aggiunto per sottrarre risorse economiche e umane agli stati “meno efficienti”, con il risultato di allargare progressivamente il gap di efficienza produttiva tra stati (invece di ridurlo, come dovrebbe accadere in una “unione”). Si tratta insomma – a ben vedere – di una dinamica assai simile a quella, ampiamente studiata in dottrina economica, che al tempo del colonialismo caratterizzava i rapporti tra gli stati colonizzatori (che traevano vantaggi crescenti dagli scambi commerciali con le colonie) e gli stati colonizzati (che invece – in forza di quegli stessi scambi commerciali – venivano poco a poco spogliati delle proprie risorse senza innescare alcun reale sviluppo economico).

Si noti peraltro che, in presenza di simili rapporti di forza economica, l’adesione alla moneta unica – oltre che aver contribuito a creare la dinamica concorrenziale negativa di cui si è detto – ha anche avuto l’effetto negativo ulteriore di sottrare agli stati meno produttivi l’ultima arma che avrebbero potuto utilizzare per rimettersi al passo con quelli più produttivi, rappresentato dalla svalutazione competitiva della moneta nazionale. Dunque gli stati meno competitivi nell’UE si trovano attualmente – rispetto ai paesi più competitivi dell’Unione – in situazione analoga a quella in cui si trovano – rispetto alla Francia – i paesi africani delle ex colonie che hano adottato il franco CFA (ora ribattezzato ECO).

Tracciare un parallelismo tra l’eurozona e i (vecchi e nuovi) sistemi coloniali è tutt’altro che una boutade o un’iperbole ad effetto, quando si consideri che il già citato Paul Krugman – già Nobel per l’Economia nel 2008 proprio per la sua analisi degli andamenti commerciali e del posizionamento dell’attività economica in materia di geografia economica – ha avuto modo di sostenere, nel lontano 1999, che “adottando l’Euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica” mentre, più di recente, ha affermato che “L’Europa non era adatta alla moneta unica, come invece gli Stati Uniti. Spagna e Florida hanno avuto la stessa bolla immobiliare ma la popolazione della Florida ha cercato lavoro in altri Stati meno colpiti dalla crisi, gli spagnoli non hanno avuto la stessa opportunità. Assistenza sociale, assicurazioni sanitarie, spese federali e garanzie bancarie nazionali sono di competenza unicamente del governo di Washington per tutto il territorio, mentre in Europa non è così. Questo è uno dei principali motivi della fragilità del sistema Europa“.

Insomma, anche sotto questo profilo ce n’è a mio avviso più che abbastanza per dubitare del fatto che le limitazioni di sovranità assunte dall’Italia quando ha aderito al sistema della moneta unica – quanto meno allo stato attuale dell’Unione, ossia in una zona di libero scambio senza una vera unione europea che sappia esprimere politiche economiche e sociali indipendenti dalla volontà dei singoli stati aderenti (e in special modo dalla volontà di quelli “più produttivi”) – siano “necessarie” per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni, come invece richiede l’art. 11 Cost. Si tratta infatti di limitazioni che paiono funzionali più che altro ad alimentare una sempre più feroce competizione tra stati, in cui gli stati che – preferendo anteporre il benessere dei propri cittadini alla “produttività” del sistema – finiscono per restare preda dell’aggressività economica dei paesi più produttivi, senza potersi più neppure difendere con lo strumento (la svalutazione monetaria) che in altre epoche gli avrebbe consentito di reagire all’attacco. Più passa il tempo e più – per effetto della moneta unica e degli altri aspetti della costituzione economica definita dai trattati unionisti – gli squilibri tra le economie dei paesi dell’eurozona si aggraveranno, sempre e solo a favore degli stati che mettono la produttività prima del benessere dei cittadini e sempre e solo a danno di quelli che invece mettono il benessere prima della produttività.

L’Euro è dunque un meccanismo monetario che per sua stessa struttura e funzione – lungi dal favorire l’integrazione delle economie degli stati aderenti all’UE – non solo li mette in competizione tra loro, ma addirittura induce gli stati più forti economicamente (che poi sono quelli che hanno scelto di aumentare immediatamente la produttività a scapito del lavoro) a praticare una politica che potremmo definire “neo coloniale” (o comunque predatoria e commercialmente aggressiva) nei confronti dei membri più deboli della stessa unione cui appartengono. Il tutto con due soli possibili esiti finali. O i paesi “forti” integreranno totalmente quelli deboli nei loro sistemi economici (acquistando il controllo del capitale delle imprese di pregio e assegnando al resto del tessuto produttivo del paese il ruolo di fornitori – a basso costo – di manodopera, di materie prime o di beni intermedi e servizi a basso valore aggiunto). Oppure – se questa operazione non sarà possibile o non sarà ritenuto conveniente da quegli stessi paesi “forti” (che magari preferiranno individuare in paesi meno sviluppati al di fuori dell’UE i loro fornitori a basso costo) – i paesi deboli verranno infine espulsi dall’”unione”, dopo averne devastato le rispettive economie nazionali con decenni di depressione della domanda interna e conseguente distruzione dei tessuti produttivi nazionali.

Ecco qui sopra riassunto in poche parole il genere di “pace e giustizia” tra stati che l’Italia ha accettato di perseguire aderendo alla moneta unica europea. Pare insomma aver colto nel segno il monito lanciato – sempre diversi anni orsono – dall’analista economico Martin Feldstein nell’articolo “EMU and international conflict”, Foreign Affairs, vol. 76, n. 6, novembre – dicembre 1997, in cui ha avuto modo di sostenere che “Instead of increasing intra-European harmony and global peace, the shift to EMU and the political integration that would follow it would be more likely to lead to increased conflicts within Europe”. Il tutto, si badi, con l’aggravante (quanto meno in Italia) che – in questa competizione tra stati aderenti – il sistema dell’Euro premia quelli che attuano più rapidamente restrizioni salariali e che agiscono più efficacemente in termini di riduzione della stabilità e dei diritti del lavoro. L’Euro è insomma un sistema congegnato in modo tale (non solo da accentuare invece che attenuare i conflitti tra gli stati aderenti, ma anche) da indurre l’Italia – per divenire “competitiva” in modo da sottrarsi ad all’inevitabile deriva di marginalizzazione economica che la attenderebbe in caso contrario – a perseguire sempre più attivamente politiche economiche nazionali che si pongono in netto contrasto con il valore primario che le norme costituzionali di cui all’art. 1, 4 e 47 Cost. assegnano al lavoro e al risparmio privato.

In sostanza – e per tirare le somme – l’Euro è uno strumento di politica monetaria che (quando viene applicato in una zona di libero scambio priva di meccanismi compensativi affidati ad istituzioni centrali indipendenti rispetto alla volontà delle cancellerie degli stati aderenti) inevitabilmente induce gli Stati Membri ad ingaggiare tra loro una dura competizione commerciale in cui hanno successo quelli che – sul versante interno – riescono meglio a sacrificare, in nome della “produttività”, i salari e i diritti dei lavoratori e – sul versante estero – attuano aggressive politiche di esportazione verso le economie più deboli. Tutto questo induce a ritenere che l’adesione del nostro paese al sistema dell’Euro – sia perché incentiva una gestione pseudo-coloniale (o, quanto meno, competitivo-predatoria) dei rapporti economici tra gli stati aderenti soia perché risulta ostile a qualunque politica economica che implichi una adeguata partecipazione dei lavoratori ai benefici della crescita economica – ben difficilmente si può considerare un caso di limitazione di sovranità “necessaria” per conseguire un ordinamento internazionale che assicurare “pace” e “giustizia” tra gli stati, quanto meno nell’accezione di “pace” e di “giustizia” che si dovrebbe ritenere accolta dall’art. 11 della nostra Costituzione.

Giova infatti ricordare che la norma in questione ripudia la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti tra stati (e che la costituzione ripudia anche il colonialismo come strumento di dominio economico), mentre l’Euro forma parte integrante di un modello economico e monetario che – nella sua versione attuale – non solo induce gli stati membri ad ingaggiare una feroce guerra commerciale tra loro al fine di contendersi i rispettivi mercati, ma li obbliga anche ad utilizzare come sola arma efficace la compressione dei salari medi, la precarizzazione dei lavoratori e l’aggressività commerciale verso gli altri stati.

6. In questo scritto si è cercato di ragionare essenzialmente di diritto, individuando in particolare le possibili ricadute costituzionali di una serie di considerazioni di economia politica ampiamente condivise all’estero – oltre che da Krugman e Feldstein – anche da altri studiosi del calibro ad esempio del Nobel Stiglitz. Si tratta di considerazioni che invece – qui da noi – sono state approfondite da pochi studiosi, quali l’economista Alberto Bagnai e il giurista Luciano Barra Caracciolo. E’ del resto assai probabile che la lettura di questo saggio faccia alzare più di un sopracciglio nel folto drappello degli europeisti ad ogni costo.

Eppure le considerazioni che ho tentato di svolgere in questa sede mirano essenzialmente a dimostrare che il sistema dell’Euro (nel contesto della politica economica unionista definita dal TUE e dal TFUE nei testi attualmente in vigore) non consentirà mai all’Unione Europea di adottare politiche capaci di affrontare prolungate fasi di debolezza economica mondiale, se non favorendo – ancora e di nuovo – gli Stati Membri più forti a danno di quelli più deboli (e oltretutto frustrando i diritti dei lavoratori). Lungi da me dunque l’idea che l’UE sia “cattiva” o che vi sia della particolare malevolenza verso l’Italia da parte di qualche paese europeo. Il problema è infatti ben più semplice (e proprio per questo – purtroppo – assai più grave): l’Unione Europea è una istituzione che è stata creata per “funzionare bene” (seppure in modo non particolarmente equo) in una situazione congiunturale di perduranti vacche grasse, dunque quando la crescita economica è sostenuta e stabile (come avveniva sino agli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso). In quello scenario, infatti, in cui il solo vero problema è, appunto, solo l’inflazione.

Le ricette pro cicliche – a base di dosi massicce (e crescenti) di austerità – che il sistema unionista, anche per mezzo della moneta unica, finisce inevitabilmente per imporre a tutti gli Stati Membri sono invece drammaticamente inadatte (anzi, gravemente dannose) quando la congiuntura economica si deteriora per lungo tempo. E questo, si badi, non tanto perché si tratta di politiche economiche che non funzionano in assoluto, ma perché si tratta di politiche che – anche in tempi di crisi – pretendono di migliorare la situazione con strumenti pro ciclici che hanno il difetto di aiutare sempre quelli che sono già più forti a spese di quelli che sono già deboli, laddove le “vere” unioni tra stati (e in particolare quelle federali) dovrebbero servire a fare l’esatto contrario, consentendo l’adozione di ricette anticicliche con cui i più deboli vengono aiutati grazie ai più forti proprio nelle fasi in cui il mercato in cui competono forti e deboli – nel suo complesso – si trova in una congiuntura economica negativa. Il sistema dell’Euro non è dunque sbagliato perché non funziona, ma perché il suo stesso modo di funzionare – aggravando il gap tra stati invece che compensare squilibri economici – in presenza di situazioni di crisi provoca per definizione crescenti contrasti e divisioni (e non certo convergenze e armonia) tra gli Stati Membri dell’eurozona. Dunque si tratta di un sistema ha portato a risultati esattamente opposti a quelli per cui si è detto in passato che era stato creato.

Forse anche per noi italiani è infine arrivato il momento di guardare le cose con meno passione e più realismo. L’esperienza di un decennio di governi europeisti (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni e, ora, anche il Conte due) che – applicando le ricette a base di austerità indicate da Bruxelles – non hanno risolto la crisi economica in cui versa il paese a mio avviso qualcosa ci dovrebbe insegnare. E questo qualcosa è che non è più possibile negare a priori che la moneta unica (insieme all’insistenza tetragona degli organi UE nell’imporre con zelo quasi religioso a tutti gli stati dell’unione ricette coerenti con una politica economica mercantilista ritagliata sul modello germanico) potrebbero anche essere (non la panacea dei nostri mali, bensì) una delle cause per cui la crisi economica nel nostro paese si è protratta e aggravata ben più che altrove. Né sopravvaluterei la pretesa “svolta epocale” dei vari recovery fund, MES, SURE che l’Unione Europea – dopo la crisi del covid 19 – si è sforzata di inventare per tentare di “aiutare” finanziariamente gli stati con problemi economici.

Sin quando infatti non cambierà qualcosa a livello di costituzione economica dell’unione (dunque fino a quando non cambieranno le norme del TUE e del TFUE) qualunque tipo di “aiuto” finanziario unionista – dovendo risultare conforme a principi scritti a chiare lettere nel TFUE in modo da ricalcare un ben definito modello economico, ossia quello tedesco – finirà presto o tardi, in un modo o nell’altro, per presentare il conto agli stati che adottano modelli di sviluppo differente, imponendo ai rispettivi governi – per aumentare la “produttività” delle imprese – di colpire salari, stabilità del lavoro, previdenza, sanità, istruzione e risparmio. E pure se alla fine si otterrà – al suddetto (caro) prezzo – la tanto agognata “maggiore produttività” del sistema paese, la maggiore ricchezza generata alla fine andrà pur sempre a beneficio soprattutto di chi detiene ingenti patrimoni ovvero di chi detiene il capitale delle imprese nonché a beneficio del sistema creditizio, ma non certo a beneficio della maggioranza dei cittadini e dei lavoratori.

Come magari illustrerò meglio in un successivo contributo, la “costituzione economica unionista” – per come definita dal TUE e dal TFUE attualmente vigenti – subordina infatti il benessere e i diritti della maggioranza dei cittadini europei (e in particolare dei lavoratori) sia alle esigenze di “produttività” del sistema economico dell’unione sia alle esigenze di stabilità del sistema finanziario. La differenza tra questa impostazione – essenzialmente fisiocratica e mercatista – e la visione più sociale e laburista della nostra costituzione economica è dunque certamente uno dei grandi problemi che pone l’adesione dell’Italia alla costruzione europea di Lisbona e Maastricht. Problema che sinora è stato passato sotto silenzio forse sperando in buona fede che la buona volontà degli stati membri l’avrebbe risolto da sé, portando a politiche di maggiore solidarietà e condivisione. Purtroppo, però, così non è accaduto né – visto quel che sta accadendo con il nuovo giro di “aiuti” di cui si parla in questi giorni – è probabile che ciò accada nei prossimi anni. L’Unione europea – che ormai va assumendo sempre di più i tratti di una grande Germania – intende mantenersi fedele a Maastricht e Lisbona, lasciando ben poco spazio ai sogni dei “vecchi” europeisti.

Questo significa che per l’Italia – e in particolare proprio per gli europeisti italiani – è forse giunto il momento di porsi seriamente di fronte al “problema europeo”, trattandosi di un problema che non solo esiste, ma che continuerà ad aggravarsi sino a quando la nostra classe politica non troverà il coraggio di sollevare – anche e soprattutto dalle parti di Berlino e Parigi – la questione se non sia il caso di rifondare l’Unione partendo dai suoi trattati fondativi, smettendo in particolare di considerarla solo una zona di libero scambio con annessa unione monetaria (studiata a tavolino per imporre a tutti quanti un modello economico ritagliato sulle specificità e sugli interessi di pochi), per iniziare a pensare a come trasformarla in uno strumento di effettiva integrazione economica e sociale tra i paesi europei. Ovviamente portare avanti un simile tentativo implica il rischio di ricevere una porta (di Brandeburgo) in faccia. Ma a quel punto quella stessa porta potrebbe essere la via per andarsene serenamente e senza troppi strepiti e drammi da un sistema che, quanto meno per noi, non funziona più. L’Italia, per quanto pesta e ammaccata, ha ancora le energie per rialzarsi. Ma magari – messi alle strette sulla riforme del TUE e del TFUE – ci saranno anche dei paesi che si accorgeranno del fatto che, tutto sommato, è ancora meglio averci come compagni di strada che come concorrenti.

Del resto – agendo in questo modo – l’Italia non farebbe altro che imitare il modello tedesco, ordinamento in cui la costituzionalità delle norme unioniste (e dell’Euro in particolare) rispetto alla Carta fondamentale nazionale è questione certamente attuale, come dimostra la recente sentenza della Corte Costituzionale tedesca che potrebbe indurre in futuro la Bundesbank a non partecipare più all’ultima versione dei programmi di quantitative easing lanciati dall’Eurotower proprio perché si tratterebbe di programmi ritenuti dalla Corte di Karlsruhe potenzialmente lesivi di norme costituzionali nazionali. I tedeschi, insomma, non hanno avuto alcuna paura ad alzare il dito (anche con il rischio di rovesciare il tavolo) non appena il diritto vivente dell’UE ha mostrato i primi timidi segni di voler abbandonare i principi di teutonica austerità vergati nei trattati fondativi. E proprio questa rigidità dovrebbe confermare che forse è giunto il momento di un franco e sereno chiarimento tra gli stati membri circa le scelte di fondo della politica unionista.

Se però i pasdaran europeisti di casa nostra – vuoi per calcolo politico, vuoi per vari interessi di bottega o vuoi per troppa fede in una vecchia e gloriosa idea – si limiteranno ad annuire di continuo ai padroni dell’Europa e ad abbaiare contro i sovranisti di ogni tipo e genere per il solo fatto che osano mettere in discussione i dogmi del sistema, temo che – presto o tardi – potremmo tutti quanti trovarci in una situazione sociale tanto tesa da rendere il diritto costituzionale il meno traumatico degli strumenti con cui la parte scontenta, ma ancora attiva e vitale, del nostro popolo sovrano cercherà di mettere la parola fine a un gioco che – quanto meno con le regole con cui viene giocato ora – si sta dimostrando sempre meno capace di garantire fiducia, tranquillità e benessere alla maggioranza dei cittadini.




La “censura privata” dei contenuti politici sui social network tra mito sociale e realtà giuridica

La cronaca si occupa sempre più spesso di casi di cosiddetta “censura privata” di contenuti caricati da utenti sui social network (in particolare la piattaforma YouTube parrebbe essere divenuta parecchio “attiva” in questo senso negli ultimi tempi). Sebbene gli episodi che salgono alla ribalta della cronaca siano essenzialmente solo quelli che riguardano contenuti lato sensu politici e/o quelli caricati da utenti che gravitano a vario titolo intorno al mondo dell’informazione o del dibattuto politico e culturale, in realtà il fenomeno della censura di massa di contenuti che – per varie ragioni – non risultano graditi alle piattaforme social ha dimensioni ben più ampie, coinvolgendo diverse migliaia di utenti e contenuti su base giornaliera e a livello planetario. Le polemiche riguardano peraltro quasi sempre i casi – piuttosto frequenti – in cui vengono oscurati dai social network contenuti che esprimono visioni e concetti considerati “non allineati” all’opinione dominante, ma sarebbe forse meglio dire a quella dei gruppi “più rumorosi” della community, dando luogo in tal modo ad una singolare forma di “democrazia contestativa” in cui i gruppi che protestano di più – per questa sola ragione – finiscono in via di fatto per negare, con l’avallo di policy compiacenti predisposte dalle piattaforme, il diritto di tribuna alla massa silenziosa di chi si limita a manifestare opinioni differenti mettendo in rete dei contenuti, ma senza pretendere che vengano oscurati quelli di tenore differente. Si tratta – come si diceva – di una tendenza che appare assai consolidata oltre oceano, ma che – non si sa se per una modifica delle policy delle piattaforme o per un maggiore attivismo dei “leoni da tastiera” del vecchio continente – sta iniziando a prendere piede anche in Europa.

Quel che in compenso è certo è che i social network e la loro censura privata rappresentano oggi una delle più potenti armi a supporto del discorso politicamente corretto e contro la diffusione di qualunque idea alternativa a quelle che quel discorso ammette. Può dunque essere il caso di interrogarsi sulle cause di questa situazione, per capire se e in che modo tale fenomeno merita attenzione e – se del caso – correzione.

Quanto alle ragioni dell’impennata della censura social, alcuni sostengono apertamente la teoria del complotto (che a essere sinceri come complotto sarebbe stato organizzato piuttosto maldestramente, visto che i presunti destinatari se ne sono accorti in fretta): secondo questa linea di pensiero, i grandi social network avrebbero stretto un patto con il mondo liberal americano e progressista europeo (a sua volta sostenuto dalla finanza speculativa internazionale) teso ad ostacolare la diffusione di notizie e opinioni non gradite a quegli ambienti. Si tratta di un discorso analogo a quello che viene svolto nei confronti dei mass media tradizionali, da sempre accusati di portare avanti una agenda coerente con gli interessi di controlla i pacchetti di maggioranza dei rispettivi editori e del discorso politico che questi soggetti appoggiano. Invero non saprei dire se un patto ci sia, ma – alla luce dei fatti – un certo allineamento è difficile da negare. Per usare una terminologia antitrust ci si potrebbe limitare a ipotizzare che tra certi ambienti politici ed economici e le grandi piattaforme social esiste qualcosa che potrebbe collocarsi in qualche punto intermedio tra una pratica concordata e il parallelismo consapevole. Sennonché qui non stiamo parlando di antitrust e dunque i patti non contano. Qui parliamo di pubblica opinione e di informazione.

Proprio per questa ragione occorre sottolineare prima di tutto la natura ambigua – o, forse meglio, anfibia – delle piattaforma social, che non sono veri e propri prodotti editoriali o informativi, ma gli somigliano da vicino. L’editore, così come chi fa informazione, pubblica infatti contenuti propri e se ne assume di conseguenza la piena responsabilità, la piattaforma social pubblica invece contenuti altrui (che possono essere sia notizie che opinioni) e dunque – a rigore – non dovrebbe assumersene la responsabilità. Ma è esattamente qui che occorre andare subito al nocciolo della questione, evitando comodi nominalismi.

Nella misura in cui la piattaforma social non si limita a mettere a disposizione uno spazio vuoto da riempire con notizie e opinioni, ma rivendica il diritto di selezionare alcuni contenuti degli utenti per escluderli dalla pubblicazione e lo fa non basandosi sul semplice criterio della contrarietà alla legge del contenuto, di fatto esprime una sua “linea editoriale e/o informativa”, appunto basata sui criteri che sceglie di adottare per selezionare i contenuti degli utenti che devono essere “oscurati” e quelli che invece possono essere diffusi. Dunque è vero che la piattaforma social non è un editore in senso stretto, ma altrettanto vero è che – se adotta sistemi di censura privata sui contenuti che ospita che le consentono di censurare ultra vires rispetto ai divieti di legge (il che accade anche quando attua quei divieti prima che lo facciano le istituzioni pubbliche competenti) – si comporta in via di fatto come fa un editore, selezionando le opinioni e i fatti che vuol far giungere al pubblico. Il che solleva inevitabilmente il problema dell’eventuale estensione anche a questi soggetti di alcuni principi – per dirne solo due: pluralità e trasparenza – che valgono per l’editoria e l’informazione. Il fatto poi che i social network concorrano alla formazione della pubblica opinione (anzi, abbiamo ormai un ruolo assai rilevante in tal senso) pone l’ulteriore questione della possibile applicazione dei principi costituzionali in tema di pluralismo e libertà di manifestazione del pensiero a questo genere di soggetti.

Questo spiega quanto superficiale sia la replica comunemente sollevata dai “tifosi” della censura privata praticata dai social, i quali giustificano il fenomeno limitandosi a sostenere che un’impresa privata può far quel che vuole coi contenuti che ospita gratuitamente. Se tuttavia fosse così, probabilmente, sarebbe incostituzionale la legge sulla responsabilità del direttore di un giornale, quella che impone alle testate di registrarsi al Tribunale e qualche perplessità desterebbe pure tutto l’imponente complesso di norme a presidio della pluralità e dell’indipendenza dell’informazione. Liquidare insomma la questione della censura privata come semplice questione contrattuale è solo un comodo espediente per lasciare le cose come sono (espediente che non a caso viene largamente utilizzato da quelli che di questo genere di censura beneficiano).

D’altro canto non si può ignorare che i social network hanno una buona ed evidente ragione per “censurare”, considerando che – quanto meno in Italia – potrebbero essere considerati responsabili insieme all’utente per i contenuti illeciti che, nonostante siano stati segnalati come tali, non sono stati rimossi tempestivamente dalla piattaforma. Questa forma di responsabilità “in vigilando” suggerisce infatti ai gestori di social network di adottare un metro assai rigoroso nel selezionare i contenuti da rimuovere. Un rigore che dipende tuttavia da altri tre fattori: il primo è il proliferare di leggi che – sotto la bandiera della lotta alle fake news e/o all’hate speech e/o alla discriminazione ovvero ad altre variamente nobili cause – pongono divieti tanto vaghi e ampi da poter essere interpretati in modo tale da restringere gravemente sia la libertà di manifestazione del pensiero sia, se non soprattutto, la pluralità delle opinioni. Il secondo fattore è rappresentato da una certa tendenza dei tribunali o dalle autorità di vigilanza pubbliche a interpretare in modo assai ampio i divieti di cui sopra. Il terzo – che invero a mio avviso rappresenta anche una delle cause del secondo – è il ben noto attivismo (condito da una altrettanto ben nota cieca intolleranza) dei cosiddetti social justice warrior che pullulano sulla rete, i quali finiscono per monopolizzare l’opinione pubblica, sostenuti quasi sempre in questa azione dalla propaganda di forze politiche sedicenti liberal o progressiste e dai mezzi di informazione tradizionali. Questi quattro fattori – responsabilità in vigilando del social, legislazione ampia e vaga potenzialmente tale da restringere la libertà di manifestazione del pensiero in nome di nobili ideali applicata da magistrature assai zelanti e, per finire, conclamata intolleranza di una certa parte dell’opinione pubblica e dell’informazione mainstream – crea il cocktail che porta al risultato di una massiccia e ripetuta cancellazione di contenuti sui social network che quasi sempre va a colpire contenuti e soggetti che non sono allineati alle posizioni definite solitamente come politicamente corrette.

Come affrontare dunque il problema? Anzitutto non negando che esiste. Dire in modo pacato cose anche molto sgradevoli per qualcuno o poco gradite ai poteri politici o economici è infatti un diritto costituzionalmente garantito. E questo è bene ricordarlo in particolare a tutti i benpensanti che vorrebbero rendere migliore il mondo (ovviamente secondo il loro metro di “meglio”) mettendo zitto chi la pensa diversamente da loro, solo perché è brutto e cattivo, anzi – siccome dire brutto e cattivo è poco politicamente corretto – perché le sue idee sono “impresentabili”. E’ in particolare bene ricordare alle anime belle che nessuna rivoluzione o progresso culturale (e in particolare proprio quelle che hanno creato la società che consente oggi ai benpensanti di benpensare) sarebbero mai stati possibili se qualcuno non avesse iniziato a diffondere idee eterodosse e che, al tempo, apparivano sgradevoli se non addirittura scandalose. Ferma dunque la continenza della forma e delle modalità espressive (e fermo il diritto di satira), occorre ribadire con forza che qualunque opinione – per quanto sgradevole o poco condivisibile sia il suo contenuto – deve poter trovare posto nel dibattito pubblico, a patto che sia esposta in forme civili. Del resto, se si ritiene ammissibile che uno scienziato sostenga pubblicamente che dovrebbe essere reso lecito l’infanticidio nei primi momenti di vita (ribattezzato per l’occasione come “aborto post parto”) in quanto il bambino appena nato non ha ancora maturato una coscienza di sé, dunque non soffrirebbe per l’evento della sua morte; se si ammette questo – dicevo – credo si possa ammettere anche parecchio di quel che scatena i pruriti censori dei benpensanti. Tanto premesso, veniamo alle questioni pratiche.

Un primo passo per risolvere il problema potrebbe essere quello di imporre ai social network degli obblighi di trasparenza relativamente agli specifici criteri adottati per operare le selezioni dei contenuti da oscurare. Siccome peraltro si tratta quasi sempre di criteri automatizzati (ossia di algoritmi che lavorano in automatico sui dati), occorre che la pubblica opinione sappia come gli algoritmi trattano le informazioni e, soprattutto, quali sono i “trigger” che fanno scattare l’oscuramento. Va detto che imporre simili obblighi espone i social all’attività dei cosiddetti troll (ossia di soggetti che, sfruttando gli algoritmi, organizzano campagne di segnalazione volte a far sì che il sistema cancelli determinati contenuti). Però è anche vero che i colossi del social online hanno certamente le risorse per elaborare algoritmi a prova di troll e, forse anche meglio, per lasciare a un essere umano la verifica ultima e diretta del contenuto oggetto di accusa da parte della community, sulla base di criteri scritti chiari nero su bianco e che il verificatore in carne ed ossa deve applicare. Si badi infatti che qui nessuno vuole negare a Facebook il diritto di scegliere criteri di censura liberal o a YouTube il diritto di censurare sulla base di principi di matrice conservatrice: l’importante è che i social dicano chiaro quali sono i criteri – anche biased nei confronti di una certa opinione politica o culturale – che vogliono adottare nella loro opera di censura privata.

Ma tutto questo probabilmente non risolverebbe a mio avviso il problema, nella misura in cui non impedirebbe ai social di sottrarsi al rischio di subire – per effetto dell’irrefrenabile attivismo dei troll ideologicamente orientati (specie di associazioni e comitati vari per la promozione dei diritti di questo o di quello) – azioni giudiziarie o procedure amministrative in applicazione delle leggi censorie di cui si è detto prima. D’altro canto è irrealistico pensare – visti i tempi che corrono e il dilagare senza freni dell’isteria politicamente corretta – che a breve i governi e i legislatori possano abrogare o attenuate le leggi censorie che creano i presupposti del problema della censura privata praticata dalle piattaforme social. La soluzione va per forza cercata altrove, ossia – ad avviso di chi scrive – in una differente ripartizione della responsabilità tra social network e utente in relazione ai contenuti postati da quest’ultimo che – segnalati ma non rimossi dal social network – siano poi effettivamente riconosciuti come illeciti dagli enti preposti alla verifica della loro illiceità.

L’unica soluzione del problema attualmente praticabile passa infatti a mio parere per una eliminazione della responsabilità in vigilando dei social network per mancata immediata rimozione dalla rete di un contenuto segnalato al provider anche quando quel contenuto, in seguito, viene dichiarato illecito da un giudice o da un ente amministrativo. Questa responsabilità andrebbe espressamente esclusa per legge, a fronte della possibilità di una identificazione ragionevolmente sicura dell’identità reale degli utenti. Per iscriversi a facebook – tanto per fare un esempio – si dovrebbe insomma inviare una copia di documento di identità e fare una breve intervista online (in videoconferenza) per verificare che l’utente collegato corrisponde al documento. Si noti che per certi particolari servizi online la cosa viene già fatta da diverse imprese e non presenta particolari problemi tecnici. Per funzionare davvero, però, la cosa dovrebbe funzionare su entrambi i lati del rapporto tra utente e social network: da un lato, le piattaforma social avrebbe il diritto di chiedere in sede di iscrizione una identificazione sicura all’utente, beneficiando – se identifica l’utente – dell’esclusione della sua corresponsabilità per i contenuti postati da quell’utente, oppure non chiedere nulla (dunque di fatto accettando utenti “non verificati”), assumendo però in quel caso la responsabilità in vigilando. D’altro canto lo stesso utente dovrebbe a sua volta avere un vero e proprio diritto soggettivo a farsi identificare con sicurezza dal social network, al fine di sottrarsi alla censura preventiva da quest’ultimo in caso di segnalazione.

In questo modo, quando si tratta di contenuto proveniente da un utente “identificato”, di fronte alla segnalazione di un contenuto ritenuto illecito proveniente dalla community e che fa scattare i “trigger” previsti dal sistema, la piattaforma social non potrebbe rimuovere il contenuto, ma avrebbe l’obbligo di comunicare direttamente a tutti i soggetti segnalanti che l’utente che ha postato il contenuto è un utente identificato e che dunque – in caso di successiva azione penale o di procedura amministrativa – la stessa piattaforma comunicherà all’autorità procedente l’identità reale dell’utente. Per le azioni civili contro l’utente (che richiedono una conoscenza previa della sua identità) si potrebbe invece prevedere un obbligo per la piattaforma di approntare una procedura grazie alla quale il legale incaricato dell’azione civile contro chi ha messo online un contenuto segnalato – dichiarando che intende agire contro l’utente e indicando sia il contenuto che considera illecito, sia la precedente segnalazione, sia infine il soggetto per conto del quale il legale agisce – può farsi comunicare da parte del social network l’identità reale dell’utente.

Il sistema in questione si fonda insomma sul principio secondo cui entrambi i soggetti – utente e gestore della piattaforma social – che, in via di fatto, concorrono alla diffusione di un contenuto online hanno, ciascuno, il diritto – a prescindere dalla volontà dell’altro – di scegliere se assumersi o meno la responsabilità (o, nel caso del social network la corresponsabilità) dei contenti pubblicati. Questa opzione consente alle piattaforme di social network di diventare finalmente – vuoi per loro scelta o vuoi per decisione degli utenti – quel che sono nate per essere, ossia altrettanti semplici “spazi virtuali” dove altri soggetti comunicano pubblicamente, assumendosi in prima persona la responsabilità di quel che dicono. L’opzione per una totale neutralità della piattaforma rispetto al contenuto – che in un simile modello resta esclusivamente un contenuto imputabile all’utente identificabile, che ne è esclusivamente e pienamente responsabile – fa in modo che la stessa piattaforma non possa né violare la pluralità dell’informazione né la libertà di manifestazione del pensiero: tutti quanti gli utenti, se desiderano, possono infatti optare per un sistema che gli consente di postare pubblicamente quel che preferiscono senza rischi di censura preventiva privata, ma con la conseguenza di assumersene la esclusiva responsabilità di fronte alla legge. Anche la piattaforma, se desidera, può peraltro a sua volta evitare la corresponsabilità per eventuali contenuti illeciti postati dall’utente, obbligando quest’ultimo ad una procedura di identificazione previa in sede di iscrizione al social. Se invece sia la piattaforma che l’utente non optano per il regime di identificazione certa, a quel punto entrambi i soggetti in questione accettano il regime di responsabilità potenzialmente condivisa che legittima la censura privata: a quel punto – per un verso – gli utenti non potranno lamentarsi di come questo regime viene applicato dai social network e – per altro verso – la piattaforma deve ritenersi del tutto libera di censurare quel che preferisce senza dover rendere conto a nessuno dei criteri che decide di adottare .

Un simile sistema presenta una serie di evidenti vantaggi: i troll – per oscurare un contenuto che non condividono accusandolo di essere illecito – dovrebbero darsi la pena di fare un esposto per iniziare una azione legale o amministrativa contro il soggetto che ha postato il contenuto. Dunque avrebbero la necessità di “metterci la faccia” invece di agire comodamente dall’ombra e nell’ombra come accade ora. Siccome poi l’ordinamento del nostro paese – ma lo stesso vale altrove – prevede procedure urgenti sia amministrative sia giudiziarie che possono portare alla rimozione di contenuti online, l’adozione di un simile modello non dovrebbe portare a ritardi eccessivi per ottenere la cessazione della diffusione di contenuti gravemente illeciti. Ma – soprattutto – in un simile sistema la questione della liceità di un contenuto viene trattata solo dagli enti preposti e non risolta – come invece avviene ora – sulla base del criterio “facile” (ed altrettanto facilmente abusato) secondo cui, per non rischiare grane di alcun genere, è meglio censurare tutto quel che disturba qualcuno. Questo sistema eliminerebbe peraltro anche il sospetto (o – per chi pensa che così sia – il rischio) che i social network si prestino, agendo in modo opaco e non trasparente, a operazioni “politiche” di qualche genere. Infine, sgravando la responsabilità della piattaforma social, si tratta di un sistema che dovrebbe risultare gradito anche alle piattaforme. E quest’ultima condizione è invero assai importante per il successo di eventuali iniziative politiche in tal senso.

Il regime di identificazione dell’utente (e il corrispondente regime di ripartizione della responsabilità) – per quanto sulla carta presenti una pluralità di vantaggi – ha infatti il grave difetto pratico di dover per forza essere attuato dai singoli stati nei limiti delle proprie giurisdizioni nazionali. Non trattandosi di un modello universalmente applicabile, la sua efficacia dipende dunque anche dal fatto che sia adottato e proposto come principio da enti sovranazionali capaci di produrre convenzioni multilaterali estese ad una pluralità di stati (come l’Unione Europea, l’OCSE o le agenzie ONU ad esempio), ma soprattutto occorre che gli stessi social network (e una larga parte degli di utenti) ne favoriscano l’adozione su scala multinazionale. Ovviamente non è possibile prevedere se questo accadrà, però – considerando quante storture sta indirettamente generando il modello attuale fondato sulla colpa in vigilando delle piattaforme – potrebbe valere la pena di iniziare a studiare la fattibilità del modello alternativo, attivandosi presso sia presso le piattaforme social sia presso le istituzioni internazionali, per capire se si tratta di un modello che incontra più favori che sfavori.

Del resto la soluzione che qui viene ipotizzata è certamente più soft rispetto alla prospettiva – ventilata di recente – di obbligare semplicemente i gestori delle piattaforme social a rispettare i diritti fondamentali di manifestazione del pensiero degli utenti. Quest’ultima soluzione “legalista” (invero piuttosto comoda per i pubblici poteri oltre che facilmente spendibile in termini elettorali) esporrebbe infatti i social network al dilemma di dover di volta in volta decidere da sé – di fronte a una segnalazione di contenuto illecito – se far prevalere il diritto ad evitare la propria responsabilità mediante la rimozione immediata contenuti segnalati (col rischio di essere accusati di non rispettare i diritti fondamentali di manifestazione del pensiero degli utenti, se alla fine il contenuto viene ritenuto lecito) o se far prevalere la libertà di manifestazione del pensiero (col rischio però – in questo caso – di essere considerati corresponsabili dell’utente in caso di accertamento dell’illiceità del contenuto). Insomma il costo in termini di incertezza per le piattaforme del modello legalista pare a chi scrive assai peggiore rispetto al costo che implicherebbe un sistema di verifica dell’identità reale degli utenti in sede di iscrizione. Dunque gli stessi social network dovrebbero riconoscere di avere un interesse a spingere per l’adozione del modello qui proposto (ossia quello fondato sulla rinuncia all’ampio potere “censorio” discrezionale che hanno ora in cambio della possibilità di ottenere una esenzione dalla responsabilità per contenuti “sensibili” postati dagli utenti) prima che si formi un ampio consenso sociale e politico attorno all’idea che i social network devono restare assoggettati a regole pubblicistiche che impongano loro di gestire la loro piattaforma in modo da tutelare la pluralità di opinione o la libertà di manifestazione del pensiero. In sintesi: forse meglio per le piattaforme social rinunciare oggi alla censura privata che dover esercitare domani funzioni di controllo delegate che – non essendo enti pubblici – potrebbero creare loro responsabilità e problemi sia quando censurano che quando non censurano.




Germania e Italia di fronte al sovranismo giuridico

Nel dibattito culturale più recente si parla assai spesso di “sovranismo”; termine che viene inteso pressoché invariabilmente in senso politico, ossia come una rivendicazione della prevalenza degli interessi economici e strategici del singolo Stato rispetto a quelli di altri stati ovvero all’attività e all’agenda di enti e istituzioni sovranazionali. In Italia (e in Europa) il tema si concentra peraltro sulla possibilità di rivendicare maggiori spazi di autonomia a favore degli Stati membri, di fronte al crescere dei vincoli imposti dall’Unione Europea all’azione politica nazionale, sia mediante il ricorso sempre più frequente a direttive e regolamenti nei più disparati settori, sia – più di recente – mediante l’imposizione di condizioni di politica economica e fiscale (le famose “condizionalità”) in seguito alla concessione di aiuti finanziari agli stati membri da parte degli enti che fanno capo all’UE.

Il tema del sovranismo può in realtà essere trattato in termini ben più generali (e meno conflittuali) declinandolo in senso giuridico, ossia come uno dei possibili modelli di gerarchia costituzionale delle fonti del diritto, identificandosi in particolare con quello che vede prevalere le fonti di diritto nazionale – e, in particolare, le norme della costituzione nazionale – rispetto alle norme primarie e secondarie di diritto internazionale (e dunque anche comunitarie).

Sul punto occorre tuttavia svolgere un chiarimento preliminare: l’Unione Europea – in particolar modo la Corte di Giustizie UE – rivendica da sempre e con forza il primato del proprio diritto rispetto a quello degli Stati Membri. Sennonché, pare a chi scrive che proprio il fatto che gli organi UE trovino necessario ribadire diverse volte una certa cosa (nella specie, appunto, il primato del diritto UE), conferma che quella cosa tanto certa poi non è. E non lo è nel senso – evidente a chiunque, anche se non giurista – che, al di là degli argomenti che può indicare la Corte di Giustizia per sostenere le sue tesi, l’UE in ultima analisi è solo un insieme di burocrazie e organi che producono norme giuridiche, ma non ha né un popolo né un territorio “propri”. Dunque l’UE – che esiste, opera (e ha la tendenza a concepire sé stessa) come se fosse un super-stato – in realtà uno stato non è, sia perché non fonda la propria sovranità su un suo popolo sia perché non è in grado di amministrare da sé quella sovranità su un proprio territorio, non avendo né un esercito né una polizia né un insieme di tribunali e altri organi che gli consentano di far rispettare coercitivamente le norme che promulga, dovendosi viceversa valere, per ottenere quel risultato, del “braccio secolare” degli Stati membri. Se dunque l’UE – in via di fatto – esiste solo perché “può comandare in casa d’altri” è evidente che la sua stessa esistenza – ossia la vigenza del diritto che produce – dipende dal consenso che questi “altri” prestano al suo comandare a casa loro. Questo spiega perché il tema del sovranismo non può essere affrontato (e tanto meno risolto) muovendo da quel che sostiene l’UE stessa, per voce della sua Corte di Giustizia, laddove la sua soluzione dipende invece dai limiti in cui gli Stati Membri si ritengono vincolati (o, quanto meno, acconsentono) a rendere vigente il diritto UE nei rispettivi territori: limiti che – ovviamente – sono definiti solo dalle costituzioni nazionali e dall’interpretazione che di esse danno le rispettive Corti costituzionali.

Si badi infatti che tutte le costituzioni non possono che essere sovraniste: qualunque riconoscimento costituzionale della prevalenza del diritto UE, per quanto ampio e incondizionato, resterebbe infatti pur sempre reversibile dallo stato nazionale, vuoi con una modifica costituzionale o vuoi con una uscita dai trattati (in tal senso la brexit ha insegnato quanto poco ci voglia per togliere ogni potere all’UE). In altre parole: se è proprio (e solo) la sovranità dello Stato che consente a quello stesso Stato di prestare il proprio consenso a divenire parte di una convenzione internazionale, non esiste alcuna valida ed efficace convenzione internazionale senza la sovranità degli stati aderenti, i quali tuttavia – proprio in ragione di quella stessa sovranità che consente loro di rendere effettivi i trattati – possono anche sottrarsi unilateralmente alla vigenza di quei trattati, restando esposti solo alle eventuali ritorsioni di diritto internazionale eventualmente decise delle altre parti secondo le regole del diritto internazionale consuetudinario o pattizio.

Questa elementare considerazione sul fondamento ultimo della effettiva vigenza di un qualunque trattato internazionale (che, come si diceva, è proprio la sovranità degli stati che vi aderiscono) ispira con tutta probabilità la giurisprudenza costituzionale tedesca più recente che – quando si è trovata a dover valutare sia norme di matrice UE (i famigerati programmi di acquisto di titoli di stato da parte della BCE nel contesto del cosiddetto quantitative easing) sia trattati multilaterali di grande importanza economico-strategica (come il trattato sulla Corte Unificata dei Brevetti) – ha affermato con una certa decisione il principio secondo cui le norme di qualunque trattato internazionale restano soggette al consenso degli Stati aderenti nei limiti in cui era stato manifestato in sede di adesione al trattato, di guisa che gli organi internazionali eventualmente creati dai trattati (incluse, per quel che concerne l’unione europea, la BCE e la Corte di Giustizia UE) non possono modificare i principi ed i limiti su cui si fondavano “i patti” originariamente sottoscritti dagli Stati in sede di stipulazione del trattato. Questo principio è stato riassunto nel lemma, assai icastico e per certi versi tagliente, secondo cui gli stati aderenti restano i soli veri “padroni” dei trattati (e dunque anche dell’UE). Ma non basta: la Corte ha anche ribadito il suo costante orientamento nel senso che le norme in cui si manifesta la sovranità dello stato nazionale (e dunque le norme fondamentali costituzionali) prevalgono sulle norme di fonte internazionale.

Questo significa, per i giudici costituzionali tedeschi, non solo che i patti internazionali vanno attuati e sono vigenti solo nei limiti in cui sono stati stipulati (o successivamente modificati) dagli stati aderenti (senza che dunque gli organi che amministrano o attuano i trattati possano in via autonoma spingersi ultra vires), ma anche che i principi fondamentali della costituzione nazionale rappresentano un limite implicito del diritto dello stato di aderire ai trattati e dunque prevalgono – nei singoli stati – sulle norme di qualunque trattato internazionale (così come nei confronti della normativa secondaria prodotta dagli organi costituiti in forza dei trattati), che deve essere disapplicato o denunciato nelle parti in cui non rispetti quegli stessi principi. E questo vale anche per il diritto UE.

La Corte a tale riguardo ha infatti precisato che il controllo di costituzionalità del diritto Ue (anche con riferimento ai provvedimenti emanati dagli organi europei nel contesto del processo di integrazione europea) si articola in due diverse valutazioni: quella di conformità dei poteri esercitati dall’Unione rispetto alle funzioni che i Trattati le conferiscono secondo il principio generale di attribuzione (c.d. ultra vires review) e quella di non interferenza degli atti dell’Unione con i “principi fondamentali” ricavabili dalla Legge fondamentale tedesca che siano tali da caratterizzarne l’identità (c.d. identity review). Si noti dunque come la selezione dei principi costituzionali “fondamentali” viene operata in Germania sulla base di un criterio che si può senza dubbio definire nazionalistico, dal momento che considera prevalenti rispetto al diritto UE i principi che consentono di conferire all’assetto costituzionale tedesco la sua “identità” (applicando una dottrina che viene definita in Germania della “identità costituzionale”).

Ebbene: la volontà di subordinare la vigenza del diritto UE in uno stato membro all’“identità costituzionale nazionale” – dunque la dottrina tedesca dell’identità costituzionale – rappresenta a mio avviso un modello di interpretazione dei rapporti tra diritto dell’UE e diritto nazionale che può tranquillamente essere definito come “sovranismo giuridico”, ossia come manifestazione della volontà dello stato nazionale di subordinare – nella gerarchia delle fonti – il diritto UE ai principi fondamentali del suo ordinamento costituzionale.

Il sovranismo giuridico della Corte di Karlsruhe appare peraltro in linea con le norme costituzionali che la corte stessa ha l’obbligo di applicare. L’art. 20 della legge fondamentale tedesca dispone infatti che “La Repubblica Federale di Germania è uno Stato federale democratico e sociale” e che “Tutto il potere statale emana dal popolo. Esso è esercitato dal popolo per mezzo di elezioni e di votazioni e attraverso organi speciali investiti dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario”, mentre l’art. 23 (intitolato “l’Unione europea”) prevede specificamente che “Per la realizzazione di un’Europa unita la Repubblica federale di Germania collabora allo sviluppo dell’Unione Europea che è fedele ai principi federativi, sociali, dello Stato di diritto e democratico nonché al principio di sussidiarietà e che garantisce una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente paragonabile a quella della presente Legge fondamentale. La Federazione può a questo scopo, mediante legge approvata dal Bundesrat, trasferire diritti di sovranità. Per l’istituzione dell’Unione Europea, per le modifiche delle norme dei trattati e per le regolazioni analoghe, mediante le quali la presente Legge fondamentale viene modificata o integrata nel suo contenuto oppure mediante le quali tali modifiche e integrazioni vengono rese possibili, si applica l’articolo 79, secondo e terzo comma”. La costituzione tedesca, in altre parole, ammette sì ampie deleghe di sovranità a beneficio dell’Unione Europea, ma solo nei limiti in cui l’azione dell’Unione resta nei limiti dei principi fondamentali tracciati dalla carta fondamentale tedesca. Dunque la Corte, nell’ispirare la sue giurisprudenza al principio del sovranismo giuridico, non si spinge ultra vires, ma rispetta il dettato della sua carta fondamentale.

In Italia le cose stanno, a prima vista, in modo analogo, anche se poi – approfondendo il discorso – si scoprono differenze tanto interessanti quanto significative rispetto all’esperienza tedesca. La nostra Corte costituzionale ammette infatti che il diritto UE prevalga rispetto al diritto nazionale in applicazione dell’art. 11 Cost.., secondo cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Proprio l’applicabilità dell’art. 11 al diritto UE consente alla Corte Costituzionale di creare a favore delle fonti di diritto unionista uno spazio di vigenza da cui l’ordinamento nazionale (analogamente a quando prevede l’art. 23 della costituzione tedesca) si ritrae, per lasciare competenza esclusiva al legislatore unionista: spazio in cui – dunque – la norma unionista si va ad inserire, risultando per l’effetto direttamente vincolante in Italia, senza per questo divenire una norma nazionale (come avviene invece per altre fonti internazionali, secondo la dottrina della cosiddetta “recezione”).

Conseguenza di questo particolare regime di vigenza è che il diritto UE non resta soggetto al “normale” sindacato di legittimità costituzionale che vale per le leggi interne, bensì a un controllo teso a verificare la compatibilità della norma con i “principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale” (così la sentenza n. 183/1973 e – più recentemente – l’ordinanza 454/2006). Anche in Italia, come accade in Germania, per le norme UE la Corte costituzionale applica un regime di verifica di costituzionalità “attenuata”. Simili norme infatti – a differenza di quelle nazionali – possono essere dichiarate incostituzionali (mediante l’impugnazione della legge nazionale di ratifica dei trattati che le hanno approvate o che hanno approvato le norme in forza della quali sono state adottate le norme comunitarie della cui legittimità costituzionale si discute) solo se sono contrarie ai “principi fondamentali” della nostra carta fondamentale.

E’ tuttavia nei criteri da adottare per l’individuazione dei principi costituzionali da considerarsi “fondamentali” che Italia e Germania adottano prospettive piuttosto differenti. In Italia, infatti, i principi fondamentali vengono per lo più identificati nei diritti umani inalienabili cui fa riferimento la prima parte della costituzione ma che sono riconosciuti anche nelle convenzioni multilaterali sui diritti umani. Questo consente di sostenere che – rispetto all’impostazione tedesca – il primato dell’ordinamento costituzionale sul diritto UE viene declinato in modo meno identitario e più universalista (quasi, verrebbe da dire, secondo criteri pseudo-giusnaturalistici). In sintesi: mentre la Germania adotta – nei confronti del diritto UE – un metro di verifica costituzionale colorato in senso nazionalista (adottando un sistema che potremmo pertanto definire “sovranismo giuridico forte”), l’Italia applica criteri di prevalenza costituzionale meno identitari e più universalisti (e dunque esercita quello che potremmo definire un “sovranismo giuridico debole”). Questo consente di spiegare piuttosto bene perché la Corte di Karlsruhe è assai più propensa – rispetto alla nostra Consulta – a valutare la legittimità costituzionale delle norme unioniste sindacando il merito delle scelte politiche che stanno dietro all’adozione delle norme europee: propensione che emerge proprio nella sentenza in tema di quantitative easing in cui la Corte giunge alla conclusione di incostituzionalità del programma di acquisti della BCE dopo aver spese decine di pagine nell’illustrazione di argomenti e principi di politica economica e monetaria.

Il fatto di poter contare su una corte costituzionale che esprime un “sovranismo forte” nel sindacare il contenuto del diritto unionista consente peraltro agli altri poteri dello stato tedesco di ritagliarsi, nelle diverse sedi istituzionali dell’UE, un maggiore spazio di manovra a tutela dei propri interessi nazionali rispetto a stati che (come l’Italia) – nella verifica costituzionale del diritto UE – si limitano ad esercitare un sovranismo debole. Il fatto insomma che la corte costituzionale di un stato dell’UE scelga di interpretare “alla tedesca” (ossia in senso più identitario e nazionalista) piuttosto che non “all’italiana” (ossia in senso più universalista) i criteri da usare per individuare i principi inviolabili dell’ordinamento costituzionale nazionale che devono sempre prevalere nei confronti del diritto UE; tale fatto – dicevamo – si riflette anche sul maggiore o minore potere contrattuale che quello stesso stato ha all’interno delle istituzioni europee.

Stando così le cose, e risultando piuttosto evidente che l’Italia ben di rado riesce a far valere i propri interessi in sede UE, è dunque lecito interrogarsi sui limiti in cui il riferimento all’art. 11 Cost. (dalla cui applicazione deriva il fatto che l’Italia sia un paese in grado di esercitare solo un sovranismo giuridico “debole” in sede di verifica costituazionale del diritto UE) sia correttamente utilizzato dalla nostra Consulta quando si tratta di valutare la tenuta costituzionale di norme di fonte unionista. Il tema è ovviamente molto complesso e dunque non può essere esaurito in questa sede, in cui mi limiterò a indicare un paio di spunti, fondati entrambi sulla considerazione che il regime di sindacato “attenuato” – sostanziandosi in una eccezionale limitazione di sovranità dello stato – pare giustificato solo nella misura in cui si può sostenere che i trattati UE beneficiano di una sicura copertura da parte dell’art. 11 Cost., dunque solo nella misura in cui è possibile considerare quei trattati come altrettanti strumenti “necessari” (non dunque semplicemente “utili”) per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni.

La prima considerazione che mi sento di svolgere a riguardo è che vi sono alcuni principi del diritto primario UE (come ad esempio il principio di conferimento, così come quello che subordina ogni aiuto dell’UE a rigide condizioni così come quelli che vincolano gli organi UE a modellare la propria azione di politica economica intorno alla dottrina della cosiddetta “austerity”) che – escludendo a priori ogni possibile aspetto solidaristico o mutualistico dei rapporti tra gli stati membri – potrebbero non esprimere un concetto di “giustizia” compatibile con quello che ispira – per un verso – la nostra carta costituzionale e – per altro verso, ma direi soprattutto – il complesso delle grandi convenzioni multilaterali come la CEDU e le convenzioni ONU. Se così fosse, infatti, si potrebbe mettere in dubbio che quelle parti dei trattati dell’unione siano davvero “necessarie” per assicurare (oltre alla pace, anche) la giustizia tra le nazioni. Il tema, certamente molto stimolante, è altrettanto certamente delicato (e scivoloso), dal momento che su simili questioni gli argomenti giuridici confinano con (fino a sfumarsi inevitabilmente in) valutazioni politiche. Per questa ragione non mi spingo oltre, limitandomi a segnalare la questione a chi vorrà esplorarla, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello politico.

Ma anche ammettendo che l’art. 11 Cost. si applichi ai trattati costitutivi dell’UE e a quelli generali sul suo funzionamento, siamo sicuri che lo stesso valga per le fonti europee secondarie, ossia per qualunque norma emanata dagli organi UE costituiti sulla base di quei trattati? Pare infatti azzardato sostenere che una qualunque norma contenuta in un regolamento UE (o in altro provvedimento normativo di secondo grado direttamente efficace in Italia) sia, automaticamente e dunque del tutto a prescindere dal suo oggetto e contenuto, sempre necessaria per assicurare la pace e la prosperità tra le nazioni, dunque meritando una possibilità di verifica di tenuta costituzionale attenuata. Il che impone di chiedersi se abbia davvero molto senso attribuire a qualunque norma derivata di fonte europea un potere di limitare la sovranità nazionale del tutto analogo alle fonti primarie, per il solo fatto che si tratti di norma che deriva da queste ultime fonti. Per dirla ancora più chiaramente: siamo così sicuri che la norma costituzionale su cui la corte costituzionale italiana fonda tradizionalmente la sua scelta di esercitare un sovranismo debole nei confronti dell’UE valga anche per le fonti UE secondarie? O magari anche in Italia esiste uno spazio per esprimere una posizione più articolata, nel senso che – anche qualora restasse ferma la posizione della Consulta nel senso di esercitare solo un sovranismo debole nei confronti del diritto primario dell’UE – almeno le norme secondarie restino soggette (non ad una semplice verifica di conformità ai principi fondamentali della nostra costituzione, ma) al medesimo rigoroso sindacato di costituzionalità cui sono soggette le leggi nazionali?