Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi*

*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

Maneggiare con cura: questo dovrebbe esserci scritto o sottolineato chiaramente, prima della presentazione dei risultati di qualsiasi indagine demoscopica. Purtroppo, questo avviene solo sporadicamente. Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Oggi, perfino una procedura come il Censimento della popolazione viene effettuata attraverso un sondaggio campionario, producendo un vero e proprio ossimoro: se utilizziamo un campione di cittadini, il risultato non potrà mai definirsi un censimento, e anzi produrrà delle stime affette, come vedremo, dal cosiddetto “errore di campionamento”.

Sono proprio i risultati di indagini demoscopiche quelli che prendiamo come attendibili in molti campi, e che ci raccontano lo stato del nostro paese, come fa il Censis nel suo rapporto annuale sullo stato della società italiana. E pochi sanno ad esempio che i dati che ci vengono forniti dall’Istat, sui quali si basano le scelte anche strategiche del mondo politico e imprenditoriale, sull’andamento economico-occupazionale del paese e sulle forze-lavoro (tasso di occupazione, ecc.) non sono altro che il frutto di un sondaggio trimestrale, effettuato certo interrogando un campione molto vasto, 200mila individui all’interno di circa 120mila famiglie, ma pur sempre un campione.

Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, almeno dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai risultati che emergono da una indagine demoscopica.

Da lunedì prossimo 4 luglio, con cadenza giornaliera, nei giorni feriali (dunque dal lunedì al venerdì) verranno presentate e discusse le dieci più importanti distorsioni di cui sono “vittima” tutti i sondaggi, in particolari quelli politico-elettorali, delle quali dovremmo tenere conto quando ci accingiamo a leggere i suoi risultati, pubblicati sui media.

Paolo Natale




Chi sono i No Green Pass? Molte conferme e qualche sorpresa

È ovvio che le manifestazioni dei No Green Pass, presenti in molte città italiane da diverse settimane, non vedano coinvolto che qualche migliaio di persone. Non tutti hanno voglia di scendere in piazza, sfidando magari le intemperie meteorologiche o delle forze dell’ordine, senza altro obiettivo concreto se non quello di cercare di sensibilizzare il governo a ritirare quelle misure da loro giudicate illiberali.

Ma se non sono molti coloro che si mobilitano “fisicamente”, dietro quei pochi ci sono milioni di italiani che, in qualche modo, la pensano più o meno come loro, ritengono cioè che il green pass sia “una misura esagerata che viola la libertà di chi non vuole farsi vaccinare”. Piuttosto interessante quindi cercare di capire chi sono, quali sono le loro caratteristiche in termini demografici e politici.

Utilizzando un campione sufficientemente numeroso di elettori (circa 4mila individui interrogati negli ultimi due mesi da Ipsos) è possibile tracciare un quadro significativo del loro profilo, confrontandolo poi con chi non si dichiara contrario al greenpass. La tipologia costruita ad hoc tiene conto di una ulteriore specificità, differenziando i “no green pass” non vaccinati da quelli invece vaccinati.

Avremo quindi tre tipi: il primo, che chiameremo “SI vax SI gp”, è composto da chi si è vaccinato ed è d’accordo con l’adozione del green pass (il gruppo più numeroso, pari al 70% circa degli intervistati); il secondo (“SI vax NO gp”) dai contrari al green pass ma vaccinati (18%); il terzo (“NO vax NO gp”) dai contrari sia al vaccino che al green pass (12%). Esiste per la verità anche uno gruppo molto ridotto (meno del 2%) di non vaccinati ma favorevoli al green pass, che ho tralasciato nell’analisi.

Occorre innanzitutto sottolineare come al trascorrere del tempo sia la seconda categoria, i vaccinati contrari al greenpass, quella a crescere in maniera significativa: se in ottobre erano soltanto il 10-12%, nelle ultime settimane arrivano infatti a superare il 20% della popolazione elettorale, mentre cala contestualmente il gruppo dei “non vaccinati”. E già questo pare un primo dato estremamente interessante: vanno cioè aumentando poco alla volta coloro che, pur vaccinati, reputano di fatto una sorta di attentato alla libertà (anche lavorativa) l’obbligo del passaporto verde. Potremmo identificarli con l’etichetta di “rivoltosi”, e mi sembra questa la categoria più interessante da analizzare, laddove il terzo gruppo (quello dei non-vaccinati), in tendenziale calo, è composto da individui le cui caratteristiche li fanno assomigliare maggiormente all’area più nota degli emarginati dalla politica (non-votanti, livelli di informazione e di scolarizzazione poco elevati, poco inseriti nel mondo del lavoro, casalinghe e disoccupati, convinti anti-europeisti, favorevoli al ritorno della lira).

Cosa contraddistingue dunque questi “rivoltosi”, rispetto alla fetta più rilevante della popolazione, quel 70% di “mainstream” che concorda con l’utilizzo del greenpass? Dal punto di vista del loro orientamento politico, sono tendenzialmente poco presenti gli elettori dei partiti di sinistra, di centro-sinistra e di Forza Italia, mentre le scelte più significative vanno in direzione del Movimento 5 stelle e, soprattutto, verso la Lega e Fratelli d’Italia, che sfiorano in questo gruppo il 30% nelle intenzioni di voto, oltre il doppio dei “mainstream”.

Sono anch’essi, in sintonia con i non vaccinati e con le parole d’ordine dei partiti di loro maggior riferimento, in prevalenza anti-Euro e anti-Europeisti e per il 70% pensano che le cose nel nostro Paese stiano andando in generale nella direzione sbagliata. Il loro livello di scolarizzazione non è molto dissimile dalla media italiana, con la presenza quindi di quote significative di laureati e diplomati, benché siano più numerosi coloro che si fermano alla scuola dell’obbligo. Sono ben inseriti nel mondo del lavoro, in particolare tra gli operai e gli autonomi con reddito relativamente più basso. Dal punto di vista generazionale, spicca la presenza tra i “rivoltosi” delle classi d’età relativamente più giovani, mentre tra le loro fonti d’informazione appare sovra-rappresentata la presenza dei social e del passaparola, dell’interazione tra amici e parenti per formarsi un’opinione, mentre meno presenti sono le fonti d’informazione più “ufficiali”, come i giornali cartacei e i telegiornali.

L’atteggiamento di decisa sfiducia nei confronti dell’attuale governo e delle principali istituzioni, italiane ed europee, è il tratto marcato che contraddistingue questo gruppo di elettori, certo meno agguerrito dei variegati manifestanti che quotidianamente (in forme quasi pre-politiche) scendono in piazza, al grido di “libertà”, ma che in qualche modo rappresenterebbero soltanto la punta di un iceberg di sentimenti diffusi nella popolazione. Sentimenti che paiono in costante crescita anche tra coloro che, forse di malavoglia, sono arrivati alla vaccinazione sospinti più dall’opinione pubblica dominante che da una reale convinzione dell’efficacia dei vaccini. Tanto che quasi il 70% tra loro si trova tuttora in disaccordo con la simbolica affermazione: “Oggi, il vaccino è la libertà”.

I milioni di italiani “rivoltosi” sembrano dunque rappresentare un’ondata di crescente profondo dissenso con la quale confrontarsi seriamente, nelle settimane a venire, per evitare che quell’iceberg emerga ancora più evidente nel mare della nostra società.




La fedeltà (leggera) di voto c’è ancora

Una delle recenti leggende metropolitane ci racconta come ormai i cittadini, nelle loro scelte di voto, siano condizionati da percezioni superficiali, o dallo story-telling del leader di turno (siano questi Renzi o Grillo, Salvini o Giorgia Meloni), e che abbiano abbandonato criteri di scelta più coerenti con la propria storia personale o con il modo di interpretare la società che li circonda. Vivremmo dunque un periodo di alta volatilità elettorale, con scelte episodiche, quasi casuali, come se fossimo al supermercato elettorale: si compra l’articolo di moda oppure quello con uno sconto più elevato. Ma sarà davvero così?

Come noto, la storia della fedeltà elettorale è piuttosto lunga e complessa, ed ha vissuto due fasi particolarmente significative. Fino agli anni Ottanta il sistema partitico è stato caratterizzato da un’estrema staticità, con incrementi o decrementi dei consensi limitati a pochi punti percentuali: l’elettore aveva un alto livello di vischiosità (si è per questo coniato il termine di “fedeltà pesante”), derivante o da appartenenza (sub-culturale) o dal voto di scambio, che permetteva il costante processo di allocazione mirata delle risorse economiche, determinante soprattutto nel meridione a favore del partito egemone, la DC.

A partire dagli anni Novanta, con il deciso incremento del voto d’opinione, il concetto di “fedeltà leggera” diviene un patrimonio interpretativo particolarmente efficace per leggere i risultati elettorali. L’idea si basa sul presupposto che, da un parte, il credo politico non sia più così fondamentale, per il cittadino-elettore, nella formazione della propria personalità, come lo era stato al contrario nei decenni precedenti (da qui, l’idea di una sorta di “leggerezza” nel proprio coinvolgimento elettorale); dall’altra, che permanga comunque una forte fedeltà di voto, legata non già al partito quanto alla propria coalizione o alla propria area politica di riferimento.

Dopo un periodo di assestamento, dovuto alla scomparsa di molti dei partiti storici, il voto riacquistava dunque una nuova forma di stabilità, motivata non più dall’importanza che il partito rivestiva come rappresentante dei propri interessi, o della propria sub-cultura di riferimento, quanto dalla condivisione delle ideologie che le due aree politiche rappresentavano: destra contro sinistra, stato contro mercato, berlusconismo contro anti-berlusconismo sono state, fino alla fine del primo decennio del nuovo secolo, le fratture che determinavano maggiormente la scelta di voto dei cittadini.

Con l’avvento dei nuovi partiti a-ideologici, come il Movimento 5 stelle, si è presto dato per scontato che di quella contrapposizione non ci fosse più traccia e che, appunto, gli elettori si accostassero al voto privi di “pregiudizi” contro questa o quella forza politica. Come se fossero prodotti di consumo, altamente interscambiabili a seconda del momento e della situazione del paese, e condizionati prevalentemente dalla capacità comunicativa dei diversi leader.

Ma un’analisi più attenta dei flussi di voto, reali o potenziali, ci raccontano una realtà un po’ più complessa. Limitandoci ai passaggi avvenuti tra le ultime elezioni politiche del 2018 e le odierne dichiarazioni di voto (come si vede nella tabella qui accanto), il quadro che ci si presenta dinanzi non si discosta poi molto da quanto accadeva all’epoca della fedeltà leggera dei decenni della seconda repubblica, con un unico (sebbene significativo) mutamento, dovuto alla presenza del M5s.

Dunque, i partiti del centro-sinistra e quelli del centro-destra restano ancorati ad una percentuale di fedeli particolarmente elevata (rispettivamente, dell’88% e del 94%), con un passaggio di voti tra le due aree (i “traditori”) quasi inesistente. Gli unici elettori che al contrario si spostano in misura significativa sono quelli che nel 2018 avevano votato appunto per il movimento fondato da Grillo, che è caratterizzato da un tasso di fedeltà piuttosto limitata, di poco superiore al 50%.

Così, il deciso incremento del centro-destra e quello più circoscritto del centro-sinistra è dovuto sostanzialmente alle scelte dei pentastellati in uscita, che hanno premiato soprattutto la Lega (nel 2019) e più recentemente Fratelli d’Italia, oltre ad una quota minore che è approdata al Partito Democratico. La fedeltà di area esiste ancora, dunque, e i rapidi cambiamenti nelle gerarchie partitiche sono dovuti sostanzialmente a passaggi all’interno della stessa area politica: il partito di Meloni, ad esempio, è parecchio cresciuto negli ultimi due anni grazie agli elettori di Berlusconi e di Salvini che sono passati dalla sua parte.

Se le scelte future del nuovo Movimento 5 stelle, con la leadership di Conte, dovessero realmente andare verso un’alleanza con il Pd, è possibile che ci troveremo presto in una situazione molto simile a quelle dei decenni passati, con un centro-destra vicino al 50% e un’area “progressista”, come sempre a rincorrere, distaccata di una decina di punti. Entro qualche mese lo sapremo…




Fake news e distorsione delle percezioni

Le distorsioni della realtà dovute a percezioni parziali e deformate degli accadimenti e dei più rilevanti fenomeni non sono certo una novità, dall’avvento della società di massa. Già all’inizio del secolo scorso molti psicologi e sociologi si interrogavano sulla formazione delle opinioni, sottolineando come nel giudicare un fenomeno contasse a volte più l’opinione che si aveva della realtà che la realtà stessa. L’opinione, come argomentava un secolo fa il politologo Walter Lippmann, non è altro che il frutto della percezione della realtà filtrata da un ambiente cognitivo formato da stereotipi, da visioni semplificate e parziali della realtà. Con l’avvento dei social media, come noto, questo processo è divenuto talmente pervasivo che ha finito per influenzare in maniera decisiva la costruzione sia della personalità individuale che di quella collettiva.

E le fake news, sempre più presenti sul Web per screditare la parte avversa e rinforzare le proprie credenze, sono divenute nel tempo una sorta di informazione alternativa cui si ricorre aprioristicamente e acriticamente per convincersi di essere “nel giusto”, andando solo raramente a identificare la bontà e la correttezza delle fonti. Il motivo pare evidente: le notizie che confermano il proprio pregiudizio, vere o false che siano, vengono credute, condivise e propagate in rete, all’interno della “bolla” delle amicizie sui social; il contrario accade per quelle che smentiscono la propria opinione, che vengono considerate non veritiere, messe in discussione sebbene ci siano evidenti prove a loro sostegno. Non si mette in discussione la propria percezione dei fatti, ma i dati reali: è la percezione che vince sui fatti.

Una logica talmente evidente che anche la “scelta” di quale virologo fidarsi (e affidarsi) trae origine dalla propria percezione della pandemia: se non vogliamo più lockdown, scegliamo quello che afferma che il virus è ormai sotto controllo; se siamo dell’avviso che non sono prudenti le riaperture incontrollate, optiamo con chi ci dice che il peggio deve ancora venire.

A corollario, in una recente indagine Ipsos, è stato chiesto agli italiani se a loro parere i nostri concittadini siano in grado di distinguere le notizie false da quelle vere: secondo quasi il 65% degli intervistati “gli altri” non sono capaci di differenziarle correttamente. Ma alla domanda successiva: “Lei personalmente è in grado di farlo?”, in questo caso la stragrande maggioranza è convinto di riuscire ad identificare la presenza di una fake news, mentre soltanto il 30% dichiara la propria difficoltà a farlo.

E il tema delle falsità che circolano in Rete non è certo marginale, capace com’è di influenzare i cittadini in scelte a volte cruciali, come quella elettorale. Nel corso dell’ultima campagna presidenziale Usa, si è stimato che siano circolate sul Web circa otto milioni di notizie false, contro i sette milioni di notizie corrette e verificabili. Una sproporzione quasi agghiacciante, ma che non desta particolari reazioni nei gestori delle diverse piattaforme social.

Ma qual è il motivo per cui il dato percettivo, emozionale è così rilevante? Perché oggi, nella costruzione della propria personalità, la piramide di un tempo si è quasi capovolta. Fino a qualche decennio fa, le credenze individuali e collettive si basavano in primo luogo sui tratti valoriali che venivano introiettati attraverso la socializzazione primaria e secondaria, difficilmente modificabili; su questi si costruivano i solidi atteggiamenti di base nei confronti delle strutture sociali esistenti, da cui derivavano le più aleatorie opinioni, suscettibili di possibili cambiamenti più rapidi, a seconda dei diversi accadimenti, e infine le emozioni, reazioni a volte effimere di fronte a notizie o dichiarazioni di diversi attori sociali.

Oggi, come si diceva, questa sorta di piramide appare sempre più rovesciata: avendo perso rilevanza la struttura valoriale, l’ideologia di fondo, in una società sempre più atomizzata, sono le emozioni, le percezioni, quelle che presiedono alla costruzione della propria personalità; su queste nascono le opinioni prevalenti, gli atteggiamenti e infine i valori di riferimento. Ma se le emozioni si basano su fake news, su dati inattendibili, ne consegue che si sedimentano e divengono prevalenti opinioni e atteggiamenti totalmente scollegati dalla realtà vera, che però vengono alimentate nel tempo da ulteriori fake news; queste ultime non “possono” venir smentite, pena la perdita dei propri ancoraggi e la conseguente confusione della propria soggettività.

Una volta costruita una echo chamber di riferimento, le false notizie vengono accettate supinamente per consolidare quella appartenenza, almeno fino al momento in cui nuove emozioni creeranno una nuova piramide. Se le opinioni sono volatili, tra i comuni cittadini così come tra gli stessi politici, non così la percezione di sé, che subisce una sorta di auto-inganno per conservare una ipotetica coerenza della propria personalità.

In un interessante esperimento effettuato qualche anno fa, si chiedeva agli intervistati la propria opinione su un tema che sarebbe stato discusso in un talk show televisivo. Una volta terminata la trasmissione, si riponeva agli stessi intervistati l’identica domanda, per verificare se la discussione televisiva avesse fatto mutare la loro opinione. A volte si registrava un cambiamento del 30-40% rispetto alla prima intervista ma, invitati a dichiarare se avessero cambiato opinione, soltanto il 3-4% affermava di averlo fatto.

La estrema volatilità elettorale, i repentini mutamenti nella fiducia per i diversi leader, il rapido cambiamento delle opinioni sui temi sociali e politici sono la evidente conseguenza della fragilità delle personalità individuali e collettive.

Le percezioni diffuse dunque sono le leve che permettono alle fake news di venir accettate come vere. Percezioni della realtà che, come si diceva, sono spesso scollegate dalla realtà stessa ma, nondimeno, tratteggiano una sorta di mondo parallelo su cui costruire le proprie opinioni, atteggiamenti e valori. E conseguenti comportamenti.

Qualche anno fa è stata effettuata da Ipsos un’indagine in contemporanea in 14 paesi, chiedendo a campioni rappresentativi delle rispettive popolazioni una serie di domande sulla situazione del proprio paese in merito a diversi temi. Infine, è stata calcolato un “indice di ignoranza”, derivato dalla distanza tra i dati reali e i dati percepiti dagli intervistati. L’Italia è risultata in prima posizione assoluta, seguita da Stati Uniti, Corea del sud e Polonia, mentre nelle ultime posizioni (cioè i cittadini più informati) si situavano Svezia, Germania, Giappone e Spagna.

Nella tabella seguente sono presentati i dati riguardanti il nostro paese, per i principali temi affrontati, che ci dipingono una cittadinanza con percezioni della realtà gravemente distorte, conseguenza evidente del combinato di fake news, credenze falsate e storytelling del mondo politico.




Gli italiani e la pandemia: più lungimiranti dei loro governanti

Un paio di decenni orsono, insieme all’amico e collega Giorgio Grossi, elaborai un indicatore che oggi è divenuto patrimonio comune di gran parte della ricerca demoscopica. Esso si basa sulla considerazione che, per capire l’approccio al voto da parte del cittadino-elettore, sia indispensabile considerare non soltanto il suo orientamento di voto individuale, ma anche la sua specifica “percezione” dell’ambiente che lo circonda, del clima pre-elettorale in cui si trova inserito.

È stato dunque predisposto un indicatore robusto e semplice nello stesso tempo, che consiste nella pura richiesta all’intervistato di cosa – a suo parere – sarebbe successo nelle elezioni considerate, cioè di chi avrebbe vinto. Insomma: l’elettore come oracolo. O meglio, l’insieme delle previsioni individuali come “predittore” del vincitore. Per questo, l’abbiamo etichettato con il termine di “winner”. L’utilizzo di questo indicatore si è dimostrato negli anni molto affidabile: sia applicandolo ad elezioni locali che ad elezioni nazionali, il campione di intervistati evidenzia costantemente capacità predittive talora superiori a quelle degli studiosi e ai responsi dei sondaggi demoscopici.

La storia di “winner” mi è tornata alla mente in questo periodo pandemico, rileggendo i risultati di diverse migliaia di interviste effettuate da Ipsos durante i mesi di giugno e luglio scorsi, perché anche in quel frangente i cittadini interrogati sul decorso futuro del Covid-19 parevano aver compreso, oserei dire molto prima e molto meglio di quanto abbiano fatto politici e governanti, che il virus non si sarebbe arrestato tanto facilmente. Un po’ come accade appunto con la corretta profezia del vincitore, la stragrande maggioranza della popolazione pareva aver fiutato che le cose non si sarebbero risolte tanto facilmente o tanto velocemente, come qualche leader partitico o qualche presidente di Regione aveva al contrario proclamato agli albori della scorsa estate con lo slogan: riapriamo tutto!

Alla semplice domanda sulla possibilità che nei 6 mesi successivi ci saremmo trovati nella condizione di fronteggiare una seconda forte ondata di contagi in Italia, quasi l’80% degli italiani rispondeva che la ripresa pandemica era molto o abbastanza probabile. E che occorreva prepararsi per tempo, non quando saremmo stati nella sua fase più acuta.

E alla questione successiva: “Secondo Lei l’allentamento del lockdown e le riaperture delle attività decise nelle scorse settimane faranno aumentare il numero di contagi in Italia?” soltanto uno sparuto 14% degli intervistati dichiarava che “il trend di diminuzione dei contagi proseguirà più o meno come in questi giorni estivi”. Certo, magari il comportamento di alcuni dei nostri connazionali non è stato adamantino, proprio in quel periodo, ma è indubbio che la lungimiranza dei cittadini interrogati fosse di gran lunga maggiore di chi ha il potere decisionale, che come è stato da molti sottolineato in questa situazione è stata piuttosto carente, se non del tutto deficitaria.

Infine, anche sulla proroga dello stato d’emergenza si dichiarava d’accordo il 78% del campione, per una durata di almeno tre mesi per alcuni, ma per molti ancora di più, fino a 6 od oltre i 6 mesi. Il senso di responsabilità degli italiani sembrava superare (anche) in questo frangente quello dei governanti, preoccupati al solito della consueta ricaduta elettorale. Non a caso, tra coloro che minimizzavano il pericolo, erano soprattutto gli elettori di Lega e Fratelli d’Italia, sospinti dai rispettivi leader di partito, a ribadire che il peggio era ormai alle nostre spalle, che il virus era definitivamente sconfitto, e che occorreva tornare alla vita di sempre. Potere dello “storytelling”!