Consumismo, rivendicazione di diritti individuali e violenza contro le donne

Luca Ricolfi nel suo articolo A proposito di stupri. Il lato oscuro della civiltà, del 3 settembre scorso, ha fatto chiarezza sui dati statistici italiani ed europei relativi agli stupri e alle uccisioni di donne, compresi i femminicidi “di possesso”, in cui l’uomo non accetta di perdere quella che considera la “sua” donna. In questo come in altri casi, il confronto con i dati obiettivi consente di fare luce su un fenomeno, mettendo in discussione le interpretazioni stereotipate, individuali e collettive, che vanno per la maggiore.

A conclusione del suo intervento, l’autore si chiede: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto? Cerco qui di rispondere alla sua domanda, che a mio parere va al cuore della questione. Lo faccio riferendomi all’analisi del rapporto tra influenze culturali e disposizioni biologiche, relativamente alle relazioni tra uomini e donne, che ho approfondito nel mio libro Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (Laterza, 2019).

Riguardo alle disposizioni biologiche, occorre in primo luogo prendere atto dell’esistenza di una tendenza filogeneticamente primitiva, radicata nella parte più arcaica dl cervello umano, che collega sessualità e aggressione nei maschi, così come sessualità e paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione. Ci sono fortissime resistenze nel prendere consapevolezza dell’esistenza di queste disposizioni, e in particolare della disposizione maschile primitiva, principalmente per due ragioni: una di carattere generale, poiché si ritiene che tutto sia solo culturale (“dipende tutto soltanto dal modello patriarcale”), e una specifica, poiché vi è il timore che riconoscere l’esistenza di disposizioni biologiche significhi legittimare come inevitabile la violenza sulle donne (“la natura dei maschi è necessariamente violenta, non si può fare nulla, bisogna rassegnarsi”). Non è così, perché stiamo parlando di disposizioni filogeneticamente arcaiche e preumane, risalenti ai primi vertebrati (i rettili), quindi non specifiche della sessualità umana. Quest’ultima, al contrario, ha congiunto lungo la filogenesi il sesso ai legami e non alla violenza: nessuna necessità biologica costringe gli uomini alla sopraffazione, che è del tutto disadattiva e genera solo sofferenza individuale e sociale. Nella complessità dell’architettura e del funzionamento del cervello, da cui la mente emerge, queste disposizioni sono però ancora presenti come possibilità, non certo come necessità, e negarle costituisce un pessimo meccanismo di difesa, che non aiuta a evitare che tali disposizioni si manifestino e si traducano in azioni violente. Finché non si prende atto – come uomini e anche come donne – dell’esistenza di questa possibilità ancora presente nel cervello maschile non si farà mai nessun passo in avanti nel superamento dei rapporti di dominanza e sopraffazione delle donne, che non si concretizzano unicamente nello stupro.

Ma la presa d’atto non è che il primo passo, necessario ma non sufficiente, dal momento che siamo “animali culturali”, in cui la cultura – con l’educazione, i modelli, i simboli, gli stimoli, ecc. – interagisce continuamente con le nostre disposizioni biologiche. Si tratta quindi di chiedersi come la cultura può favorire l’emergere delle disposizioni primitive a scapito di quelle più evolute, specificamente umane, che congiungono la sessualità ai legami personali e danno luogo a rapporti egualitari, gli unici capaci di procurare benessere.

Veniamo allora alla domanda se non sia il nostro modello di civiltà, basato “sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali”, a favorire e stimolare le disposizioni maschili più arcaiche. Dall’analisi dei processi psicologici implicati nei modelli individualisti e consumistici in cui siamo immersi ormai da decenni, la risposta è affermativa (ho esaminato in specifico questi aspetti nel capitolo 3 del libro citato).

Partiamo dal consumismo e dall’educazione consumistica che ne è derivata. Quest’ultima rappresenta la massima concretizzazione dell’educazione permissiva, che prevede il soddisfacimento di ogni richiesta infantile. Già era noto da tempo, perché confermato da tutti gli studi in proposito, che l’educazione permissiva conduce, assai più di quella autoritaria, a un aumento generalizzato del comportamento aggressivo e al mancato sviluppo del comportamento prosociale (Mestre et  Al., 2006) Con l’affermarsi del consumismo, non solo ogni desiderio infantile viene assecondato, ma le richieste sono crescenti, spinte dalla pubblicità e dal confronto conformistico con i coetanei; quest’ultimo diventa particolarmente pressante in adolescenza, per l’importanza che il gruppo dei pari acquisisce a quest’età. Inoltre, queste richieste sono soddisfatte grazie al denaro, che assume così un grandissimo valore come strumento per ottenere tutto ciò che si vuole.

I bambini educati in questi ultimi decenni secondo modalità permissive e consumistiche sono quindi cresciuti nell’abitudine a veder soddisfatto ogni desiderio di possedere qualcosa; di fatto non si tratta nemmeno di un vero desiderio, che richiederebbe ben altra consapevolezza, ma di un impulso, una voglia, un capriccio momentaneo. L’immediato passaggio da questo al possesso ha impedito lo sviluppo di tutte quelle capacità che consentono di raggiungere nel tempo un obiettivo significativo e appagante. Si tratta di capacità tra loro collegate che vengono distinte solo per comodità di analisi: cognitive (immaginazione, creatività, progettazione di uno o più percorsi, aggiramento, valutazione, ecc.), emotive (saper rimandare, avere pazienza, perseverare, gestire la paura e l’ansia, scegliere, riconoscere i limiti, ecc.), sociali (empatia, sapersi mettere dal punto di vista altrui, tenere conto dei desideri altrui, saper coinvolgere gli altri, saper cooperare per uno scopo comune, ecc.).  È stata al contrario favorita l’impulsività, con un appiattimento sul presente (voler ottenere tutto subito) e su di sé (conta solo il proprio desiderio). In modo ancora più profondo, questo tipo di educazione non sviluppa la sicurezza e la fiducia nelle proprie capacità di essere in grado di raggiungere un obiettivo e di superare gli eventuali ostacoli o insuccessi: sono aspetti basilari che si possono sviluppare solo facendo esperienza, lungo l’età evolutiva, di situazioni in cui il proprio desiderio non è immediatamente soddisfatto e il denaro non serve per raggiungere lo scopo.

Tutto questo ha effetti rovinosi sul piano relazionale, con un incremento dei comportamenti aggressivi. Un bambino diventato adolescente e adulto con questo modello educativo risulta incapace di rimandare la soddisfazione del suo desiderio sessuale, e quindi di tenere conto della volontà dell’altra persona, così come di tollerarne il rifiuto, che non sa come affrontare. Abituato a ottenere tutto ciò che desidera, ritiene di poter avere anche il corpo di chi desidera.  Viene quindi favorita l’imposizione sessuale con la violenza.

Anche a livello affettivo l’educazione permissiva consumistica ha provocato una diffusa incapacità a costruire relazioni sentimentali, poiché non ha permesso lo sviluppo delle competenze necessarie per coinvolgere l’altro. Poiché ci si aspetta che il proprio desiderio venga sempre soddisfatto, e ci si illude che sia possibile possedere l’affetto di un’altra persona, così come si posseggono le cose, i fallimenti e le frustrazioni sono inevitabili.  Infatti l’affetto non si può imporre e nemmeno comprare – come invece si può fare con il sesso – ma soltanto condividere e costruire insieme, cosa che non si è in grado di fare per mancanza delle indispensabili capacità relazionali. Di conseguenza, diventati adolescenti e adulti, i bambini cresciuti secondo il modello educativo consumistico sono del tutto incapaci di tollerare il rifiuto affettivo o l’abbandono, situazioni che appaiono allo stesso tempo inconcepibili (“come si permette di sfuggire al mio possesso?”) e insuperabili (“non posso fare niente”). La violenza rappresenta la reazione più facile a un tale profondo vissuto di frustrazione.

La soddisfazione illimitata dei propri desideri, caratteristica del modello consumistico, ha avuto un’altra importante conseguenza: essa ha favorito la trasformazione di ogni desiderio in diritto, reclamato non solo a livello individuale ma anche collettivo. Sul piano psicologico, questa trasformazione ha due grandi vantaggi: anzi tutto, essa converte una richiesta soggettiva ed egocentrica – e come tale censurabile – in qualcosa di oggettivo ed eticamente fondato; di conseguenza, essa permette di condannare chi avanza critiche come un illiberale che non rispetta i diritti altrui. Il risultato è una crescente enfasi sui diritti individuali, caratteristica delle società occidentali “avanzate”.

Questa centratura sui diritti individuali – espressione in realtà di desideri personali – è andata di pari passo con la disattenzione alle corrispondenti esigenze altrui, fino a dimenticare che la rivendicazione di un diritto comporta il riconoscimento speculare dell’analogo diritto degli altri, da cui derivano necessariamente dei limiti all’affermazione del proprio. Infatti, l’enfasi sui diritti ha avuto l’effetto retroattivo di favorire l’egocentrismo, poiché ha legittimato la pretesa di vedere soddisfatto ogni desiderio, senza tenere conto degli altri e dei limiti che da essi provengono. Si è così creato un circolo vizioso di progressiva chiusura egocentrica e di aumento della conflittualità relazionale, che sfocia facilmente in comportamenti aggressivi.

Per tornare dal punto da cui è partita questa analisi – l’interazione tra fattori biologici e culturali – dobbiamo essere consapevoli che la cultura consumistica in cui siamo immersi non sta favorendo lo sviluppo delle potenzialità di socialità positiva che sono caratteristiche della nostra specie (Bonino, 2012). Al contrario, l’espansione illimitata dei consumi e dei diritti che la caratterizza, sia nell’educazione dei bambini e degli adolescenti sia nella vita degli adulti, favorisce l’emergere delle disposizioni aggressive più arcaiche ancora presenti in noi, in particolare nel cervello maschile. Ne deriva che il superamento della diffusa sopraffazione e violenza sulle donne è possibile solo modificando in profondità i modelli educativi e culturali in cui siamo immersi: piccoli aggiustamenti non sono sufficienti. Di certo le disposizioni di socialità positiva di cui siamo biologicamente dotati come specie umana rendono possibile questo superamento e inducono alla speranza; occorre però una cultura e un’educazione che ne favoriscano l’attuazione.

 

Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva. Roma: Laterza.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Laterza: Roma.

Mestre V., Tur A.M., Samper P., Nàcher M. J., Cortés M. T., Stili educativi e condotta prosociale. In: Caprara G. V., Bonino S. (2006). Il comportamento prosociale. Erickson: Trento, pp. 135-156.




Le diverse forme della primitiva dominanza maschile sulle donne: l’interazione tra natura e cultura

Non solo cultura

La condizione delle donne è stata segnata storicamente, in tutto il mondo, da gravi disparità di trattamento, con sopraffazione e dominio maschili. Tale situazione perdura oggi anche nel mondo occidentale, teoricamente egualitario. In Italia, per esempio, si va dal minore stipendio a parità di mansione fino agli abusi, alle violenze sessuali e alle uccisioni, il cui numero non accenna a diminuire. Se spostiamo lo sguardo, troviamo diffusissima in tutto il mondo quella che l’antropologa francese Françoise Héritier (1996) ha definito la “valenza differenziale dei sessi”, cioè l’attribuzione di un maggiore valore al sesso maschile, che si traduce in supremazia su quello femminile, codificata a livello giuridico e religioso. Tutto questo nei confronti non di una minoranza, ma di metà della popolazione umana.

Le differenze di valutazione e di trattamento sono in genere spiegate con il perdurare della cultura patriarcale. Questa interpretazione non riesce a spiegare perché il modello patriarcale dell’uomo dominante e della donna subordinata sia così ampiamente diffuso in culture diverse e in tempi storici e luoghi molto differenti. Essa si fonda, inoltre, sull’implicito presupposto che l’essere umano sia influenzato solo dalla cultura, dimenticando due evidenze. La prima è che noi siamo dei mammiferi – se pure dotati di particolarissime caratteristiche cognitive e sociali – con un corpo e un cervello che sono il risultato di una lunga evoluzione filogenetica; in concreto, ciò significa che abbiamo delle disposizioni biologiche –non rigide predeterminazioni al comportamento – che non possono essere ignorate. La seconda evidenza riguarda la cultura stessa, che è il frutto delle specifiche capacità del cervello e della mente umana. Quest’ultima emerge, con modalità sconosciute, da un cervello che si è plasmato nel corso di una lunga storia filogenetica; è stato lo sviluppo della neocorteccia a rendere possibili il pensiero, la parola e l’autocoscienza, consentendo agli esseri umani di comunicare tra loro e di elaborare idee che sono diventate patrimonio di una comunità, poiché potevano essere trasmesse in forma orale, e in seguito anche in forma scritta, superando i limiti di spazio e di tempo. Di conseguenza la cultura, nata dalle potenzialità del cervello umano, è diventata uno strumento di adattamento che non solo si affianca alle disposizioni biologiche ma interagisce continuamente con esse, contribuendo a plasmare il cervello e la mente di ognuno di noi. Ne deriva che le influenze culturali, in continuo divenire, non possono essere considerate in modo separato e isolato da quelle biologiche: occorre invece studiare le reciproche interazioni tra patrimonio biologico e patrimonio culturale, tra natura e cultura, senza riduzionismi di alcun tipo. Occorre inoltre ricordare che il singolo individuo non è il risultato meccanico dell’interazione tra influenze biologiche e influenze culturali; egli, grazie alle capacità di autocoscienza e riflessione su di sé, contribuisce con le proprie scelte e comportamenti a plasmare il proprio cervello e la propria mente.

Da quanto detto deriva che i comportamenti di svalutazione e dominanza degli uomini sulle donne non possono essere spiegati facendo riferimento solo alla cultura, o viceversa solo al patrimonio biologico. Occorre superare le semplificazioni e prendere atto della nostra realtà di mammiferi molto speciali, dotati di un corpo e di un cervello, ma anche di capacità simboliche e di cultura; le relazioni tra uomini e donne vanno quindi studiate nella complessità delle interazioni tra influenze biologiche e culturali. È un compito molto ampio e appena avviato, ma oggi siamo già in grado di delineare un quadro sufficientemente fondato, sulla base di conoscenze scientifiche che ci provengono da discipline diverse (per approfondire: Bonino, 2019).

L’evoluzione della socialità umana e delle relazioni tra uomini e donne

Per comprendere la socialità umana – di cui la diffusa svalutazione e la dominanza degli uomini sulle donne è un aspetto – partiamo dunque dal corpo e dal cervello, realtà che sovente sono prese in minore considerazione o addirittura negate, ma che sono comuni a tutti gli appartenenti alla specie umana. Come è ormai assodato (Blundo e Ceccarelli, 2011), il cervello umano è il risultato di una lunga evoluzione filogenetica, che parte dai primi vertebrati (i rettili), prosegue con i mammiferi primitivi e poi con i neomammiferi, cui la specie umana appartiene. Di conseguenza, nel nostro cervello coesistono tre livelli, corrispondenti a diverse fasi di progressione filogenetica: strutture con origini molto arcaiche (cervello rettiliano) coesistono con altre più recenti (cervello limbico o emotivo, comparso con i protomammiferi) e con altre recentissime (neocorteccia, comparsa con i neomammiferi e massimamente sviluppata nella specie umana). La dominanza degli uomini sulle donne è riconducibile alle disposizioni biologiche sedimentate nella parte più arcaica del nostro cervello come possibilità, non certo come istinto o determinazione al comportamento. Nei rettili le interazioni sociali tra i sessi sono limitate al momento dell’estro, in funzione della riproduzione, e sono caratterizzate da aggressione nei maschi e da paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione privo di qualunque relazione individualizzata. Questo tipo di relazione è stato superato nel corso della filogenesi: esso non è specifico degli esseri umani e non è più per noi adattivo.  La nostra specie infatti ha sviluppato un’ampia gamma di capacità di socialità positiva, che sono comparse nella filogenesi con il cervello emotivo e si sono poi ampliate enormemente con lo sviluppo della neocorteccia. Si tratta delle capacità di stabilire relazioni individualizzate e personali, legami di attaccamento, sintonia emotiva, cooperazione e altruismo; esse si sono sviluppate a partire non dalla sessualità ma dalla relazione tra la madre e la prole, e si fondano su specifiche disposizioni alla relazione sociale che sono universali e precocissime (per approfondire: Bonino, 2012). Esse sono presenti in tutti gli appartenenti alla specie umana (come le espressioni emotive di base) e fin dalle primissime fasi della vita (come l’imitazione e il contagio emotivo, fondato sui neuroni specchio, precursori dell’empatia vera e propria). Queste disposizioni permettono l’identificazione dell’altro o dell’altra come essere uguale a sé, in cui specchiarsi e ritrovare la stessa comune umanità, indipendentemente dal sesso. Questa identificazione primaria può essere rafforzata dal pensiero, e quindi dalla cultura, capaci di elaborare e trasmettere idee di uguaglianza; essa può, però, anche essere inibita quando questi sviluppano idee di disuguaglianza, che giustificano la dominanza rettiliana primitiva a favore del potere maschile.

Per quanto riguarda in senso stretto la sessualità, questa si è disgiunta nel corso della filogenesi dalla connessione con l’aggressione nei maschi e con la paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione. La sessualità si è congiunta sempre più alla capacità di stabilire legami personali fino a perdere nella nostra specie la sua funzione unicamente riproduttiva per diventare uno strumento al servizio del mantenimento della relazione affettiva. E’ così comparso l’amore sessuale, specifico degli esseri umani, nei quali l’esercizio della sessualità è del tutto sovrabbondante ai soli fini riproduttivi. Infatti non esistono specifici e riconoscibili periodi di estro e la disponibilità sessuale sia nei maschi sia nelle femmine è continua, in presenza anche di alcune modificazioni corporee che favoriscono l’attrazione sessuale (come il seno femminile) e il reciproco piacere sessuale. Questa trasformazione della sessualità umana è avvenuta per rispondere alle esigenze non solo di cura prolungata di una prole con un’infanzia lunghissima, che richiedeva l’impegno continuativo di entrambi i genitori e non solo della madre, ma anche per quelle di relazione affettiva degli esseri umani, dotati di altissima socialità e di un’articolata vita di gruppo con i propri simili. Ciò che è specifico degli esseri umani è quindi la capacità di stabilire relazioni personali paritarie e durature, che coniugano sesso e affetti, basate sul riconoscimento reciproco della comune e uguale umanità.

Esistono dunque in noi, come uomini e donne, disposizioni biologiche diverse e con differente valore adattivo. Quelle arcaiche primitive (aggressione e dominio nei maschi, sottomissione e paura nelle femmine) non sono proprie della nostra specie: nessuno può giustificare la violenza sessuale o il predominio maschile sulle donne invocando la “natura” umana, perché non è più quella la nostra natura. Di conseguenza, le disposizioni arcaiche non svolgono più alcuna funzione adattiva; al contrario, come la quotidiana esperienza ci mostra, creano solo sofferenza a livello individuale e sociale. Esse sono una zavorra che ci portiamo dietro, nel nostro cervello, da un antico passato filogenetico e che dobbiamo imparare non solo a controllare e a non sollecitare, ma anche a non giustificare e legalizzare.

Gli uomini non sono necessariamente dei prevaricatori e dei violenti, ma possono diventare tali se non prendono consapevolezza delle tendenze arcaiche dentro di loro e di quanto la cultura spesso le favorisca, a scapito della socialità evoluta, specificamente umana, l’unica capace di dare benessere ai singoli e alla società. Le donne, a loro volta, non sono condannate per destino biologico alla sottomissione, ma possono facilmente subirla e accettarla se lasciano prevalere in loro l’arcaica disposizione alla paura, in presenza di una cultura che ostacola il riconoscimento delle relazioni paritarie. Le disposizioni sociali proprie della nostra specie sono quelle egualitarie, di riconoscimento della comune umanità: sono queste che la cultura deve favorire per dare benessere. E sono queste che ogni individuo, mai in balia né della natura né della cultura, deve coltivare in se stesso, se vuole davvero esprimere e realizzare la sua umanità.

Le molte forme della dominanza maschile

Nel funzionamento unitario del cervello e della mente, le parti più arcaiche interagiscono con quelle più evolute; di conseguenza, cultura e disposizioni primitive si influenzano reciprocamente.   Cultura significa pensiero, vale a dire parole, sistemi simbolici, idee, ideologie, credenze religiose, costruzioni giuridiche, espressioni artistiche, tecnologia, e molto altro ancora. Può accadere che la cultura giustifichi e cerchi di rafforzare la primitiva supremazia del maschio sulla femmina, a danno delle disposizioni egualitarie più evolute e recenti. In questi casi, il pensiero mette le proprie sofisticate modalità di funzionamento al servizio non delle predisposizioni alla socialità positiva, proprie della nostra specie, ma della sopraffazione primitiva; ciò avviene allo scopo di perpetuare il dominio di alcuni uomini, o di alcuni gruppi di uomini, sulle donne. E’ quindi nell’alleanza tra pensiero, cultura e tendenze primitive di dominio, che si favorisce e si rafforza in modo forte e stabile la prevaricazione degli uomini sulle donne; si determina infatti un giro vizioso in cui il pensiero e la cultura sostengono le tendenze preumane arcaiche e queste ultime, anziché venire inibite e controllate a vantaggio di quelle egualitarie, prevalgono.

Quest’alleanza prende forme diverse nelle varie culture e nei vari tempi storici. Essa emerge nelle forme più brutali di dominanza maschile primitiva, quando si impone la volontà sessuale maschile a una donna, sottomessa con la forza fisica. In questo tipo di sopraffazione sembrerebbe essere in gioco solo l’attivazione della parte più primitiva del cervello maschile, con un prevalere cieco e incontrollato della disposizione biologica arcaica per carenza di controllo dell’impulsività. In realtà anche la cultura ha un ruolo importante, sia perché offre stimoli (come la pornografia) che possono favorire l’emersione di modalità primitive di sessualità predatoria, sia perché sovente giustifica il violentatore, anche nelle sentenze di tribunale, attribuendo la colpa alla donna.

Altre forme di dominanza primitiva sono codificate dalla cultura di appartenenza, in particolare dai sistemi giuridici. E’ facile riconoscere questa dominanza nelle svariate leggi che oggi, in diverse parti del mondo, impongono la segregazione delle donne, la loro subordinazione giuridica al maschio (padre, fratello, marito), il divieto di istruzione, l’imposizione di un vestiario che le occulta. E’ invece più difficile identificare le forme di prevaricazione maschile primitiva nella cultura occidentale, che riconosce formalmente, a livello giuridico, l’uguaglianza di uomini e donne. Eppure sono molte le forme di dominio accettate e intellettualmente giustificate con svariati ed elaborati argomenti. Una delle più diffuse, antiche e persistenti, è la prostituzione, che proprio per il suo intrinseco carattere di dominanza è stata definita “stupro a pagamento”. Oltre a essere accettata come inevitabile o regolamentata per legge, oggi essa viene giustificata da alcune correnti di pensiero come semplice “lavoro sessuale”, al pari di qualunque altra prestazione lavorativa retribuita (per approfondire: Pazé, 2023). Oppure viene rivendicata come liberazione della sessualità femminile, dimenticando che la sessualità umana si è evoluta come relazione individualizzata tra persone uguali, frutto di una libera scelta e caratterizzata dal mutuo coinvolgimento emotivo di entrambi partner. In queste interpretazioni ancora una volta il pensiero elabora teorie al servizio della dominanza maschile primitiva.

Tra le forme più recenti di dominanza maschile c’è la pratica dell’utero in affitto da parte delle coppie omosessuali. Di fronte all’intrinseca impossibilità biologica, per due maschi, di concepire un embrione e di condurre una gravidanza, si ricorre all’inseminazione di una donna utilizzata come gestante; alla nascita, questa dovrà per contratto cedere il neonato ai committenti. La pratica è resa possibile dalla tecnologia, quindi ancora una volta dalla cultura e dal pensiero, i quali vengono inoltre utilizzati per elaborare giustificazioni concettuali volte a legittimarla. Il tentativo di rendere accettabile tale pratica passa anche attraverso il linguaggio – strumento culturale per eccellenza – con l’uso di termini meno crudi, come “gestazione per altri” o addirittura “gestazione altruistica”. Anche quando è una coppia eterosessuale a ricorrere a questa pratica, si tratta sempre dell’esercizio del dominio maschile primitivo sul corpo femminile da parte di chi ha un potere economico schiacciante. In questi casi, la donna acquirente soggiace ai modelli di comportamento maschili e li fa propri, grazie alle giustificazioni che la mente umana è in grado di costruire.

In tutte queste forme di riproposizione in chiave moderna dell’arcaica dominanza maschile, il pensiero svolge un ruolo decisivo: esso veicola posizioni ideologiche storicamente consolidate, di cui garantisce il mantenimento, e allo stesso tempo ne costruisce di nuove, che possono diventare parte del bagaglio di una cultura. E’ sempre il pensiero che giustifica, legittima, trova spiegazioni, argomenta sulla normalità del dominio maschile, spesso con l’acquiescenza delle donne, non sempre consapevoli del loro atteggiamento di sottomissione. Paradossalmente, è la manifestazione ritenuta più elevata, distintiva, nobile e creativa della nostra mente (il pensiero), che emerge dalla parte più evoluta del nostro cervello (la neocorteccia), a fare i maggiori danni, alleandosi con le parti più primitive di noi, nell’interesse di alcuni uomini che difendono così il proprio potere di dominio sulle donne.

 

Prendere consapevolezza

Per superare questa situazione credo si debba prendere atto, anzi tutto, che abbiamo un corpo, realtà che non possiamo ignorare: negarne l’esistenza non ci aiuta risolvere i problemi di rapporto tra uomini e donne e non ci aiuta a trovare un maggiore benessere, che sarebbe invece possibile raggiungere, viste le nostre disposizioni di socialità positiva, biologicamente radicate. Di conseguenza, occorre superare le forti resistenze sia degli uomini sia delle donne, nella nostra cultura, a riconoscere le disposizioni biologiche primitive, per prendere consapevolezza della presenza di tendenze arcaiche di dominanza aggressiva nei primi e di sottomissione paurosa nelle seconde. Riconoscerle è il primo passo per non favorirle con il pensiero e la cultura. Infatti, prendere consapevolezza non significa giustificare, ma al contrario combattere meglio i rapporti di dominanza e sottomissione, svelando ciò che nella cultura e nell’esercizio del pensiero si allea con le nostre disposizioni arcaiche e disadattive e non con quelle all’uguaglianza, alla condivisione emotiva, alla cooperazione e all’altruismo. Gli uomini non sono necessariamente dei prevaricatori e dei violenti, ma possono diventare tali se non prendono coscienza delle tendenze arcaiche dentro di loro e di quanto la cultura spesso le favorisca, a scapito della socialità evoluta, specificamente umana, l’unica capace di dare benessere ai singoli e alla società. Le donne, a loro volta, non sono condannate per destino biologico alla sottomissione, ma possono facilmente subirla e accettarla se lasciano prevalere in loro l’arcaica disposizione alla paura, in presenza di una cultura che ostacola il riconoscimento delle relazioni paritarie.

Le disposizioni sociali proprie della nostra specie sono quelle egualitarie, di riconoscimento della comune umanità, di socialità positiva, di relazioni sessuali e affettive paritarie; dobbiamo quindi impegnarci perché la cultura si allei con queste e non con le tendenze al dominio aggressivo degli uomini sulle donne. Si tratta allora di lavorare, sia come individui sia come società, per una cultura che, interagendo con la nostra natura, favorisca l’emergere delle disposizioni sociative specificamente umane e in grado di far vivere bene sia gli uomini che le donne. E’ un compito che non avrà mai termine, poiché le disposizioni arcaiche non possono essere eliminate e tenderanno sempre a riproporsi in nuove forme e nuovi camuffamenti; esso ha però buone possibilità di successo, perché la nostra vera natura come esseri umani – questo lo possiamo dire con fondamento scientifico – non è quella dei rapporti di dominanza e sottomissione tra uomini e donne.

Silvia Bonino

 

 

Riferimenti bibliografici

Blundo C., Ceccarelli M. (2011). L’organizzazione gerarchico-funzionale del sistema nervoso centrale: lo sviluppo dei processi mentali. In C. Blundo. Neuroscienze cliniche del comportamento. Edra, Milano, pp. 89-121.

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Laterza, Roma-Bari.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Laterza, Roma-Bari.

Héritier F.  (1996). Masculin/Féminin. La pensée de la différence. Odile Jacob, Paris (trad. it. Maschile e femminile. Il pensiero della differenza. Laterza, Roma-Bari 1997).

Pazé V. (2023). Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato. Boringhieri, Torino.




Osservazioni sul ddl Zan alla luce delle scienze psicologiche

Premessa

Come contributo alla discussione ddl Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia, noto come ddl Zan, scrivo alcune osservazioni alla luce delle conoscenze provenienti dalle scienze psicologiche, in particolare dalla psicologia dello sviluppo e dell’età evolutiva.

Ciò che immediatamente colpisce lo studioso di scienze umane alla lettura del ddl, a partire dall’articolo 1 che dà le definizioni dei termini usati, è la totale mancanza di alcun fondamento delle affermazioni in esso contenute nelle conoscenze scientifiche di psicologia di cui oggi disponiamo.

Che le affermazioni e le proposte prescindano da qualunque conoscenza scientifica non stupisce, perché l’ideologia, non esplicitata, che sta alla base del ddl Zan considera la scienza un’espressione di potere della società occidentale cui viene attribuito lo stesso valore di qualsiasi altra soggettiva interpretazione della realtà, individuale o collettiva. Ma la conoscenza scientifica non è questo; essa è il risultato di una metodologia rigorosa, che sottopone a verifica le sue ipotesi, in modo da impedire il più possibile il prevalere di valutazioni soggettive e di ideologie, in un confronto continuo con la realtà (sia essa fisica, biologica, psicologica o sociale); quest’ultima viene studiata secondo precise regole e viene riconosciuta nella sua specificità, contrastando ogni tendenza a giudicarla in modo soggettivo e pregiudiziale. Inoltre, essa sottopone le sue acquisizioni alla valutazione e alla revisione da parte della comunità degli scienziati.

La ricerca di una conoscenza il più possibile obiettiva è particolarmente difficile ma anche particolarmente necessaria in psicologia, dal momento che tutti noi ogni giorno, nelle nostre interazioni, interpretiamo la realtà con inconsapevoli stereotipi e giudizi preconcetti, oltre che con forme di ragionamento spesso fallaci, inappropriate o tipiche delle prime fasi dello sviluppo cognitivo. Tutti noi adulti utilizziamo, infatti, diverse forme di pensiero, da quello logico-scientifico a quello narrativo, intuitivo e anche magico. Per arrivare a una conoscenza non episodica e non limitata al caso singolo è però indispensabile utilizzare il pensiero logico-scientifico, che permette di superare le nostre soggettive e fallaci interpretazioni, rendendo ragione della realtà che stiamo studiando.

Si può quindi affermare che la conoscenza scientifica è l’unica che permette di rispettare la realtà studiata – nel caso della psicologia dell’età evolutiva: i bambini – senza sovrapporvi valutazioni personali e modelli culturali precostituiti, ma cercando al contrario di tenerli sotto controllo. Questo controllo non è mai totale e assoluto, ma la scienza è l’unica che cerca di farlo in modo sistematico e continuativo. Ritengo quindi che sia indispensabile esaminare le affermazioni contenute nel ddl Zan alla luce delle conoscenze psicologiche, per evitare di introdurre nel nostro ordinamento giuridico e nella prassi educativa posizioni che non hanno alcuna base scientifica riconosciuta e che possono di conseguenza danneggiare i soggetti a cui verrebbero applicate. Lo richiede il rispetto dei bambini, ai quali purtroppo l’educazione ha spesso imposto modelli che solo le conoscenze scientifiche hanno scardinato; un esempio per tutti è la repressione del mancinismo, che in passato ha reso infelici e maldestri moltissimi bambini.

Le definizioni di genere e di identità di genere

Nell’articolo 1, viene riportata una definizione di genere (per genere si intende qualunque ma­nifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso) che non trova alcun riscontro nelle attuali conoscenze scientifiche. Queste ultime considerano il genere di una persona il frutto della complessa interazione tra variabili biologiche e variabili culturali, in un mammifero del tutto speciale – capace di pensiero, linguaggio e autocoscienza – qual è l’essere umano. Le modalità di interazione tra queste variabili sono in larga parte sconosciute, lungo gli anni non solo dell’età evolutiva canonica (dalla nascita fino all’adolescenza e giovinezza) ma anche negli anni seguenti, lungo l’intero ciclo di vita. Lo sforzo della ricerca è proprio quello di comprendere come queste variabili interagiscono nel tempo e con quali esiti, ben lontano da interpretazioni unilaterali sia di tipo unicamente biologico – inapplicabili all’essere umano che ha peculiari caratteristiche cognitive e sociali – sia di tipo unicamente culturale, che negano le influenze biologiche e le differenze tra i sessi. Vi è oggi la consapevolezza che le variabili biologiche e culturali vanno studiate nella loro continua e complessa interazione (Bonino, 2019).

Anche la definizione di identità di genere non trova riscontro nelle conoscenze scientifiche. Essa viene ricondotta a una percezione e rappresentazione puramente soggettiva (per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione), escludendo qualunque relazione con il sesso biologico. Ma il riconoscimento di sé in un sesso diverso da quello biologico è definito dalla letteratura scientifica “disforia di genere”, e non certo identità di genere. Si tratta di una condizione che provoca grande sofferenza, ma che riguarda fortunatamente una piccola percentuale della popolazione mondiale, valutata intorno all’1% (Riggio, 2021).

Premesso che lo sforzo educativo degli adulti dovrebbe essere quello di garantire un ambiente che offra le migliori condizioni per lo sviluppo delle disposizioni biologiche dell’individuo in qualunque campo (è quello che viene definito “ambiente ottimale di sviluppo”), per l’identità di genere si tratta di favorire il riconoscimento di sé in un sesso corrispondente a quello biologico, per evitare l’aumento della disforia di genere e della conseguente sofferenza. Non approfondisco qui questo aspetto, la cui trattazione richiederebbe molto spazio. Mi limito a osservare che i periodi dell’infanzia e della fanciullezza sono stati da tempo individuati come importantissimi per lo sviluppo dell’identità sessuale e di genere. L’identificazione di sé come maschio o come femmina è molto precoce e compare già dalla fine del secondo anno di vita. Questa embrionale identificazione di sé, sui cui meccanismi non è ancora stata fatta piena luce, richiede di essere rafforzata e sostenuta dall’ambiente, in famiglia prima e a scuola poi. In concreto, questo significa che i bambini e le bambine devono trovare intorno a sé figure di adulti di entrambi i sessi (purtroppo in questo la nostra scuola è carente) e che l’ambiente deve aiutarli nel rafforzare l’iniziale identificazione che i piccoli fanno di sé. Questo va fatto senza rigidità, tenendo conto della specificità di ogni singolo bambino, senza dimenticare però che i bambini sono dominati, a livello cognitivo, dal realismo percettivo: di conseguenza hanno bisogno di segni concreti e visibili. Ne sono un esempio gli stereotipi culturali sul vestiario, spesso aborriti dagli adulti. In realtà, se usati con parsimonia e flessibilità, essi sono a quest’età dei marcatori utili per i bambini al fine di collocare se stessi in una certa categoria sessuale. L’importante è non dare messaggi svalutanti o rigidi, senza tenere conto delle preferenze individuali. All’adulto sono richieste grande sensibilità, attenzione e rispetto per le esigenze dei piccoli.

L’istituzione della Giornata nazionale all’articolo 7

Il testo recita: 1. La Repubblica riconosce il giorno 17 maggio quale Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la tran­sfobia, al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contra­stare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione. […] La proposta di istituire per tutte le scuole di ogni ordine e grado la giornata contro la discriminazione delle categorie minoritarie indicate ignora totalmente le conoscenze, ormai da tempo acquisite, sul comportamento aggressivo e sulla sua riduzione, così come quelle sullo sviluppo infantile.

Riguardo alle conoscenze sulla riduzione del comportamento aggressivo, l’errore di questa proposta è di fondare il rispetto degli altri non sulle persone ma su categorie. Una prima osservazione è che le categorie potenzialmente oggetto di discriminazione sono numerosissime, virtualmente infinite. Si dovrebbero quindi immaginare, lungo l’anno scolastico, innumerevoli giornate dedicate a molte altre categorie; si tratterebbe in ogni caso di gruppi sociali che sono già stati riconosciuti, e che sono capaci di imporsi all’attenzione per diventare gruppi di pressione; resterebbero esclusi tutti coloro che non fanno ancora parte di una categoria socialmente riconosciuta (da chi? con quali criteri?) come discriminata.

Un’ulteriore osservazione si fonda sugli studi sul bullismo; questi indicano che un bambino o una bambina possono essere discriminati e subire prepotenze per una qualunque singolarità che li rende diversi dagli altri, nel gruppo in cui vivono. Ne deriva che le ragioni per cui un bambino è oggetto di emarginazione e violenza sono potenzialmente infinite e mutevoli, dipendendo dalle circostanze e dagli ambienti. Può così accadere che un bambino venga discriminato per caratteristiche che, in altri contesti, sarebbero considerate delle qualità (come essere biondi e con gli occhi azzurri dove tutti gli altri sono scuri e con gli occhi neri). Ne deriva che la strada di istituire giornate contro le violenze nei confronti delle varie categorie oggetto di discriminazione è impraticabile perché ci sarebbe sempre qualcuno, discriminato per i più vari motivi, che non viene preso in considerazione.

C’è però una ragione sostanziale per cui istituire giornate contro la discriminazione di una categoria, qualunque essa sia, è profondamente errato e controproducente. La ragione risiede nel fatto che gli studi sulla socialità positiva, primi fra tutti quelli sulla condivisione emotiva e l’empatia, indicano unanimemente che gli esseri umani sono in grado di ridurre l’aggressione e la violenza solo quando riconoscono nell’altro una persona simile a sé, nonostante le diversità che questa può presentare: diversità di sesso, di colore di pelle, di salute, di prestazione, di orientamento sessuale, di peso, di bellezza, eccetera eccetera, in un elenco potenzialmente infinito e mutevole, a seconda delle culture e delle situazioni. Al contrario, la categoria impedisce il riconoscimento della comune umanità, che ha solide basi affettive ed emotive nonché radici biologiche, perché è un’astrazione che annulla la persona e la riduce a entità teorica. Ne deriva che è molto più facile aggredire l’altro quando questi è considerato come rappresentante di una categoria, qualunque essa sia, e non come una persona concreta con cui si entra in relazione.  Questo vale per l’adulto e ancor più vale per il bambino piccolo e il fanciullo; prima della maturazione della capacità di pensiero formale ipotetico-deduttivo in adolescenza, la categoria è qualcosa di non ancora pienamente concettualizzato e privo di rilevanza psicologica. Detto altrimenti, almeno fino alla prima adolescenza, per i bambini non esistono le categorie astratte citate, ma le singole persone che incontra.

Quali sono le conseguenze di queste acquisizioni della psicologia per la pratica educativa? Esse indicano che i bambini vanno educati a rispettare la persona che hanno di fronte, nella quotidianità della vita a scuola, insegnando loro a riconoscervi un essere umano simile a sé. Ciò comporta, in concreto, interagire faccia a faccia, imparare a riconoscere le emozioni, imparare a entrare in sintonia emotiva, sapersi rappresentare i vissuti emotivi di un’altra persona e condividerli, sapersi mettere nei suoi panni, saper comunicare (Bonino, 2012). Per fortuna sono tutte capacità per le quali siamo biologicamente predisposti e l’educazione non deve fare altro che incoraggiarle, contrastando quelle aggressive che non sono specificamente umane. Solo il riconoscimento dell’altro come simile a sé permette di superare il rifiuto per la sua eventuale diversità e permette di conseguenza di accettare l’altro nelle sue differenze, di qualunque tipo esse siano. Lo sforzo educativo deve concentrarsi sul favorire nel bambino il concreto riconoscimento della similarità dell’altro e della comune umanità, al di là delle infinite diversità che le persone possono avere. Quindi l’effetto paradossale della giornata nelle scuole è facilmente quello di non diminuire la discriminazione e la violenza, o addirittura di aumentarle.

Oltre a non ottenere il risultato desiderato, l’introduzione di questa giornata rischia di generare molta confusione nei destinatari. I temi della sessualità vanno affrontati tenendo conto sia delle capacità cognitive ed emotive dei bambini sia dell’esigenza di favorire, con un ambiente educativo adatto, lo sviluppo positivo, senza disforia di genere e senza sofferenza, della loro identità e del loro orientamento sessuale. In un sistema scolastico che non prevede l’educazione sessuale affettiva – di cui ci sarebbe urgentissimo bisogno – polarizzare l’attenzione solo su omosessualità, lesbismo, bisessualità e transessualità rischia di generare soltanto confusione nei bambini e nei ragazzini (cioè in chi frequenta la scuola dell’infanzia, la primaria e anche i primi anni della secondaria di primo grado). Queste categorie non solo sono difficili da concettualizzare, come appena detto, ma rappresentano realtà che sono ben lontane dagli interessi e dai vissuti emotivi dei bambini. Vi è quindi il rischio concreto di creare disorientamento e disagio confrontando i soggetti, in queste età, con realtà che possono essere emotivamente disturbanti. Il rischio è di aumentare la confusione e di rendere ansiogeno e travagliato il processo di identificazione di sé, con conseguente disagio e sofferenza.  Anche in adolescenza, dopo lo sviluppo puberale, la trattazione dovrebbe sempre avvenire nel quadro di un progetto globale di educazione sessuale sentimentale, realizzata da parte di persone esperte in psicologia dell’età evolutiva e non certo da attivisti, di qualunque orientamento essi siano. Appare paradossale accettare il rischio concreto di creare difficoltà alla grande maggioranza dei soggetti in età evolutiva in nome dell’illusoria speranza di aiutare delle minoranze, ancorché discriminate.


Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Roma-Bari: Laterza.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Roma-Bari: Laterza.

Riggio H. R. (2021). Sex and gender. A biopsychological approach. New York-London: Routledge.