Prodi superstar?

In tempo di vacche magre per la sinistra italiana, torna di moda il fattore-Prodi, l’unico leader (leggendario) che è stato in grado di vincere le elezioni contro il centro-destra e, in particolare, “il solo capace di sconfiggere Berlusconi per ben due volte”. Così è passato alla storia, come racconta buon ultimo anche Pierferdinando Casini nel suo libro recentemente pubblicato, il ricordo di quanto è avvenuto nel ventennio berlusconiano.

Che continua: “ci è riuscito per via di un suo carisma personale che gli ha permesso di intercettare e convincere una parte dell’elettorato moderato a considerarlo un’alternativa credibile”.

La leggenda rimane tale, ovviamente, perché il risultato è di fatto quello che viene citato. Nessun dubbio su questo. Ma ciò che viene sottaciuto è forse ancora più importante per comprendere fino in fondo le ragioni che hanno permesso questa duplice vittoria. Ragioni che non vanno certo a detrimento della persona di Romano Prodi, ma ci permettono di far luce sulle condizioni che hanno consentito di vincere e che, probabilmente, avrebbero funzionato anche con qualsiasi altro personaggio “credibile” al suo posto.

Detto in altre parole: l’elemento-chiave della vittoria non è stato tanto la presenza di Prodi, quanto piuttosto la particolare configurazione della competizione elettorale. È importante ribadirlo, in un momento di evidente problematicità per le opposizioni e per la sinistra in particolare, perché sottolinea la cronica difficoltà di quest’area politica di diventare maggioranza nel nostro paese.

Ma poi, furono davvero reali vittorie?

Nella prima occasione, quella del 1996, il centro-destra si era presentato privo di quell’alleato che sarebbe divenuto storico nel corso degli anni, cioè la Lega (allora solo Nord) che in quella sola occasione aveva optato per la corsa solitaria, dopo gli screzi tra Bossi e Berlusconi (definito da Bossi stesso in quegli anni “il mafioso di Arcore”). Prodi – investito della leadership della coalizione progressista – si presentò a quelle elezioni come capofila di un maxi-partito in cui erano presenti i popolari, i repubblicani, Unione Democratica e perfino i sudtirolesi; il suo risultato non fu certo eclatante: ottenne infatti soltanto un misero 6% di voti, una quota piuttosto minoritaria di quel 35% dell’intera coalizione dell’Ulivo.

D’altra parte, occorre evidenziare il fatto che nel voto per i partiti, nella parte proporzionale, furono quelli di centro-destra ad ottenere il maggior consenso – senza la Lega, come ho sottolineato – battendo quelli dell’Ulivo di circa otto punti percentuali. Soltanto sommando anche Rifondazione Comunista, che si era presentata separatamente peraltro, si arrivava ad un sostanziale pareggio.

Insomma, il primo esecutivo dell’Ulivo sarebbe restato in piedi soltanto con l’appoggio esterno di Bertinotti, il quale però, dopo molte ripetute minacce quasi giornaliere, quell’appoggio lo tolse, provocando le dimissioni dello stesso Prodi, dopo solo due anni di governo.

 

 

La seconda “vittoria” di Prodi avvenne nel 2006, dopo cinque anni di governo Berlusconi che avevano provocato il costante deterioramento della fiducia in lui da parte degli italiani: a gennaio 2006 l’apprezzamento nei confronti del leader di Forza Italia era dell’ordine del 20% circa, il più basso indice di gradimento nei suoi confronti nella sua intera storia elettorale e il più basso tra tutti i Presidenti del Consiglio uscenti in tutta la Seconda Repubblica.

E fu in questa condizione, di enorme vantaggio competitivo, che Prodi si presentò all’elezione come leader dell’Unione, in cui erano confluiti praticamente tutti i partiti che non stavano con Berlusconi, dal centro fino all’estrema sinistra, da Mastella a Bertinotti, dai pensionati fino alla lista dei consumatori.

Nonostante questa lunga lista di partiti e un livello di consenso per Berlusconi ai minimi termini, al Senato la coalizione guidata da Prodi perse in valore assoluto di circa 400mila voti, mentre alla Camera riuscì a strappare la vittoria (e quindi il premio di maggioranza) con uno scarto di appena 25mila voti, pari allo 0,07% dei voti validi.

L’esecutivo successivo fu ovviamente quasi catastrofico dal punto di vista della possibilità concreta di governare il paese, considerata l’estrema varietà dei partiti presenti e la scarsa omogeneità delle proposte e delle direzioni politiche. Dopo costanti tribolazioni, distinguo e minacce di abbandono, Prodi si vide costretto a rassegnare le proprie dimissioni dopo nemmeno due anni dal suo insediamento, verso nuove elezioni politiche.

Alla luce di questa breve disamina, si comprende meno il motivo per cui Romano Prodi viene ricordato come l’unico vero antagonista del centro-destra, l’unico capace di portare l’alleanza progressista al successo elettorale. Molti commentatori hanno addirittura sottolineato come l’Ulivo prima e l’Unione poi abbiano vinto “nonostante” Prodi, e come altri candidati avrebbero potuto far sicuramente meglio di lui nella performance elettorale, portando alla coalizione un valore aggiunto sicuramente superiore.

 

 

Come dire: Prodi è riuscito a vincere di misura in due occasioni “facili” dove altri leader, come Rutelli o Veltroni, avrebbero portato ad un successo più significativo e ad un successivo governo con una maggioranza più schiacciante, con maggiori possibilità di manovra e riforme politiche meno frutto di compromessi con gli alleati.

Ma le (comunque indubitabili) vittorie di Prodi vengono utilizzate oggi con il chiaro e specifico obiettivo di dimostrare come il fronte progressista possa battere il suo avversario solo con un occhio privilegiato al riformismo liberal-democratico più centrista rappresentato dallo stesso Prodi. Forse, la cosa più corretta da fare sarebbe quella di proporre una propria linea politica, senza addentrarsi troppo in analisi o costrutti teorici che, come ho cercato di mostrare, sono in parte privi di fondamento storico.




Gradimento di Sindaci e Governatori: le classifiche in-credibili

Il rapporto tra media e istituti demoscopici pare ormai essere diventato una sorta di gioco di ruolo: alcuni (non tutti, per fortuna!) sondaggisti spacciano determinati (inaffidabili) risultati con l’obiettivo di fare parlare di sé, mentre i media che li ospitano accolgono ben volentieri l’invito a veicolarli affinché si parli anche di loro, di chi li ospita, con tanto di successivo dibattito, tra gli esperti della materia, i politici e i commentatori.

Un circuito virtuoso, si diceva una volta; oggi potremmo parlare al contrario di circuito vizioso che si alimenta vicendevolmente. Chi ci va di mezzo sono soprattutto gli italiani, destinatari di informazioni a volte fallaci e, sebbene con meno evidenza o forse con meno interesse mediatico, il sapere e la scienza statistica.

Non occorre ricordare ancora una volta, biasimandolo, il consueto balletto delle stime sull’orientamento di voto: con cadenza settimanale, i quotidiani o i programmi televisivi parlano di grandi miglioramenti o peggioramenti per partiti che guadagnano o perdono 0,2-0,3 punti percentuali, quando nella realtà statistica si tratta di incrementi o decrementi inesistenti, una o due persone in più o in meno per quel partito.

Battaglia persa, me ne rendo conto, ma quanto meno i dati presentati, loro sì, sono corretti. È la loro amplificazione apodittica che è quantomeno fastidiosa alle orecchie di un metodologo o di uno statistico…

Abitudine diffusa, peraltro. Ricordo un uomo politico che, di fronte ad un sondaggio pre-elettorale che dava i due contendenti distanziati di 0,2%, ebbe il coraggio di chiedermi: sì, ma per chi?

A volte però capita qualcosa di più che fastidioso, che veicola informazioni approssimative e non attendibili, sulle quali si aprono dibattiti piuttosto surreali anche tra i partiti politici, basati sul nulla, o quasi. L’ultimo esempio in ordine di tempo di questo “fenomeno” è il sondaggio pubblicato dal Sole24ore lunedì 7 luglio, l’annuale rilevazione “Governance Poll”, in cui veniva presentato un dato chiamato “indice di gradimento” per 97 sindaci di capoluoghi di provincia e 18 Presidenti regionali.

Iniziamo proprio da questo indice, come viene appunto definito. Cos’è esattamente? Non è ben chiaro. Nella esaustiva scheda tecnica (troppo esaustiva, purtroppo per l’Istituto responsabile dell’indagine, sarebbe stato forse meglio restare sul vago…) viene correttamente riportata la domanda posta agli intervistati: “Le chiedo un giudizio complessivo sull’operato del sindaco (o del presidente della regione). Se domani ci fossero le elezioni comunali (o regionali), lei voterebbe a favore o contro l’attuale sindaco (o presidente della regione)?”

Tralasciamo qui, per non appesantire il discorso, il fatto che molti dei sindaci o presidenti sono al secondo mandato e quindi non possono essere più votati. Ma in questo caso il senso è comunque chiaro…

Quello che invece non funziona è invece il fatto che questo è un tipo di domanda che, nei manuali delle survey, viene etichettata come “double-barreled”, vale a dire una doppia domanda con una sola possibile risposta. Qui le domande sono appunto due: la prima riguarda il giudizio sull’operato, la seconda l’orientamento di probabile voto. Se sono un cittadino veneto vicino al centro-sinistra, posso anche essere abbastanza soddisfatto di come ha governato Zaia ma certamente non lo voterei. O viceversa, se fossi un cittadino di centro-destra in Campania. Quindi: a quale domanda rispondo? Non si sa.

Viene poi presentato un approfondimento, anch’esso alquanto singolare: si confronta in maniera puntuale questo fantomatico indice di gradimento con il risultato fatto registrare da ciascun sindaco (o governatore) alle elezioni in cui è stato eletto! Sì, avete letto bene: come si diceva alle elementari, si paragonano le mele con le pere. Cosa possa c’entrare il gradimento attuale con la scelta elettorale di qualche anno addietro non è chiarissimo.

La competizione elettorale, inutile soffermarci più di tanto, ha delle dinamiche sue proprie e dipende spesso dai contendenti in lizza; ha poco a che vedere con questo indice di gradimento, oltretutto perché il confronto viene fatto non con il risultato del primo turno, che porrebbe tutti allo stesso livello, ma con quello che ha determinato la vittoria.

Un esempio chiarisce il punto: il sindaco di Bari, Vito Leccese, ha ottenuto il 48% al primo turno (con 4 candidati) ed è stato eletto al ballottaggio con oltre il 70%, quando i contendenti erano ovviamente soltanto due.

Nella tabellina pubblicata, Leccese risulta in deficit di gradimento di quasi 10 punti, avendo ottenuto un indice di 61, ma se l’avessimo confrontato con il dato del primo turno, risulterebbe più “gradito” di ben 12 punti. Il risultato al ballottaggio è sempre ovviamente più alto del primo turno: ne risultano svantaggiati, in questo particolare (e poco sensato) procedimento, coloro che sono stati eletti al secondo turno.

Una distorsione che, per fortuna, non sussiste almeno per le elezioni regionali, dove il turno è stato unico dovunque e quindi da questo punto di vista il paragone è corretto.

Fin qui dunque le distorsioni nel merito del sondaggio effettuato. Veniamo ora al metodo, che certamente richiede un surplus di fiducia nei confronti dell’Istituto di ricerca che ne è responsabile.

Partiamo dalla numerosità campionaria, che viene indicata in 1000 individui intervistati nelle regioni e in 600 nei capoluoghi. Possiamo supporre, benché in questo caso non ci venga fornito il dato puntuale (che sarebbe obbligatorio inserire nella scheda metodologica, peraltro non presente nell’apposito sito “Sondaggi

politico-elettorali”), che le non-risposte siano – per difetto – nell’ordine del 15%. Le interviste valide sarebbero 500 circa per comune, da Milano fino ad Enna.

Il famoso “intervallo di confidenza”, cioè il margine di errore delle stime presentate, è dell’ordine di +/- 4%. Se ottengo una stima del 51%, il risultato “vero” si situa dunque in un intervallo compreso tra il 47% e il 55%.

Se andiamo a controllare la tabella pubblicata, possiamo notare facilmente come tutte le stime di gradimento dei 97 sindaci (tranne in 12 casi) sono comprese proprio tra i 47 e i 55 punti percentuali. Il che significa, in parole semplici, che possiamo essere certi solamente dell’eccellenza dei primi 7 e della relativa insufficienza degli ultimi 5 in classifica.

Di tutti gli altri sappiamo poco di più, al di là di quell’intervallo di valori possibili. Certo, se un sindaco o un governatore ottiene un punteggio di 55 e un altro quello di 47, possiamo correttamente pensare che il primo stia molto probabilmente davanti al secondo, ma non sappiamo esattamente di quanto. Così alla fine la cosa più corretta da fare sarebbe quella di presentare una classifica “senza” il dato puntuale, ma soltanto con un raggruppamento in classi, tipo “tra 45 e 50, tra 50 e 55”, e così via. Non si perderebbero informazioni essenziali mentre si eliminerebbero quelle imprecise od erronee.

Ma è l’ultimo elemento di questo sondaggio che rende perplessi tutti gli osservatori neutrali: l’elevatissimo costo dell’intera operazione. Vediamo brevemente in cosa consistono le perplessità: come riportato, sono stati intervistati 600 individui in 97 comuni e altri 1000 nelle 18 regioni, per un totale di 76.200 casi, in parte online (web survey) in parte al telefono (Cati).

Normalmente, il costo di ognuna delle interviste, in media tra i due metodi, è stimabile in almeno 4 euro l’una. Senza voler fare i conti in tasca né al committente né all’Istituto che ha realizzato le interviste, se tutte le interviste sono state effettivamente effettuate, si tratta di un costo complessivo di almeno 300mila euro. Liberi di credere se questo sia stato un investimento, chiaramente in perdita, oppure no.

Università degli Studi di Milano




Calcio, sondaggi e Meloni

Sappiamo che i risultati dei sondaggi sono come quelli delle partite di calcio: si vive alla giornata. Titoloni sui giornali, online o cartacei, che sottolineano la debacle di Fratelli d’Italia o del Partito Democratico se questi indietreggiano di 0,2% nelle rilevazioni demoscopiche settimanali.

Oppure: “Fuga in avanti di Forza Italia!”, se il partito migliora di 0,3% rispetto a sette giorni prima.

Gli statistici, i metodologi, i politologi sorridono increduli: loro sanno bene che esiste una cosa chiamata “intervallo di confidenza”, qualcosa che riguarda il margine di errore di un campionamento, che con un migliaio di interviste si situa solitamente attorno almeno al 2-2,5%. E peraltro sarebbe bene che lo sapessero – o lo dicessero, se lo sanno – anche i giornalisti, togliendo quei ridicoli punti esclamativi dai loro commenti.

Con un margine di errore almeno del 2%, non ha nessun senso affermare che un partito indietreggia o avanza di 0,2-0,3%, dato che sono tutti incrementi o decrementi falsi, che stanno tutti appunto all’interno del margine di errore statistico. Bisognerebbe apparire in tv al lunedì sera e raccontare agli italiani: nessun cambiamento dalla scorsa settimana per quanto riguarda le stime del comportamento di voto degli elettori intervistati. Stop. Poco appealing, vero? E quindi si perpetra questa abitudine un po’ insensata di attribuire tramonti o rinascite a questo o a quel partito. Come nel calcio, appunto.

Anche nel campionato di calcio i titoli dei giornali risentono infatti in maniera quasi pavloviana dei risultati dell’ultima giornata: se la Juve batte l’Inter una certa domenica, questo è ovviamente il simbolo di una chiara rinascita della compagine bianconera, ma se sette giorni dopo gli capita di perdere, allora torna di nuovo il mantra: non è che il segnale di una evidente rovina.

Ogni partita, come ogni sondaggio, ci racconta una storia che può essere ribaltata sette giorni dopo, da un risultato negativo o positivo, da un incremento o da un decremento di 0,2% nelle dichiarazioni di voto. Fotografie, istantanee che ci raccontano un momento, solo un episodio di un lungo campionato, di una tendenza elettorale di medio-lungo periodo.

Con una differenza: nel calcio, nel campionato di calcio, per fortuna esiste anche la classifica, che ci rende edotti del rendimento di ogni squadra dall’inizio della stagione. Se il Monza o il Parma vincono una partita, possiamo gioire per loro, ma non dimentichiamo cosa è accaduto nelle precedenti giornate, relegandole nelle ultime posizioni. La storia, cioè, è ben chiara.

Per la politica molto spesso non è così. Prendiamo ad esempio la fiducia in Giorgia Meloni: nella consueta rilevazione settimanale, ad esempio, possiamo scoprire che il suo consenso è cresciuto dello 0,3% rispetto al precedente sondaggio, passando dal 40,2% al 40,5%. Bene, diranno gli elettori di centro-destra. Male, diranno quelli di centro-sinistra. Punto interrogativo, dirà lo statistico.

Al di là del risultato di giornata, non possiamo certo comprendere com’è lo stato di salute della Presidente del Consiglio da un solo dato, da un incremento o un decremento di una sola settimana. Pare in miglioramento, negli ultimi giorni, essendo cresciuta di qualche frazione decimale, però lo statistico, per il noto problema dell’errore di campionamento, sa bene che non può certo pronunciarsi. Ha bisogno della “classifica”, che nel nostro caso si chiama trend, o tendenza, in italiano. Qual è dunque il trend della fiducia di Giorgia Meloni?

Per rispondere, occorre andare a riprendere i risultati dei sondaggi (anche settimanali, perché no?) almeno degli ultimi cinque anni, per comprendere se e quanto la sua figura nel medio periodo susciti o meno approvazione. Ecco, dunque, ciò che ci dicono le rilevazioni demoscopiche.

Fino al momento della sua vittoria nelle ultime elezioni politiche, diciamo tra il 2020 e il 2022 Meloni aveva un livello di fiducia intorno al 36-37%, con qualche picco più alto o più basso. Dopo il suo successo elettorale, divenuta Presidente del Consiglio, i consensi sono aumentati fino alla cifra record del 58%, alla fine del 2022, vale a dire nel periodo della consueta luna di miele tra elettorato e vincitori delle elezioni. Per tutto l’anno successivo, l’indice è rimasto posizionato ben sopra l’asticella del 50%: oltre la metà degli italiani forniva su di lei una valutazione positiva. Infine, a cominciare dai primi mesi del 2024 fino ad oggi, i consensi si sono progressivamente contratti, più o meno nell’ordine di un punto al mese, 10-12% in meno in un anno, per giungere al dato attuale di poco superiore al 40%, che avevamo anticipato più sopra.

E da qui si può facilmente arguire come i giudizi rispetto a Giorgia Meloni appaiono, da almeno un anno, in relativo peggioramento. E sono soprattutto gli elettori “centristi” e gli indecisi coloro che hanno progressivamente perso fiducia nei suoi confronti. Questo è dunque il modo corretto per intendere le valutazioni degli elettori all’interno delle rilevazioni demoscopiche e così dovrebbero venir divulgate: un sogno che, temo, non si realizzerà mai.

Università degli Studi di Milano




Il dilemma del Partito Democratico

Come ogni anno dal 1948 in poi, il partito della “sinistra”, si chiami PCI o PDS o PD, si trova davanti ad una scelta importante, se non decisiva: correre in solitaria o quanto meno con le sole forze a lui affini, con il forte rischio di perdere, oppure fare alleanze, con il forte rischio di snaturare la propria proposta politica e con l’ulteriore rischio di perdere comunque.

La storia elettorale, da quel primo appuntamento in poi, ci dice che la prima scelta – la corsa più o meno solitaria – non è mai risultata vincente, né con le leggi più o meno maggioritarie degli ultimi trent’anni né, tantomeno, con quelle proporzionali della Prima Repubblica.

Il massimo storico del PCI è giunto nel 1976, con oltre il 34% dei voti, distanziato comunque di oltre 4 punti alla Camera e di 5 al Senato dalla Democrazia Cristiana e impossibilitato a formare una coalizione di governo maggioritaria, nemmeno con l’appoggio di tutte le altre formazioni di area social-comunista (dal Psdi a Democrazia Proletaria). Nell’epoca maggioritaria, Veltroni tentò la strada (quasi) solitaria nel 2008, raggiungendo una quota molto simile di consensi, che risultò comunque una debacle molto simile – anche se meno “cocente” dal punto di vista numerico – a quella antica del 1948.

Quello fu infatti l’anno della prima corsa solitaria, con la fusione elettorale con il Partito Socialista, che si trasformò appunto in una netta disfatta, con una quota di consensi di quasi venti punti percentuali inferiori alla Dc. Un primo evidente monito di quale potesse essere la scelta migliore, dal momento che solo due anni prima Pci e Psi, che correvano separati, ottennero sommandoli una percentuale di seggi e di voti nettamente superiore al loro principale avversario politico.

L’unica altra occasione in cui la “sinistra” risultò superiore alla “destra” unita (come noto, nel 1996 la Lega correva da sola) nella storia elettorale italiana avvenne nel 2006, quando Romano Prodi riuscì per pochi voti a battere Berlusconi ed il centro-destra grazie ad una coalizione dove vennero imbarcati tutti, ma proprio tutti, gli oppositori ai governi di Forza Italia. Una coalizione, è bene sottolinearlo, che ebbe comunque vita molto breve, di nemmeno due anni.

La storia ci racconta dunque che per vincere, sia pur di poco, la sinistra non può non allearsi con qualche altra forza politica. L’attuale Partito Democratico non era competitivo nemmeno quando, con Veltroni, viveva un momento di “euforia” da stato nascente. Oggi, ridotto al massimo al 25% dei consensi per essere ottimisti, certamente non può pensare di essere competitivo correndo in maniera solitaria.

D’altra parte, tra i suoi partner ideali al momento sembra esserci soltanto l’alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana (AVS), che può garantirgli un altro 5-6% che lo porterebbe intorno ad un terzo dell’elettorato votante attuale. Certo non sufficiente. Ha bisogno dell’appoggio di un’altra importante forza politica, che attualmente è rappresentata dal solo Movimento 5 stelle che, se fosse in salute, potrebbe garantire al Pd quell’ulteriore percentuale di voti da permettergli di diventare maggioranza.

Ma il problema è duplice: da una parte il M5s è chiaramente in crisi elettorale e, dall’altra, la possibile alleanza è piena di “buchi programmatici” di difficile risoluzione. Che fare dunque?

Una strada alternativa, ventilata da più esponenti in questi giorni, da Orvieto a Milano, potrebbe essere quella di far nascere una nuova formazione politica in grado di raccogliere il voto (il ritorno al voto) di tutti coloro che non si riconoscono pienamente nell’attuale Pd: cattolici di sinistra, lib-dem, centristi contrari al governo Meloni, astensionisti stufi di questa alleanza di destra.

I numeri parlano chiaro: è questa la sola ipotesi che può permettere alla sinistra di diventare competitivi con la destra, anche se è un’ipotesi che non piace a coloro che credono nelle capacità del Partito Democratico di incarnare – anche in solitudine – la vera alternativa all’attuale esecutivo. Ma se il Pd non è sufficientemente attrattivo, da solo non può farcela.

Università degli Studi di Milano




La coerenza non è più una virtù, né tra i politici né tra gli elettori

Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, per non credere (troppo) alle opinioni che vengono espresse in una indagine demoscopica.

Uno di questi motivi, che diventa talvolta cruciale nel campo della comunicazione politica, è quello della mancanza di opinioni “costanti” da parte degli elettori: nell’epoca in cui regnavano incontrastate le ideologie, esisteva una sorta di pensiero esclusivo, opinioni e atteggiamenti pressoché costanti nell’accostarsi ai fenomeni sociali o politici, guidati dalla propria ideologia, dalla
propria visione del mondo, che difficilmente mutavano: parallelamente alla fedeltà di voto, rimaneva fedele anche il modo di vedere le cose, di manifestare la propria adesione quasi incondizionata ad una scelta specifica. Come cantava Giorgio Gaber: “Mio nonno si è scelto una parte che non cambia in ogni momento, voglio dire che c’ha un solo atteggiamento” (Gaber, G., Il
comportamento, 1976). Ma poi, con la fine delle ideologie, con la secolarizzazione, con il costante aumento dei mezzi di
informazione e di comunicazione (soprattutto sul Web), con il progressivo indebolirsi delle tradizionali agenzie di socializzazione primarie e secondarie (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), con la atomizzazione lavorativa e dei rapporti individuali le cose sono cambiate. La frammentazione delle esperienze e l’atomizzazione sociale rendono l’individuo più debole nelle sue certezze più
profonde, e propenso a sperimentare identità e opinioni differenti, in una sequenza sempre più rapida e per forza di cose più superficiale. Così, in questo periodo politico-sociale, le possibili visioni del mondo si fanno sempre più labili, aleatorie, preda della “narrazione”, dello story-telling dei leader politici che, anch’essi, cambiano repentinamente idee e opinioni a seconda delle conseguenze o dei mutati scenari politici.

È forse Matteo Salvini l’emblema più riconosciuto dell’incoerenza nel tempo delle proprie opinioni, l’uomo politico che più si è rimangiato affermazioni apodittiche su molti argomenti. Nel corso dell’ultimo decennio, sono state parecchie le idee da lui espresse su alcuni temi che verranno completamente ribaltate dopo poco tempo. Tra i numerosi ultimi esempi, quello sul
ponte sullo Stretto: pochi anni orsono il segretario leghista si era dichiarato fermamente contrario alla sua costruzione, mentre da qualche mese continua – ai giorni nostri – ad esserne il principale sponsor. Ancora più ravvicinato nel tempo il cambiamento di opinione sull’abbassamento dei limiti di velocità nelle grandi città: giusto un anno fa ha indicato come prima cosa “l’implementazione di zone 30”, al fine di “mitigare le differenze di velocità esistenti tra pedoni e traffico motorizzato”; oggi si scaglia in maniera veemente contro Bologna, in particolare, paradossalmente rea di aver aderito e applicato proprio la sua direttiva. Un comportamento che somiglia molto allo stesso trasformismo della Lega, tempo fa soltanto “Nordista” e con una netta ostilità nei confronti della destra estrema e neo-fascista, oggi coalizzata con tutte le forze politiche europee di quell’area: una “Lega Nazionale”. Ma poi ancora, dopo il recente provvedimento sull’autonomia differenziata, paiono ritornare presenti le “bandiere” regionaliste, in un continuo ribaltamento degli accenti. Ma ammettiamo pure che un leader politico possa mutare opinione su una serie di argomenti, spesso difendendo questo mutamento con l’idea che soltanto gli stolti non cambiano mai idea, il che è tutto da dimostrare, peraltro.

La cosa però interessante, e forse un po’ preoccupante, è che nel tempo anche il suo elettorato tenda poco alla volta ad uniformarsi anch’esso alla “nuova” opinione che professa il suo partito o il suo segretario. Gli esempi che si possono fare sono alquanto indicativi, e non riguardano soltanto Salvini e il suo partito, ma anche molte delle altre forze politiche. Il Partito Democratico, ad esempio, quando nel 2019 venne ratificato il Reddito di Cittadinanza, votò a sfavore con dichiarazioni molto pregnanti e sdegnate, come se fosse un’elemosina di stato; poi nell’ultimo anno, quando il governo Meloni lo abolì, si schierò al contrario contro l’abolizione, anche in questo caso con prese di posizione molto sdegnate. Ebbene, l’elettorato del PD nel corso degli ultimi tre-quattro anni ha progressivamente mutato anch’esso il proprio pensiero, passando da un livello di favore per il reddito di cittadinanza del 25% nel 2020 alla quota del 70% espresso nel momento della sua abolizione del 2023 (Tab.1).

Tab. 1 – GIUDIZIO SUL REDDITO DI CITTADINANZA – ELETTORATO PARTITO DEMOCRATICO

 

 

 

Allo stesso modo, le opinioni prevalenti nell’elettorato Pd qualche settimana dopo l’invasione russa (marzo 2022) parevano nettamente contrarie all’invio di aiuti militari all’Ucraina, mentre oggi la stragrande maggioranza, dopo la costante campagna favorevole del partito, è dell’idea praticamente opposta (tab.2).

Tab. 2 – SOSTENERE LA RESISTENZA UCRAINA FORNENDO AIUTI MILITARI ELETTORATO PD

 

 

 

L’elettorato del Partito Democratico, ovviamente, non è certo il solo a venir condizionato così fortemente dalle giravolte dei vertici di partito. Sempre a proposito della guerra in Ucraina, gli elettori vicini al Movimento 5 stelle erano inizialmente allineati con il resto degli italiani nell’appoggiare l’impegno ucraino nella resistenza contro l’invasione russa (78%); passati alcuni mesi, con la ripetuta presa di posizione di Giuseppe Conte contro il coinvolgimento italiano, la maggioranza dei pentastellati passa in maniera evidente su posizioni “equi-distanti”, molto più favorevoli ad un abbandono delle armi da parte degli ucraini (72%), rispetto al passato.

Ma il caso certamente più eclatante di cambiamento di opinione è quello degli elettori di Fratelli d’Italia, da sempre contrari – con una maggioranza vicina al 65% – a restare nella UE e nell’orbita Euro, ma approdati dopo la svolta atlantista ed europeista di Giorgia Meloni alla rapida accettazione di entrambi gli obiettivi. Una situazione molto simile a quella dei simpatizzanti per il
Movimento 5 stelle, protagonisti di una veloce trasmigrazione dal No-Euro al Sì-Euro, sebbene rimanga ancora qualche remora, nel 20-25% degli attuali votanti di Giuseppe Conte (Tab.3). Per tacere infine sulle opinioni relative alla guerra in Ucraina o sul conflitto tra Israele e Hamas, opinioni mutevoli a volte solamente per avallare mutazioni di convenienza politica.

Tab. 3 – FAVOREVOLI ALLA PERMANENZA DELL’ITALIA NEL SISTEMA DELL’EURO , IN %

 

 

 

Una situazione come si è visto abbastanza paradossale: se i leader politici cambiano spesso idea per motivi più che altro tattici o strategici, non certo per profonde conversioni, rimane piuttosto difficoltoso comprendere queste stesse ri-conversioni in cittadini, uomini e donne, che non sono chiamati a rispondere in prima persona a progetti o alleanze tra le forze politiche che a volte
“impongono” queste micro-rivoluzioni di pensiero. È come se gli elettori non avessero maturato opinioni nel profondo e, solamente, si adeguino a ciò che per loro decidono i loro partiti di riferimento: una volta, si diceva che questi ultimi “dettavano la linea” cui occorreva adeguarsi, rinunciando alle proprie idee, se per caso ci fossero state. Pensiamo ad esempio all’evidente
conflitto sul divorzio che esisteva tra elettori democristiani (ma anche comunisti) e vertici di DC e PCI.
Ma se allora esistevano ancora Weltanscauung, visioni del mondo forti, solide e discriminanti, oggi pare che gli elettorati di (quasi) tutte le forze politiche, senza più grandi ideologie di riferimento, siano in balìa dello storytelling dei propri leader, a volte in perenne mutazione.

Fonte dei dati: Ipsos