Gli elettori 5 stelle e le bufale sulle regionali

Si sono da poco consumate le prime consultazioni elettorali dopo il terremoto delle politiche. In Molise e in Friuli-Venezia Giulia, i verdetti delle elezioni regionali hanno ampiamente rispettato ciò che gli analisti politici più attenti avevano previsto alla vigilia, con in entrambi i casi una vittoria larga (in Friuli) e di misura (in Molise) della coalizione di centro-destra, ormai decisamente a trazione leghista.

Ma i media non hanno perso l’occasione per sprecare titoloni su risultati che, tutto sommato, erano sicuramente preventivabili. L’iniziale strillo da prima pagina, in attesa degli scrutini, riguardava l’ipotetico crollo dell’affluenza: “C’è un vincitore assoluto, l’astensione. Oltre venti punti in meno rispetto alle politiche!”. Una notizia ovviamente falsa, come tutte quelle che riguardano la partecipazione alle amministrative, perché in quel tipo di elezione sono conteggiati come elettori potenziali tutti, anche chi risiede all’estero, mentre alle politiche questi ultimi entrano a far parte dei votanti non considerati nel territorio italiano.

Per cui in Molise, ad esempio, dove hanno votato soltanto 10mila persone in meno rispetto al 4 marzo, il calo reale è limitato a 4 punti percentuali, concentrati nei paesetti e nelle valli. Un po’ poco per gridare alla disaffezione. Un calo più considerevole si è effettivamente registrato in Friuli, ma non certo della portata evidenziata (-26%), bensì di poco più del 16%, la stessa quota di votanti delle scorse regionali del 2013, quando si votava peraltro in due giornate.

Seconda piccola bufala: crollano i 5 stelle, che perdono nettamente la sfida con il centro-destra! Ora, il fatto che abbiano perso è senz’altro vero, ma è altamente opinabile che questo sia da collegare, come molti hanno fatto, con il comportamento ondivago di Di Maio, incerto sull’alleanza di governo tra il centro-destra ed il Partito Democratico, o con un improvviso calo di consensi del movimento. La realtà è che l’elettorato dei 5 stelle è molto particolare, e non può essere equiparato tout-court a quello delle altre forze politiche.

L’elettorato pentastellato modula infatti la propria partecipazione elettorale, nelle diverse occasioni di voto, in riferimento alla loro salienza: più le consultazioni vengono percepite come importanti, decisive dal punto di vista dell’assetto complessivo del paese, più la loro partecipazione tende a crescere; più invece ci troviamo in presenza di consultazioni di secondo livello (come le europee) o di terzo livello (come le amministrative, regionali o comunali), più cresce al contrario la defezione alle urne. Questa sorta di partecipazione intermittente, quanto meno di una parte significativa dei votanti 5 stelle, diviene quindi il tratto distintivo di un elettorato la cui mobilitazione selettiva influisce in maniera determinante sul risultato complessivo.

È parzialmente fuorviante quindi affrontare l’analisi del voto, confrontando tra loro elezioni di diverso ordine, attraverso il classico approccio dell’incremento o del decremento nei valori percentuali di ciascun partito come indicatori del mutamento dei consensi, dell’appeal delle diverse forze politiche in campo. Ciò che funziona (ancora) per i partiti più tradizionali non pare poter essere applicato al Movimento 5 stelle, per il quale è invece determinante –come si è detto- il giudizio di una parte del suo elettorato sull’importanza percepita della consultazione elettorale.

Nel caso della Sicilia, ad esempio, nelle regionali di novembre 2017 il M5s ha ottenuto una quota di voti nettamente inferiore a quella delle successive politiche: a distanza di solo tre mesi, l’incremento dei consensi per i 5 stelle è stato di oltre 400mila voti, con un parallelo incremento del numero dei votanti (+350mila). Una situazione simile, seppur posposta, si registra per le due consultazioni regionali tenutesi meno di due mesi dopo il voto del 4 marzo. In Molise, il M5s perde dalle politiche quasi 13mila voti, con un decremento dei votanti di circa 8mila; in Friuli Venezia Giulia, il M5s perde 110mila voti, ed il decremento complessivo dei votanti si attesta a circa 150mila unità.

Difficile non leggere quei risultati partendo dal ricordato astensionismo selettivo che vede come principale protagonista l’elettore 5 stelle, motivato da stimoli di partecipazione fortemente influenzati non tanto dal clima di opinione prevalente, quanto dall’importanza da loro attribuita alla specifica elezione. Perché, tradizionalmente, le formazioni uscite vincenti da una consultazione elettorale, vivono nei mesi successivi una sorta di “euforia” della vittoria, che porta spesso nuovi adepti sulla scia del cosiddetto “effetto bandwagon”.

Nel caso dei 5 stelle, che pur registra un incremento di appeal nelle dichiarazioni di voto delle indagini demoscopiche, questo non si verifica al contrario nei veri appuntamenti di voto. Il motivo prevalente deve farsi necessariamente risalire a quanto argomentato più sopra: una sorta di disaffezione selettiva alle urne, che non intacca invece gli altri elettorati che, a sostanziale parità del numero dei propri elettori, o soltanto con un lieve incremento, ottengono percentuali nettamente superiori nelle amministrative rispetto alle politiche.

È dunque questo un elemento chiave che caratterizza l’elettorato più vicino ai 5 stelle: si tratta di cittadini che manifestano una elevata fedeltà di voto al proprio referente politico, con ridotti livello di “tradimento” a favore di altre formazioni politiche, ma con una tendenza molto accentuata alla defezione, a disertare cioè le urne nel caso di elezioni reputate non decisive. Come dire: quando decido di andare a votare, scelgo sicuramente i 5 stelle, ma il costo della mia mobilitazione deve valere la posta in gioco, altrimenti preferisco rimanere a casa.




L’insondabile opinione degli elettori Pd

Ero stato facile profeta, qualche giorno prima delle elezioni, nel preconizzare l’inadeguatezza dei sondaggi pre-elettorali che uscivano in quel periodo, in un sistema di voto in cui la base di collegio non permetteva stime attendibili. E così è stato. Le soprese non sono dunque mancate, ma è rimasta un’unica certezza: l’impossibilità di formare un governo, non certo a causa della legge elettorale, quanto per la tripolarizzazione (un po’ zoppa a sinistra) delle scelte degli italiani. In una situazione come quella attualmente presente nel nostro paese, l’unica possibile maggioranza si potrebbe ottenere soltanto o con un premio di maggioranza molto ampio (ma a rischio del parere della Consulta) oppure con una sorta di secondo turno di ballottaggio, magari di collegio, e senza quota proporzionale.

Ci sarà tempo per verificare quanto le forze politiche appena entrate in Parlamento siano disponibili a rimettersi in gioco in nuove elezioni, con una nuova legge elettorale di stampo maggioritario, o se al contrario i neo-eletti non vogliano perdere la propria posizione appena raggiunta alla Camera o al Senato. Ora il dibattito, è noto, verte sulle inedite alleanze che, uniche, possano permettere la formazione di un governo abbastanza stabile per durare nel tempo.

Ed è proprio su queste alleanze che le nuove indagini demoscopiche si concentrano in questi giorni, cercando di capire quanto i diversi elettorati siano più o meno favorevoli ad appoggiare le forze politiche avversarie. In particolare, sono gli elettori del Partito Democratico a venir quotidianamente interrogati in merito ad un eventuale accordo di governo tra M5s e Pd. E i sondaggi, come a volte accade, forniscono responsi decisamente antitetici.

Secondo alcuni di questi, la maggioranza di chi ha appena votato Pd sarebbe favorevole all’alleanza con i 5 stelle, secondo altri soltanto una minoranza è convinta di questa alleanza. E i titoli dei giornali enfatizzano ora uno ora l’altro risultato. Si legge dunque: “Da elettori Pd e M5S spinta per l’alleanza”, oppure alternativamente: “Nuovo governo: Movimento 5 Stelle – PD? Sondaggi dicono di no”. Come è possibile che sondaggi diffusi più o meno contemporaneamente diano risultati così antitetici? Le inchieste demoscopiche sono al solito inaffidabili? O sono i diversi istituti che indirizzano le risposte, a volte favorevoli e a volte contrarie?

Mi torna alla mente un classico esempio della possibile ambiguità nel registrare le opinioni della popolazione, quello cioè che avveniva negli USA durante la guerra del Vietnam: i quotidiani pro-intervento pubblicavano sondaggi in cui emergeva come la maggioranza degli americani fosse favorevole a “proteggere il popolo vietnamita dall’influenza sovietica”; i quotidiani anti-interventisti pubblicavano viceversa sondaggi dove la maggioranza si dichiarava contraria a “mandare i propri figli a combattere e a morire in Vietnam”. Ma tutti i giornali titolavano semplicemente: “Gli americani sono a favore (oppure contro) il ritiro delle truppe”.

Ambiguità di questo genere possono avere conseguenze negative per un altro degli scopi principali per cui si effettua un sondaggio, quello cioè di rilevare la diffusione di uno specifico atteggiamento, non altrimenti quantificabile: il tipo di domanda che viene rivolta agli intervistati, al fine di “misurare” questo atteggiamento, può infatti dar luogo a risultati a volte speculari.

È quello che accade appunto anche nei confronti dell’opinione degli elettori Pd. Se chiedo loro se, per il bene del paese, il loro partito dovrebbe fare uno sforzo per garantire all’Italia un governo stabile, sebbene contingente, le risposte favorevoli ad un’alleanza con i 5 stelle cresceranno; se chiedo semplicemente se trovano giusto governare con un avversario politico, che oltretutto li ha dileggiati per mesi, è molto probabile che aumenteranno gli intervistati contrari.

Ma sui giornali, si evita accuratamente di riportare il tipo di domanda che è stata rivolta per ottenere quel risultato. Dunque, qual è la domanda giusta? E cosa pensano effettivamente gli elettori del Pd?

Molto probabilmente, entrambi i risultati sono corretti. Mettono solamente in evidenza due aspetti che ogni elettore del Pd ha già nella sua testa, senza che si arrivi ad una soluzione definitiva. Gli elettori del Pd pensano che sia giusto dare al paese un governo, magari per evitare un’alleanza M5s-Lega e, contemporaneamente, che non sia giusto allearsi con i 5 stelle, che sono a loro giudizio parecchio inaffidabili. Tutto qui, semplicemente: come è ovvio, gli elettori del Pd sono incerti. Basterebbe esplicitarlo e tutto si risolverebbe. Ma non ci sarebbe più la notizia che attira l’attenzione dei lettori…




Tanti sondaggi, poche certezze

Escono in questi giorni gli ultimi sondaggi pre-elettorali, prima che il blackout informativo ne impedisca la pubblicazione, nei 15 giorni precedenti il voto del 4 marzo prossimo. Che questo silenzio giovi realmente agli elettori, per evitare che vengano condizionati, è materia discutibile. Tanto più che in questi ultimi tempi (ma spesso anche nel passato più remoto) le stime di voto vivono una forte crisi di credibilità, un po’ in tutto il mondo, e quindi il possibile condizionamento si baserebbe su risultati a volte poco attendibili.

L’esempio più eclatante lo abbiamo avuto proprio in occasione delle scorse politiche, quelle del 2013, quando le anticipazioni demoscopiche, ad un paio di settimane dalla consultazione, sovrastimarono di almeno cinque punti il Partito Democratico di Bersani, sottostimando nel contempo la performance del MoVimento 5 stelle. Previsioni non attendibili che effetto hanno dunque sugli indecisi?

In attesa di studi più articolati in merito, concentriamoci allora sulle cause degli errori di stima, che sono tante, e delle quali ho parlato qualche anno fa in un mio libricino (“Attenti al sondaggio!”) che è sempre utile rileggersi, in prossimità di una competizione elettorale. Tre sono forse le principali: la difficoltà di avere a disposizione campioni realmente rappresentativi della popolazione, soprattutto dopo l’avvento massiccio della telefonia mobile e l’utilizzo di interviste su Internet; l’indecisione o, a volte, le menzogne consce e inconsce dei rispondenti sul proprio orientamento di voto; il costo elevato di rilevazioni demoscopiche che debbano andare in profondità su ambiti territoriali molto ristretti, come ad esempio i collegi elettorali.

Sul primo fattore, sul tema della rappresentatività campionaria, sono corsi nel passato fiumi di parole, accademiche o giornalistiche, senza mai giungere a conclusioni utilizzabili dal punto di vista empirico. Per cui tutto è rimasto sostanzialmente identico al passato: campioni di un migliaio di casi, che rispecchino in qualche modo le caratteristiche principali della popolazione, sembrano ormai venir giudicati sufficienti per fornire stime attendibili. Che sia vero o meno, pare non importare più a nessuno, nemmeno dopo la grande rivoluzione provocata dalla costante decrescita dei telefoni fissi e dal crescente utilizzo di Internet come strumento di rilevazione.

Mutamenti questi ultimi che ci portano direttamente al secondo fattore, legato alle dichiarazioni di voto: chi maneggia i dati di sondaggio sa bene che i risultati delle indagini telefoniche sono spesso molto differenti da quelli desunti dalle risposte telematiche (i 5 stelle sono sempre più forti nel secondo caso, Pd e Forza Italia nel primo) e che il numero ed il tipo di dichiarazioni di astensione, o di indecisione, sono condizionate dalla presenza o meno di un intervistatore. Anche in questo caso, sappiamo poco degli effetti comparati dei due strumenti ma, di nuovo, facciamo a volte finta di nulla.

Infine, supponendo per un momento che si riescano a risolvere, in qualche modo, i due primi fattori di distorsione, è proprio il terzo punto quello su cui le difficoltà paiono a volte insormontabili. Negli ultimi mesi, dopo che è stato finalmente approntato lo schema definitivo del nuovo sistema elettorale del cosiddetto Rosatellum, non passa giorno che qualche quotidiano, on-line o cartaceo, non ci proponga una simulazione di quale potrebbe essere il risultato elettorale in ciascuno dei 232 collegi della camera o nei 116 del senato.

Come è possibile arrivare a tale stima? Di primo acchito, pare proprio impossibile. Per avere stime corrette degli oltre 200 collegi, occorrerebbe intervistare campioni significativi in ciascuno dei territori su cui gravitano questi collegi. Supponiamo che bastino un migliaio di interviste in ognuno di questi. E, per inciso, lo supponiamo solo, perché in realtà in ogni sondaggio elettorale abbiamo sempre una quota di circa il 35-40% di intervistati che si dichiara astensionista oppure incerto, e le nostre stime si baseranno su 600-650 rispondenti, oggettivamente un po’ poco.

Ma supponiamo per un momento che bastino. Dovremmo intervistare un numero di elettori pari a 232mila, mille per collegio. Dato che il costo di un sondaggio di un migliaio di casi non potrà essere inferiore a 5mila euro, anche perdendoci qualcosa, dovremmo avere a disposizione un budget complessivo di oltre un milione di euro. Sì, avete letto bene: per la precisione, si tratta di 1 milione e 160mila euro.

Ovviamente impossibile a realizzarsi. Come ci si orienta, dunque, per fornire comunque stime che dovrebbero essere attendibili? Con un paio di stratagemmi. Il primo è questo: si definiscono già sicuri un numero piuttosto elevato di collegi, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, e si effettuano sondaggi soltanto sui collegi incerti, in genere tra gli 80 e i 100. Anche in questo caso il costo, seppur più che dimezzato, sarebbe vicino al mezzo milione. E nessuno ha tutti questi soldi. Allora si dimezzano le interviste, producendo risultati altamente inattendibili: dato che il collegio è incerto, con 3-400 interviste valide quel collegio rimarrà sicuramente incerto, tranne in casi eccezionali.

Secondo stratagemma. Si prendono in considerazione i flussi di voto dall’ultima elezione agli orientamenti di voto odierno, a livello ad esempio regionale. Si applicano poi i risultati di ciascuna matrice di flusso ai singoli collegi di ognuna delle regioni. Anche in questo caso i risultati che usciranno saranno altamente aleatori, vista la competizione serrata in molti dei collegi uninominali, senza considerare il possibile richiamo che ognuno dei candidati potrebbe esercitare nel suo collegio.

L’unica strada alternativa da percorrere sarebbe quella di utilizzare le migliaia e migliaia di interviste effettuate nel corso degli ultimi due anni, e suddividerle per i 232 collegi. Ma pochissimi istituti di ricerca hanno un così ingente data-base su cui far riferimento, e anche in questo caso, poco sapremmo sugli eventuali cambiamenti nell’orientamento di voto dell’ultimo periodo pre-elettorale. Ecco perché a quello che ci raccontano, se non in casi sporadici, non possiamo credere troppo. Non ci resta che attendere tranquillamente i veri risultati delle elezioni. In fondo, non manca poi molto.

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 4 febbraio sul sito de “Gli Stati Generali”



A 40 giorni dal voto, un governo torna possibile

Le liste dei candidati sono ormai pronte. Le consuete polemiche (come peraltro sempre accadeva già ai tempi del Mattarellum) hanno accompagnato le scelte dei nomi e dei territori a questi associati. Polemiche che rientreranno in poco tempo, per concentrarsi sulle previsioni di voto in ciascun dei collegi, per comprendere le chance di vittoria una volta formalizzata l’offerta politica. Casini riuscirà a vincere nel senato bolognese? e Boschi convincerà gli elettori sudtirolesi? e Di Maio sarà profeta in patria? Domande che ci tormenteranno per qualche settimana.

Molti degli analisti elettorali –sia in privato che in pubblico- sembrano essere convinti che nella competizione per le prossime politiche i giochi siano ormai fatti, e che la campagna elettorale non riuscirà a modificare, se non in minima parte, le attuali tendenze di voto. Una campagna che resterà quindi tutto sommato ininfluente, nonostante le centinaia di promesse che quotidianamente tutte le forze politiche si affrettano ad elargire agli italiani.

I sondaggi ci raccontano dunque di un centro-destra in gran spolvero, destinato a vincere il duello maggioritario, quello che vede protagoniste le coalizioni, e di un Movimento 5 stelle ormai sicuro vincitore della tenzone proporzionale, dove protagoniste sono le liste, prese separatamente. Dunque: centro-destra oltre il 35% e M5s vicino al 30%, con il Pd ed il centro-sinistra in affanno, perdenti in entrambi i rami del Rosatellum.

Ma, in termini di seggi, tutti sono concordi che nessuna forza politica, né singola né coalizionale, potrà arrivare ad una soglia tale da permettere la formazione di un governo di maggioranza nel parlamento. Nessuno riuscirà quindi ad avvicinarsi a quel fatidico 40% dove ci sarebbe spazio per correre da soli. Ci aspetterebbero allora esecutivi di minoranza, ovvero un governo del Presidente, prevalentemente tecnico o di larghe intese, per andare presto a rivotare, forse con una nuova legge elettorale di stampo più maggioritario.

Molti sono di questo avviso, dicevo, ma non tutti. Il politologo Paolo Feltrin, ad esempio, non è completamente convinto che i giochi siano chiusi, anzi: ritiene infatti che le dichiarazioni di voto odierne nascondano orientamenti più profondi e sedimentati che usciranno più facilmente nel momento del voto. Citando la cosiddetta “fedeltà leggera”, egli ipotizza che una quota significativa tra gli elettori di centro-sinistra faticherà ad abbandonare la propria antica parte politica, Renzi o non-Renzi, a favore dei 5 stelle o dell’astensionismo.

Potrebbero nascondere la propria vera indole a chi li interroga, in un momento in cui il Pd non gode di buona stampa né di un clima di opinione favorevole, per uscire allo scoperto all’avvicinarsi del voto, preoccupati della deriva cui (secondo loro) rischierebbe di andare incontro il nostro paese. Al contrario, i potenziali elettori dei 5 stelle potrebbero non dar seguito alle dichiarazioni in loro favore, consci delle difficoltà che il movimento dovrebbe fronteggiare nell’ipotesi di un travagliato governo.

Le sue previsioni dunque sono di una risalita del Pd e del centro-sinistra, sia nel proporzionale che soprattutto nel maggioritario, di un ridimensionamento del numero di seggi vinti dal M5s e di un ulteriore incremento di Forza Italia. Tutto questo permetterebbe al duo Pd-Fi di avvicinarsi al numero fatidico di 315 seggi alla camera e, con qualche piccolo aiuto esterno, di riuscire a formare un governo (magari a scadenza programmata) che avvicinerebbe l’Italia alla situazione tedesca, dove l’alleanza tra Cdu-Csu e Spd pare funzionare.

Ed effettivamente le tendenze delle ultime ore paiono andare nella direzione indicata da Feltrin, e ci dicono due cose rilevanti: la prima, che la coalizione di centro-destra appare in lieve crisi; la seconda, che viceversa quella di centro-sinistra sembra leggermente in ripresa. Due elementi interessanti, soprattutto in vista di una possibile (eventuale) maggioranza di governo. Perché? Vediamo di capirlo.

Il centro-destra perde complessivamente un po’ di consensi soprattutto per due fattori: il primo è che la Lega di Salvini non sembra funzionare particolarmente bene tra gli elettori delle aree meridionali del paese, che magari la citano nei sondaggi ma al momento del voto preferiscono altro. Come ad esempio in Sicilia, dove in tandem con Fratelli d’Italia non riuscì ad andare oltre il 5% dei suffragi, molto meno di quanto i sondaggi ipotizzavano.

Il secondo fattore è legato al numero di liste che la coalizione presenterà: dalle 3-4 preventivate, oggi si parla di un’unica lista di appoggio, quella di Fitto-Lupi-Tosi. Avere più liste che non superano il 3% serve infatti per incrementare i voti per la coalizione e per i suoi partiti maggiori, dando loro più seggi e più rappresentanza parlamentare. Così, secondo le ultime stime, il centro-destra potrà avere intorno a 275 seggi, oltre 40 seggi in meno della maggioranza alla camera.

Al contrario, il centro-sinistra pare godere di migliore salute, non tanto per la performance del Pd, sempre deficitaria, quanto per l’acquisto di 3 liste (con l’arrivo della Bonino) che probabilmente non supereranno il 3% (forse con l’eccezione della stessa Bonino), ma che complessivamente aggiungeranno al Partito Democratico un ulteriore 4% di voti, portandolo ad un numero di seggi totale vicino ai 160.

Dunque, la ventilata coalizione Pd-Forza Italia, pur se negata da tutti i protagonisti, potrebbe essere vicina a realizzarsi, almeno potenzialmente. I 160 seggi del Pd, uniti ai possibili 140 del partito di Berlusconi, darebbe una somma intorno a 300, a soli 15 seggi dalla maggioranza alla camera. Ingaggiare qualche fuoriuscito da altre forze politiche potrebbe non essere, a quel punto, particolarmente difficoltoso, dando luogo ad un governo capace di durare (almeno un po’) nel tempo.




Perché i 5 stelle non perdono consensi

Quando c’era la Democrazia Cristiana, o il Partito Comunista, eravamo abituati ad osservare una certa impermeabilità del consenso per questi partiti agli accadimenti quotidiani. Uno scandalo politico, nazionale o internazionale, influiva in misura piuttosto limitata sull’orientamento di voto dei loro elettori. La fedeltà ad una certa visione del mondo, ad un certo desiderio di società, da una parte e dall’altra, era più importante dei casi personali o delle malefatte di questo o quel personaggio politico.

La Dc o il Pci guadagnavano o perdevano relativamente poco, da una elezione all’altra, immuni anche a importanti fenomeni sociali, come negli anni Sessanta o Settanta. Oggi i partiti subiscono molto più facilmente i contraccolpi di scelte o comportamenti errati. Il Pd di Veltroni valeva il 33%, quello di Bersani il 25%, quello di Renzi inizialmente il 40%, poi ridottosi al 30% soltanto qualche mese dopo, per precipitare all’odierno 23-24%. Forza Italia passa in poco tempo dal 30% al 20%, per arrivare oggi poco sopra il 15%.

Sembra che l’unica attuale forza politica che, in qualche modo, resti sostanzialmente immune dalle polemiche o dalle eventuali scelte poco lucide dei suoi rappresentanti (locali o centrali) sia oggi il MoVimento 5 stelle. Negli ultimi due anni, nel bene o nel male, i pentastellati si sono aggiudicati la palma del movimento più ondivago della storia: le opinioni nei confronti di molti dei più rilevanti accadimenti socio-politici sono cambiate a volte nel giro di qualche mese, se non di qualche giorno. Il che è magari plausibile, data la natura del movimento stesso, senza un “vero” programma, basandosi in linea di principio sulla costante interrogazione dei propri iscritti. Ma semina a volte ovvie perplessità nei commentatori e dovrebbe (o potrebbe) crearne anche nei suoi elettori.

Invece, al contrario delle aspettative, i consensi sono rimasti sostanzialmente immutati, in questo periodo di tempo. Come mai? Proprio a causa della specificità del suo elettorato. Molti si sono interrogati su come sia fatto. Alcuni pensano al popolo “pentastellato” come ad una riedizione dei primi adepti del movimento fascista, altri come fuoriusciti dai centri sociali, altri ancora come semplici qualunquisti, altri infine come acuti interpreti di una società in rapido cambiamento. Chi ha ragione? Tutti e nessuno, o meglio, un po’ tutti sono in realtà nel giusto, dal momento che le anime del movimento paiono essere molto variegate. Nel libro “Politica a 5 stelle”, insieme a Roberto Biorcio, ne avevo individuate quattro prevalenti.

I seguaci (il nucleo più antico), i gauchisti (provenienti da esperienze di sinistra), i razionali (che pensano al M5s come la sola forza per scardinare il sistema) e i “menopeggio” (i più qualunquisti, che odiano la casta). Quattro anime il cui peso interno varia da momento a momento: oggi i “menopeggio” sono più forti, mentre un po’ in crisi sono i guachisti. I razionali andavano bene nel 2013 e nelle amministrative di Roma e Torino. E così via. A seconda di ciò che accade, del momento politico e sociale, e delle parole d’ordine lanciate da Grillo o da Di Maio o da qualche altro esponente pentastellato, qualche anima si riattiva e qualcuna si allontana.

Il bacino potenziale di riferimento dei 5 stelle è oggi in Italia intorno al 35% dell’elettorato complessivo, e da quel potenziale viene “pescato” il livello di consenso contingente che, appunto, muta nella composizione interna ma non nella sua quantità. Quando la giunta romana non funziona, i razionali rimangono in stand-by, ma si riattivano i seguaci. Quando si denigrano gli immigrati, tornano in massa i “menopeggio” ma si allontano i gauchisti. Un sistema di pesi e contrappesi, si direbbe oggi, che alla fine lascia inalterato il dato complessivo dell’orientamento di voto.

Il vero problema da risolvere, per i 5 stelle, arriverà se e quando andranno al governo. I loro proclami possono andare bene, a turno, per le diverse componenti, ma le loro politiche non potranno accontentare contemporaneamente tutte le anime. E quello sarà il loro vero banco di prova.