Maturità, sarà un esame farsa. Intervista a Paola Mastrocola

Un esame farsa, «saranno tutti promossi. Questa maturità diciamo che è un modo per rivedersi e salutarsi tra insegnanti e allievi. Una pacchia per chi ha studiato poco in tutto il triennio, una sciagura per chi si è impegnato seriamente». Così Paola Mastrocola, editorialista e scrittrice, in merito agli esami di maturità che iniziano oggi per quasi mezzo milione di ragazzi. Nel 2004, con «La scuola spiegata al mio cane» (divenuto poi un classico), accese il dibattito sullo stato della scuola italiana, le sue riforme e un declino che pareva inarrestabile. Per la scuola che servirebbe nel dopo coronavirus dice: «Dovremmo buttare tutto all’aria e ricominciare da zero. Il Covid ci ha fatto capire definitivamente che cosa le famiglie chiedono alla scuola: essenzialmente un luogo dove lasciare i figli mentre si lavora, dove possano «socializzare», e dove qualcuno si prenda in carico la loro educazione in senso lato. Ebbene, prendiamone atto e facciamola». Il governo ha eliminato i voti alle elementari? «Andrebbero subito ripristinati, senza si fa un danno ai bambini».

Sono iniziati gli esami di stato: una sola prova orale, ha deciso il governo per evitare rischi di contagio. Basta a valutare la maturità di un ragazzo?
L’esame di quest’anno ovviamente non verificherà nulla: l’allievo esporrà oralmente un «elaborato» che ha scritto (da solo?) su temi concordati un mese prima. Diciamo che è un modo di rivedersi e salutarsi, tra insegnanti e allievi; un modo di chiudere comunque il corso di studi e segnare una fine. Meglio che niente, meglio che sparire tutti nel nulla.

Non ci sarà nessuna prova scritta.
Mi dispiace per gli scritti, la sfida del foglio bianco è tutto. Ad esempio il tema è l’unica prova che misura la maturità espressiva (quella sì!) di una persona, la capacità di mettere in parole la complessità di un ragionamento. Sarà per il mestiere che faccio, ma nulla mi sembra meglio che scrivere, per dimostrare chi siamo.

Quest’anno, causa emergenza Covid, tutti sono stati ammessi agli esami. Saranno anche tutti promossi?
Certo! Una pacchia per chi ha studiato poco in tutto il triennio, e una sciagura per chi si è impegnato seriamente e, mi dispiace, rimarrà deluso e avvilito da un esame farsa.

Che anno scolastico è stato questo contrassegnato dalla didattica a distanza per chi è riuscito a farla?
Credo siano stati mesi molto faticosi per tutti. La scuola non si poteva fermare, e non si è fermata. È stata scuola? Direi di no. La scuola è soprattutto relazione, all’interno di quel meraviglioso microcosmo che si chiama classe. L’alternativa era fermarsi, prendere atto del cataclisma che si è abbattuto e accettare la sospensione.

Potevamo permettercelo?
Una nave, di fronte a una tempesta, resta in porto, non s’incaponisce a salpare ugualmente, sfidando le onde. E nemmeno gira in tondo all’interno delle calme acque del porto fingendo una crociera, né simula online la navigazione! Sta buona e ancorata, e aspetta che passi. Lei mi chiede se potevamo permetterci di stare fermi. A quanto pare no. Siamo un mondo in cui chi si ferma è perduto. Dunque abbiamo accettato un surrogato di scuola.

Alla ex insegnante chiedo: la didattica a distanza quanto spazio e senso può avere nel rapporto educativo tra docente e alunno?
Spero che non avrà nessuno spazio, se non per tragiche necessità, dovute al virus. La lezione a distanza può essere utile solo a trasmettere nozioni, mandare avanti il programma e assicurare comunque un barlume di valutazione. La lezione vera non può che essere dal vivo. È avvenimento, e avventura. È una creazione continua, che dipende dagli umori, dai sentimenti, dalle interruzioni, dalle domande, dalla noia e dall’entusiasmo, da tutto ciò che in un’ora avviene tra insegnante e allievi. Imprevedibile. Irrinunciabile.

Tornando all’esame di maturità, è ormai un rito stanco, da abolire, o pensa invece che sia ancora importante nella crescita di un giovane? E se sì, come andrebbe strutturato?
Non abolirei gli esami. È bene che, almeno una volta ogni tanto, il giovane sia messo davanti a qualcuno a cui rispondere di sé. Li farei solo un po’ più veri, questi esami di maturità, cioè più difficili: una vera montagna da scalare, non pareti fittizie e addomesticate. Solo se la prova è reale si può provare soddisfazione e felicità nel superarla. Per esempio la smetterei con i quiz, i test, gli schemini da riempire. Prendiamoli sul serio, i nostri ragazzi!

I docenti che affrontano la nuova scuola, sarà diversa anche da settembre, sono pronti?
Come possono, i docenti, essere pronti per una scuola che non si sa come sarà? Immagino che saranno pronti a fare quel che diranno loro di fare. E temo che diranno loro di continuare a barcamenarsi. Cosa che, peraltro, gli insegnanti hanno continuato a fare, negli ultimi vent’anni di riforme ridicole: se la scuola italiana tutto sommato ha tenuto, è proprio perché la barca, senza capitano, motore né timone, è stata portata a remi da ogni singolo insegnante, che ha fatto quel che poteva, nei modi che ha ritenuto meglio. Certo, causando anche notevoli disparità e una discreta confusione… Meglio sarebbe avere, un giorno o l’altro, qualche dritta sulla rotta!

In piena emergenza il governo ha deciso di potenziare gli organici con 30mila nuovi insegnanti ex precari che saranno assunti il prossimo anno.
Se abbiamo bisogno di nuovi insegnanti dobbiamo rivoluzionare la scuola, pensare a un tempo pieno. Se invece si assume senza avere una logica di quale mondo stiamo progettando, di quali sono le esigenze delle famiglie e dei ragazzi, riduciamo l’istruzione a un pretesto per fare occupazione. Continuiamo a mantenere in piedi un modello di una scuola fatta per gli insegnanti, come purtroppo succede da decenni, piuttosto che per i ragazzi.

Il governo, su pressione della sinistra, ha abolito i voti per le elementari. Hanno ancora senso?
I voti hanno un senso enorme! E andrebbero subito ripristinati. Cos’è questa paura del voto? Che un voto possa offendere, scalfire la serenità dei bambini? È vero il contrario, è proprio dicendo che va bene tutto quel che fanno, che produciamo danni. Un bambino ha bisogno di sapere se fa una cosa bene o male, e un voto è un sistema chiaro e veloce: se fai benissimo ti do 10, se fai male ti do 5, ma quando farai meglio ti darò 7, 8, 10. Vuol dire stimolare a progredire, insegnare ad autovalutarsi e accettare il giudizio esterno. Nella vita non abbiamo problemi a «dare voti»: chi corre più veloce arriva primo e sale sul podio, chi fa un bel film vince l’Oscar. Giudichiamo e valutiamo continuamente, nello sport, nell’arte, ovunque. Perché proprio a scuola non dovremmo farlo?

Cosa sarà la scuola passata l’emergenza? Tornerà quella di prima o invece siamo davanti a un cambiamento radicale?
Dovremmo buttare tutto all’aria e ricominciare da zero. Il Covid ci ha fatto capire definitivamente che cosa le famiglie chiedono alla scuola: essenzialmente un luogo dove lasciare i figli mentre si lavora, dove possano «socializzare», e dove qualcuno si prenda in carico la loro educazione in senso lato, direi totale (educazione civica, alimentare, ambientale, stradale, sentimentale…). Ebbene, prendiamone atto. E facciamola, una scuola così! E spostiamola anche il più possibile all’aperto, per difenderci da altre eventuali epidemie (non sul web, tutti chiusi in casa davanti a un video!). Pensiamo a un «tempo pieno educativo», una scuola «disseminata» e on demand, spaziosa in tutti i sensi, dove l’allievo abbia davvero «spazio» e, a seconda dell’attività che sceglie, vada nel luogo più idoneo: ancora la classe con tanto di banchi e lavagna, se vuol fare studi astratti (filosofia, algebra, letteratura…), e luoghi meno canonici se sceglie corsi di musica, giardinaggio, cucina, falegnameria: prati, giardini, parchi, cortili, piazze, ristoranti, cinema, teatri.
Bisogna diventare visionari. Osare cambiamenti drastici, anche edilizi… Ma temo che ci limiteremo a fare i turni: un po’ a casa a far lezione online, e un po’ a scuola come prima. Abituandoci a poco a poco a una vita sempre più virtuale.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su ItaliaOggi il 17 giugno 2020




Il diario della talpa. Arrivederci

12. ARRIVEDERCI!

La tapa si rintana.

Negli ultimi giorni s’è intromessa fin troppo, nelle cose di fuori. Ora sente la necessità di ritirarsi un po’, e stare nell’ombra.

Ha molto da scavare.

Non esclude di farsi ancora viva, ogni tanto. Avesse mai qualcosa di urgente da dire.

Per il momento, saluta e ringrazia.

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Il diario della talpa. Undicesimo episodio

11. USCIRE O NON USCIRE?

Primo giorno di fine lockdown. E inizio… Già, inizio di cosa? Come si chiama il contrario di lockdown? opendown, open up, unlock? Chiamiamolo inizio e basta. Inizio a rilento, dosato, cauto, ma pur sempre inizio. Come se nascessimo oggi per la prima volta. Tutta l’umanità che si affaccia alla vita come se non fosse mai stata viva prima. E scopre il mondo in cui ha abitato fino a ieri, come se ci andasse ad abitare oggi per la prima volta.

Per la prima volta andiamo al lavoro, per la prima volta facciamo visita ai parenti, per la prima volta corriamo nei parchi.

Come se non bastasse, per una balzana coincidenza, oggi è il compleanno di Pantaleo. Lo chiamo per fargli gli auguri, Mi chiede: Quale compleanno? Siamo alle solite. È una talpa così avulsa… Mi dice che sta completando un nuovo termometro per misurare la velocità dell’epidemia. Credo sia molto soddisfatto del suo lavoro. Cerco di riportarlo alla sua festa: Ma guarda, che bello compiere gli anni proprio nel giorno in cui torniamo liberi! Risponde: Liberi da cosa?

Chiudo la conversazione. Riprendo solerte a scavare verso l’alto, per uscire. La terra si fa più friabile e leggera, un pallido raggio solare già s’insinua… E qui, di colpo, mi fermo! Ripiombo qualche centimetro più in basso, dove l’ombra s’allunga ancora intatta nella mia tana, e sento un piccolo tarlo rodere il legno delle mie travi.

È un’immagine. Mi viene da lontano, da un certo libro che ho amato molto, un’immagine che adesso non riesco a togliermi dalla testa e mi arrovella: il castello di Atlante.

“Il castello fatto per incanto tutto d’acciaio, e sì lucente e bello ch’altro al mondo non è mirabil tanto”.

Il mago Atlante lo ha costruito. Il vecchio incantator. Il negromante. Colui che viaggia sul cavallo alato Ippogrifo. Lo ha costruito per difendere il suo figlio adottivo amatissimo, Ruggiero, dalla brutta fine che lo attende: se sposerà Bradamante e avrà dei figli, morirà giovane. Il mago dunque lo rinchiude nel castello, così che non incontri mai Bradamante, non si sposi, non metta su famiglia: non viva, ma anche non muoia. E perché non patisca di solitudine, si mette a rapire a destra e a manca donne e cavalieri, rinchiude anche loro nel castello, e fa in modo che tutti insieme vivano felici, tra “suoni, canti, vestir, giuochi, vivande”.

Sembrerebbe una prigione, ma non lo è. Atlante stesso a un certo punto lo rivela: “Né per maligna intenzion, ahi lasso, feci la bella rocca in cima al sasso, né per avidità son rubatore; ma per ritrar sol dall’estremo passo un cavalier gentil, mi mosse amore”.

Il “malvagio invisibil signor di quel palagio” non è poi così malvagio: per amore ha costruito il castello e vi ha rinchiuso Ruggiero! Ha inventato per lui un luogo sicuro e protetto, fuori dal mondo, così che gli fosse evitato la crudele sorte di morire.

Ma, come sappiamo, al destino nessuno sfugge: Bradamante trova il castello! Ama Ruggiero e vuole liberarlo, quindi combatte contro il mago e, con l’aiuto di un anello fatato, vince.

Atlante a questo punto spezza l’incantesimo: distrugge il suo castello, lo fa scomparire in un soffio. “A un tratto il colle riman deserto, inospite et inculto. Né muro appar né torre in alcun lato, come se mai castel non vi sia stato”.

È questa l’immagine che adesso mi colpisce: le mura si dissolvono e le donne e i cavalieri che abitavano tra quelle mura si ritrovano all’improvviso fuori, all’aria, in aperta campagna. Una pianura sterminata e brulla, che assomiglia tanto a un deserto, a una terra desolata. E se ne stanno lì, per un tempo che immagino lunghissimo, inerti, inebetiti. Non sanno cosa fare, dove andare. Un po’ si aggirano, un po’ si guardano intorno. In un attimo la vita s’è spezzata.  Si sentono spersi. Spaesati. Il mago se n’è andato, ha cancellato l’incanto e li ha lasciati liberi.

Liberi tutti!

Ma quei tutti hanno un’enorme difficoltà ad andarsene. Rimangono lì. Vagolano per un po’. Si sentono spogliati di qualcosa, defraudati. Nudi. Forse sono anche pieni di rabbia e di rancore. Disperati, o soltanto infinitamente tristi.

“Le donne e i cavallier si trovar fuora de le superbe stanze alla campagna: e furon di lor molte a chi ne dolse; che tal franchezza un gran piacer lor tolse”. La franchezza, il diventar franchi, liberi, ha tolto loro il piacere. Così dice Ariosto.

Quale piacere? Il piacere di vivere rinchiusi? Lontani, separati dal fuori, dal mondo che c’è fuori, troppo grande, troppo vuoto? Troppo pieno, ma di cose vuote?

E se fuori non fosse il posto dove noi, talpe o non talpe, vorremmo vivere? Se fuori fossimo obbligati a modi di vivere che non vorremmo più fossero i nostri?

E se ci mancasse la vita dentro? Eccolo il tarlo che mi rode: e se la vita vera fosse la vita che facevamo rinchiusi nel castello?

Ora che il mago ha dissolto la prigione, ora che possiamo (almeno in parte) uscire, ho paura che ci sentiremo spersi come i cavalieri dell’Ariosto (e non chiedetemi chi sia il mago, perché non so rispondere: di certo non è un premier, di certo non è un virus…): liberi, ma abbandonati nel vuoto.

E se non volessimo uscire?

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Il diario della talpa. Decimo episodio

10. TANTI SALUTI, CARE TALPE TEMPORANEE!

Ci stiamo tutti preparando a uscire.

Sarà bello, sì.

A me dispiace per le talpe temporanee. Le perderò. Se ne stanno andando tutte via. Una dopo l’altra, lasciano le loro tane precarie e transitorie come uno chalet in affitto, chiudono in fretta tana, si tirano dietro la porta, portandosi via tutto quel che in fretta e furia s’erano portate dietro per l’emergenza. Le vedo. Dal mio buco nella terra, le vedo spogliarsi una dopo l’altra, delle loro provvisorie pelliccette da talpa, e correr via trascinandosi valigie, trolley, zaini. Felici come pasque. Urlano, schiamazzano, si salutano da lontano, si sbracciano, si promettono cene, aperitivi, party, grigliate. Si ritrovano.

Contemplo tristemente tutte quelle pellicce vuote, appese all’attaccapanni. Come palloncini spompati. Che desolazione! Si son tutti rimessi giacca e cravatta, la camicia con le iniziali, i jeans Armani, il vestitino attillato, il giro di perle, i tacchi 12…

Non eravate vere talpe, si sapeva. Mi era chiaro fin dall’inizio che eravate diventate talpe, per un tempo più o meno breve. Transeunti. Effimere. Gente di passaggio. Talpe a termine.

E ce l’avevate messa tutta, per assumere la forma, lo stile di vita, quasi quasi il carattere di una talpa. Se non stavo attenta ci cascavo. Tutti così buoni e rinchiusi, silenziosi, obbedienti, e… solitari. Uh, com’eravate tutti solitari! Vi sentivamo per telefono e ci dicevate: oggi ho guardato un filmetto, oggi ho scritto una mail a mia madre, oggi ho concimato i gerani, oggi ho contemplato l’orizzonte. Non ci potevamo credere che eravate le stesse persone che un mese prima prenotavano un tour in Indonesia, affittavano una barca alle Maldive, un intero hotel per un matrimonio e un campo da calcio per il compleanno del figlioletto. Persone che nell’arco di una giornata inanellavano: il parrucchiere, otto ore di lavoro, la palestra, il sushi con i colleghi, la partita di calcio in tivù, la pizza con gli amici, e se era domenica anche la messa e la gita al mare con i figli.

Avete finto di essere talpe. O meglio, vi siete adeguate e avete accettato la mutazione a tempo. Due mesetti di vita da talpe e chiusa lì. Tanti saluti e baci.

Lo sapevo. Certo che lo sapevo.

Eppure adesso mi fa male.

Non so come spiegarmi. Mi verrebbe da dire che è stato bello essere soli insieme. Soli, e insieme. Un esperimento di solitudine collettiva meraviglioso!

Una società solitaria di massa, direbbe Pantaleo.

Invece, ora che voi talpe temporanee tornerete a essere gli animali che eravate prima, be’, mi sento molto più sola. Aver goduto della vostra presenza intorno mi aveva allargato la vita. Non vi vedevo, ma vi sentivo intorno, riuscivo a immaginarvi, ognuno di voi nella sua galleria individuale, parallela alla mia. Eravamo i binari di una stazione ferroviaria immensa, tutti belli allineati e composti, in fila uno accanto all’altro. Binario 16, 17,18, 19… Una meraviglia di ordine e molteplicità, le stazioni. Ogni binario destinato a un treno diverso, d’accordo, ma pur sempre tutti i binari uniti, insieme, solidali, direi nella stessa barca (cioè, stazione).

Ora invece torno a essere sola da sola, non so come dire. Torno alla mia solitudine solitaria. E patisco molto di più, adesso; mi sento molto più sola: perché ho provato l’ebbrezza di una condivisione, di una comunanza.

Non vorrei arrivare a quell’orrendo detto: Mal comune mezzo gaudio. Però un po’ sì. Uno sopporta meglio l’angustia della sua tana, se sa che anche gli altri vivono in tane anguste.

(Questo aprirebbe a discorsi enormi sulla società, la politica, l’ideologia. Verrebbe da auspicare una società fondata sull’uguaglianza… Verrebbe anche il seguente dubbio: e se il virus fosse venuto proprio a riproporci quella famosa utopia che a inizio Novecento s’era tentato di realizzare e poi, sul finire del secolo, almeno qui da noi in Europa, era miseramente fallita? Controdubbio molto critico: possibile che ci serva un virus per progettare una società più giusta?).

Noi talpe durature perdureremo. Continueremo a essere quel che siamo. Talpe stabili, permanenti. Stanziali. Cioè ferme, inamovibili. Non caduche e ballerine come le talpe momentanee che l’emergenza epidemia ha prodotto (in vitro?), e adesso libera, detalpizza. (Si può dire detalpizzare? Credo di sì. In questi due mesi si sono inventate infinite parole nuove…).

Oggi noi talpe permanenti mettiamo ordine: per non morire. Per non lasciarci andare alla tristezza oggi ci alziamo presto e mettiamo in ordine la tana.

Quando proprio non ce la faccio più e il magone mi attanaglia secco, telefono a Pantaleo, per trovare conforto. Sta studiando, non s’è accorto di niente. Gli dico: Ma lo sai che adesso il mondo si riapre? Risponde pacato: Ah sì, già… Mi sa che per lui è tutto uguale. È così impermeabile, Pantaleo! Le gocce del mondo gli cadono sulla pelliccia e lui mai una piega: non si bagna, nulla mai lo infradicia. Allora insisto, gli chiedo come la vede. E visto che insisto mi dice: Aspetta un attimo. Sento che scartabella tra le sue cartelline, mi dice che deve esaminare un suo diagramma, o non so che, poi finalmente si esprime:

Non ti preoccupare – mi dice, – torneranno, torneranno…!

Chi?

Le tue amiche talpe provvisorie!

E non so se rallegrarmi o meno. Non capisco mai se quel che mi rivela Pantaleo è una notizia buona o cattiva.

Va be’, torniamo ai nostri lavori. Sbattiamo fuori dal balcone i tappetini incrostati di fango, puliamo col Vetril le lampade a petrolio, diamo una spolveratina ai libri (che non abbiamo letto, è vero, ma che ci sono mancati e ora non vediamo l’ora di riprendere tra le zampe), lustriamo i ninnoli, le padelle appese, le maniglie di ottone.

Ci prepariamo anche noi, pur nella nostra chiusura di sempre, alla nuova “vita aperta” che sarà. Dicono che riaprono, quindi si tratta di apertura, quindi il mondo tornerà a essere molto aperto, no? Non tanto come prima, d’accordo, ma abbastanza. Basta locali soffocanti, zone ristrette e buie, prigioni fisiche e mentali. Andremo tutti fuori, saremo tutti aperti.

Ho già lucidato le scarpe, così sono pronte per domani. Le ho messe all’aria, sulla terra accanto alla mia galleria. Uscirò anch’io, domani.

È quasi sera. Guardo le pareti terrose e cupe, ma anche calde e protettive, della mia tana.

Andremo dove?

Riapriremo cosa?

Non lo so cosa faremo, da domani. Forse noi talpe pianteremo una bandierina fuori dalla tana, che sventoli all’aria e indichi ai passanti le nostre buche. Questo faremo, come novità. Per dire: Non dimenticatevi di noi. Ma soprattutto, non dimenticatevi di voi: di quando, anche se per poco, siete state talpe.

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Il diario della talpa. Nono episodio

9. LE MASCHERINE E NOI

Abbiamo, con le mascherine, un rapporto disturbato. Amore e odio, direi. Un desiderio spasmodico e insoddisfatto, un fastidio insopportabile, un senso di mancanza, una nostalgia, un sordo rancore.

Siamo confusi e incerti. All’inizio ci hanno detto che non servivano. A febbraio ero entrata in varie farmacie per comprarmene un paio, ma i farmacisti mi avevano dissuasa: A che le serve? Mi ero vergognata ed ero uscita senza. Poi ci hanno detto che forse servivano, allora sono tornata in farmacia ma non ce n’erano più. Sparite. Neanche l’ombra di una mascherina.

Siamo, anche, molto ignoranti nei confronti delle mascherine. Non sappiamo bene come metterle, perché usarle, quando toglierle, quali modelli scegliere, di che colore. Abbiamo ascoltato con grande attenzione virologi, politici, giornalisti, pediatri, farmacisti, che per giorni ci hanno indicato, spiegato, mostrato. Non ci abbiamo capito niente.

Quindi noi ci mettiamo, per uscire, una mascherina a caso. Leggera, pesante, chirurgica, col filtro, senza filtro, professionale, con la garza interna, senza garza, con nastrini, con elastici, lavabile, non lavabile, FP2 o PP3 (abbiamo anche, ora, qualche non piccola titubanza verso le lettere dell’alfabeto). Mettiamo la mascherina che abbiamo, l’unica che alla fine siamo riusciti a carpire. Ci sembra, quell’unica mascherina carpita, un dono del cielo, una perla rara. Indossiamo sempre la stessa. Sappiamo che non si fa, che dura solo 4 o 9 ore e che poi bisogna buttarla. Ma che altro possiamo fare? Ce la facciamo durare giorni. La centelliniamo, come un liquore. La rianimiamo, in mille modi: la stendiamo al sole, la laviamo col sapone, la spruzziamo di gel appiccicoso, la mettiamo stesa sotto un coperchio a inalarsi di vapori alcolici, la stiriamo col ferro da stiro insieme alle camicie, la asciughiamo col phon dei capelli. Sappiamo che potrebbe essere piena di virus. Sappiamo che dopo un po’ non funziona più, si è de-impermealizzata, non è più filtrante. Ma abbiamo il terrore di uscire senza. È diventata la nostra armatura. Noi talpe-cavalieri non possiamo non indossare l’armatura. Ci sentiremmo inermi e perdute.

Ora che le farmacie sono state rifornite, è diverso: ci avventiamo sulle farmacie. Siamo diventati avidi di mascherine, voraci. Ci accapigliamo per accaparrarcene quante più possibile. Ce le strappiamo di zampa in zampa, lottiamo con le unghie.

Arriviamo ultimi. C’è gente che ne fa incetta da mesi. Quatta quatta è andata in farmacia ogni giorno, ogni giorno cambiando farmacia, o tornando nella stessa ma cambiando faccia, truccandosi, alterando la voce, mettendosi una parrucca… Così facendo ne ha accumulate immense montagnole, di queste benedette mascherine, che nasconde nel fondo delle proprie gallerie, negli armadi, sotto il letto, nelle scarpiere, nelle buche più profonde del terreno, nella dispensa tra la pasta e i barattoli dei pelati, in certe grotte disabitate. Perché un po’, sì, si vergogna. E non lo confesserebbe mai, di essere un accumulatore seriale di mascherine.

Ci aspetta un tempo infinito in cui andremo in giro mascherati. Mascherinati, si potrà dire?

Come vivremo?

Per esempio, avremo ancora voglia di parlarci, distanziati e mascherati come saremo? Dico parlare nel senso di chiacchierare, conversare. Esiste una vera e propria arte della conversazione, lo sappiamo bene; si tratta di quel sapiente parlar di nulla che in realtà poi, nella sostanza, è parlar di tutto facendo finta che sia nulla. Ci vuole tempo, però, per esercitare l’arte della conversazione, interi pomeriggi a prendere il tè in salotto, o sere interminabili dopo cena seduti sul divano sorseggiando un amaro alle erbe. Non si può chiacchierare a due metri di distanza, in piedi, in tre minuti.

E’ possibile che desisteremo. E ci accontenteremo di poche parole lanciate al vento, a quel ristretto vento che circola nel chiuso tra la tela della mascherina e le nostre labbra. Ci parleremo solo per darci ordini e scambiarci comunicazioni di servizio: Lava tu i piatti, prendimi le pantofole, Mario non vuole più studiare, Marcella s’è messa col panettiere. Cose così. Frasi che iniziano e finiscono in un amen. D’altronde, siamo una società dove da tempo trionfa la comunicazione, non certo la letteratura…

È possibile che alla fine ci stuferemo anche delle nostre parole brevi e scarne, e torneremo a parlarci a gesti. Un po’, in fondo, ci stavamo già da qualche anno esercitando, con quei gesti virtuali che sono i sms, le icone, gli emoticon, le faccine e gli animaletti graziosi che ci mandiamo quotidianamente a iosa. Ci siamo abituati da tempo, a questa comunicazione silente e giocosa che non comunica se non se stessa. Quindi, ce la faremo. Anzi, la mascherina ci aiuterà moltissimo a non dirci più niente, a raggiungere quel vuoto di parole verso cui ci eravamo già tanto sapientemente incamminati.

Certo, si soffoca un po’, dietro una mascherina. E questo è uno spiacevole inconveniente. Dopo neanche dieci minuti cominciamo a sudare e avvertire segni di asfissia. Le nostre fronti s’imperlano, i nostri occhi si arrossano, le nostre lenti si appannano. In effetti, ci manca l’aria. Ce la siamo dimenticata, l’aria. In un certo senso, ci stiamo privando del respiro. Saremo un’umanità che non respira più. Non importa, impareremo altri modi di sopravvivenza. Le specie evolvono. Pensiamo agli anfibi… Un po’ nell’aria, un po’ sott’acqua. Annasperemo in un mondo nuovo.

Quel che ci mancherà di più è il sorriso. Se sorridiamo sotto la mascherina, nessuno vedrà il nostro sorriso. E noi sorridiamo molto, nella vita… Sorridere e ridere è ciò che ci distingue da ogni altro animale, no?

Sorrideremo a vuoto. Avremo sorrisi invisibili e segreti.

O forse impareremo a sorridere con gli occhi. O con le zampe. Non so, qualcosa escogiteremo: perché troviamo intollerabile perdere il sorriso.

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