Effetti collaterali della pandemia: Conte su, Lega giù

Certamente gli interessi attuali degli italiani vanno in altre direzioni, verso l’uscita dall’emergenza sanitaria del Coronavirus e la possibile sperata ripresa economica e occupazionale. Resta però indubbio che gli orientamenti di voto dall’inizio del “lockdown” fino ai giorni nostri hanno in parte rivoluzionato la geografia politica nostrana, come testimoniano la quasi totalità dei sondaggi effettuati ultimamente. Avevamo lasciato la Lega di Salvini solidamente solitaria nelle dichiarazioni degli elettori, a inizio marzo, ed ora ce la ritroviamo soltanto di pochi punti percentuali sopra le due forze politiche che sorreggono il governo giallorosso.

La Lega perde qualcosa come sette punti (dal 33% al 26%) nel giro di soltanto due o tre mesi, a testimonianza della ormai cronica alta volatilità delle scelte elettorali e, visto il parallelo declino della popolarità dello stesso leader leghista, di instabili fiducie nei diversi protagonisti politici. Mentre Lega e Salvini retrocedono, il premier Conte sale, evidenziando un dato pre-politico ormai divenuto un elemento politico a tutti gli effetti: ciò che conta è soprattutto la capacità immediata di suscitare emozioni favorevoli nella pancia degli elettori. Non sono più i valori (o le ideologie) a veicolare la propria vicinanza politica, e nemmeno forse gli atteggiamenti o le opinioni, che non possono mutare così repentinamente, in brevi lassi di tempo, nel giro di due-tre mesi. Ciò che cambia sono le emozioni, e le emozioni portano con sé discese ardite e risalite (per dirla con Lucio Battisti) di questo o quell’uomo politico, e dei loro partiti di riferimento, nel caso ne abbiano uno.

Per Salvini, in discesa, e per Meloni, in salita nei consensi, è accaduto proprio questo anche per i loro partiti che, senza una ragione precisa (o con motivazioni poco significative) hanno ridisegnato lo spazio di consenso all’interno del centro-destra, ora divenuto quasi bicefalo, con Forza Italia ormai relegata ai margini. Dal punto di vista territoriale, la Lega perde soprattutto nelle regioni e nelle aree dove la sua crescita durante lo scorso anno rinforzava il tentativo di diventare un partito nazionale, in particolare nel sud e nelle ex-zone rosse, dove ora si incrementano invece i consensi rispettivamente per Fratelli d’Italia e Partito Democratico. È possibile che un centro-destra a due teste riproponga l’idea di una coalizione con il settentrione predominio di Salvini (e di Zaia) ed il meridione predominio di Meloni, dove peraltro resta forte anche il Movimento 5 stelle.

Per Giuseppe Conte, che non ha in realtà alcun partito di riferimento specifico, il livello dei consensi appare elevato in tutte le zone del paese, soprattutto ovviamente dove è meno forte l’elettorato di centro-destra, ma la sua crescita è evidente anche in quelle aree, benchè non raggiunga le quote delle altre aree. Se cioè la fiducia nel presidente del consiglio è più alta, in termini assoluti, nel centro-nord e nel sud (grazie ai giudizi positivi di elettori Pd e M5s), la crescita dei suoi consensi, di quasi 15 punti dal periodo pre-pandemia ad oggi, appare generalizzata in tutte le regioni italiane. Anche in questo caso, molto probabilmente, una parte rilevante è giocata dalle emozioni che Conte è riuscito a suscitare nell’elettorato italiano, senza ulteriori distinzioni partitiche o territoriali.




La sinistra ha perso i suoi referenti storici: periferie e ceti popolari

La sinistra non c’è più là dove una volta la si andava a cercare: nelle periferie delle grandi città e nei ceti subalterni. Da tempo sconta ormai una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi popolari e meno istruite.

A partire dal nuovo secolo, ma in alcuni paesi anche prima, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nelle loro storiche constituency.

Per quanto riguarda il primo elemento, è evidente come tutti i principali partiti di quell’area, vale a dire il PASOK in Grecia, il PSOE in Spagna, il PSF in Francia, l’SPD in Germania, il SAP in Svezia, giusto per citare i partiti più rappresentativi della tradizione socialista europea, mostrano un andamento tendenziale dei consensi elettorali in costante diminuzione.

E ancora peggiori, salvo rare eccezioni, sono stati negli ultimi 20 anni i risultati elettorali nei paesi usciti dal regime sovietico, dove i partiti di ispirazione socialista o social-democratica hanno spesso faticato persino ad ottenere seggi nei rispettivi parlamenti.

In Italia infine, il Partito Democratico, nei suoi dieci anni di vita elettorale, ha visto quasi dimezzare i suoi consensi, dai 14 milioni e mezzo di voti delle elezioni 2008 che celebrarono il suo esordio come formazione politica ai 7 milioni e mezzo delle elezioni politiche dello scorso anno. Un confronto che diventa ancora più impietoso se si considerano i 19 milioni di elettori che, prima della nascita del PD, nelle elezioni politiche del 2006, segnarono il risultato delle liste collegate alla coalizione di centro-sinistra, l’Unione di Romano Prodi.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. A fronte del quale, assume rilevanza crescente la correlazione tra il voto ai partiti della sinistra democratica e socialista occidentale e la residenza nelle grandi metropoli, o nei centri urbani di grossa dimensione, così come con gli strati più istruiti e benestanti della popolazione in genere. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini.

Consideriamo le ultime elezioni politiche che si sono tenute in questi ultimi tre paesi: quelle legislative in Italia e Regno Unito, e quelle per il Presidente negli Stati Uniti. Dati di sondaggio sulle elezioni inglesi dello scorso dicembre segnalano evidenze molto interessanti nel dato relativo al grado di istruzione, dove se i Conservatori vantano quasi il 60% dei consensi fra i non laureati, gli elettori laureati risultano più equamente distribuiti fra liberaldemocratici, conservatori e laburisti, con questi ultimi che incassano quasi il 40% dei voti di coloro che hanno una laurea o un titolo di studio superiore. E se nelle precedenti elezioni (2017) fra gli elettori non laureati i Conservatori superavano i Laburisti di meno di 20 punti percentuali, nelle elezioni dello scorso dicembre il divario fra i due partiti si è allargato, raggiungendo una differenza percentuale di poco inferiore ai 40 punti.

Appare inoltre particolarmente significativa la ripartizione del voto nelle diverse aree urbane del paese, rispetto alla quale, così come già si era verificato in occasione delle elezioni politiche del 2017 e del Referendum del 2016 sulla cosiddetta Brexit, gli elettori del Partito Conservatore si ritrovano soprattutto fra i cittadini che risiedono nei centri urbani medio-piccoli e nelle aree rurali, mentre quelli del Partito Laburista sono preponderanti nelle città più popolose e, all’interno di queste, più al centro che in periferia. Una propensione che nel corso del tempo è diventata sempre più indicativa. Basti pensare che ancora nel 2010 la percentuale degli elettori Conservatori fuori dai grandi centri urbani era mediamente intorno al 40%, mentre adesso supera il 50%. Sempre nello stesso periodo di tempo, gli elettori del Partito Laburista nelle metropoli sono viceversa cresciuti dal 35% del 2010 a oltre il 50% di oggi.

Il confronto con il Referendum sulla Brexit mette inoltre in luce come alcune delle aree territoriali in cui il sostegno al “leave” è stato nel 2016 più forte e che appartenevano tradizionalmente ai Laburisti, nella parte settentrionale e centrale dell’Inghilterra, nelle elezioni politiche dello scorso dicembre hanno visto vincere i Conservatori. Crepe importanti nella cosiddetta red wall sono per esempio la perdita dei collegi di Blyth Valley, circoscrizione laburista dal 1950, e di Bishop Auckland, che ha visto eletto un deputato Conservatore per la prima volta in 137 anni di storia di quella constituency.

In maniera molto simile a quanto accaduto nelle ultime elezioni per il Parlamento in UK, nelle elezioni presidenziali americane del 2016 il divario rispetto al grado di istruzione e la frattura territoriale fra centro e periferia si fanno parimenti sentire. Per quel che riguarda il livello di scolarizzazione, gli elettori della Clinton risultano mediamente più istruiti di quelli di Trump: poco più della metà (52%) degli elettori democratici dispone quanto meno di un diploma di istruzione superiore, mentre molto meno della metà (42%) degli elettori repubblicani si trova nella medesima condizione. Inoltre, il 51% di coloro che hanno votato Trump ha frequentato solo la scuola dell’obbligo americana (contro il 43% di Hillary Clinton), mentre fra i votanti della Clinton il 49% si è laureato e il 58% ha acquisito un diploma di master o una laurea di secondo livello (contro solo il 32% di Trump).

Un dato ancor più significativo se si pensa che Trump fa il pieno dell’elettorato bianco (57% contro 37%), storicamente il più istruito, mentre Clinton monopolizza quello nero e ispanico (74% contro 21%). Tra i bianchi non laureati, Trump infatti stravince per 66% a 29%! Infine, come nel Regno Unito, anche negli Stati Uniti la frattura territoriale fra centro e periferia consente di discriminare fra un elettorato repubblicano maggiormente concentrato nelle aree suburbane o rurali, che hanno contribuito al successo di Trump rispettivamente per il 49% e il 61%, e un elettorato democratico insediato soprattutto (60%) nelle aree urbane del paese. Come dire: più ci si avvicina al centro delle metropoli, più l’elettore vota Democratico, più ce ne si allontana, più è Trump ad essere preferito.

E arriviamo infine al caso italiano. Nelle più recenti consultazioni emiliane, nonostante il buon successo ottenuto da Bonaccini e dalla sua coalizione, la percezione che ci trasmettono i risultati elettorali è quella di trovarci in presenza di una regione spaccata secondo una evidente direttrice territoriale, una chiara frattura tra centro e periferia, con i comuni più popolosi che stanno a sinistra e quelli più periferici a destra. Un dato confermato dalle analisi nazionali, dove nelle grandi città (con oltre 250mila abitanti) il Pd ottiene 5 punti percentuali sopra la sua media, mentre la Lega ne fa registrare quasi 4 in meno. Anche dal punto di vista della scolarizzazione, la situazione nel nostro paese ricorda quella internazionale: i votanti con almeno un diploma superiore scelgono Pd per il 4% più della media e scelgono Lega per il 4% in meno (e i laureati addirittura il 10% in meno).

Facciamo infine un gioco chiaramente anti-democratico, benché particolarmente significativo: se limitiamo l’acceso al voto ai solo elettori delle grandi città in possesso di un titolo di studio superiore, il Pd batterebbe la Lega di ben 15 punti, 30% a 15%. Questa è dunque la nuova constituency della sinistra, a livello nazionale come a livello internazionale. Occorre che ne prenda atto.

*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale



Il taglio dei parlamentari è solo populismo?

I sondaggi più recenti ci informano che quasi il 90% degli italiani giudica favorevolmente il taglio dei parlamentari. Dunque, praticamente tutti gli elettori stanno dalla parte della riforma recentemente votata alla Camera ed al Senato; una riforma che è stata tentata per diversi decenni da tutti i governi, o le bicamerali, che si sono succeduti nel corso del tempo, a cominciare dal 1963 per finire con la riforma costituzionale proposta da Renzi, senza mai riuscirci per un motivo o per un altro. E’ curioso ricordare che la limatura approvata lunedì scorso è esattamente quella proposta dalla bicamerale guidata da Nilde Iotti e Ciriaco De Mita nel 1994, sull’onda di Tangentopoli.

Ma come si era arrivati a questo numero di 945 parlamentari (630 alla Camera e 315 al Senato, escludendo i senatori a vita) ed esiste un numero “giusto”? Il percorso, per limitarci all’Italia repubblicana, è molto semplice: la Costituzione del 1948 aveva stabilito che il numero di deputati fosse pari a 1 ogni 80mila abitanti e quello dei senatori a 1 ogni 200mila; era dunque variabile, ed aumentava con l’incremento della popolazione. Nel 1948, ad esempio, furono eletti 574 deputati e 237 senatori, mentre dieci anni dopo furono rispettivamente una ventina e una decina di più, 596 e 246. La riforma costituzionale del 1963 abolì questa variabilità, stabilendo infine la numerosità del Parlamento attuale.

Troppi? Troppo pochi? Impossibile ovviamente dare una risposta a questa domanda. Resta il fatto che l’Italia è il paese che, con quasi un migliaio, detiene oggi il record del maggior numero di parlamentari al mondo di origine elettiva, fatta eccezione della Cina che ne ha circa 3000, ma quello è certo un mondo a parte. Con la riduzione a 600, se il referendum lo confermerà, ci troveremmo invece ad un livello intermedio, in compagnia di diverse altre Nazioni e in linea con le principali democrazie nel rapporto tra eletti e popolazione elettorale.

Le motivazioni che hanno spinto alla riforma le forze politiche, ed in particolare il Movimento 5 stelle che – si sa – ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, sono di due ordini di motivi: il primo è la maggior efficienza di un Parlamento più snello, mentre il secondo, di gran lunga quello più motivante e sottolineato dai proponenti, è il risparmio nei conti pubblici. Che in realtà non è poi così eclatante: le analisi ci dicono che si risparmierebbe una cifra compresa tra gli 80 e i 100 milioni l’anno (circa 250mila euro per ognuno dei 345 parlamentari in meno), pari allo 0,006% del nostro debito pubblico.

Certo, non è molto, né lo sarebbe se si tagliassero anche gli stipendi di chi siede in Parlamento. Ma è sicuramente un segnale, che come si è visto procede nella direzione indicata dalla volontà popolare, che approva questo provvedimento. E’ un segnale di populismo, di demagogia un po’ fine a se stessa? Può darsi. Sono in molti a sottolinearlo, sia tra i politici che tra i commentatori. Le campagne e gli atteggiamenti anti-casta sono da sempre presenti nel nostro come peraltro in molti altri paesi, e i politici rappresentano forse l’emblema di ciò che si ritiene essere una “casta”, tanto che nelle periodiche rilevazioni, sono proprio loro quelli che stanno in fondo alle classifiche sulla fiducia, subito prima dei rom.

Che con questa riforma si voglia solleticare la parte più populistica della popolazione può essere vero, soprattutto se non sarà accompagnata – come promesso – da una vera riforma elettorale che renda questo “snellimento” adeguato ad un reale miglioramento delle funzioni legislative (ed esecutive) del Parlamento (e del Governo). E che, soprattutto, si apra un dibattito costruttivo sulla mai risolta diatriba tra rappresentatività e governabilità, tra sistema proporzionale e sistema maggioritario, tra turno unico e ballottaggio. Questi temi, forse, sono più decisivi per le sorti della nostra democrazia, rispetto al fatto che – magari – il Molise avrà un suo rappresentante in meno nel nostro Parlamento. Ma occorre affrontarli e risolverli. Rapidamente.




Il ritorno “emozionale” degli elettori 5 stelle

Gli umori sono dunque un po’ cambiati, da inizio estate ad oggi. Allora, il vissuto emozionale degli italiani, divenuto ormai il vero traino delle opinioni e degli orientamenti di voto, era ben saldamente ancorato al Capitano leghista. Reduce dal buon successo elettorale alle europee, con un incremento di quasi 3,5 milioni di voti in un solo anno, e dall’effetto “bandwagon” che ne era derivato, il mese di luglio aveva rappresentato per Matteo Salvini il momento più elevato del suo consenso e, di conseguenza, di quello del suo partito, che alcuni ipotizzavano prossimo al 40% dei voti validi, laddove il suo credito di fiducia personale superava addirittura la metà di tutto l’elettorato. Come dire che almeno un italiano su due, che volesse andare a votare o che volesse astenersi, giudicava positivamente l’operato del leader della Lega.

Cifre da capogiro, che potrebbero far perdere la testa a chiunque (come peraltro è capitato allo stesso Renzi) e che possono indurre in tentazione anche il più moderato uomo politico, figuriamoci uno che tanto moderato non lo è di suo. E la tentazione di monetizzare tutto e (quasi) subito gli ha forse fatto commettere un errore, sottovalutando la reazione quasi pavloviana da parte del resto della classe politica, di fronte alla insistita richiesta di “pieni poteri” per guidare il nostro paese.

Tutti gli altri si sono velocemente ribellati; Conte se ne è uscito con la miglior performance comunicativa della sua vita, attaccando Salvini in profondità e con cognizione di causa e appellandosi all’altra metà dell’Italia, quella che non stravede per il leader leghista; il Partito Democratico, insieme a molti pentastellati, ha ricominciato a pensare ad un futuro meno legato alla risoluzione dei propri litigi interni e più vicino ai bisogni del paese.

E’ bastato questo, sono bastati questi piccoli avvenimenti quotidiani per cambiare l’umore di una parte significativa della popolazione. Salvini, a giudicare dai sondaggi pubblicati recentemente, ha perso quasi il 15% di giudizi positivi nei suoi confronti; la Lega si è alienata un 5-6% dei suoi potenziali elettori di luglio; il Movimento 5 stelle ha recuperato una fetta importante dei suoi precedenti estimatori, nonostante Di Maio che invece appare ancora in sofferenza nei giudizi nei suoi confronti.

Se non è emozione pura questa, senza troppa razionalità né profondità di pensiero, quali altre occasioni dobbiamo aspettarci per prenderne definitivamente atto? Nel confronto con il voto politico dello scorso anno, il tasso di fedeltà al M5s era intorno al 30-35% fino a luglio, mentre oggi supera nettamente il 50%: come dire che l’emozione vale almeno il 20% dei consensi, il sentimento di ritrovata centralità nel gioco politico fa riacquistare fiducia in una forza politica che, fino ad un mese fa, era giudicata quasi in via di estinzione, destinata forse a non superare il 10% in caso di elezioni anticipate.

Per non pensare a cosa accadrà se l’ipotesi di governo M5s-Pd non andrà poi a buon fine. Nuove emozioni sanciranno un drastico ripensamento della fiducia in queste due forze politiche, e si ritornerà con Salvini trionfante e Giorgia Meloni in netta ascesa nei giudizi degli italiani. La volatilità di pensiero è forse ciò che più contraddistingue questi nostri tempi non propriamente felici, come giustamente sottolinea Luigi di Gregorio nel suo recente saggio “Demopatìa”.




Gli italiani e l’Europa: tra sfiducia e paura dell’isolamento

Come noto, per la prima volta nella sua storia elettorale, le recenti consultazioni europee hanno fatto registrare a livello complessivo un significativo incremento del turnout. Da quando sono nate, nel 1979, il tasso di partecipazione era infatti andato progressivamente calando, dal 62% della sua prima edizione fino ad arrivare al misero 42,6% del 2014, quasi 20 punti in meno. Un regresso costante, in buona parte causato dalla scarsa affluenza registratasi dai nuovi ingressi nella UE, la cui rotta è stata invertita (paura dei sovranisti?) proprio quest’anno, con un incremento medio di oltre otto punti percentuali, determinato da un aumento dei votanti in quasi tutti i 28 paesi con le sole eccezioni, statisticamente significative, di Bulgaria (-5%), Italia e Irlanda (-3%), oltre ad altri 4-5 paesi con un decremento minimo.

L’Italia dunque è in negativa contro-tendenza, e l’emorragia partecipativa non si arresta nemmeno in questa occasione. Il dato italiano appare in linea con quanto registratosi nelle numerose indagini demoscopiche dell’ultimo anno, che hanno infatti puntualizzato come il gradimento nella propria presenza nella UE fosse per l’appunto nel nostro paese tra i livelli più bassi (di fatto il più basso, se non si tiene in considerazione l’UK, già in Brexit), sebbene con una marcata opinione prevalente di due terzi (43% a 23%) a favore del “remain”.

La campagna comunicativa dei due partner di governo, piuttosto euroscettici benché non più – come nel corso delle politiche 2018 – velatamente indirizzati verso il “leave” almeno per la moneta, pare aver dato qualche frutto, nell’atteggiamento degli italiani, in particolare per quanto riguarda il loro giudizio verso l’Unione Europea.

Non sono ovviamente più i tempi delle grandi speranze di fine Millennio, quando l’obiettivo di entrare in Europa fece le fortune del governo Prodi-Ciampi, con convinta adesione anche di ampie fette della popolazione, disposte a fare i sacrifici economici necessari per non essere tagliata fuori dal mondo che contava. Allora (nel 1997) il livello di fiducia per la Comunità Europea, come in quel periodo veniva chiamata, arrivava a valori poco inferiori al 70%, e per più di un decennio, pur tra alti e bassi, la UE ha rappresentato per gli italiani il “luogo” più importante in cui confidare, per mantenere un equilibrio di fondo a fronte dei sommovimenti politici-elettorali interni, nell’eterna battaglia tra centro-sinistra e centro-destra.

Il punto decisamente più elevato della fiducia (70%) è stato il 2011, annus horribilis del governo Berlusconi, quando in seguito all’incontrollabile incremento dello spread, la Ue impose un deciso cambiamento di rotta nella gestione economico-finanziaria del nostro paese, facilitando l’ingresso di Mario Monti in un governo tecnico che aveva come obiettivo principale il risanamento dei conti pubblici. Ma da allora inizia una inesorabile parabola discendente, con una diminuzione media della fiducia di circa 5 punti all’anno, fino ad approdare al valore attuale del 40%: una perdita secca di 30 punti in soli otto anni.

Fonte: Abacus (1996-2002) – Ipsos (2003-2019)

Da super-garante a costante oggetto di critiche, provenienti non soltanto dagli elettori dei cosiddetti partiti “euroscettici”, ma anche da una quota significativa degli altri elettorati più “europeisti”, che per la maggior parte condivide l’idea che la Ue sia diventata nel tempo più l’Europa delle banche che quella dei popoli, fallendo la sua missione unificatrice cui si era guardato alla nascita con grandi speranze.

Cresce dunque costantemente il disamore verso l’istituzione europea, dopo la messa in discussione a cavallo delle politiche del 2018, da parte di Lega e M5s, sia della permanenza nella Ue sia, soprattutto, del mantenimento dell’Euro come moneta corrente nel nostro paese. Peraltro, una volta formatosi il nuovo governo giallo-verde, i due partner dell’esecutivo retto da Conte tendono lentamente ad ammorbidire le proprie posizioni su entrambi i punti di rottura. Si passa dunque dall’abbandono tout-court di Euro e di UE ad una conflittualità, che resta certo accesa, ma maggiormente finalizzata ad una ridiscussione dei termini dei rapporti tra Bruxelles e l’Italia, con la pressante richiesta di maggior autonomia decisionale sui programmi economico-finanziari interni.

Una decisa svolta rispetto al recente passato, che accompagna la stessa opinione pubblica più euroscettica verso un ripensamento delle proprie posizioni sulla possibile uscita dal treno europeo, facilitato anche dai problemi riscontrati dalla complicata Brexit inglese e dalla paura dell’isolamento che ne potrebbe generare negli anni futuri.

Così, le opinioni degli italiani cominciano progressivamente a mutare, a favore del mantenimento dello status quo su entrambi i temi. Le ultime rilevazioni demoscopiche disponibili ci parlano oggi di una quota pari a tre quarti degli elettori che si dichiara favorevole al mantenimento dell’Euro come moneta corrente, con punte massime tra chi ha votato Pd (la quasi totalità) e punte minime tra i votanti di centro-destra. Allo stesso modo, e con quote pressoché identiche, l’opinione nei confronti dell’uscita dell’Italia dalla UE, che vede ridursi sensibilmente, rispetto allo scorso anno, coloro che si dichiarano a favore di una Ita-exit.

Se ancora qualcuno avesse dei dubbi sulla forza e l’impatto della comunicazione per forgiare le opinioni dei cittadini, questi risultati dovrebbero fugare ogni loro tipo di incertezza.