Nessuna zanzariera è gratis – Il mito dei lavoratori dipendenti che sono i soli a pagare le tasse in Italia

Le tasse in Italia sono uno dei più abituali argomenti di conversazione: al bar, sui giornali, tra conoscenti ed in famiglia si parla spesso di tasse, di pressione fiscale che risulta particolarmente gravosa e soffoca ogni iniziativa imprenditoriale, ma soprattutto di evasione fiscale, di chi paga le tasse e di chi invece non le paga.

A questo punto la conversazione assume di solito – come testimonia il recente caso della residenza di Jannik Sinner a Montecarlo – una connotazione moralistica: chi non paga le tasse viola il patto di convivenza sociale, e non contribuisce a finanziare la sanità, gli ospedali, la scuola, ecc..

Per carità, ci sono anche queste considerazioni, che sono condivisibili. Le tasse sono fatte apposta per consentire che l’Amministrazione possa rendere servizi pubblici essenziali e si realizzino le infrastrutture necessarie (strade, ponti, ospedali, ferrovie, ecc.).

Magari si potrebbe iniziare a ragionare un po’ più serenamente riguardo al perimetro delle cose che è necessario o semplicemente opportuno che vengano fatte dallo Stato: se siamo diventati la repubblica dei bonus, incluso quello per l’installazione delle zanzariere, probabilmente qualche problema ce l’abbiamo, considerato che nessuna zanzariera è gratis.

Fuori di metafora, e al di là delle contingenze del PNRR, pare evidente che il livello della spesa pubblica in Italia abbia raggiunto livelli ormai insostenibili. Quel che è poi certo è che, a fronte di una spesa pubblica debordante e di un’enorme mole di quattrini intermediati dalla mano pubblica, il livello dei servizi non è adeguato (e molto spesso non ci siamo neppure dotati di strumenti per verificare il grado di efficienza – in termini appunto di qualità delle prestazioni rese e/o delle infrastrutture realizzate – di quanto spendiamo).

Sotto una prospettiva solo parzialmente differente, poi, sarebbe forse il momento di mettere almeno in dubbio l’asserzione per cui il pubblico sarebbe in grado di investire e/o allocare le risorse a disposizione meglio dei privati e/o dei diretti interessati, rivalutando in qualche modo il concetto di mano invisibile di Adam Smith.

Ma tornando alle tasse, è evidente come la questione fiscale sia fondante del concetto stesso di comunità (no taxation without representation): esattamente come, quando tra amici si decide di uscire a mangiare una pizza, non è un dettaglio stabilire chi e come si paga.

E’ poi di dominio pubblico come nel nostro Paese il lavoro sia tassato in maniera particolarmente pesante: si tratta del cd. cuneo fiscale, di cui da decenni si invoca la riduzione, evidentemente con scarsi risultati.

In un’intervista di qualche tempo fa, Roberto Costa, il ristoratore genovese che ha aperto una catena di ristoranti a Londra (Macellaio RC), alla domanda se aveva intenzione di ritornare in Italia ha risposto che nel Regno Unito “il costo del personale è circa il 36%, in Italia tra tredicesime, quattordicesime e TFR, si arrivava al 110%”: in altre parole, mentre da noi quello che percepisce in busta paga un lavoratore è meno della metà del suo costo complessivo a carico del datore di lavoro, a Londra il netto corrisponde a circa i 3/4 del costo complessivo. Game, set, match, la partita finisce qui, il differenziale tra i due sistemi è troppo elevato, a queste condizioni in Italia non possiamo essere competitivi.

Se le cose stanno così – e purtroppo stanno così per davvero -, la principale preoccupazione della nostra classe dirigente dovrebbe essere quella di rimuovere il gigantesco ostacolo che rende oggettivamente poco remunerativo lavorare nel nostro Paese (dove non a caso sostanzialmente si vive di rendita, di impiego pubblico e di pensioni, per lo più pubbliche pure quelle).

Ed invece, con un ribaltamento francamente incomprensibile della realtà, disconoscendo le più elementari regole del mercato del lavoro e dell’economia tra cui la fondamentale differenza – sostanzialmente marxiana – tra lavoro produttivo ed improduttivo (il lavoro produttivo è quello dell’impresa privata, che crea ricchezza e valore; quello improduttivo è tipicamente quello della Pubblica Amministrazione, che fornisce servizi utilizzando il prelievo fiscale del primo in una logica redistributiva), da noi si ritiene che la questione non sia sgravare il lavoro di costi assolutamente eccessivi ed esorbitanti.

In Italia – bypassando il problema – si sostiene che gli unici che pagano le tasse sono i lavoratori dipendenti, mentre le imprese, i professionisti e i lavoratori autonomi sono una massa di evasori fiscali: per risolvere la questione basterebbe convincere questi lazzaroni a pagare le tasse, come fanno già i dipendenti.

In realtà, come tutti sanno (o dovrebbero sapere), le tasse dei lavoratori dipendenti le pagano in realtà i lazzaroni di cui sopra, ovvero i loro datori di lavoro.

E questo perché il cd. cuneo fiscale è un onere che grava concretamente sul datore di lavoro, sia da un punto di vista sostanziale, rappresentando un vero e proprio costo, che da un punto di vista formale, operando il meccanismo del cd. sostituto di imposta (per cui il dipendente neppure sa quali e quante sono le sue ritenute, che vengono pagate direttamene dal suo principale all’Erario).

In soldoni (è proprio il caso di dirlo), io so benissimo quanto costa all’anno la mia bravissima segretaria, mentre lei sa solo quello che prende come netto.

Se possibile, per il dipendente pubblico, che lavora presso una P.A. (e/o un Ente e/o una società partecipata e/o controllata), la situazione è ancora più gravosa per il povero lazzarone che ha messo su un’azienda con il proprio lavoro, risultando a suo carico – pro-quota con tutti gli altri delinquenti titolari di un’impresa e/o professionisti e/o lavoratori autonomi – non solo gli oneri contributivi e previdenziali del pubblico impiegato, ma l’intero bilancio dell’Ente di appartenenza (che in questo caso è datore di lavoro solo formalmente, traendo le risorse necessarie dal prelievo fiscale posto a carico dei contribuenti).

In definitiva, vale anche con riferimento al problema delle tasse quello che diceva Winston Churchill riguardo alle imprese: “alcune persone vedono un’impresa privata come una tigre feroce da uccidere subito, altri come una mucca da mungere, pochissimi la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che traina un carro molto pesante”.




I concetti di danno, responsabilità e rischio: Houston, abbiamo un problema

Fino a qualche tempo fa, sui manuali di diritto privato utilizzati dagli studenti del primo anno di giurisprudenza si studiava che non ogni evento negativo che poteva capitare nella vita delle persone consisteva in un danno da considerarsi ingiusto nel senso di contrario al diritto (contra ius) ai sensi del fondamentale precetto di cui all’art. 2043 del codice civile.

C’erano – così almeno si studiava – i cd. danni leciti, ovvero le conseguenze sfavorevoli di un certo comportamento o di un evento della natura per cui l’ordinamento riteneva più opportuno non far conseguire alcun rimedio particolare: se la vista di cui godevo dalla finestra di casa mia viene pregiudicata dalla costruzione di un nuovo fabbricato nel rispetto della normativa edilizia e sulle distanze, non ho una pretesa da far valere (vorrà dire che semmai uscirò più spesso a fare una passeggiata per prendermi qualche raggio di sole).

Inoltre, sempre secondo il citato art. 2043 c.c., affinché ci sia un danno risarcibile è necessario che sia ravvisabile dolo o almeno colpa da parte di chi ha tenuto quella data condotta.

Le ipotesi di responsabilità sostanzialmente oggettiva sono infatti limitate e circoscritte nel nostro ordinamento giuridico, assolvendo fondamentalmente ad una funzione economica di ripartizione del rischio (si pensi ad esempio alle garanzie assicurative prestate rispetto a determinate attività d’impresa o, più semplicemente, in materia di circolazione stradale).

Da qualche tempo, tuttavia, il quadro appare mutato ed in continua evoluzione.

Ed infatti, da un lato si assiste alla individuazione – per via giurisprudenziale ma anche da parte del legislatore – di sempre nuove figure di danno risarcibile, anche al di là della originaria limitazione espressa dall’art. 2058 c.c. per i danni cd. non patrimoniali (si pensi, tra i tanti, al danno da cd. “vacanza rovinata”).

Dall’altro, nell’opinione comune si è fatta strada la convinzione che di qualunque evento dannoso debba essere comunque individuato un responsabile, anche quando non è ravvisabile un giudizio di riprovevolezza in termini di colpa, per effetto di presunzioni che fatalmente ne prescindono (si pensi alle fattispecie di colpa medica, che di fatto tende ad essere riconosciuta ogniqualvolta non si ottenga il risultato sperato da una terapia o da un intervento chirurgico, anche non di routine).

Ciò che pare essere diventato intollerabile è che la vita delle persone possa essere più o meno pesantemente condizionata dal caso o dalla sfortuna, nella consolatoria ma fallace pretesa che sia sempre colpa di qualcuno.

È con tutta evidenza una questione che attiene, prima che ancora che al diritto, alla weltanschauung, alla concezione che abbiamo del mondo e della vita (per citare Brodskij, “un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno”).

In termini di civiltà giuridica, può forse essere opportuno tenere presente che attribuire responsabilità a soggetti a cui in realtà non dovrebbero essere imputate significa aggiungere ingiustizia ed arbitrio, con l’ulteriore grave conseguenza di deresponsabilizzare per il futuro i comportamenti anziché provare – nei limiti del possibile – a migliorarli.

Se dal diritto dei privati ci spostiamo alla sfera dei rapporti con l’Autorità e/o il potere pubblico, a quello che negli ordinamenti continentali è comunemente indicato come diritto amministrativo, le cose assumono contorni ancora più netti, la tendenza in atto è ancora più marcata.

Di fatto, negli ultimi decenni (quantomeno a partire dagli anni ’70) si assiste al tentativo – non so quanto consapevole – di neutralizzare il più possibile ogni sorta di rischio incombente in capo ai soggetti privati.

Si va dalla pletora di indennizzi e ristori riconosciuti (anche giustamente, per carità, in periodi di pandemia) a favore di categorie di operatori economici e/o semplici privati svantaggiati (dagli effetti dell’epidemia da coronavirus ma ancor prima, ad esempio, dal mancato rinnovo delle concessioni demaniali dei balneari, da fenomeni meteorologici anche se imprevisti ed imprevedibili – alluvioni, frane, ecc. -); alle richieste di pagamento del subappaltatore avanzate direttamente nei confronti dell’Amministrazione appaltante, in deroga ai generali principi in materia di libertà e responsabilità contrattuale; alla miriade di bonus e superbonus fiscali degli ultimi tempi.

Si tratta di situazioni anche eterogenee tra loro per cui tuttavia si registra un’invincibile pressione a che lo Stato e/o la politica se ne faccia carico.

Malauguratamente, è un punto di vista che, da una parte, fatalmente tende a porre a carico della collettività e della fiscalità generale situazioni personali, da un punto di vista economico (ma, come dovrebbe essere noto, nessun pasto è gratis); e che dall’altro porta via via a comprimere e a far scemare il concetto stesso di responsabilità individuale.

Ma dove, se possibile, il corto circuito di cui si è detto diventa ancora più evidente, è l’ambito della responsabilità penale, soprattutto quello dei reati contro la P.A. o dove sono comunque coinvolti amministratori pubblici o pubblici funzionari.

Non c’è fenomeno naturale, alluvione, frana, od anche semplice smottamento, in cui non sia ravvisabile – in aggiunta a quella patrimoniale dell’Ente pubblico (che, beninteso, potrà anche avere delle effettive responsabilità rispetto ad eventuali negligenze ed incurie) – una penale e personale responsabilità, potremmo dire di posizione, del Sindaco o del dirigente a capo del settore (che rispondono anche se il bambino a scuola lascia il dito schiacciato nella porta d’ingresso; o, in materia ambientale, se il registro di carico della discarica comunale presenta delle mere irregolarità formali; ecc.).

Non ci deve poi stupire troppo se capita “di notare una leggera flessione del senso sociale” (Max Gazzè) o, più prosaicamente, la qualità della nostra classe politica è crollata verticalmente, essendo disponibile a ricoprire determinati incarichi pubblici solo chi non è particolarmente qualificato professionalmente o tiene effettivamente comportamenti delinquenziali.




L’equo compenso degli avvocati tra innovazione e logica dello struzzo

Se c’è un modello di lavoro che, a partire dalla sua organizzazione, non funziona ed è contro la concorrenza e la modernizzazione è quello degli ordini professionali ed in particolare degli studi legali. Il settore è in una crisi drammatica, accentuata dalla pandemia e dalla cronica inefficienza dei tribunali e della macchina della giustizia in genere. E’ ormai un dato di fatto la perdurante difficoltà economica in cui si trova la gran parte degli avvocati nel nostro Paese ed il livellamento verso il basso delle prestazioni fornite ad imprese e privati.

E’ d’altra parte noto come l’Italia abbia il maggior numero assoluto di avvocati di tutta Europa, ed il quarto in rapporto alla popolazione (dopo Lussemburgo, Cipro e la Grecia). Come evidenziato su Il Foglio del 3 agosto scorso, nel nostro Paese ci sono 388 avvocati ogni 100 mila abitanti, in Spagna 300 ed in Francia 100. All’estremo opposto la Svezia ha 60 avvocati ogni 100 mila abitanti. A tale dato corrispondono purtroppo numeri record riguardo alla spropositata mole del contenzioso in giudizio e alla lentezza dei processi. È una realtà che gli organismi di categoria, drammaticamente autoreferenziali, tentano di minimizzare. L’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura del 2021 rivela inoltre una distribuzione geografica che non corrisponde al Pil prodotto: il 45% degli avvocati sono al Sud e nelle isole, il 33 al Nord, il 22 al Centro. Il 38% dei legali ha poi tra i 40 e i 50 anni, il reddito medio è 40.000 euro lordi, e benché le donne siano leggermente prevalenti un avvocato uomo guadagna decisamente di più: 54.500 euro, 57.600 al Nord. Il reddito medio delle donne è 25.000 euro. Fra 30 e 34 anni un avvocato guadagna in media 16.500 euro (con i quali non si paga un mutuo né si investe sull’istruzione dei figli), a 44 anni raggiunge i 30.000, per superare i 50.000 deve avere 50 anni e oltre. Diamo pure per scontato che a fronte di questi ricavi così modesti si nasconda una certa quota di evasione (secondo le elaborazioni statistiche del Censis il 52% delle entrate proviene da persone fisiche e in quella tipologia di rapporti il nero è più diffuso). Ma la situazione è drammatica.

Al consistente incremento numerico dei legali registrato negli ultimi decenni non corrisponde un miglioramento in termini di qualità dei servizi resi: mentre secondo il Censis “la maggior parte si occupa di cause civili e molte riguardano controversie stradali e sinistri assicurativi”, gli avvocati esperti in diritto internazionale, comunitario, in materie quali copyright e nuove tecnologie scarseggiano, così come gli investimenti. Secondo l’Osservatorio professioni e innovazione digitale del Politecnico di Milano il 66% degli studi nel 2019 e 2020 ha investito in tecnologie meno di 3.000 euro, il costo di due pc.

A fronte di questa impietosa ricognizione, uno dei presunti rimedi escogitati è quello del ricorso al cd. equo compenso, ovvero la previsione di un compenso minimo per le prestazioni degli avvocati, corrispondente al decoro della professione e alla dignità del lavoro ex art. 36 Cost., svincolata dalle aberranti – così si aggiunge – logiche di mercato.

Di fatto, si tratta in un ripristino delle tariffe professionali, abrogate con il D.l. n. 1 del 2012 sulla scorta di ripetute indicazioni comunitarie. Già con il D.l. n. 148 del 2017 era stato inserito nella Legge professionale forense (L. n. 247/2012) l’art. 13 bis, “equo compenso e clausole vessatorie”. Il così modificato art. 13 bis disciplina i rapporti professionali tra avvocati iscritti all’albo, da un lato, ed enti bancari e assicurativi e “imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese” dall’altro. Di lì a poco (e precisamente con la Legge di Bilancio 2018) tale disciplina è stata estesa “anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui all’articolo 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81, anche iscritti agli ordini e collegi”, vale a dire a tutti i lavoratori autonomi non imprenditori. Ed è stata aggiunta la generica previsione per cui “la pubblica amministrazione (…) garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti”.

La proposta di legge n. 3179 di cui si discute in queste settimane (nota anche come proposta Meloni) si inserisce in questo solco, avendo come obiettivo quello di ampliare ancora di più l’ambito di applicazione della disciplina di cui si è detto. In particolare, i punti salienti della riforma sono i seguenti: – viene esteso il novero dei soggetti in (presunta) posizione dominante, a cui si applica il regime delle clausole vessatorie (“imprese bancarie e assicurative” nonché “imprese che nel triennio precedente al conferimento dell’incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di sessanta lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro”). Inoltre, per la prima volta, le disposizioni sull’equo compenso si applicherebbero espressamente anche alle prestazioni rese alle pubbliche amministrazioni (ma anche alle società controllate?) ed agli agenti della riscossione; – la disciplina sarebbe simbolicamente inserita nell’art. 2233 del codice civile; – viene valorizzato il meccanismo della cd. “taratura della parcella” da parte degli ordini professionali al fine di procedere esecutivamente nei confronti dei clienti che non pagano i compensi richiesti.

Vista la portata applicativa, estremamente ampia, che hanno queste previsioni, viene da chiedersi in che misura siano compatibili con la normativa comunitaria. Di fatto, l’introduzione generalizzata nell’ambito del codice civile dell’istituto dell’”equo compenso” – in base al quale qualsiasi professionista può chiedere in giudizio che sia dichiarata la nullità di un corrispettivo inferiore ai minimi tariffari ed il suo ricalcolo in misura coerente con i parametri professionali – significa la re-introduzione nel nostro ordinamento delle tariffe obbligatorie. Tradizionalmente, le misure normative nazionali che introducono limiti minimi e/o massimi tariffari sono considerate dalla Corte di Giustizia europea come incisive della libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE e, in quanto tali, giustificabili soltanto in presenza di determinate e residuali condizioni.

Ma è la motivazione che sta alla base del disegno di legge che appare estremamente pericolosa: l’idea che la professione legale (così come quella delle altre professioni intellettuali e del lavoro autonomo) possa essere svolta al di fuori delle – normali – logiche di concorrenza ed efficienza, in nome di una supposta ontologica diversità (quando nel mondo c’è una sola parola che ricomprende le attività economiche, siano esse aziende o studi professionali: businesses).

Così come è sbagliata la diagnosi riguardo alla perdurante crisi degli studi legali in Italia. Il problema vero è che nel nostro Paese gli studi legali sono per lo più organizzati su base individuale e/o familiare e l’innovazione in termini di formazione e di organizzazione è drammaticamente bassa. Basti citare un esempio: nel mondo, le aziende provvedono a pagare i propri fornitori, inclusi consulenti e i legali, tramite piattaforme online: ebbene, in genere su detti portali non è previsto il dimensionamento di una law firm, di uno studio legale, inferiore a 15 unità. Nella mia città, Genova, si fa fatica a trovare un solo studio che annoveri più di 15 professionisti.

In realtà le due sfide principali per le professioni liberali sono – come osservato anche da Alessandro De Nicola su Repubblica del 30 agosto scorso – l’organizzazione e la tecnologia. L’incessante evoluzione tecnologica rischia di rendere superflue molte funzioni fino a ieri svolte dagli avvocati: montagne di documentazione nei contenziosi, contratti, ricerche di giurisprudenza e dottrina, adempimenti formali, rapporti con i clienti, tutto può essere in gran parte velocizzato. I responsabili dei dipartimenti legali delle più grandi aziende sono uniti, sondaggio dopo sondaggio, dalla comune convinzione che la tecnologia abbatterà i costi e migliorerà la performance. E attenzione, anche per chi ha persone fisiche o piccole aziende come clienti, sono già attivi siti che forniscono servizi legali standardizzati, di qualità e a costi ridotti. Non è detto che tutti gli studi cd. boutique o “artigianali” debbano sparire: vero è che la mancanza di dimensione impedisce la specializzazione, il dotarsi di nuove tecnologie, l’ottimizzazione dei costi, la formazione dei più giovani. L’intervento del legislatore, insomma, non salverà i partecipanti al mercato che non sapranno vincere le sfide dell’innovazione.

Semmai, potrebbero essere introdotti strumenti normativi e contrattuali nuovi per favorire le aggregazioni (si pensi ad un nuovo inquadramento per la figura del collaboratore di studio, che superi la risalente finzione per cui tutti i legali devono essere autonomi ed indipendenti anche quando di fatto prestano la loro attività – in assenza di tutele adeguate – a favore di un unico dominus). Nella stessa direzione, si potrebbe verificare con maggiore serenità la possibilità di introdurre soci di capitale nell’ambito degli studi, per favorire la propensione agli investimenti. Da un punto di vista più generale, l’introduzione di regimi fiscali privilegiati a forfait per i professionisti che rimangono sotto una certa soglia reddituale va nella direzione opposta a quella auspicabile, di incentivare le fusioni e le aggregazioni che sono funzionali allo svolgimento dell’attività professionale con maggiore qualità ed efficienza.

Insomma, bisogna raccogliere la sfida dell’innovazione: la logica dello struzzo non può funzionare.




Il rispetto – vincolante – del precedente giurisprudenziale: solo una provocazione?

Negli ultimi tempi nel nostro Paese è avvertita, da molti se non da tutti, la necessità di procedere alla riforma – tra le altre – della giustizia. Ed in effetti, le ultime vicissitudini del Csm, la per lo più generalizzata constatazione dell’enorme potere esercitato dalle Procure, il perdurante circuito mediatico-giudiziario, a cui fa da contraltare l’intollerabile lungaggine dei processi civili e la frequente invasione di campo dei TAR, deporrebbero a favore dell’improcrastinabilità della riforma.

Dopo di che, in quale direzione si debba effettivamente andare, al di là di generiche prese di posizione riguardo alla necessità di moralizzare e rendere più efficiente il sistema, oltre all’immancabile litania sulla digitalizzazione, non è dato sapere.

Sospetto che la questione sia purtroppo ancora un po’ più complicata di come viene generalmente posta. Ritengo – ma pare che si tratti di un’opinione non troppo condivisa – che il problema investa la stessa natura del potere giudiziario e la tradizionale teoria della divisione dei poteri: se si parte dalla premessa che il potere giudiziario – seppur privo di ogni forma di investitura e legittimazione popolare – è potere del tutto autonomo, in particolare da quello politico e legislativo, è evidente come per giustificare le decisioni assunte dal Csm quale organo di autogoverno dei giudici bisogna appellarsi a criteri vaghi orientati al moralismo. Analogo discorso vale per le decisioni prese dai giudici nello svolgimento delle loro funzioni istituzionali: a chi rispondono?

Ma forse c’è ancora di più. Dalle nostre parti, vale per la cultura giuridica accademica ma anche per il sentire comune, per l’opinione dell’uomo della strada, per governare una collettività è condizione essenziale – si pensa – produrre regole, che saranno evidentemente nuove, emanare leggi, legiferare.

E’ quello che gli addetti ai lavori chiamano giuspositivismo, che è un tratto comune della storia giuridica dell’Europa continentale e che risale al processo di codificazione degli stati nazionali ed ha poi trovato nuovo impulso nei principi della rivoluzione francese: il diritto è il prodotto dell’attività legislativa, la legge e i codici. Nulla preesiste, di giuridicamente vincolante, alla produzione legislativa, che interviene a disporre quello che è giusto o sbagliato facendo tabula rasa dell’assetto precedente, ipotizzando e presumendo di poter di volta in volta illuministicamente plasmare una società nuova e migliore. Chi la pensa diversamente è un ingenuo, che ancora non ha capito la differenza tra il diritto, che solo ha validità ed efficacia vincolante erga omnes, e le convinzioni morali e personali di ciascuno.

Ma è realistico pensare che per governare una comunità, con la sua storia, le sue tradizioni, il suo senso di appartenenza, si possa ogni volta tirare una riga su comportamenti ritenuti leciti fino ad un istante prima, modificare repentinamente e bruscamente convinzioni ed abitudini, disattendere affidamenti?

Forse non è necessariamente così. Le persone sanno in genere cosa è giusto e cosa è sbagliato, quello che si deve o non si deve fare: nelle famiglie non ci sono disposizioni scritte per regolare i comportamenti dei propri membri (se mia figlia non vuole fare i compiti probabilmente devo evitare di fornirle un accurato decalogo con l’indicazione delle punizioni conseguenti); nei posti di lavoro, se il clima è buono e produttivo non c’è bisogno di regole di condotta dettagliate; sull’autobus, la buona educazione è forse più importante delle minuziose condizioni generali del contratto di trasporto; la pedante normativa anticorruzione – che sostanzialmente si risolve nella richiesta agli interessati di una sorta di autocertificazione di virtuosità – garantisce effettivamente dai comportamenti illeciti?

Probabilmente è allora arrivato il momento di provare a fare qualche riflessione più generale. Storicamente, la stessa nozione di diritto per come la intendiamo noi oggi è un’invenzione degli antichi romani. Ebbene, per i romani, le norme che disciplinano una comunità, una città, non vengono create dal legislatore, ma preesistono e vengono in qualche modo rinvenute dai giudici così come un linguista codifica le regole grammaticali dall’effettivo uso che ne fa chi parla e scrive una certa lingua. Le collettività, per funzionare, hanno bisogno di comportamenti reiterati e regole potremmo dire immanenti, che si creano e perfezionano nel tempo in una sorta di moto browniano di tutti i soggetti che fanno parte di quella comunità (che ricomprende gli antenati, i presenti e quelli ancora non nati), sulla base di senso di appartenenza, convinzioni religiose e morali, aspettative di reciprocità, timori di riprovazione sociale.

Non è forse un caso che, a distanza di tempo, la modernità, per come la conosciamo oggi, abbia la forma degli ordinamenti anglosassoni.

Anche da quelle parti il diritto, le regole, ciò che è giusto o sbagliato, è per buona parte consuetudinario e prescinde dalla contingenza dell’attività legislativa. Così come per i prati all’inglese – per cui serve prendere un terreno, dissodarlo ed irrigarlo per qualche centinaio d’anni -, allo stesso modo la convivenza sociale si basa su principi secolari, sul rispetto delle libertà individuali fondamentali e dei principi di correttezza e buona fede nei contratti e negli affari – la fairness – che spesso prescinde dalla formalizzazione scritta, realizzandosi invece una lenta e costante opera di rinvenimento e sistematizzazione da parte dei giudici in ossequio al fondamentale rispetto del precedente.

Ecco, il rispetto del precedente. E’ un principio generale dei sistemi di common law, in forza del quale il giudice è obbligato a conformarsi alla decisione adottata in una fattispecie precedente, nel caso in cui la vicenda portata al suo esame sia identica o simile a quella già trattata.

In fondo, non è un meccanismo troppo dissimile da quello – a cui si accennava sopra – utilizzato dal linguista: sul dizionario Devoto – Oli una certa definizione di un dato termine viene censita quando ne viene registrato un uso costante da parte degli utilizzatori; analogamente, le regole grammaticali altro non fanno che recepire gli usi (una certa costruzione sintattica è corretta perché consolidata nel parlare comune). Ebbene, esattamente allo stesso modo nei repertori giurisprudenziali vengono catalogate le pronunce dei giudici che di fatto recepiscono le valutazioni – in termini di liceità o meno – su determinati comportamenti (se una data condotta è giusta, se una certa violazione determina un obbligo di risarcimento, ecc.), ed a cui quindi riferirsi per le definizioni di liti future.

Nella mia esperienza di giurista pratico, capita regolarmente che il cliente chieda se un dato comportamento è lecito e/o consentito o meno, se una certa cosa si può o meno fare. E’ in definitiva la – fondamentale – domanda che le persone si pongono. Solo che, a differenza che altrove, nel nostro ordinamento per lo più non si riesce a rispondere, se non illustrando una serie infinita di distinguo (a Genova per il Tribunale questa cosa si può fare, ma la Corte d’Appello è di diverso avviso, il dato Giudice ha una posizione particolare, bisogna poi vedere cosa dice la Cassazione, però c’è un orientamento minoritario che …, ecc.): è insomma il regno del latinoroum dell’azzeccagarbugli.

Vige in particolare nel nostro ordinamento l’idea (che ha un fondamento costituzionale: il giudice è soggetto soltanto alla legge in base all’art. 101 Cost.) che la soluzione della controversia e la conseguente pronuncia giurisdizionale – la cui fondamentale qualità dovrebbe consistere nella sua prevedibilità (oltre che celerità), per garantire giustizia sostanziale ed efficienza del sistema – debba invece essere originale, riconoscere sempre nuovi (asseriti) diritti e percorrere strade ancora non battute.

Dalle nostre parti il precedente giurisprudenziale è uno solo tra i tanti argomenti che vengono utilizzati (lo spirito della legge, la volontà del legislatore, l’argomento sistematico, quello teleologico, ecc.) e – in ogni caso – il rispetto di tale principio non è assolutamente ritenuto vincolante: ogni giudice è libero di interpretare il dato normativo e di risolvere la controversia a lui assegnata come ritiene più opportuno, con una decisione di fatto scarsamente verificabile.

Insomma, tirando le fila del ragionamento, nell’Europa continentale, ed in particolare nel nostro Paese, assistiamo a due fenomeni che si sovrappongono e concorrono nel determinare una complessiva arbitrarietà e frammentarietà del sistema giudiziario: da una parte il potere giudiziario è considerato potere costituzionale autonomo, seppur privo di ogni forma di investitura e legittimazione popolare, e non si capisce bene a chi debba rispondere; dall’altro, anche in ragione dell’idea giuspositivistica per cui il diritto è il prodotto dell’attività legislativa, la legge e i codici, e nulla preesiste, di giuridicamente vincolante, alla produzione legislativa (sovrabbondante e spesso schizofrenica), ogni singolo giudice è soggetto soltanto alla legge e non è obbligato a conformarsi alla decisione adottata in una fattispecie precedente (in definitiva, alle convinzioni e alle abitudini della comunità), nel caso in cui la vicenda portata al suo esame sia identica o simile a quella già trattata.

Siamo sicuri che, con queste premesse, i problemi della giustizia in Italia si risolvano con la sempre auspicata digitalizzazione?

Sarebbe invece opportuno fare qualche riflessione di carattere più generale e si potrebbe ad esempio iniziare dal considerare il rispetto vincolante del precedente giurisprudenziale non più come un taboo.




Il Csm, la sovranità popolare e la rule of law

Siete mai riusciti a spiegare ai vostri figli, quando studiano educazione civica alle medie, in che cosa consiste esattamente il principio costituzionale della separazione dei poteri dello Stato? Che cosa vuol dire, ad esempio, che il Governo, il potere esecutivo, “esegue” le leggi? E poi, se – com’è naturale – la sovranità appartiene al popolo, che si esprime tramite le elezioni ed elegge i propri rappresentanti in Parlamento, com’è possibile che i giudici, il potere giudiziario, tragga la propria legittimazione in maniera autonoma e svincolata dalla sovranità popolare?

Se le cose non si riescono a spiegare probabilmente è perché non sono chiare.

Ed infatti, ci sono fondamentalmente due modi di intendere la cd. dottrina della separazione dei poteri.

La prima è quella che riconosce come opportuno e saggio – per prevenire abusi e derive autoritarie – che il potere politico sia sottoposto a reciproci condizionamenti.

Si tratta di considerazioni di carattere antropologico ancor prima che di ordine politico e tecnico-giuridico, diffuse già a partire dalla Grecia classica (Platone aveva teorizzato la necessità di forme di indipendenza dei giudici). Sono temi poi ripresi dalla tradizione anglosassone, dalla Magna Charta alla Gloriosa rivoluzione inglese e a John Locke, fino ai checks and balances dell’esperienza costituzionale statunitense; insomma, parliamo del fondamento stesso degli ordinamenti liberali occidentali.

Altra cosa è la sclerotizzazione del principio della separazione dei poteri, tradizionalmente fatto risalire all’opera di Montesquieu e al suo Spirito delle leggi e alla Rivoluzione francese.

Ed infatti, se anche per Montesquieu il potere giudiziario sarebbe concettualmente neutro (i giudici intesi come “bocca della legge”), in realtà fin da subito si assiste negli ordinamenti continentali ad una sorta di autolegittimazione da parte della classe giudiziaria – in origine costituita dai nobili – di fatto contrapposta al corpo elettorale e ai suoi organismi rappresentativi.

Il fenomeno è abbastanza stupefacente e, almeno nel dibattito italiano, non sufficientemente – se non per nulla – analizzato.

Tornando ai manuali di educazione civica su cui studia mia figlia alle medie, i tre poteri costituzionali, legislativo, esecutivo e giudiziario, sono – si dice – pariordinati e reciprocamente autonomi. Ma come ciò si concili con la generale affermazione (art. 1 cost.) secondo cui la sovranità appartiene al popolo non è dato sapere.

Non così succede, invece, nell’ordinamento britannico, dove è fondamentale la cd. rule of law, intesa come assoluta prevalenza della legge, del diritto comune, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario. Ciò è tanto vero che da quelle parti, pur essendo avvertita la necessità di contenere e contemperare i pubblici poteri (i famosi checks and balances), la dottrina della necessità costituzionale della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – ritenuta immanente negli ordinamenti continentali, è sostanzialmente sconosciuta.

Per intenderci, in Inghilterra i giudici (storicamente distinti dalla pubblica accusa) sono tradizionalmente nominati da parte del Lord Cancelliere tra i migliori avvocati del regno, e non esiste qualcosa di comparabile alla classe giudiziaria come la conosciamo ad esempio in Italia con organi di autogoverno e rappresentanze sindacali.

E non è un caso che il sistema britannico non conosca neppure un sindacato di legittimità costituzionale operato da un organo giudiziario, che rappresenta invece la normalità nell’Europa continentale. Insomma, la volontà popolare, che si esprime tramite i propri organi rappresentativi, non è messa sotto tutela da un organismo giudiziario, a cui spetta di dire se un tale provvedimento legislativo è costituzionalmente legittimo, ovvero – in soldoni – se è giusto o meno.

Allo stesso modo, in America i giudici e i magistrati o sono eletti dal popolo o sono nominati dal presidente federale eletto. C’è sempre una relazione tra la politica e la loro scelta.

Che cosa c’entra tutta questa pappardella con le vicissitudini del Consiglio Superiore della Magistratura di queste ultimi tempi? Beh, se si parte dalla premessa che il potere giudiziario in Italia – seppur privo di ogni forma di legittimazione ed investitura popolare – è potere del tutto autonomo, in particolare da quello politico e legislativo, è evidente come per giustificare le decisioni assunte dall’organo di autogoverno dei giudici bisogna far riferimento a forze tradizionalmente fuori dagli abituali settori di indagine del diritto costituzionale quali lo spirito santo e la cicogna.

Invece, come si dovrebbe sapere, il potere terzo ed autonomo è un po’ come lo sporco impossibile: non esiste.

Sarebbe forse il momento di provare a dire anche da noi che una collettività, una comunità si governa ed amministra – anche per quanto riguarda le decisioni riguardanti la nomina dei giudici – attraverso la proiezione di comportamenti, interessi e valori sufficientemente condivisi che trovano rappresentanza e sintesi attraverso la formazione e selezione di una classe politica, tramite elezioni ed organismi rappresentativi: è, appunto, la rule of law, intesa come prevalenza della legge, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario.

Scorciatoie – al di fuori di derive corporative e di condizionamenti opachi – non ce ne sono.