Schiaffi, Sexting e libertà

Notizia. Il Tribunale assolve la madre che, nel 2016, aveva schiaffeggiato la figlia dodicenne che su Instagram aveva mandato foto osé a un diciannovenne.

Mi stupisce che una madre, otto anni fa, tirasse ancora schiaffi ai figli. Mi stupisce che si finisca in tribunale per aver tirato uno schiaffo ai figli. E mi stupisce che il giudice abbia oggi dato ragione alla madre.

  Non si fa più da anni di educare a suon di schiaffi. La sberla è stata abolita nell’uso comune familiare, rimpiazzata dalla lezioncina morale e dalla contrattazione eterna. La parola, il dialogo hanno vinto. Ti spiego perché hai sbagliato, voglio che tu capisca, non farlo più e chiudiamola qui. Oppure: tu figlio vuoi uscire, io ti dico di no, ti spiego perché, e poi accetto che tu esca a patto che mangi la minestra, studi storia, o altro.

Non so se sia un bene o un male. Dico solo che mi è capitato spesso di assistere a queste negoziazioni, e le ho trovate ogni volta estenuanti, e molto imbarazzanti per il genitore, il quale 99 volte su 100 finisce per capitolare acconsentendo all’iniziale richiesta del figlio: eh, mi prende sempre per sfinimento, dice il genitore. Lo schiaffo era più breve, certamente. Diretto, non ambiguo, e decisamente spiccio. Ma abbiamo deciso che appartiene all’era troglodita di quando c’era l’autorità, e pronunciare quella parola non era un delitto.

E ora invece che succede? I giudici danno ragione alla madre schiaffeggiante e non alla figlia schiaffeggiata. Dicono che esiste un “potere/dovere di educazione e correzione dei figli”. Certo, forse “ha ecceduto nell’impiego della forza per redarguire la figlia”, ma trattasi in ogni caso di episodio penalmente irrilevante. Insomma, i giudici ammettono lo “schiaffo educativo”, per così dire. Bene. Pendiamo atto. Lo schiaffo, così assolto, potrebbe tornare utile a quei genitori che, di fronte alla bocciatura del figlio, fanno ricorso al Tar o accoltellano l’insegnante: da oggi in poi potranno decidere di dare uno scappellotto al figlio che non ha studiato. Naturalmente non saranno esenti dalla giudicante e severissima comunità dei social.

Il punto però è che una ragazzina di dodici anni mandi in giro messaggi e foto osé a un diciannovenne. Non so se si possa, oggi, fermare una ragazzina e impedirle di usare i social per mandare foto osé. E non so se lo schiaffo sia il modo migliore, ma penso che la ragazzina andasse comunque fermata. Per due motivi. Uno riguarda la libertà e l’altro la questione femminile. Entrambe mi stanno parecchio a cuore.

Ricordo il suicidio di Tiziana Cantone, che fece molto scalpore. S’impiccò il 13 settembre 2016, a 33 anni. Aveva inviato dei filmati sui suoi rapporti sessuali a conoscenti che poi li avevano divulgati, e tentò invano di far rimuovere i video hard, invocando il diritto all’oblio. Ricordo che molti, dolendosi dell’accaduto, difesero comunque la pratica del sexting come gesto di libertà sessuale, dissero che filmarsi o fotografarsi in intimità e poi mandarsi video era assolutamente normale, e che solo una mentalità bigotta e bacchettona poteva condannare comportamenti come quello di Tiziana. Ricordo che pensai allora quel che penso adesso: una cosa è la libertà, un’altra è la prudenza. Prudenza come perfezionamento (e non riduzione!) della libertà. Vorrebbe dire non essere così arroganti e prepotenti da esigere una libertà assoluta e illimitata. Riconoscere che esiste il male ed esiste il caso, e che il mondo ideale purtroppo è solo un’utopia. Abbiamo tutto il diritto di passare sulle strisce pedonali senza guardare l’auto che arriva (va rieducato l’automobilista, non il pedone?), ma poiché esiste l’automobilista distratto e l’imprevisto, potrei ritenermi libero di passare sulle strisce ma al contempo essere prudente. Allo stesso modo, i social non sono il mondo ideale. Esiste il revenge porn, per esempio…

Questione femminile. Facciamo tanto oggi (e tanto abbiamo fatto ieri!) per combattere il potere maschile maschilista che ci riduce a meri oggetti sessuali, e poi noi donne, noi ragazzine, non troviamo di meglio che usare i social per gareggiare a chi si mostra più bella e più sexy, riproponendo noi stesse l’immagine della femmina preda del maschio? È questa la libertà che vogliamo?

Infine ci sarebbe la questione del pudore. Ma inutile parlarne. Parola sparita. Sentimento archiviato. Il pudore è démodé, e molto reazionario.




Il ritorno della talpa: il diritto di ricevere risposte

Essendo di nuovo rinchiusa, passo molto tempo davanti alla tivù. Voglio sapere, essere informata, ascoltare opinioni. La sera, al buio della mia galleria, mi metto in poltrona e guardo: telegiornali, inchieste speciali, talkshow. Giro per canali e ne pesco uno qua uno là, non importa dove sia e chi parli. Sono avida di gente che parla. Mi aspetto ogni volta che qualcuno m’illumini, che mi dica la verità. Sono affetta da masochismo e vacue speranze, destinata quindi a perenni delusioni e frustrazioni, lo so.

Ma c’è una cosa che sommamente m’indigna: che nessun politico mai risponda alla domanda!

Ho analizzato molto la questione, è da non credere. Il giornalista chiede una cosa specifica (ad esempio: “Perché non avete fatto più tamponi quando i contagi erano bassi ed era utile farli per contenere l’epidemia?”) e il politico, senza la minima difficoltà o vergogna, parla d’altro. Riempie il vuoto con parole non importa quali e, cosa ancor peggiore, secondo uno schema retorico fisso e orribilmente ripetitivo:

1) Intanto mi lasci dire che…

2) Abbiamo passato l’estate a lavorare…

3) Anche gli altri Paesi però…

4) Stiamo facendo molti sforzi per…

Scusate, ma fare sforzi assicura di per sé dei risultati? Non so, sarà che nella vita precedente ho fatto l’insegnante, ma mi viene in mente il solito allievo impreparato, che fa scena muta all’interrogazione e quando l’insegnante gli dà 4 dice: Ma io ho studiato!

La cosa grave è che l’intervistatore tace, non reagisce, non incalza il politico, non gli fa notare che non ha risposto e non pretende che risponda. Nulla. Silenzio. Si passa ad altro. Ad altre domande che innescheranno altre non-risposte. Mistero! Perché il giornalista tollera che il politico non risponda? Qual è il suo lavoro? Per chi lavora?

Nel mondo delle talpe è tutto molto più nitido. Forse siamo delle sempliciotte, ma quel che pensiamo è questo: se ti faccio una domanda, tu per piacere rispondi a quella domanda, non è che te ne puoi partire in tutt’altro discorso. Oppure se non vuoi rispondere lo dici, dici: Mi dispiace, mi scusi, a questo non rispondo, passiamo a un’altra domanda. Onestà. E chiarezza. Non trovate che ci vorrebbero?

Lo dico in un altro modo, con un esempio. Ci troviamo sulla panchina, io e la talpa Cristina mia vicina di casa, chiacchieriamo prendendo un po’ d’aria e godendoci la campagna, e a un certo punto io le chiedo:

Senti, Cristina, tuo figlio ha poi trovato lavoro?

E Cristina mi risponde:

Ma guarda, le patate al forno le puoi fare in vari modi, io le faccio col rosmarino.

Vi par possibile? No, che non vi par possibile. Eppure è quel che succede ogni giorno, più volte al giorno, in ogni rete tivù, a ogni programma, con qualsiasi conduttrice o conduttore, con qualsiasi politico, ministro, sottosegretario o tirapiedi: l’uno pone una domanda precisa e l’altro risponde a tutt’altro. Cioè, non risponde.

E qui, di nuovo, il mio vecchio mestiere mi sovviene: se io durante un’interrogazione chiedevo cos’ha scritto Petrarca, e l’allievo mi rispondeva che Cagliari è una ridente città della Sardegna, io non solo lo mandavo a posto con 2, ma chiamavo anche l’ambulanza, molto preoccupata per la sua salute mentale.

Ora, perché non diamo 2 ai politici? Perché non chiamiamo l’ambulanza?

Perché tolleriamo che non rispondano?

Mi piacerebbe che la smettessimo di tollerare. Che non gliela lasciassimo passar liscia. Mi piacerebbe che, se tu politico non rispondi, io giornalista lo rimarcassi con grande energia: Non hai risposto, Non hai risposto, Non hai risposto! Un po’ à la Sgarbi (può non piacere, ma funziona): Capra! Capra! Capra! E se continui a non rispondere, io chiudo il collegamento dicendo che tu, politico tal dei tali, non hai risposto alle domande. Sancisco la tua non-risposta, ti inchiodo a quel che sei.

Mi piacerebbe che i politici avessero paura di andare in tivù, non che ci andassero allegramente ogni giorno come a un picnic tra amici. Non so se l’avete notato, ma non esiste, qui in Italia, alcun programma tivù in cui i politici temano di andare: non è la prova che il conduttore non sta facendo il suo dovere?

Credo che abbiamo, noi cittadini, il diritto di ricevere risposte. Oggi più che mai, visto il disastro in cui siamo precipitati, credo sia un diritto sacrosanto.

Ebbene, questo diritto io lo vedo continuamente violato, calpestato.

Non capisco perché permettiamo questo, non capisco perché si facciano tante interviste e tanti talkshow se poi si accetta di non avere risposte e si sopportano queste continue elusioni e fughe. È, anche, un’offesa all’intelligenza dei telespettatori, cioè di noi cittadini. Va bene, l’epidemia ci ha resi confusi e inermi, tristi e a tratti disperati. Ma non ci ha ancora instupiditi.

Non capisco che gioco perverso sia, a chi giovi, e chi abbia paura di chi.

Dobbiamo smettere di giocare. E anche di aver paura. Siamo gente libera o no?

Okay, sono risbucata dalla galleria. Siamo di nuovo rinchiusi, quindi le talpe ritornano, e a tratti risbucano.

Non è come l’altra volta, però: adesso dipende da dove abiti. In certi posti sei chiuso, in altri meno, in altri ancora quasi per niente. Questo rende tutto meno semplice, e anche meno chiaro. A marzo c’era una chiarezza adamantina che ci rendeva un pochino più sereni: eravamo tutti chiusi uguale. Ora ce lo chiediamo ogni giorno, se e quanto siamo chiusi, o aperti ma poco, o semichiusi, o chiusi con vista mare, o aperti senza via d’uscita…

Comunque siamo tornati talpe, chi più chi meno. E adesso abbiamo capito che forse la talpitudine non ci abbandonerà mai del tutto, d’ora in poi: sarà uno stato intermittente. Come le lucine di Natale. Avremo una pelliccia marroniccia da indossare in certi periodi, e in certi altri rimettere nell’armadio, con le tasche piene di naftalina. Il mondo è cambiato. Prima, nell’armadio, avevamo solo cappottini di lana o morbidi piumini di penne d’anatra. Ora quella pellicciotta da talpa esiste, e ci squadra con aria minacciosa: Ricordati che sei talpa, e (ogni tanto) talpa ritornerai.

Ogni tanto però usciamo a parlarci, tra talpe. Almeno questo. Parliamoci! Le parole non mi sono mai parse così teneramente inutili… Mi fa tenerezza, la loro abbagliante inutilità. Ma sono convinta che ora meno che mai si debba tacere. Inutili di tutto il mondo, unitevi e parlatevi!

La parola è quel che ci resta, l’unica libertà che nessuno ci può togliere. Meglio se scritta. Scripta manent ancora, tutto sommato: i libri per esempio resisteranno sempre e oggi più che mai devono far sentire la loro voce.

Usiamola dunque, questa parola! Con lealtà, e parsimonia… Ad esempio per esigere risposte.

Pubblicato su La Stampa del 15 novembre 2020




Non ci resta che il tampone

Ultimamente siamo tutti quanti presi da uno spasmodico, smodato e paradossale desiderio di tampone.

Non siamo diventati di colpo stupidi o masochisti: è che il tampone è l’unica cosa che ci resta, il solo desiderio che abbia, in questa desolazione, una qualche chance di essere esaudito. Nel nostro immaginario, è diventato la manna che scende nel deserto. Il salvagente lanciato al naufrago. L’oracolo che ci dà un responso. L’amico immaginario.

È anche, bisogna dirlo meno poeticamente, il nostro scarica-coscienza. Lo è stato soprattutto quando siamo tornati dalle vacanze e, dopo bagordi, discoteche, cene, aperitivi, feste affollate, molti di noi, quelli che si erano sfrenati di più, si sono precipitati a farsi un tampone: per togliersi il pensiero, e magari andare più sereni ad altre feste. Da settembre in poi il tampone è diventato l’acqua che lava via i peccati, il gesto che ci libera dai sensi di colpa. Tampone-lavacro, tampone-panacea.

Ma ora è di più: il tampone è l’unica cosa che il cittadino ha a disposizione (seppur con enormi difficoltà) per sapere almeno se si è preso il virus o no, in uno Stato che si nega, si nasconde, fa pasticci, confonde, non risolve, non appronta nulla, non ci difende, non ci protegge!

Dove il potere abdica, regna il tampone.

Con enormi difficoltà, però! Difficilissimo avere il dono di un tampone. L’oracolo di Delfi era di gran lunga più accessibile, meno affollato: forse più oscuro, ma sicuramente più disponibile. L’immagine più dolorosa, drammatica, devastante di questi giorni, quella che non mi tolgo dagli occhi, è la gente in coda nella notte, in auto o a piedi, dalle quattro di mattina. Gente che accompagna i suoi bambini, i suoi anziani, magari febbricitanti. Scene intollerabili che non dimenticheremo.

L’aspetto per me più stupefacente è la pazienza. L’infinita sopportazione, venata di rassegnazione. La gente intervistata nella notte, chiusa nella propria auto, non si lamenta, non protesta. Non lancia sassi, non divelle alberi, non incendia palazzi, dice soltanto: Eh sì, sono qui da 7 ore, dormo un po’, mi sono portato da leggere, aspetto, e spero di arrivare a farmelo, il tampone, che mi prendano ancora, che non chiudano, altrimenti dovrò tornare domani.

Come hanno potuto i nostri governanti assistere impassibili a questo supplizio senza vergognarsi? E come abbiamo potuto noi essere così pazienti, e indulgenti?

Ma il tampone è soprattutto ciò che “tampona” la ferita più grande, che sostituisce il Grande Assente, colui che ora più che mai ci manca: il nostro medico curante. La corsa ai tamponi è la risposta, patetica, alla latitanza dei nostri medici. Latitanza non colpevole, intendiamoci, non voluta, anch’essa in qualche modo imposta: il medico di base non può visitarci e non può curarci. Noi lo chiamiamo, gli elenchiamo i sintomi al telefono, e lui ci dice che né potremo noi andare da lui in ambulatorio, né potrà lui venire a visitare noi. Logico, correrebbe il rischio di infettarsi e di infettare tutti i pazienti successivi; si dovrebbe proteggere, ma non gli è stato fornito nessun mezzo di protezione. Quindi ci dice gentilmente di prendere una tachipirina e di aspettare; oppure, se ritiene che i sintomi siano chiari, trasmette una segnalazione alla ASL.

Cioè, ci abbandona! Il nostro medico amato, il medico che ci cura da trent’anni, che conosce ogni nostro minimo acciacco, che è corso al nostro capezzale a ogni nostra febbre o mal di pancia, ora non può che negarsi e abbandonarci: trasmette la segnalazione all’Asl! Aiuto, nulla potrebbe farci più orrore, nulla gettarci di più nello sconforto totale! Di colpo, al suono ASL, abbiamo la percezione netta del tritacarne burocratico in cui finiremo, noi e i nostri poveri sintomi, semplici nomi buttati nella rete, dispersi, maciullati… Di colpo ci sentiamo soli. Forse malati, e irrimediabilmente soli. Perduti nel vuoto.

Mi viene in mente Major Tom. La splendida e tragica canzone di David Bowie dove l’astronauta si perde nello spazio, vi ricordate? Ground Control to Major Tom… Can you hear me, Major Tom…? No, nessuno ci ascolta. La nostra astronave è rotta e non sa da che parte andare. Questa insensata corsa al tampone è il segno della confusione e solitudine in cui ci hanno lasciati. Noi andiamo dal tampone perché è l’unica entità esistente da cui andare! È “lui” il nostro nuovo medico. Un medico impalpabile e impotente, un medico che non ci cura e non si cura di noi. Ma almeno ci solleva l’anima per un po’, ci placa l’ansia.

C’è qualcosa di sinistramente assurdo in tutto ciò, qualcosa di (inconsapevolmente?) perverso e anche un po’ sadico. Possibile che, proprio in epoca di pandemia, la gente perda i suoi medici?

Per questo adesso siamo tutti idealmente dentro quelle auto in coda. Uniti, partecipi, addolorati, sconcertati: siamo lì in piena notte, pieni di freddo e ansia, preoccupati e confusi. In fila al buio per ore.

È l’abbandono, che più ci tormenta. L’essere lasciati in un mare immenso carico di nubi tempestose, senza nemmeno il miraggio di una barchetta, le luci di un elicottero che si avvicina, una corda che ci viene lanciata, una torcia, una coperta di lana…

La legge del mare impone di salvare i naufraghi. Quale legge salverà noi, naufraghi nel mare dell’inefficienza e della cieca, impietosa disorganizzazione?

Pubblicato su La Stampa del 27 ottobre 2020




L’orso M49 e l’arte di fuggire

La prima volta non lo sapevo. Credevo fosse un gioco. Stavo rincorrendo farfalle, mi piacciono da morire. Me l’aveva insegnato la mia mamma, a farne scorpacciate. Andavamo a caccia tutto il giorno, lei ed io, poi la sera ci facevamo un’insalata di farfalle. Buona, dietetica. Mia madre non era tanto carnivora, preferiva la verdura, o le carni leggere, volatili… Acchiappare minuscoli esserini che ti svolazzano intorno è molto divertente. Se era stagione, ci mettevamo anche due funghetti di contorno. Ma io i funghi non li sapevo trovare; giravo giravo, e sì, li cercavo, ma non so come non riuscivo mai a vederli. Secondo me si nascondono, i funghi. Oppure mi distraevo. Sono un orso molto distratto, anche se non me ne accorgo di esserlo. Diciamo che mi distraggo anche dal mio essere distratto. Penso ad altro, o c’è sempre qualcosa che mi attira e mi porta da un’altra parte, non so, un fruscio, una nuvola che passa…

Comunque, la prima volta mi avete preso di sorpresa. Se era un gioco, non mi è piaciuto per niente. Mi avete legato, elettrizzato, intontito. Non so cosa mi avete fatto, mi girava la testa e non riuscivo più ad alzarmi. Appena ho potuto me ne sono andato. Mi dispiace, ma non ci posso stare rinchiuso. Non so se riuscite a immaginare… Se vi chiudessero in casa, se vi dicessero di non uscire più, di non passeggiare, non correre, non vedere gli amici, non giocare tra gli alberi… Si chiama lockdown, in inglese. Mai sentito?

Sono scappato tutte le volte che mi avete preso. Non era scappare, era solo che dovevo andarmene. Un istinto, mi capite?

Ma perché v’incaponite tanto con me? Non avete altro a cui pensare? Stanno per iniziare le scuole, per esempio, e io lo so che adesso per voi è un problema: il distanziamento, i banchi nuovi con le rotelle, le mascherine. Dovete difendere i vostri cuccioli, volete che vadano a imparare tante cose, ma anche che stiano al sicuro. Lo capisco bene, è giusto. E allora perché non vi dedicate ai vostri problemi? La disoccupazione, i licenziamenti, il PIL che non cresce…

Avete la vostra vita, io ho la mia. Pensate che sia facile fare l’orso solitario che vaga per i boschi sempre in cerca di cibo? Eh sì, perché anch’io mi devo sfamare. E a volte farfalle e funghi non mi bastano. A volte mi avvicino alle vostre case. D’accordo, non si fa. Ma se voi lasciate i bidoni pieni di spazzatura… Sento l’odore. L’olfatto non è cosa da poco, non si può ignorare. Cerco di tenermi lontano, lo so che vi faccio paura. Sono grosso. Se mi alzo sulle zampe posteriori sono alto due metri, credo. E sono scuro, ho una pelliccia bruna come la notte. Ma non dovete fermarvi all’aspetto, al colore del pelo…

Non potremmo fare che io vivo la mia vita e voi la vostra? Umani e orsi: possono convivere, no? Io per esempio non vi catturo. Non mi passa neanche in mente, eppure ci metterei poco: vi prendo per il collo e vi metto in una gabbia. Vi piacerebbe?

Lasciatemi andare. Inutile che mi circondiate con recinti di ferro alti 4 metri e barriere elettrificate. Noi orsi siamo forti. Con una zampata riusciamo a divellere pali e inferriate. Li scardiniamo da sotto. Lasciate perdere.

Adesso sono chiuso in una specie di cassa tubolare, un cilindro che ha un gusto di metallo. Cos’è, una tana, una cuccia per cani? O sono finito all’ospedale? Mi va troppo stretto, non riesco a muovere neanche una zampa. Ed è buio, un buio pauroso. Mi sa che ci avete riprovato. Mi avete catturato un’altra volta. Perché? Tra poco è autunno. Stavo completando la mia riserva di grasso, tempo un mese o due e me ne andavo in letargo. Conosco una grotta, sui monti. C’è fresco, si sta bene. Mi accoccolavo lì e dormivo tutto l’inverno. Che male vi facevo?

E poi, c’è una cosa che non capisco. Voi li orsi li amate. La prova è che ai vostri cuccioli regalate un sacco di orsacchiotti. Appena nati e poi per anni, non fate altro che riempirli di orsi di pezza, orsi come me… I vostri bambini ci tengono stretti nel lettino, non si addormentano senza di noi. Gli fate vedere anche i cartoni animati di noi orsi, e loro impazziscono per l’orso Yoghi, col suo berretto verde e la cravatta da uomo. E allora poi perché ci date la caccia?

Il cinema non è la vita, è ovvio. Ma nel cinema, nelle storie che inventate, c’è la vita come dovrebbe essere. Ci sono prigionieri che scappano dal carcere, e li chiamate eroi. Pensate al conte di Montecristo, a Papillon… Mi avete chiamato orso M49, e poi Papillon. E va bene. Ma il mio vero nome, il nome che mi ha dato la mia mamma quando sono nato, non lo conoscete. Non me l’avete neanche chiesto. Non ve lo perdono. Il nome è il primo regalo che ci fa la vita…

Mi avete definito anche “orso problematico”.

E questo mi fa tristezza, per voi più che per me. Ma cosa dite, come parlate? E che razza di gente siete? Davvero per voi la libertà è un problema?

Mi avete anche messo un collare. Un collare strano che manda segnali. Lo so che così mi controllate. Non va bene. Non mi va di essere sorvegliato, spiato. Non sono come voi, che vi fate monitorare dai vostri telefonini… Vi rubano i dati, sanno tutto di voi: la posizione, i gusti che avete, i prodotti che usate. Dovreste smetterla, e imparare a sciogliervi dai lacci. Dovreste imparare a essere liberi, invece di imprigionare noi. Se volete vi insegno come si fa. Non si può vivere con un collare. Scusate se me lo sono tolto, a un certo punto mi prudeva il collo, un fastidio infinito. L’ho rosicchiato.

Ecco, se mi liberate vi insegnerò come si rosicchiano i collari.

Pubblicato su La Stampa dell’8 settembre 2020




Come nel mito greco il cacciatore vittima del cervo

Ci siamo dimenticati della vendetta. È un gesto che non ci piace più, che sentiamo estraneo e sbagliato, ignobile, ingeneroso. La nostra è la cultura del perdono, porgere l’altra guancia o almeno evitare l’automatismo dell’occhio per occhio dente per dente.

Eppure un tempo la vendetta era un compito, un imperativo morale. Amleto è lì a ricordarcelo, anche se già in lui il dovere s’incrina dolorosamente nel dubbio che paralizza l’azione. E la guerra di Troia, in fondo, è la vendetta di Menelao a cui lo straniero Paride ha rapito la moglie…

Il tema rimane in certi film, che appartengono alla cultura americana del farsi giustizia da sé. Il giustiziere della notte, per esempio, dove Charles Bronson, nei panni di un architetto di New York a cui hanno aggredito la figlia e ucciso la moglie, s’improvvisa spietato vendicatore. Difficile non amare il personaggio, non vedere che la vendetta può anche essere intesa come la risposta, più che umana, a un atto criminale, disumano.

Gli animali tengono memoria. In loro non c’è cultura che tenga. Agiscono d’istinto e sanno cosa fare.

Pochi giorni fa, nell’Oregon, un uomo di 66 anni va a caccia nella proprietà di un amico e ferisce un cervo con una freccia. Si fa buio, e non trova la preda, così decide di andarlo a cercare il mattino dopo. Arriva la notte. L’uomo dorme beato, il cervo no. Ha male, non riesce più ad alzarsi. Pensa: perché quell’uomo andava a caccia proprio di lui, perché lo ha colpito, che cosa gli ha fatto di male? Non sa nulla di violenza, e nemmeno di destino e di condizione mortale. Sente che la sua vita s’interrompe, e questo è tutto.  Ma su quella domanda muta e inconsapevole, sul perché, sulla gratuità colpevole di chi lo ha voluto uccidere, non si placa. È un istinto. Se tu mi togli la vita, io ti devo punire. Non riavrò la vita, ma la toglierò a te.

La notte di quel cervo è la forza della memoria. Le ferite non si dimenticano. Quando al mattino il cacciatore ritorna, il cervo, con le poche forze che gli restano, lo uccide.

Difficile, in questa storia, stare dalla parte del cacciatore. Qui ci è più facile prendere le difese della vittima, visto che la vittima è un cervo (e su questa facilità, che ci viene con gli animali ma non con gli esseri umani, dovremmo riflettere: c’è qualcosa di primordiale e atavico che, a dispetto di tutti i nostri principi, se ne sta ancora acquattato dentro di noi?). Il cervo, poi, ha qualcosa in più che ci muove: è l’animale delle favole, è il cerbiatto timido e elegante che corre per i boschi. È Bamby.

Imperdonabile uccidere Bamby.

Ma c’è un’altra storia, depositata in noi da millenni: il mito di Atteone, il cacciatore sventurato che, durante una battuta di caccia, vede la dea Artemide mentre fa il bagno nuda. Vietato guardare la divinità: Artemide lo trasforma in cervo, e Atteone viene raggiunto dalla muta dei suoi cani che, non riconoscendolo, lo sbranano. Il cacciatore cacciato. Il carnefice che si trasforma in vittima. Anche questa è una storia di vendetta. Gli dei erano persone molto vendicative…

Anche il cacciatore dell’Oregon cade vittima del suo gesto. Ma il suo gesto era violento e determinato. Non si caccia impunemente, e alla fine si viene cacciati.

Atteone invece era innocente. Colpevole solo di uno sguardo, che non poteva in alcun modo evitare, visto che la dea gli appare davanti casualmente, senza che lui lo voglia, senza che lui scelga di guardarla. Uno sguardo inevitabile, che si muta in condanna.

La storia di Atteone ci muove ancora oggi, e per sempre, a pietà. E ci porta a riflettere su cosa sia colpa e cosa sia innocenza. E se la vendetta non sia, in fondo, solo una delle maschere del Destino.

Pubblicato su La Stampa del 2 settembre 2020