Punire quanto ci fa soffrire!

Giorni fa (2 maggio 2019 ndr), è comparsa la notizia che si abolivano le note e le sospensioni alle scuole elementari. Pare fosse un semplice adattamento alla normativa già vigente alle superiori, ma ha scatenato un ripullulare di opinioni e dibattiti sul tema punizioni a scuola, e più in generale teorie educative. Ben venga, non mi sottraggo.

Punizione è una parola che oggi non ci piace per niente e pronunciamo malvolentieri. Bizzarro che invece la tolleriamo benissimo nel mondo calcistico: pare normale che ai giocatori l’arbitro affibbi punizioni, ad esempio in presenza di un fallo. Ma a parte lo sport che, si sa, è un altro mondo, non credo di generalizzare dicendo che la posizione della stragrande maggioranza è contraria a ogni sanzione che abbia anche il più tenue sentore punitivo. “Non credo alle punizioni” è frase consueta, ripetuta. Quante volte l’abbiamo sentita pronunciare intorno a noi?

L’ultima volta mi è capitato, appunto, pochi giorni fa proprio in riferimento all’abolizione delle note a scuola. Una mia lettrice, madre di due figli, mi comunica il suo entusiastico accordo, e scrive esattamente la frase: non credo alle punizioni. Per la prima volta mi sono fermata. Mi sono chiesta cosa vogliano dire davvero le parole non credo alle punizioni. Naturalmente è implicito un verbo, una frase subordinata, un’oggettiva: non credo che le punizioni servano a qualcosa. Ecco, così è più chiaro il senso.

Ma in che cosa dovremmo credere? E a che cosa dovrebbero servire le punizioni? Be’, è piuttosto evidente, vorremmo che si producessero due effetti. Il primo, esterno, oggettivo e immediato: che tu non ripeta il “fallo” per cui sei stato punito; il secondo, soggettivo, a lento rilascio, e pertinente alla sfera dell’anima: che dentro di te avvenga una riflessione che ti condurrà a essere una persona migliore.

A nessuno, però, piace infliggere punizioni. Punendo ci si prende un rischio, e si paga un prezzo. La persona punita infatti potrebbe arrivare a odiare il suo punitore. E la prospettiva dell’odio altrui ovviamente ci disturba.

Ogni volta che anche solo imponiamo qualcosa, o che ci imponiamo all’altro (contrapponendogli la nostra opinione, o facendo valere una regola, un diritto) ci esponiamo all’altrui disapprovazione. Diventiamo antipatici, odiosi. Creiamo fastidio.

Faccio tre esempi. Al ristorante, mandiamo indietro una bottiglia perché il vino sa di tappo. Per strada, vediamo una persona che butta una cicca in terra e le diciamo per favore di raccoglierla (possiamo anche aggiungere un rimprovero esplicito). In casa nostra, alle nove di sera ordiniamo a nostro figlio di smetterla coi videogiochi e andare a dormire.

Tre esempi in cui è chiaro che ci imponiamo. Imponiamo la nostra presenza nel mondo, la nostra azione (vorrei dire la nostra autorità, ma so che la parola creerebbe ulteriore disagio). In tutti e tre i casi dimostriamo di non essere passivi, indifferenti, apatici, sornioni, inattivi, silenti. Diciamo, facciamo. Esprimiamo con forza il nostro parere e esigiamo un certo comportamento dagli altri. Cioè, interveniamo (interferiamo?).

Opinione personale: credo che tutto ciò migliori il mondo. Ad esempio se avessimo richiesto con forza all’umanità intera (sanzionandola o anche punendola) di non buttare bottiglie di plastica in mare, adesso l’isola galleggiante d’immondizia nel Pacifico, il Pacific Trash Vortex, non esisterebbe.

Non voglio, con ciò, in nessun modo esortare alle punizioni. Direi soltanto che forse dovremmo avere il coraggio, ove occorra, di sobbarcarci l’onere di punire. In fondo non è che il gesto successivo alla esposizione di una regola, di una legge, di un divieto. Un gesto ulteriore, comparativo di oltre; o ancor meglio il suo superlativo, ultimo. La punizione come ultimo, “più lontano” gesto…

Mi spiego meglio, torniamo all’esempio del bambino a cui diciamo di andare a letto alle nove. Glielo ripetiamo una volta, due. Alla terza, se lui ancora si ostina a non obbedire (altra parola tabù), che si fa? In genere il genitore di oggi apre allo spazio di una contrattazione infinita, convinto che si debbano educare i figli attraverso l’uso della ragione e della logica più stringente (e questo è il lato positivo: stiamo insegnando ai nostri ragazzi la sublime e raffinata arte oratoria delle suasoriae e controversiae). D’accordo. Ma come ne usciamo? Il ragazzino otterrà di non andare a dormire alle nove? Molto probabilmente si concluderà con un compromesso: lui proponeva le dieci, noi le nove, dunque andrà a letto alle nove e mezza. Mezzora in più, niente di tragico. L’unico tarlo è che, così facendo, affermiamo indubitabilmente il concetto che non c’è mai legge definita, ovvero che ogni legge è discutibile, controvertibile, di fatto aggirabile. Non sarebbe meglio affermare una regola (si va a letto ogni sera alle nove), e poi applicare una (lieve) punizione (domani non andrai a giocare da Francesco) nel caso il figlio non la rispetti?

Vietando di punire, accettiamo di rinunciare alle richieste che abbiamo appena fatto, più in generale ai principi, alle regole che enunciamo e che ameremmo veder rispettate. È come dichiarare che non ci teniamo abbastanza, che forse non ci crediamo nemmeno noi: sì, figlio mio, ti ho appena detto di andare a dormire alle nove (perché è per il tuo bene, hai bisogno di dormire molto, domani ti sveglio presto perché devi andare a scuola), ma, visto che tu non sei d’accordo e non cambi idea nemmeno di fronte alle ragioni che ti espongo con rigore logico adamantino, va bene, allora recedo dalle mie convinzioni, annullo la regola che ti ho appena esposto, mi contraddico, calpesto la mia stessa autorità, vengo a compromessi, accetto il tuo punto di vista e le tue preferenze. Preferisci andare a dormire più tardi? E va bene, fai come vuoi.

Che fatica! Mi affatico anche solo a scriverla, una scena simile, figuriamoci a viverla! La punizione sarebbe anche un modo per tagliar corto: ultimo gesto, basta con le sceneggiate estenuanti: io ti punisco (non ti mando a giocare da Francesco), tu patisci questo (piccolo) dolore, ne tieni memoria, impari il concetto e non ripeti il comportamento: vai a dormire alle nove. Semplice. E riposante. Cosa c’è che non va?

C’è che punire ci fa molto soffrire. È entrare in uno stato di conflitto che non siamo capaci di sostenere. Dopo aver inflitto una punizione, siamo scontenti di noi, pensiamo a come deve sentirsi l’altro, al male che gli abbiamo fatto e ci chiediamo perché abbiamo agito così, e se non era evitabile. Sapere che il colpevole soffre a causa nostra ci è insopportabile. Non punire, dunque, è pensare (soprattutto) al nostro bene. È un gesto egoistico e salvifico, salva noi stessi da un abisso di domande, dubbi, pentimenti e insoddisfazioni.

Inoltre punendo ci sentiamo immediatamente dalla parte sbagliata dell’umanità, gli unici che ancora persistono in questa pratica ignobile e datata. Ecco un ulteriore aspetto negativo: la punizione ai nostri occhi appartiene al passato, a un tempo remoto che viene automaticamente bollato come incivile. In effetti, noi degli anni ’50 siamo stati, a volte, puniti. Abbiamo preso qualche schiaffetto o sculacciata. Ma, a una rapida e superficiale occhiata ai miei coetanei, non mi pare che questo abbia prodotto “guasti” rilevanti, scatenato odi profondi, disagio psichico o difficoltà nelle relazioni interpersonali.

Il malessere che proviamo punendo è dunque il segno che è sbagliato punire? O è la spia che oggi rifuggiamo da tutto ciò che ci fa provare malessere?

Benessere è la parola clou dei nostri tempi. Abbiamo eretto i più svariati templi alla religione del benessere, fisico e mentale: centri massaggio, terme, palestre, corsi di meditazione, spa. Abbiamo imparato a vivere meglio pensando di più a noi stessi: lavorare meno, fare più viaggi, mangiar fuori, prendere l’aperitivo. Specularmente, sappiamo di dover evitare il male-essere, tutto ciò che ci fa vivere male: stress, ansia, superlavoro, solitudine. Il proprio piacere innanzi tutto, il dovere meno che mai. Punire è un dovere (sociale, innanzi tutto), che produce malessere.

Quand’ero insegnante ho dato poche note, direi soltanto quando mi sentivo impotente e disperata di fronte a comportamenti intollerabili dei miei allievi: sapevo che niente e nessuno sarebbe venuto in mio aiuto, quindi brandivo la spuntata arma della nota. Dare note è avvilente, e svilente: svilisce il nostro operato, intacca la nostra fiducia nel potere della parola persuasiva e nella capacità umana di capire gli sbagli. Ma è anche l’unico strumento rimasto, l’unico modo visibile di reagire, di non subire, di mostrare al resto della classe (e alle famiglie) che esiste ancora un barlume di ordine morale, con regole definite.

So che molti pensano che dare una nota sia come ammettere il proprio fallimento di educatore. Ma non sono d’accordo. Penso che dovremmo prenderla in un modo più tranquillo e sereno, più sul tecnico-oggettivo: ispirandoci davvero alla semplice chiarezza del regolamentato mondo del calcio. La nota è molto simile a una ammonizione: è il cartellino giallo mostrato al calciatore colpevole di un fallo. Gesto chiaro e immediato. Direi un rito abbreviato. E anche indolore: nessuno muore, nessuno si offende. Al massimo, se per due volte un calciatore viene ammonito, il cartellino giallo diventa rosso ed egli verrà espulso dal campo. Tutto lì, poi a un certo punto rientra… D’altronde, ce lo immaginiamo un arbitro che in piena partita, invece di ammonire, convoca il giocatore e per un quarto d’ora gli spiega dove e perché ha sbagliato?

Una volta, alle medie, mi capitò di prendere una nota. Avevo dimenticato a casa un quaderno. Uscii da scuola quel giorno provando una enorme vergogna. Mi chiedo se oggi un ragazzo che prende una nota vada a casa con un po’ di quella vergogna. Mi auguro di sì, ma non ci giurerei. Una nota oggi sortisce il seguente, unico effetto: che il genitore si precipiti immediatamente al “colloquio parenti” e, molto risentito, esiga una spiegazione dall’insegnante (non certo dal figlio). E, a meno che il suddetto allievo non prenda un numero spropositato di note, tutto finisce lì.

Alla fine, cara signora che mi scrive, la vera domanda che mi sta a cuore è la seguente: siamo sicuri di voler esimere i nostri figli dal sentimento, certo sgradevole e doloroso ma anche molto benefico, della vergogna di sé, di quella insoddisfazione del proprio operato, da cui però poi sgorga il desiderio di riscattarsi, comportarsi bene, presentare agli altri la parte buona di sé? Siamo sicuri che provare almeno un po’ questo sentimento di – come possiamo dire? – contrizione, non li potrebbe aiutare a migliorare, come studenti, come cittadini, come esseri umani nel mondo?

Non so. Per quel che mi riguarda, non sono sicura di niente. Ma se ancora facessi l’insegnante, qualche nota ogni tanto la metterei.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 26 maggio 2019



Autenticità o cultura?

Ho riletto L’immoralista di Gide.

Tempo di riletture, da qualche anno. Si rivede la vita, alla mia età, quindi, perché no?, si rivedono anche i libri letti. Spesso non si ricorda d’averli letti e si scopre a un certo punto, magari dopo pagina 100, una sottolineatura, un appunto in margine a matita. E allora s’infila in noi l’orrendo sospetto d’aver già compiuto la lettura di quel libro; sospetto che non sarebbe di per sé orrendo, se non equivalesse al pensare che la lettura ora ci appare del tutto nuova, come se mai si fosse prodotto il fatto d’aver già letto, e annotato, e sottolineato quel libro. Mai. O almeno non nella nostra vita, forse in quella di un altro. Ecco allora che ci esercitiamo caparbiamente nell’arte di non riconoscere la nostra calligrafia a margine, così che ci venga consentita l’opzione che forse qualcun altro, un amico, un familiare, abbia letto prima di noi e annotato. Ma qualcosa ci riporta sempre inesorabilmente a noi, la svirgolettatura di una a, il modo tutto nostro di mettere l’accento sulla e…

Dell’Immoralista non ricordavo nulla; non la trama, non il protagonista, l’ambiente, i luoghi, gli altri personaggi. Nulla. Ma ricordavo benissimo d’averlo letto e molto amato.

Ho amato tutto Gide, in quell’età avida dei quattordici-quindici anni quando il mondo dei libri ci si apre davanti immenso, misterioso e foriero di un’avventura mentale che, lo intuiamo, ci renderà adulti e ci forgerà la vita intera futura. Il mondo dei libri francesi, in particolare, per quel che mi riguarda. Leggevo solo i francesi, a quell’età. Casualmente. E il caso – un destino! – era che la mia insegnante di francese fosse una donna eccezionale. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei, anche buttarmi nel fuoco. In mancanza del fuoco, leggevo i libri della sua letteratura e me ne innamoravo. Come ci sono amori per interposta persona, così ci sono amori per interposizione di libri: voglio dire, ovvio che mi ero innamorata della mia insegnante di francese…

L’immoralista è un libro bellissimo. Molto francese. Molto decadente. Molto intriso di Nietzsche, anche. E molto moderno. È assolutamente necessario leggerlo – o rileggerlo – oggi. Fin dal titolo: nessuno oggi intitolerebbe un romanzo così. Immoralista è una parola che oggi non si usa, una parola che, direi, si è spenta. Che le parole si spengano e si riaccendano è un dato di fatto incontestabile, mi pare, visto che le parole hanno una loro storia millenaria che, come la nostra, è fatta di cicli e ricicli. Dimenticanze e improvvise e lancinanti memorie. La parola immoralista ha dentro un che di battagliero: è un’opposizione. È andare contro una morale. Amorale invece è prescindere da ogni morale, è indifferenza.

Michel, il protagonista del romanzo di Gide, è a suo modo uno che si oppone al mondo, va contro. È un giovane che ha ricevuto una rigida educazione puritana e si è dato agli studi della filologia classica. Sposa Marceline, pur non amandola, per compiacere il padre, per conformarsi ai modelli comuni, studiare, lavorare, sposarsi. Nel viaggio di nozze si ammala di tubercolosi. E attraverso il male che mina la sua vita, impara ad amare la vita. O meglio, scopre un altro possibile modo di vivere, più naturale, tutto sensoriale. Arrivato a Tunisi, s’inebria della terra d’Africa, assapora i profumi dei giardini, i paesaggi notturni rubati al sonno, le infinite mutazioni dell’attimo, il contatto dell’essere con la natura, la bellezza in tutte le sue forme, anche la bellezza irresistibile dei fanciulli africani. Rinnega i libri, la cultura, l’educazione severa, la dedizione al passato, la memoria. Lo studio, l’insegnamento, la frivolezza dei salotti parigini ormai lo annoiano. I colleghi archeologi e filologi, gli amici poeti, romanzieri e filosofi, che considerano la vita “un fastidioso impedimento allo scrivere”, gli appaiono estranei e stucchevoli: “Nessuno di loro ha saputo essere malato. Vivono, danno l’impressione di vivere e di non sapere che vivono”.

Michel rifiuta ogni forma di conformismo, di adeguamento a modelli. Rincorre la parte unica di sé, originale, solitaria, libera, e quindi indifferente al bene degli altri. Non è più disposto a sopprimere quel che sente essere la sua vera natura. E rinasce. Resuscita a una “vita più aperta e libera, meno costretta e legata agli altri”. Scopre “l’essere autentico, quello che tutto intorno a me, libri, maestri, genitori e io stesso, ci eravamo sempre sforzati di sopprimere”. Inizia a disprezzare l’altro se stesso, “l’essere secondario, costruito, che l’istruzione aveva formato al di sopra”. E sente di voler “scuotersi di dosso quelle sovrapposizioni”.

E in questa forma di assoluta dedizione al nuovo se stesso, in un parossismo di egocentrico piacere, dimentica ogni dovere e cura verso l’altro: quando Marceline si ammalerà anche lei di tubercolosi, invece di dedicarsi a curarla come lei aveva fatto con lui, le impone un viaggio estenuante dalla Svizzera, dove stava lentamente ritrovando la salute, verso il sud, i climi caldi, il sole, i profumi, verso l’Italia e poi di nuovo l’Africa, la sua Africa, la luce di Tunisi dove “l’aria stessa è come un fluido luminoso in cui tutto affonda, dove ci si immerge, si nuota”, dove “la terra voluttuosa seconda il desiderio ma non lo placa, ed ogni piacere lo esalta”. Fino a Biskra, dove Michel aveva iniziato a guarire e aveva scoperto il suo essere autentico. Lì cerca quei fanciulli bellissimi che allora lo avevano incantato, e li ritrova inevitabilmente cresciuti. Mentre matura la sua delusione e impara dal vivo una delle lezioni che già gli aveva impartito il collega Ménalque: “non c’è niente che ostacola la felicità quanto il ricordo della felicità”, Marceline peggiora, fino a soccombere. Michel l’ha uccisa, col suo forsennato egoismo, inseguendo il suo bene, il richiamo di una libertà che lo porta sempre più lontano.

Non credo che oggi definiremmo Michel un immoralista. Non ci verrebbe neanche in mente. Lo iscriveremmo normalmente all’ambito di quella cultura dei diritti che oggi ci pervade.

È per questo che dovremmo rileggere il romanzo di Gide, per essere messi di fronte a quell’eterno conflitto, che mi pare ora molto obnubilato, tra natura e cultura, tra libertà e doveri. Tra il rigore delle leggi che c’incarcera nella fedeltà ai modelli ma anche ci regala la pace di una vita morale, e la sfrenatezza imperiosa dell’io che si dedica solo a se stesso e ci getta nell’abisso di un bieco self interest.

L’aspetto rilevante è che qui l’essere autentico viene contrapposto all’essere “costruito” dalla civiltà e dalla cultura. Mi chiedo se oggi in tale conflitto non si stia dibattendo l’intera nostra civiltà occidentale, e non soltanto il singolo individuo. Mi sembra di scorgere, in molte manifestazioni del nostro vivere attuale, proprio questa ricerca di un’autenticità che, per essere tale, vuole spogliarsi di ogni memoria, di ogni patina anche solo vagamente culturale. Penso a una certa aspirazione a tutto ciò che sembri spontaneo, naturale, primitivo. Penso al fastidio che oggi molti provano verso tutto quel che riveli una cultura, una patina di tradizione, una sostanza profonda, qualcosa che si sia sedimentato e abbia fatto di noi quel che siamo, attraverso i millenni; alla voglia di liberarsi dello studio, della fatica, del sapere; al disprezzo verso chi di quello studio si sia nutrito e abbia perseguito, per esempio attraverso i libri, una forma di conoscenza.

Vagheggiamo forse un novello stato di natura. Propendiamo pericolosamente per una certa rozzezza dei modi, dei gesti, del linguaggio credendo che sia sinonimo di autenticità, libertà, apertura. Ma potrebbe essere soltanto l’espressione selvaggia di una civiltà che sta cercando di rinnegare se stessa.

È possibile che, in nome di una fittizia autenticità, ci stiamo privando di quella cultura che ci ha reso grandi. E mi viene da farmi qualche domanda. Autentico deve per forza contrapporsi a cultura? Si può essere colti e allo stesso tempo autentici? Studiare e vivere contemporaneamente? Oppure scrivere (e leggere) non è mai vivere? Il mito di quale umanità stiamo rincorrendo? Cos’è questo nostro tendere al ruspante, al viscerale, a un vivere “di pancia” (orrenda espressione che sento ormai ovunque) che si contrappone al pensiero, all’analisi, e anche alle buone maniere, allo stile, a un’eleganza del vivere? La cultura è davvero una “costruzione” di cui è bene liberarsi?

La cultura sarebbe dunque un limite, qualcosa che ci “riduce”? O non è piuttosto la chance di averli, dei benedetti limiti, l’ultimo baluardo che ci protegge dall’arroganza della hybris?

E infine, fino a che punto ci è lecito perseguire il nostro personale piacere, ottemperare alla parte più vera e libera di noi, perseguire la nostra autorealizzazione? Anche a discapito dell’altro? Quanto limitiamo la libertà dell’altro, cercando la nostra? Ci spingeremmo fino al punto, anche, di produrre la sua rovina?

Potrebbe essere un nuovo immoralismo, il nostro. Lavarsi la coscienza proclamando astrattamente il dovere planetario di una bontà sempre più s-confinata e un “diritto ad avere diritti” (per dirla con Rodotà) sempre più universale, e intanto coltivare indisturbati ognuno il proprio sfrenato e immarcescente individualismo.

Era il 1902 quando Gide scriveva L’immoralista. Sono passati centodiciassette anni, ma le domande che riguardano l’uomo sono sempre le stesse.

Il romanzo di Gide, come tutti i grandi romanzi, per fortuna non dà risposte. Non indica una via, non giudica, non prende posizione. Ci mette semplicemente davanti a un’idea, e la spinge, narrandola attraverso la storia dei personaggi, fino al limite estremo.

Stare a guardare quell’abisso è oggi, almeno come lettori, l’ultimo dovere che ci resta.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 aprile 2019



Marciapiedi da passeggiare

I romanzi che abbiamo scritto ce li dimentichiamo. Non pensiamo più a loro perché siamo presi, tirati, da nuove storie. I libri che abbiamo scritto, quindi, viaggiano da soli, staccati per sempre da noi che dopo averli creati, di loro non ci occupiamo più. Sono i nostri figli abbandonati.

In realtà non va esattamente così: i libri che abbiamo scritto covano sempre dentro di noi, esattamente come covavano prima di uscire. Erano, allora, una specie di brace sotto la cenere; e riprendono ad essere quella brace, una volta scritti e abbandonati.

Così, può capitare che a volte si riaccendano. Qualche giorno fa mi si è riacceso Non so niente di te, un mio romanzo del 2013, che amo molto e a cui penso troppo poco. C’è un giovane eroe dei nostri tempi, in quel libro: Filippo Cantirami, Fil, un giovane bravissimo economista che vince un dottorato a Standford e non ci va, preferisce stare in campagna a pascolare pecore, perché capisce, a un tratto, che fare l’economista di successo non è la vita che vorrebbe.

So che un autore non è bene che citi i suoi libri, ma Fil mi è tornato in mente di colpo una settimana fa quando ho letto, con grande felicità, questa frase: “Voglio apparire il meno possibile perché è il modo migliore per non scomparire”.

L’ha detta in un’intervista Anastasio, il rapper che ha appena vinto XFactor. Nell’intervista che ha rilasciato per “La Stampa” il 23 marzo confessa di avere non poche difficoltà a sopportare il successo, ovvero tutti gli infiniti impegni che il successo comporta, ospitate, comparsate, tour e “apparizioni di vario genere”. “Sogno un mondo dove scrivo canzoni e basta”, dice. Ma non riesce più a scrivere, da quando è famoso.

Dunque, la fama oscurerebbe l’opera. Il ruolo pubblico affonderebbe la creazione. E nel gioco di prestigio del successo, apparire equivarrebbe a scomparire.  Grande lezione. Chi ha anche solo una minima vita creativa sa che è così: per creare bisogna stare molto fermi, soli e nascosti. Possibilmente invisibili. Anonimi sarebbe il meglio (felici coloro che si occultano dietro pseudonimo…?).

Non so se questo discorso riguarda solo i lavori creativi, artistici. Penso di no. Penso che riguardi ogni nostra attività che abbia a che fare con l’anima, con la parte più spirituale di noi. Il pensiero, lo stare soli con noi stessi e lasciarsi portare dai pensieri, guardare i nostri pensieri mentre scorrono. Che i pensieri scorrano mi è molto chiaro: siamo costantemente attraversati da un fiume, se stiamo attenti possiamo percepirne la lenta e sinuosa corrente, a volte un balzello tra i massi, una cascatella.

Ecco, in certi momenti può capitare che in alcuni di noi si insinui la necessità di fermare la corrente di quei pensieri, di condurla da qualche parte e farne qualcosa di solido, meno acquoreo. Consolidare i pensieri in un’opera. Può essere scrivere una canzone o un romanzo, fare una scultura, un disegno. Ma anche costruire una casa, arredare una stanza, confezionare un abito. Leggere un libro. Studiare… Lo studio è già un’opera, è un’opera in fieri e ha molto a che fare con l’anima, e solo per uno sconsiderato – spero transitorio – errore di prospettiva noi oggi lo leghiamo soltanto alla realizzazione professionale, ne facciamo uno strumento concreto e finalizzato, un mezzo di trasporto che ci dovrebbe condurre dritti dritti al mondo del lavoro e basta.  Una visione molto riduttiva.

Dicevo, quando qualcuno di noi vuole consolidare i pensieri in un’opera, deve allontanarsi almeno un po’ dal frastuono, dalle sirene degli impegni e delle ambizioni: Fil rinuncia a fare un dottorato, per poter studiare! A un certo punto s’accorge che, se vuole veramente fare ricerca, deve abbandonare proprio gli studi. Sembra paradossale. Ma se gli studi sono diventati un mondo caotico e competitivo, egli deve fare proprio questo: andarsene. Isolarsi. Costruirsi una vita più consona. E la vita consona a studiare, pensare, creare, è una vita il più possibile vuota.  Vuota di impegni e di ruoli, e anche di cose e di persone. Soprattutto vuota di ambizioni.

A proposito… Siamo soliti dare un valore positivo all’ambizione, guai non averne almeno un po’; l’ambizione ci porta avanti, ci aiuta a migliorare. Certo. Ma ambire vuol dire “andare attorno”. Girare in qua e in là, darsi un gran daffare presso “le persone utili”, per acquisire una posizione. In origine gli ambiziosi erano i candidati che andavano in giro a procacciarsi i voti. Ci piace così tanto? L’ambizione ci assorbe totalmente, finisce per diventare lo scopo di se stessa. Ci impedisce di creare, ci annebbia i pensieri, ci toglie il tempo, e la libertà. Ambizione è desiderio di potere. E arte e potere non sono mai andati bene insieme. Perché dovrebbero farlo oggi?

Se Fil vuole lasciare una traccia del suo ingegno, se vuole creare qualcosa di solido nell’ambito dei suoi studi, deve ambire a… non avere ambizioni. Deve diventare… nessuno. Rinunciare a impegni pubblici, cariche, prestigio. Astenersi da ogni “apparire”. E, così, riprendersi l’anima. Solo a quel punto, proprio come dice Anastasio, non scomparirà: la sua ricerca di Economia sfocerà in un’idea nuova, rivoluzionaria, che resterà nel tempo.

Creare presuppone sempre un rinunciare.

Mi verrebbe da dire che il lavoro stesso ci distoglie dalle attività creative, da quella condizione dell’anima che non saprei come chiamare. E che quindi certe apatie e rilassatezze, certe pigrizie, certi impulsi a dire anche noi, sulla esemplare scia di Bartleby, “Avrei preferenza di no”, siano dovuti a improvvise e ribelli lucidità, in virtù delle quali ci rifiutiamo di obbedire agli onerosi diktat del mondo e ci riprendiamo per così dire i “nostri momenti”, quei bagliori dell’anima di cui sentiamo il bisogno.

Il lavoro, se non è lavoro consono alla nostra anima, ci distoglie, ci frastorna e ci estrania da noi stessi. È in qualche misura il nostro più acerrimo nemico. E va combattuto. Anche per poco, non solo per opere imperiture. Anche solo per fumarsi un sigaro sul balcone, andare a passeggio alle tre del pomeriggio, guardarsi alla sera un film. Anche per cose che son ritenute marginali, banali o sciocche.

Lo dice molto più mirabilmente Cesare Pavese, in una lettera del 14 aprile 1942, che la mia amica Giovanna Ioli chissà perché mi manda, oggi, su whatsapp, proprio mentre sto scrivendo queste Paginette, ignara, ma come sempre fatidica. Pavese scrive al suo editore Giulio Einaudi di lasciarlo in pace, di non caricarlo come sempre di lavoretti estenuanti di revisione e altro, perché, dice, “c’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere”. Quella vita che è già, ovviamente, scrittura. Solitaria, im-potente, e autoappagante.




Talento Cosmico Invisibile

Perché solo le pere cadono

Ci son cascata come una pera. Mi piace quest’espressione, mi piace l’immagine della pera matura che cade. Lo dico così spesso che non so quante pere ho visto cadere, nel parlare della mia vita.

Però anche le pesche cadono. E cadono anche le mele, le prugne, le nespole e, ancor più classicamente, le foglie. Allora perché non diciamo mai: ci sono cascata come una pesca? Perché nel nostro linguaggio, nell’uso comune, nella tradizione dell’espressività popolare, cadono sempre soltanto pere?

In questo inizio d’anno politicamente ed economicamente tormentato, dove intellettuali, giornalisti, scienziati, scrittori, attori e studiosi si dedicano a capire perché il PIL non cresce, perché la disoccupazione sale, se usciremo dall’euro e quanto siamo fascisti, io tenterei di dare una risposta al problema delle pere: diciamo così perché un tempo nelle campagne i peri erano gli alberi maggioritari, cioè i contadini piantavano in prevalenza peri? o perché ai contadini piace il formaggio con le pere, dunque in qualche modo è il loro frutto preferito, anche nel linguaggio? o perché le pere, per qualche loro strana fragilità costituzionale, cadono di più rispetto agli altri frutti?

Mi sono rivolta a un mio amico, uno studioso molto serio, il quale dopo averci pensato un po’ ha risposto: perché le pere cadono in piedi. Gli ho chiesto di spiegarsi meglio. Ha detto che la conformazione fisica della pera, il peso maggiore della sua parte posteriore, fa sì che cada in verticale, si appoggi col sedere a terra, per dirla in modo visivamente efficace. Effettivamente la pera cadendo non rotola, o rotola meno. Soprattutto non cade mai a testa in giù (ammesso che la testa sia dove spunta il picciuolo). Quindi è la più adatta ad esprimere l’analogia con l’essere umano che cade, anche lui solitamente di sedere. Poi l’amico scienziato s’è perso in un vortice di similitudini, tra le quali: Sai, in fondo potremmo dire che la pera è come il gatto, cade sempre giusto.

E qui mi si è disegnato in mente un gatto che cade da un’altezza considerevole e riesce ad atterrare molleggiando sulle quattro zampe. E riprende a camminare come nulla fosse, con passo elegante, ovviamente felpato.

Punteggi ambulanti

Di recente abbiamo preso ad insegnare soltanto il metodo, il modo, di fare una certa cosa. Non la cosa in sé, ma come farla. Procedure, strategie. Insegniamo a riempire schemi prefabbricati, moduli prestampati; mettere crocette, completare puntini.

In qualche misura, equivale a insegnare a essere furbi, strategici. Stiamo dunque affermando il trionfo della strategia, del piano. Ci piace insegnare come aggirare gli ostacoli. Per esempio aggirare la propria ignoranza: bisognerebbe studiare per passare un test, ma se impari il metodo per passarlo non importa più che studi. Non importa se non sai quel che ti chiedo, importa che tu acquisisca un metodo per rispondere.

L’importante è centrare il bersaglio, raggiungere il fine: passare un esame, vincere il concorso per un posto di lavoro. Ultimamente, ottenere il reddito di cittadinanza (ho visto in tivù certe riprese agghiaccianti in cui si suggeriva all’utente come compilare l’ISEE a proprio vantaggio…).

Non importa sapere, conoscere la sostanza delle cose, approfondire una materia, acquisire una sapienza. Tantomeno dire la verità. Non interessa il contenuto, solo la confezione.

Come per i regali di Natale: importa il pacchetto. La carta, il nastrino, la pallina decorativa. E soprattutto l’etichetta del negozio. I regali, e chi li fa, vengono misurati (“valutati”) prima di aprirli: non da cosa c’è dentro il pacco, ma da dove hai comprato l’oggetto. È un atteggiamento piuttosto recente, direi: mi sembra che quand’ero giovane io non fosse così, o che il fenomeno non fosse così vistoso. O ero giovane e non mi accorgevo di niente?

Abbiamo tutti acquisito negli ultimi anni un atteggiamento sempre più “commerciale” nei confronti della vita. Ragioniamo da “economisti”, anche nei rapporti con gli altri: valutiamo, misuriamo, consideriamo le offerte, l’utilità, i benefici.

Forse ci tranquillizza. Forse così acquietiamo il nostro spirito guerriero che dentro ci rugge, oggi agguerrito soprattutto sulle (peraltro irrisolvibili) questioni di uguaglianza e ineguaglianza, merito e privilegio: ci sembra che usare tabelle, riempire moduli, crocettare, rispondere a quesiti prestampati, classificare e mettere in classifica, quantificare in punteggi, tradurre in percentuali, ci conduca a una oggettività di giudizio, a una imparzialità.

A me sembra un’illusione, che paghiamo a un prezzo molto alto: ci siamo numerizzati. Abbiamo accettato di essere ridotti a numeri. Siamo un punteggio ambulante, per arrivare al quale dobbiamo corrispondere a criteri. E i criteri sono imposizioni, violenze. La violenza di essere valutati non per la sostanza di quel che siamo e sappiamo, non per il nostro effettivo valore e talento (tutta roba invalutabile in modo oggettivo e impersonale), ma per la forma, il guscio esterno di noi, per quei dettagli esteriori e concreti che si offrono come gli unici a poter essere valutati.

Comunque non è facile imparare una strategia. Si tratta pur sempre di studiare, cambia solo l’oggetto dello studio. Per esempio per passare un test di scienze, invece di studiare un manuale di scienze, studiamo un manuale che ci insegna la strategia per passare un test di scienze. Stesso numero di pagine, stessa energia mentale. Forse ci sentiamo furbi, pensiamo di sgominare l’avversario. Invece abbiamo sprecato il tempo studiando cose molto noiose e inutili. Cioè utili soltanto a un fine ben definito e concreto, e tutto sommato limitato, come superare un test.

Piccolo omaggio ai talenti sconosciuti

In quanto al merito, al talento, il discorso è sempre difficile. Una strada impervia, direi. A parte i pochi casi in cui emerge chiaramente ed è pubblicamente conclamato (ovvero procura fama), esiste un talento tacito, umbratile, appartato: il talento che passa inosservato. Ed è quello che riguarda la maggioranza di noi. Potremmo dire che il mondo è interamente percorso da un Talento Cosmico Invisibile Sotterraneo, una specie di fiume nascosto che scorre nei meandri della terra e non esce mai in superficie. Eppure ristora e nutre il pianeta intero.

La maggioranza di noi può vivere anche tutta la vita senza che il proprio talento venga mai scoperto, riconosciuto, ammirato. Eppure c’è stato, è veramente esistito, ha avuto modo di esprimersi per lunghissimi anni, e ha agito nel mondo distribuendo indubitabili doni agli altri.

Può essere un ingegnoso idraulico, un’insegnante appassionata, una ballerina di fila bravissima, un maestro di karate in un’oscura scuola di periferia, la cuoca di una sperduta osteria che fa lasagne eccezionali; un medico che si dedica ai suoi pazienti ben oltre il dovuto, un giardiniere a cottimo che scalpella siepi artistiche. Non importa che mestiere fa, ma lo fa in modo eccelso, particolare, tutto suo, magari geniale. E lo fa per tutta la durata della sua vita, costantemente, ogni giorno, perché tutta la sua vita è quello, è esprimere esattamente quel talento.

Chi ha la fortuna di venire a contatto con persone del genere gode di infiniti benefici, e spesso ne è ignaro, non pensa affatto di esser stato toccato dal talento unico e irripetibile di quegli eroi e artisti incogniti. A volte non ringrazia neppure. E invece, dovrebbe esprimere una gratitudine sterminata.

Ho conosciuto personalmente molte persone così. Sono persone prese soltanto dalla loro passione, avulse da ogni forma di potere, estranee a ogni tornaconto personale, direi anche inconsapevoli del loro valore, o comunque non interessate a che quel valore venga pubblicamente riconosciuto. Penso che non ambiscano a nulla, e che un’effimera gloria non aggiungerebbe nulla alla loro vita, perché si nutrono di un bene che è ben maggiore, e che chiamerei la “contentezza di sé”, quel sentimento di pienezza della vita che ci prende quando sentiamo di aver fatto bene il nostro lavoro.

Fare bene il proprio lavoro, il senso sta tutto in quell’avverbio: bene, meglio che si può. Certo che quel bene meriterebbe un premio. Ma il premio migliore a cui dovremmo tutti quanti aspirare è proprio la capacità di fare a meno di qualsiasi premio.

Sono sicura che tutti ne abbiano incontrate, di queste persone. In genere sono riconoscibili da una luce che ne illumina gli occhi, il sorriso. Una luce che, come direbbe Dante, “ci porta di là”.

A tutte queste persone sconosciute, generose, non egoiste, non ambiziose, ignare di sé, vorrei dedicare il libro di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi. E in particolare la pagina iniziale, che fa un po’ da epigrafe:

Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile.

Articolo pubblicato su Il Sole24Ore del 24 febbraio 2019



Il singhiozzo delle élites

Oggi che si parla molto di popolo, populismo e élites, mi torna in mente una trasmissione radiofonica di quasi mezzo secolo fa: Chiamate Roma 3131. Fu una vera rivoluzione perché per la prima volta si poteva “chiamare la radio” e parlare in diretta. Anche il più comune e anonimo ascoltatore, senza alcun merito o particolarità distintiva o privilegio, poteva prendere il telefono, fare il numero 3131, parlare col conduttore e essere ascoltato da tutti. Poteva per esempio chiedere di mandare in onda una certa canzone, per dedicarla al fidanzato o fidanzata: a Francesco, a Giovanni, a Maria, Elisabetta, mia nonna, la mia vicina, il mio panettiere…

Era il 1969. Avevo 13 anni, e mi capitava di ascoltare la radio certe mattine d’estate, con mia madre che lavorava in casa. Mi piaceva sentire la musica, aspettavo con trepidazione che trasmettessero le mie canzoni preferite, e quando succedeva mi sembrava un segno fortunato della sorte. Invece a un certo punto la mia radio fu invasa da quelle voci estranee, prosaiche, noiose. Me lo ricordo molto bene. Di colpo, ascoltare la radio divenne per me una barba infinita. Tutta quella gente che interveniva, interrompendo il flusso delle canzoni, senza avere in fondo niente da dire…

Prima di allora la radio trasmetteva canzoni, notizie, drammi radiofonici: trasmetteva e basta, in una sua solitudine assoluta e inavvicinabile; era una voce a cui nessuno poteva rivolgersi, che si poteva solo ascoltare. Credo che dovette sembrarci, a un certo punto, una cosa terribile, un errore a cui si doveva quanto prima porre rimedio. Non so come si giunse a questo sentimento colpevole, ma credo che fu una naturale conseguenza del nuovo clima che si era instaurato dal ’68 in poi e che tanto drasticamente cambiò il nostro mondo.

Oggi la radio è quasi esclusivamente fatta dagli ascoltatori che intervengono, a raccontare qualcosa di sé, della propria vita, o dire come la pensano su ogni argomento. Radio, tivù, giornali e social: un sottofondo costante di voci, un brusio composto perlopiù da una retorica comune e generica che si moltiplica, che si avvoltola senza fine su se stessa: Rumori, per dirla con il libro di Attali del 1978.

A me sembra che sia cominciato tutto lì, in radio, con Chiamate Roma 3131. O meglio, è il primo segnale concreto che io ricordi di questa che chiamerei “volontà di compartecipazione”, del desiderio, cioè, che ci prese allora e oggi è più che mai vivo, di aprire tutto a tutti, perché non esista più un solo spazio, nemmeno un angolino, che possa sembrare riservato ai pochi, o peggio che mai ai singoli. L’idea insopportabile che sia uno solo a parlare e tutti gli altri condannati al silenzio. Sembrava ingiusto, vagamente dittatoriale. Si iniziò allora a pensare che ascoltare era troppo poco, privilegiava i pochi “parlanti” e condannava gli altri a un ruolo passivo, subordinato.

Anche a scuola. Si cominciò ad “aprire” ai bambini, che dicessero la loro durante le lezioni, qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Ci piaceva che “intervenissero”, anche interrompendo la lezione. Sapeva di libertà, estroversione, democrazia. Allo stesso modo si aprì ai genitori, con i Decreti delegati dei primi anni ‘70, perché avessero parte diretta nella vita della classe, nella conduzione della scuola. Poi, circa vent’anni fa, si cominciò a dire che far lezione non andava più bene: ormai chiamata “lezione frontale”, è oggi additata come l’esempio più esecrabile della scuola del passato, il marchio da cancellare, l’errore di una scuola d’élite. Fino alla recentissima didattica della “classe capovolta”, dove nessuno fa più lezione: gli allievi lavorano in gruppo, e gli insegnanti organizzano il lavoro, assistono, controllano che tutto funzioni.

Anche in chiesa. A un certo punto abbiamo preferito che il prete smettesse di parlare latino, e di guardare l’altare dando le spalle ai fedeli. Come abbiamo voluto che l’insegnante la smettesse di sentirsi in cattedra e “scendesse”, così abbiamo voluto un prete di fronte, aperto, trasparente, e che la gente interagisse nella messa, per esempio scambiandosi il segno di pace. Così che tutti avessero la sensazione di partecipare più attivamente, e non si sentissero in qualche modo estromessi dal vivo della funzione.

Allo stesso modo in teatro, spesso chiamiamo il pubblico sul palco a recitare, gli diamo una parte perché non si senta pubblico passivo. Rompiamo la quarta parete e lo convochiamo a contribuire allo spettacolo. È come se pensassimo che non è bello che siano solo gli attori a fare gli attori. Anche nei libri, nei fumetti: chiediamo da anni ai lettori di esser loro a suggerire il prosieguo della trama, l’aggiunta di un personaggio, un finale diverso. Perché non è bello che lo scrittore sia uno solo; è bene che anche i lettori si sentano parte del processo creativo, tutti in qualche modo scrittori, non puri e inerti spettatori dei pochi che hanno il privilegio di inventare.

I lettori che scrivono con lo scrittore. I fedeli che officiano con il prete. Gli studenti che insegnano con l’insegnante. Gli spettatori che recitano con l’attore. I radioascoltatori che conducono con il conduttore…. Sono tutti esempi di uno stesso copione. A un certo punto ci è parso importante che non ci fosse uno solo che dirige, conduce, scrive, crea, recita, insegna. Quell’uno ci sembrava un privilegiato. Ci sembrava… élite.

Piano piano, abbiamo cominciato a smantellare anche i luoghi dove ci pareva che qualcuno o qualcosa emergesse, avesse un ruolo superiore, si distinguesse o, cosa ben peggiore, dominasse qualcosa e qualcuno: per esempio abbiamo allargato il concetto di libreria, così che accanto ai libri si venda anche la pasta, il vino, le matite, i peluches, i computer e le ceramiche dipinte. Abbiamo allargato il concetto di libro a comprendere qualsiasi testo scritto e pubblicato. E abbiamo allargato il concetto stesso di cultura perché avevamo il terrore che la cultura fosse soltanto libri, studio, ricerca, cioè qualcosa che riguardava i pochi. Abbiamo declassato a inutile ogni sapere, e eletto unico sapere utile l’unico che fosse accessibile a tutti: il web.

Il bello è che sia stata l’élite ad aver fatto tutto questo.

Ha cominciato tanti anni fa a autodenunciarsi, e autodistruggersi. E forse il fenomeno di quel che oggi chiamiamo populismo può leggersi (anche) così: il risultato del senso di colpa delle élites. Parlo delle élites culturali, soprattutto, ovvero di coloro, persone ma anche enti, che detenevano non dico il potere ma almeno una notevole autorevolezza: radio e tivù, insegnanti, artisti, studiosi, librerie, case editrici, intellettuali, scrittori, teatri….

È l’élite a non sopportare di essere élite. Ha una paura fottuta di essere élite e si spende il più possibile per non esserlo, e nemmeno sembrarlo. Ha il terrore dell’esclusione: non di essere lei esclusa, ma di escludere. Non ammettere, non condividere, non inglobare, non accogliere… Vuole che siano tutti non solo uguali, ma protagonisti: nella scuola, a teatro, in radio, in chiesa, in tivù e anche al governo.

Per questo l’élite oggi è molto grata alla tecnologia. Pensa che il web sia stata la più grande fortuna, lo strumento massimo di quella rivoluzione democratica che finalmente dà voce al popolo e contribuirà a sconfiggere le disuguaglianze. Ed è felice che, grazie ai social, il popolo abbia accesso diretto anche al governo delle città e dello Stato.

Sì, ogni tanto l’élite lamenta un certo dilagare di volgarità, soprattutto nel linguaggio, fors’anche una certa ineleganza nel vestire, e certi toni un po’ fascisteggianti… Ma sono solo i postumi di un aristocratismo difficile da guarire, ancora un po’ di pazienza e le passerà.

Bisognerebbe leggere Pascal Bruckner. O, avendolo letto, ricordare (e citare) di più i suoi libri. Per esempio Il singhiozzo dell’uomo bianco (1983, Guanda 2008), o La tirannia della penitenza (2006, Guanda 2007). Lì vien detto splendidamente che l’Occidente è affetto da sensi di colpa almeno dal secondo dopoguerra in poi, che siamo fermi alla vecchia dottrina del peccato originale, e che dalla caduta del muro di Berlino l’Europa “si macera nella vergogna di sé”.

“In terra giudaico-cristiana non esiste miglior sprone del senso di colpa (…). Come diceva Nietzsche in nome dell’umanità le ideologie laiche non hanno fatto altro che sovracristianizzare il cristianesimo e potenziarne il messaggio”. E ancora: “E’ l’eterno movimento: un pensiero critico, dapprima sovversivo, si ritorce contro se stesso trasformandosi in un nuovo conformismo, il quale conserva tuttavia l’aura, il ricordo dell’antica ribellione”. E ancora: “La casta degli intellettuali, alle nostre latitudini, è la casta penitenziale per eccellenza, erede diretta del clero dell’Ancien Régime”. “Così come esistono predicatori di odio nell’islamismo radicale, esistono predicatori di vergogna nelle nostre democrazie, soprattutto fra le élite intellettuali”.

Il mea culpa delle élites di fronte ai populismi insorgenti è dunque il solito masochistico refrain dei privilegiati che desiderano abbassarsi a “capire” il popolo, ne giustificano le intemperanze in nome di una rivoluzione santa, dovuta e condivisa, e riprendono la consueta autoflagellazione in odore di martirio. Tutto molto conformistico.

Eppure sembrerebbe chiaro che qualcuno deve dir messa, qualcuno deve fare lezione, qualcuno deve recitare Amleto, qualcuno deve scrivere libri. E quel qualcuno normalmente deve essere un singolo. Quel che le élites intellettuali non sopportano è proprio questa necessità del singolo, questa inevitabilità che certe funzioni siano demandate a singoli, e possano non essere allargabili ai tutti. E’ il singolo stesso a sentirsi a disagio, a vergognarsi della sua “singolarità”, che gli sembra subito maledettamente élitaria, non democratica. Quindi colpevolmente chiede scusa e si adopera perché il suo ruolo sia condiviso e partecipato dalla più grande moltitudine possibile.

Eppure, ripeto, dovrebbe essere chiaro. E ci è chiaro, ma soltanto in ambito sanitario, sembrerebbe. Lì ci appare lampante che il chirurgo debba essere lasciato solo, ovvero con la sua équipe di altrettanti chirurghi ma certamente non affiancato dal popolo dei pazienti. Sarebbe assurdo che il paziente collaborasse e intervenisse alla propria operazione per sentirsi meno passivo. Eppure, se ci pensiamo, è proprio quel che capita nell’ambito dell’istruzione: lì non abbiamo la minima remora a pensare che accanto all’insegnante (anzi, meglio, al suo posto) ci debba essere l’allievo che partecipa alla sua propria educazione…

Dovremmo accettare che una certa funzione non possa che essere svolta dai pochi. E, soprattutto, i pochi dovrebbero accettare di essere soli a svolgere la loro funzione, e non convocare sempre le masse accanto a sé: per il bene di tutti. Certamente dovremmo adoperarci perché tutti (qui sì davvero tutti!) possano diventare quei pochi, perché tutti cioè abbiano la via spianata, economicamente e culturalmente, per accedere a quei pochi posti dove si svolgono funzioni ai livelli più alti.

È bello e giusto pensare che tutti possano diventare chirurghi. Ma pensare che tutti debbano affiancare il chirurgo, anche i pazienti stessi, anche coloro che non hanno alcuna competenza, soltanto per mitigare il senso di colpa dell’uomo bianco perennemente singhiozzante, questo no, sarebbe pura follia.

Articolo pubblicato su Il Sole24Ore del 29 gennaio 2019