Terza Repubblica o colonia del nord Europa?

I partiti italiani. Parte terza

Dopo aver trattato per sommi capi della storia della prima repubblica e dopo aver analizzato nascita e crisi della seconda repubblica, giungiamo finalmente alla terza e ultima parte di questo lavoro, in cui mi occuperò dello scenario politico nazionale attuale, ossia della fase che – concludendo il travaglio della seconda repubblica iniziato con il governo Monti – dovrebbe verosimilmente aprire una nuova importante stagione politica nazionale.

Populismo e sovranismo come prime reazioni politicamente organizzate degli esclusi dall’agenda UE.

Come si era già accennato nella seconda parte di questo lavoro, due sono state le forze politiche nazionali che negli ultimi anni hanno incarnato l’opposizione all’agenda mercantilista (da alcuni definita neo-liberista) dell’UE, attuata dal centro sinistra a trazione PD: la Lega e il Movimento 5 stelle. Si tratta tuttavia di due forze politiche differenti per genesi e interessi di riferimento. Il che peraltro spiega l’evoluzione di linea politica che ciascuno dei due movimenti ha avuto durante la lunga stagione del centro-sinistra europeista.

La Lega – come si è accennato – esisteva da decenni, già dalla fine della prima repubblica, come movimento inizialmente connotato da un forte radicamento territoriale ed identitario nelle regioni del nord Italia: regioni in cui – come è noto – è molto alta la percentuale di soggetti che appartengono proprio al quel ceto medio di commercianti, operai ed impiegati benestanti, artigiani e piccoli imprenditori, il cui benessere le politiche mercantiliste che piacciono all’UE mirano specificamente a disgregare. Non dovrebbe dunque stupire che la parte del ceto medio allargato che votava il centrodestra, e in particolare una parte degli elettori che una volta erano berlusconiani, si siano progressivamente spostati – a partire dalla “grande depressione montiana” inaugurata nel 2011 – verso il movimento leghista. Altrettanto ha fatto una certa porzione dell’elettorato di sinistra, rappresentato dai lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (dunque quelli meno sindacalizzati), che rappresentano la vittima – forse non designata, ma certamente inevitabile – dei modelli economici e sociali che l’UE (e dunque il centrosinistra a guida PD) stava imponendo al paese. E’ tuttavia bene ricordare sin d’ora che nella Lega convivono due anime: quella industriale manifatturiera del nordest e, ma in minor proporzione, anche del nord ovest (e che non è in via di principio sfavorevole a una integrazione europea, in quanto è riuscita a inserirsi nella filiera produttiva tedesca o a farsi finanziare da capitali francesi) e quella meno “nordista” e – in generale – più legata al mondo del commercio, dell’artigianato e delle libere professioni, assai più dipendente dalla domanda interna e, di conseguenza, assai meno europeista.

Questa è la ragione per cui la Lega – scegliendo di restare all’opposizione (a differenza di Forza Italia) sin dall’inizio della lunga fase politica del rigore deflattivo inaugurata da Monti, ma soprattutto decidendo di abbandonare la sua tradizionale identità “nordista” e secessionista – ha gradualmente assunto il ruolo di principale forza anti-europeista (ma sarebbe meglio dire “anti-unionista”) non tanto per precisa scelta ideologica, ma in quanto ha finito per raccogliere i consensi (e dunque rappresentare gli interessi) di una vasta porzione del ceto medio allargato (non più solo del nord del paese) che le politiche del nuovo centro sinistra tendono a ricacciare nel proletariato da sussidiare o, almeno, a collocare fuori dall’area del benessere di cui godeva in passato. Sono stati dunque i “nuovi leghisti” del centro e del sud (insieme ad una parte dei vecchi leghisti del nord) a spostare il baricentro della Lega verso posizioni euroscettiche.

L’altro movimento di protesta contro “il sistema” – ossia il Movimento 5 stelle – appare invece focalizzato sugli interessi di parecchi tra quelli che, già prima di Monti, non se la passavano per niente bene, ma che la crisi e le politiche del rigore montiano hanno portato in “avanzato stato di riproletarizzazione”. Questo significa che il Movimento 5 stelle – quanto meno nella sua fase dei “vaffa” – incarnava una protesta, da un lato, più estrema nelle forme, ma per altro verso decisamente meno omogenea, sotto il profilo degli interessi di classe economica, rispetto a quella della Lega. Nei sostenitori del movimento sono infatti confluite alcune componenti dell’elettorato della sinistra estrema (in particolare quelle deluse dalla svolta europeista e mercantilista del PD ma che non si riconoscevano nel comunismo ortodosso di tradizione marxista), sia alcuni anarchici e sia – soprattutto – tutta quella vasta platea di soggetti, ideologicamente neutrali, che però – per effetto delle crisi economiche degli ultimi anni, aggravate dalle ricette deflattive del rigore europeo – hanno finito, specie nel meridione del paese ma anche nelle grandi aree urbane del centro-nord, a dover “campare” di lavoricchi precari (spesso para dipendenti precarizzati con partita IVA) se non di espedienti. In breve: se la Lega “denordizzata” si preoccupava degli interessi di quelli che temevano di essere i futuri esclusi dal benessere, il M5S nasceva per rappresentare quelli che esclusi lo erano già.

Entrambi i movimenti – Lega e Movimento 5 stelle – sono comunque cresciuti nei rispettivi consensi perché si opponevano alle politiche rigoriste e deflattive della “sinistra europeista” a guida PD, ma la Lega captava la protesta e il consenso delle categorie produttive e dei lavoratori del settore privato che chiedevano in sostanza di poter continuare a lavorare per tornare a far crescere il loro benessere (così come di chi voleva garantirsi pensioni proporzionate ai contributi versati e agli anni di lavoro effettuati), laddove il M5s riscuoteva consensi in categorie che – per migliorare la propria situazione – potevano avere interesse anche solo a percepire sussidi (o posti) pubblici per continuare a campare.

Questa differenza – che si traduce anche in una diversa distribuzione geografica dei relativi elettori: centro nord leghista e sud e isole a cinque stelle – è fondamentale per comprendere l’evoluzione successiva dello scenario politico. Si noti infatti che una fetta non trascurabile dell’elettorato del movimento 5 stelle, anche nella fase di protesta antieuropeista, era rappresentato proprio da quelle categorie di cittadini che – nel sistema tedesco ispirato al modello Hartz – sono destinatari di sussidi pubblici. Questo spiega bene del resto perché i grillini abbiano trovato con la Lega uno dei pochi punti di convergenza (e, per converso, di frizione col PD) sul tema delle politiche migratorie: i migranti economici sono infatti dei diretti concorrenti – specie in alcune aree geografiche del paese – degli elettori grillini proprio sul mercato (oltre che del lavoro, anche) dei sussidi pubblici ai bisognosi.

La differente composizione tra l’elettorato leghista e quello grillino rappresenta peraltro anche la ragione per cui – dopo la tornata elettorale che mandava in minoranza il blocco europeista e vedeva un sensibile successo del Movimento 5 stelle, seguito a distanza dalla Lega – il governo gialloverde riusciva a produrre solo i decreti sicurezza (unica misura realmente condivisa a livello ideologico), la flat tax e quota cento (in quota Lega) e il reddito di cittadinanza (in quota cinque stelle), prima di finire travolto dai conflitti tra i due partiti, peraltro innescati delle abili manovre messe in campo, al momento della formazione del governo, da quelle parti del deep state da sempre favorevoli al blocco europeista e al PD. Merita infatti di essere segnalato che il Presidente Mattarella, a suo tempo eletto dal blocco europeista (specie grazie ad un Matteo Renzi, allora segretario del PD, assai impegnato a favore della sua elezione) soprattutto per assicurare una continuità agli indirizzi politici della presidenza Napolitano, mostrava un deciso, e secondo alcuni irrituale, interventismo nella formazione del governo gialloverde: dapprima il Presidente della Repubblica si rifiutava di accettare una lista di ministri in cui era stato inserito – in quota Lega – un soggetto che era oggettivamente dotato di tutti i requisiti “tecnici” per rivestire l’incarico come Paolo Savona (escluso per il solo fatto di aver manifestato in passato posizioni euroscettiche, dunque per una ragione esclusivamente politica), per poi fare in modo che MEF e ministero degli esteri fossero occupati da due ministri “tecnici” che, oltre a non provenire dalle fila dei partiti della maggioranza di governo, per collocazione e percorso politico potevano essere annoverati tra gli europeisti. E qui c’è davvero poco da replicare a chi stigmatizza l’operato di Sergio Mattarella: un organo che, per costituzione, è privo di ogni responsabilità politica, eccede chiaramente le proprie prerogative nella misura in cui pretende di superare il parlamento per dare un indirizzo politico al governo nazionale. Il vulnus costituzionale c’è stato ed è pure stato assai grave. Ovviamente tutto è avvenuto nell’assordante silenzio di giuristi e mass media.

Oltre che poco in linea con la costituzione, peraltro, si è trattato di un intervento gravido di conseguenze politiche (il che peraltro – secondo alcuni commentatori – era esattamente quel che l’intervento in questione mirava a ottenere). L’inserimento in posizioni chiave di questi due ministri – insieme al successivo doppiogiochismo del premier Conte sui dossier europei, in relazione alle quali prendeva decisioni non aderenti all’indirizzo politico parlamentare – avrebbe infatti rappresentato un fattore decisivo per mettere in crisi il governo gialloverde, entrato in fibrillazione per il fatto che, alle elezioni europee del 2019, la Lega faceva il pieno di voti, accreditandosi dunque come prima forza del paese a livello di consensi. Una simile situazione, secondo le liturgie della politica, avrebbe dovuto portare a un ampio rimpasto di governo, con aumento del “peso” – in termini di ministri e sottosegretari – della Lega rispetto all’allora alleato di governo.

Sennonché l’esperienza di governo gialloverde aveva con ogni probabilità convinto i vertici politici della Lega del fatto che la componente pentastellata della maggioranza – con la sponda dei già citati due ministri tecnici “europeisti” e a causa dell’ormai conclamata ambiguità del Presidente del Consiglio su alcuni dossier europei, peraltro ampiamente sostenuta dal Quirinale – difficilmente avrebbe consentito l’adozione di una linea politica che andasse al cuore del problema italiano che, come dovrebbe essere ormai chiaro a chi legge, per la Lega è rappresentato dal conflitto tra il tradizionale modello di sviluppo keynesiano espansivo del nostro paese (che trova chiaro riscontro nella carta costituzionale nazionale) e l’assetto mercantilista e rigorista del modello economico dell’UE (per come definito da TUE, TFUE e nei regolamenti in materia di moneta unica e aiuti di stato nonché in quelli che regolano il settore creditizio). Questo spiega perché la Lega, invece che spingere per un immediato rimpasto, tentava di forzare la mano, alla ricerca di elezioni anticipate, togliendo l’appoggio parlamentare al primo governo Conte. E qui finisce quella che possiamo definire “storia politica”. Il resto è attualità, di cui parleremo qui appresso.

Premessa: i diversi livelli del conflitto sotteso all’attuale fase politica.

Per comprendere la situazione politica attuale è il caso di fare un po’ di analisi marxista (o, per chi preferisce, hegeliana), senza tuttavia la pretesa (né invero l’auspicio) di essere marxisti anche nelle soluzioni. Il travaglio della seconda repubblica ha infine fatto emergere le due nuove classi economiche e sociali in conflitto (o – per chi preferisce Hegel – la tesi e l’antitesi). E si tratta di un conflitto articolato su più livelli: economico, giuridico e sociale (per questo la sintesi – se mai arriverà – sarà comunque difficile).

A livello economico il discorso dovrebbe essere ben chiaro per chi ha letto le prime due parti di questo scritto: lo scontro è tra il modello keynesiano (fondato su politiche anti cicliche di spesa pubblica espansiva tendente alla piena occupazione e allo stimolo della domanda interna) e il mercantilismo secondo il modello delle riforme Hartz (politiche pro cicliche deflattive e di controllo dei prezzi, con disincentivo della domanda interna e delle dinamiche salariarli, accompagnate da una concentrazione degli interventi pubblici in incentivi alla produttività e all’export con contestuale sussidio diretto – sempre con risorse pubbliche – alle sacche di disoccupazione e povertà che l’adozione del modello in questione inevitabilmente genera).

Questo conflitto tra modelli economici si traduce tuttavia –nel nostro ordinamento – in un conflitto giuridico tra l’assetto costituzionale del ’48 (chiaramente di stampo keynesiano) e i principi (altrettanto chiaramente mercantilisti) che stanno invece alla base dei trattati unionisti di Lisbona e Maastricht, così come dei vari regolamenti in tema di moneta unica, di aiuti agli stati e di mercato finanziario e bancario. Il conflitto, si badi bene, sorge proprio con la creazione della “nuova” Unione Europea (che rappresenta il risultato della ristrutturazione dell’architettura europea seguita alla caduta del blocco sovietico), per aggravarsi ulteriormente con la successiva adozione della moneta unica sotto il controllo dalla BCE. La precedente struttura della CEE secondo il trattato di Roma  – in quanto semplice area di libero scambio e di libera circolazione – era infatti ideologicamente più neutrale, consentendo ancora ai singoli stati membri di adottare i modelli di sviluppo economico che preferivano.

Sul piano sociale, infine, il conflitto economico si risolve nel nostro paese in una forte pressione politica sul ceto medio allargato, tesa a polarizzarlo e, dunque, a spezzarlo: da una parte il ceto medio che potremmo definire “produttivo” (professionisti, artigiani, commercianti al dettaglio e piccole e medie imprese) che – per non scomparire – finisce per sostenere le agende più Keynesiane insieme ai lavoratori dipendenti del settore privato e – dall’altra parte – l’apparentemente paradossale alleanza tra i rentier, la grande finanza e la grande impresa, per un verso, e i variamente diseredati, il ceto medio a più alto reddito, l’impiego pubblico, che hanno un preciso interesse ad appoggiare le forze politiche che propongono modelli mercantilisti e produttivisti, ma anche più assistenzialisti. Lavoro produttivo (ogni tipo e forma di lavoro che contribuisce ad una attività il cui risultato soddisfa una domanda effettiva di beni o servizi) contro rendita (ogni tipo e forma di rendita, incluso il relativo “indotto”) potrebbe dunque essere il modo più semplice – ma anche in certa misura semplicistico – per definire lo scenario attuale sotto il profilo del conflitto sociale. Si tratta di uno scenario semplificato, in quanto la situazione è complicata dal fatto che vi è una parte del mondo produttivo – rappresentato dalle imprese piccole e medie, specie del nord est del paese, che sono integrate nelle filiere produttive della mitteleuropa – che in realtà ha interessi convergenti, quanto meno in termini di integrazione europea, con quelli delle categorie improduttive e del grande capitale.

Inutile dire che una situazione sociale ed economica tanto intricata sta generando uno scenario politico assai complesso e, quel che più conta, molto difficile da ricomporre in una sintesi efficace. Ma vediamo finalmente di capire cosa sta succedendo ai giorni nostri.

La (ri)collocazione del movimento cinque stelle: dai “vaffa” grillini a gamba mancante della dottrina Hartz all’italiana.

Al termine dell’esperienza del primo governo Conte, il Movimento 5 stelle, essenzialmente per non correre il rischio di perdere – con elezioni anticipate – il ruolo di prima forza politica in parlamento, sceglieva di allearsi con il suo arcinemico del giorno prima, rappresentato dal PD e dalle altre forze europeiste, creando il paradosso di una maggioranza “giallorossa” a sostegno di un esecutivo appoggiato dal centro sinistra, ma guidato dal medesimo Presidente del Consiglio che aveva retto il governo precedente, che esprimeva un programma in antitesi con quello del PD. La cosa non deve però stupire, giacché Conte – anche nel primo mandato – aveva in realtà, con la sponda del Quirinale e contro l’indirizzo politico dalla sua maggioranza parlamentare, portato avanti un’agenda politica che potremmo definire “cripto-europeista”. Dunque il secondo Conte – inteso come Presidente del Consiglio – è solo il primo Conte che può finalmente agire alla luce del sole nel portare avanti l’agenda europeista (dunque franco-tedesca), in piena continuità rispetto agli esecutivi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.

Le ragioni del favore mostrato sin da subito dall’UE per l’alleanza tra PD e Movimento cinque stelle non dovrebbero  dunque essere difficili da comprendere per chi ha capito i termini dello scontro politico e sociale attualmente in corso in Europa: la maggioranza giallorossa, sotto il profilo della rappresentanza politica, esprime infatti alla perfezione l’alleanza tra gli esponenti delle categorie sociali che stanno ai due estremi del modello Hartz: grande capitale, deep state e impiego pubblico, in quota PD, e neo-proletariato interessato al sussidio pubblico (o al massimo al “posto” pubblico) in quota M5S. Poco conta dunque che il M5S si sia poi spaccato sull’appoggio al governo Draghi, giacché la linea politica che entrambe le anime del movimento rappresenta, seppure in diverso modo e con differenti sfumature di “vaffa”, è appunto il lato assistenziale della dottrina Hartz. Il M5S – anche se scisso o diviso in diversi gruppi parlamentari – tenderà dunque d’ora innanzi a collocarsi nello stesso blocco del PD e dei partiti europeisti più radicali. Un segno evidente in tal senso è il tentativo di Grillo di riconfigurare il movimento affidandolo alla guida dello stesso Conte, ossia a chi era stato il garante dell’alleanza di governo con il PD.

Il gruppuscolo degli ultraeuropeisti

In parlamento vi sono ormai da qualche tempo dei piccoli partiti (Azione, +Europa, Leu) che, di fatto, rappresentano le truppe di complemento della prosecuzione dell’asse tra PD e M5S. Si tratta infatti a ben vedere – sotto il profilo della linea politica – di altrettanti correnti del PD, in quanto ne condividono l’europeismo ad oltranza, pur declinandolo secondo differenti sensibilità: ad esempio abbiamo l’impostazione radical liberal (in linea con la radical left americana) per il partitino di Emma Bonino e anche per Leu, che trovano terreno comune col PD – ritagliandosi uno spazio di agibilità politica – puntando sui noti temi sociali e civili del liberalismo più estremo (gender, cancel culture, individualismo spinto etc.).

Il partito di Calenda è invece assai più interessante, non tanto per quel che dice (proponendo in sostanza una nozione di politica come di buona amministrazione), quanto per il fatto che – in fin dei conti – è il primo partito che ammette di non avere una sua visione politica: la “grande” politica delle scelte di fondo, per Calenda e soci, la fa infatti già l’UE, laddove alla politica nazionale resterebbe in definitiva solo il compito di amministrare bene lo stato nel rispetto di linee programmatiche già decise altrove. Il movimento in questione – non so quanto consapevolmente – è insomma il vero paradigma di quel che potrebbero essere i partiti italiani di centro sinistra: una sorta di versione più efficiente (e meno ispirata a logiche clientelari) del PD, dunque partiti che si occupano di gestire al meglio la colonia italiana nei limiti delle direttive di Bruxelles. Ovviamente – per ragioni intuibili – tutti questi movimenti resteranno per sempre Legati a doppio filo allo schieramento del PD.

Le due anime del carroccio.

La Lega è l’unico partito in senso proprio che è restato sulla scena politica nazionale, essendosi tutti quanti gli altri movimenti politici trasformati o in piccoli o grandi comitati elettorali o in comitati di gestione di piccole o grandi clientele politiche. Il movimento leghista, oltre ad essere ancora presente e capillarmente articolato sul territorio in vere e proprie sezioni, è infatti dotato di una organizzata gerarchia interna ed applica una ferrea disciplina di partito. Gli aderenti si dividono tra semplici sostenitori (che non hanno obblighi di collaborare all’attività del partito ma non possono ambire a cariche o candidature) e veri e propri tesserati (che devono invece fare attività sul territorio e possono in cambio ambire a incarichi politici). Si tratta insomma – quanto a struttura e organizzazione – di un partito di stampo “sovietico”, nel senso che è modellato sulla falsa riga del vecchio PCI degli anni della cortina di ferro. Solo un partito con queste caratteristiche poteva del resto superare pressoché indenne il micidiale colpo assestatogli dalla magistratura con l’azzeramento della sua capacità finanziaria in seguito alla nota vicenda dei 49 milioni di euro.

Proprio questa ferrea disciplina e organizzazione interna rende meno evidenti le dinamiche delle “correnti” interne. Come si è accennato, infatti, nella Lega convivono due componenti, una più antica (e più “nordista”) e una più recente (e più “nazionale”). La componente nordista (facente capo alla vecchia guardia che si identifica in personaggi come Giorgetti e Calderoli e che trova in Zaia il riferimento di nordest) è meno decisamente euroscettica e si mostra più incline ad accettare politiche liberali (nel senso di mercantiliste), trovando i propri consensi sia in un certo mondo finanziario e imprenditoriale lombardo sia nelle imprese medie e piccole del triveneto (ma anche lombarde e piemontesi) che si trovano integrate nelle filiere produttive del nord Europa, così come nelle imprese che si sono internazionalizzate a livello di capitale e in quelle che si reggono principalmente sull’export. La componente più “nazionale” del partito (che si identifica grosso modo nella linea dei “nuovi” economisti della Lega, Borghi e Bagnai) è più giovane anagraficamente ed esprime posizioni nettamente euro critiche nonché una linea di politica economica neo-keynesiana, rappresentando il riferimento politico – oltre che dei lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese e di una parte dell’impiego pubblico – soprattutto del piccolo commercio e dell’artigianato, del mondo delle professioni e, infine, della piccola e media impresa meno internazionalizzata e di quella che ancora si rivolge principalmente al mercato interno.

Si noti anche – perché è importante per capire il senso di alcune mosse della Lega – che gli interessi delle categorie che si riconoscono nella corrente più nordista della Lega sono in certa parte assimilabili a quelli di parte dell’elettorato della “prima” Forza Italia (quella che qualche anno fa rastrellava consensi quasi plebiscitari in Lombardia), di guisa che proprio l’esistenza di questa corrente rappresenta in realtà il collante che tiene in vita l’alleanza tra Forza Italia e la Lega. E’ infatti verosimile supporre che – a una ricollocazione di Forza Italia in un polo di centro con Italia viva a sua volta alleato con il centrosinistra (ripetendo lo schema europeo delle “grandi coalizioni” tra popolari e socialisti) – implicherebbe la conservazione dei voti di Forza Italia nel sud del paese, ma al grave prezzo di una probabile emorragia di voti nordisti verso la Lega: voti che finirebbero per essere intercettati dalla corrente nordista del carroccio. La maggiore importanza acquisita dalla corrente nord-leghista in seguito all’appoggio della Lega al governo Draghi consente dunque in realtà alla Lega di consolidare – nei confronti di Forza Italia – una posizione di vantaggio politico tale da consentirgli di esercitare meglio la sua leadership nel centrodestra.

Matteo Salvini è sinora riuscito a interpretare assai bene il (non facile) ruolo di mediatore tra le due anime del carroccio, sia utilizzando le sue abilità tattiche per far crescere i consensi del partito senza scontentare oltremodo nessuna delle due correnti, sia focalizzando l’elettorato sulla sua figura di “capitano” del movimento. Sino a quando infatti i consensi si manterranno elevati e dipenderanno in ampia misura dal gradimento verso la persona dell’attuale segretario, infatti, nessuna delle due correnti del partito avrà alcun interesse a mettere in dubbio la leadership di Salvini nel partito. Personalizzare il consenso è insomma uno dei modi in cui Salvini riesce a mantenere l’equilibrio nel suo partito. Quel che tuttavia è ancora più interessante notare è come la Lega – in questa fase storica – stia tentando di realizzare al suo interno proprio la sintesi politica che dovrebbe anche realizzare la politica nazionale nel suo complesso, vale a dire coniugare il rilancio della domanda interna nel contesto di un ritorno a politiche economiche più keynesiane con la permanenza del paese nella cornice dell’UE.

Forza Italia dopo Berlusconi e la scommessa al centro di Matteo Renzi

Un tentativo di sintesi, ma differente, potrebbe peraltro essere in atto anche al centro. Dai tempi della vecchia DC il centro era infatti scomparso dai radar, frantumato dal terremoto di tangentopoli per poi essere diviso e assorbito a destra e a sinistra dall’adozione di sistemi elettorali maggioritari. Quando le leggi elettorali hanno iniziato a inserire correttivi proporzionali più significativi, ecco che il centro è magicamente ritornato un ipotesi politica. Si tratta però di un centro assai differente rispetto a quello di un tempo: numericamente assai più esiguo, si propone infatti lo scopo di rappresentare l’ago della bilancia tra il blocco di sinistra a guida PD e quello di destra capeggiato dalla Lega. Un simile ruolo politico potrebbe essere svolto solo se le due ali “centriste” dei due schieramenti – vale a dire forza Italia da una parte e Renzi dall’altra – riusciranno a unirsi in un unico gruppo parlamentare con sufficiente peso elettorale: una specie di kleine Koalition, che – però – avrebbe un peso politico importante – e anche determinante – qualora alle prossime elezioni raggiungesse consensi tali da consentirgli di essere appunto l’ago della bilancia tra le coalizioni di centrodestra e centrosinistra.

In questa direzione pare muoversi abbastanza decisamente una componente di Forza Italia che appare sempre meno allineata a Berlusconi e che, dunque, potrebbe tentare di acquisire un ruolo importante quando si aprirà la successione per la leadership del partito. Quanto a Renzi, la sua ben nota spregiudicatezza e i suoi altrettanto noti repentini ricollocamenti tattici rendono difficile fare previsioni attendibili, ma – guardando alla sua storia politica – è possibile supporre che la creazione di una “piccola DC”, che sommi – trasformandole in correnti interne al partito – le componenti meno berlusconiane di Forza Italia agli esponenti di Italia Viva (includendo magari anche renziani ancora in forza al PD), sia una ipotesi plausibile (e per ora frenata dal fatto che, se questo nuovo soggetto politico si presentasse domani alle elezioni, probabilmente la corrente Renziana avrebbe meno peso elettorale rispetto a quella forzista).

Quel che non è ancora chiaro è dunque se Renzi vuole fare la “nuova DC” riducendosi ad una alleanza di Italia Viva con Forza Italia (o con una sua parte) oppure se mira a qualcosa di ben più ambizioso: riprendere il controllo del PD, ricollocandone la linea politica più al centro, per poi assorbire quel che resta del partito di Berlusconi e creare davvero una nuova DC. Le recenti dimissioni di Zingaretti da segretario del PD, con designazione di Bonaccini, uomo notoriamente vicino a Renzi, potrebbe essere sintomo del fatto Renzi sta lavorando anzitutto a questo secondo scenario, lasciando dunque l’opzione “ago della bilancia” solo come “piano B”.

Fratelli d’Italia come vero partito conservatore italiano e il suo ruolo nel centrodestra

Fratelli d’Italia si è posto in evidente discontinuità di linea politica rispetto alla vecchia Alleanza Nazionale. Laddove infatti il partito di Gianfranco Fini aveva tentato di trasformare il partito in un movimento in giacca e cravatta “moderatamente liberale” (che aveva appoggiato il governo Monti), dunque che puntava allo stesso elettorato di Forza Italia e a una parte degli elettori meno nordisti della Lega, l’epoca di Giorgia Meloni segna invece un percorso di riavvicinamento verso posizioni più coerenti con le radici storiche (missine) del partito.

Fratelli d’Italia appare oggi l’unico partito autenticamente  conservatore presente nel panorama italiano nonché – in campo economico – l’unico movimento politico che esprime compatto una linea ideologicamente avversa al liberalismo. In sostanza la linea di Giorgia Meloni è nazionalista (dunque antieuropeista e sovranista per scelta ideologica), tradizionalista (dunque avversa all’agenda culturale liberal) nonché propensa all’interventismo pubblico in economia di tipo keynesiano (ma anche autarchico e corporativo) e per nulla mercantilista (e tanto meno globalista). Fratelli d’Italia – rispetto alla Lega – offre dunque una solida rappresentanza politica (ideologicamente più coerente anche se più polarizzata a destra) per chi sostiene posizioni euroscettiche, anti mercantiliste e anti globaliste.

Questo spiega perché, con Fratelli d’Italia, il gioco degli equilibri di coalizione nei confronti della Lega si svolge a parti invertite: l’indebolimento, con l’appoggio a Draghi, della componente sovranista della Lega a favore dell’ala più liberale – se rafforza la Lega nei suoi rapporti di potere con l’altro alleato, Forza Italia – gioca invece contro la Lega e a favore del partito di Giorgia Meloni. La presenza di Fratelli d’Italia nella medesima coalizione elettorale con la Lega, tuttavia, ha anche una funzione importante (e invece positiva) nella misura in cui consente che i voti leghisti “persi” per effetto della svolta “moderata” della Lega, restino comunque appannaggio della medesima coalizione, trasferendosi a Fratelli d’Italia. Fratelli d’Italia rappresenta dunque a sua volta una componente fondamentale per l’equilibrio della coalizione di centrodestra e anche per la stessa Lega, che – nella situazione attuale – ha di certo più interesse a conservare l’alleanza con il partito di Giorgia Meloni che non quella con il movimento di Berlusconi, specie contando – come si è detto – che una parte di Forza Italia sta flirtando in modo ormai piuttosto scoperto con Matteo Renzi e il PD.

Quel che resta di Gramsci

Una menzione a parte meritano i partiti (o, per meglio dire, il partito) di “vera” sinistra, ossia ispirati al socialismo marxista. In parlamento sono infatti restati a sventolare bandiera rossa solo i comunisti italiani di Rizzo, che portano avanti una linea politica avversa all’europeismo, individuando correttamente nell’UE un nume tutelare del capitalismo finanziario e mercantilista, che – ovviamente – chi si richiama al marxismo ortodosso non può che osteggiare (con buona pace del PD). E’ tuttavia altamente improbabile che il partito di Rizzo possa apparentarsi – in prospettiva elettorale o anche solo di governo – ad alcuno dei due schieramenti maggioritari e neppure all’eventuale “nuovo centro”. Quel che resta di Gramsci, dunque, starà perennemente all’opposizione, come il vecchio PCI, ma senza avere anche solo un frazione dell’influenza sociale e degli strumenti di pressione su cui poteva contare il vecchio partito comunista.

Si noti tuttavia che, negli ultimi tempi, vi è stato un fiorire di movimenti catalogabili come di sinistra (ad esempio Vox Italia, recentemente ridenominato in Ancora Italia, o il fronte sovranista italiano). Si tratta di movimenti accomunati dal tentativo di usare la bandiera dell’anti europeismo per cercare una ardita sintesi tra posizioni politiche ispirate alla sinistra più keynesiana (e anche a volte marxista), sovranismo nazionalista, umanesimo laico e libertarismo di matrice liberale classica. Solo il tempo dirà se il tentativo in questione riuscirà, per un verso, a incontrare consensi elettorali tali da portare a una rappresentanza parlamentare effettiva e, successivamente, a esprimere una linea politica parlamentare coerente. L’impressione è che simili movimenti – in ragione della loro forte opposizione alle politiche deflattive unioniste e all’austerità – se giungessero in parlamento potrebbero appoggiare più agevolmente l’azione di governo della coalizione di centro destra, che non quella del centro sinistra a giuda PD. Poco plausibile – per quanto non da escludersi a priori – appare anche l’apparentamento di questi movimenti coi comunisti italiani, considerando che il movimento in questione in questi ultimi anni ha sempre tenuto una linea assai identitaria nei confronti di ogni forma di “nuova sinistra” comparsa nell’agone politico nazionale, finendo in tal modo per perdere pezzi per strada e per non trovare alleati.

Terza Repubblica italiana o colonia dell’Unione Euroteutonica?

Se il governo gialloverde ha rappresentato l’antitesi della tesi politica euro montiana, il governo giallorosso ha segnato un chiaro tentativo di ritornare a quella tesi. Il punto vero è tuttavia che l’economia del paese è in sofferenza da troppi anni e, dopo il colpo tremendo assestato dal Covid, ormai è diventato difficile – per le categorie che del rigore europeista ancora beneficiano – riuscire a sostenere in modo credibile dinanzi alle maggioranze impoverite la narrazione per cui l’adesione al sistema dell’Euro e all’UE garantirebbe un benessere diffuso. La presa progressiva presa di coscienza del ceto medio allargato delle conseguenze nefaste dell’adesione all’UE e alla moneta unica sta quindi portando il sistema verso una vera crisi (nel senso dell’etimo greco); il che – se vogliamo adottare una prospettiva storicistica – significa che i tempi sono maturi per una sintesi.

Se la prospettiva è quella corretta, il tentativo di dare vita a un governo di larghe intese per gestire la coda dell’emergenza Covid potrebbe, hegelianamente, essere considerato lo strumento obbligato per una sintesi dialettica tra i modelli socioeconomici che si fronteggiano nell’agone politico e sociale. Se infatti da un lato sarebbe assai poco realistico proporre un semplice ritorno al vecchio keynesianesimo democristiano (che è il sistema ancora indicato da alcuni per mettere fine al “neoliberismo” globalista), sarebbe per converso ingiusto (oltre che ben poco costituzionale) accettare supinamente l’imposizione ex abrupto al nostro paese di modelli economici e sociali che – oggettivamente – da noi non hanno funzionato, portando a una riduzione sensibile del benessere della maggioranza degli italiani e recando danni enormi al tessuto produttivo ed economico (imposizione che, in sintesi, è invece quello che vorrebbero ottenere i pasdaran dell’europeismo a tutti i costi, PD in testa). Occorre in sostanza che – in Italia – tra Keynes e Hartz venga trovato un punto di equilibrio. Ma, e qui sta il punto vero, la sintesi non è necessaria solo a livello italiano (e, a dire il vero, neppure lo sarebbe solo a livello di Unione Europea). Siccome la crisi generata dallo scontro tra le tesi ed antitesi in conflitto è globale, altrettanto globale deve essere la sintesi. Ma chi potrebbe trovare il bandolo di una simile matassa?

Chi ha letto il mio commento sul discorso di Mario Draghi a Rimini dovrebbe sapere già come la penso al riguardo: Mario Draghi – nascendo keynesiano e dunque comprendendo perfettamente i termini economici e sociali del problema (così come le ricadute a livello globale delle eventuali soluzioni scelte per risolverlo), sapendosi muovere con sicurezza nel mondo della politica economica e monetaria internazionale, avendo dimostrato di essere europeista ma non appiattito sugli interessi di Berlino e Parigi e, dulcis in fundo, godendo di appoggi e fiducia in ambienti che possono decidere di investire risorse ingentissime sulle sue eventuali scelte di politica economica – è forse la sola persona che potrebbe tentare di elaborare, proprio partendo dall’Italia, una proposta di nuovo modello di sviluppo economico-finanziario che, adattando le idee di Keynes al nuovo contesto e alle diverse esigenze della globalizzazione, operi un riequilibrio nella struttura di una UE che invece, ora come ora, è oggettivamente tanto sbilanciata a favore di alcune economie e a danno di altre da rendere più che probabile un suo collasso a medio termine, in assenza di correttivi. Siccome però la stabilità dell’UE rappresenta un tassello fondamentale per gli equilibri geopolitici ed economici globali, ecco che adottare la “cura Draghi” per l’Italia e l’UE potrebbe giocare anche nell’interesse di attori politici, economici e finanziari extraeuropei, primi fra tutti gli Stati Uniti.

La storia potrebbe dunque ripetersi: così come – nonostante i mal di pancia di Berlino – Mario Draghi, con l’assenso di Parigi, aveva già a suo tempo salvato l’Euro cambiando le carte in tavola rispetto alle regole unioniste, ce la farà questa volta supermario a salvare l’Italia e a ravvivare, avviandone un ripensamento complessivo, l’ormai stanco progetto dell’Unione Europea? Solo il tempo può dirlo. A noi tocca sperare che le forze politiche nazionali così come le cancellerie europee (e, come vedremo qui appresso, Parigi in particolare) gli consentano ancora di fare whatever it takes, nella consapevolezza che si tratta di una delle poche persone che è in grado di trovare il bandolo della matassa italiana senza far saltare in aria in malo modo la costruzione europea.

L’Euro non funziona? Facciamone due!

La pre-condizione che potrebbe consentire una sintesi tra Hartz e Keynes in Europa è che – nel contesto di una maggiore integrazione anche politica dell’Unione Europea, che dovrebbe infine dotarsi della possibilità di emettere titoli di debito pubblico autonomo e finanziabile con l’emissione di moneta da parte della BCE – si formino due aree valutarie distinte: un Euro del sud meno forte (che includerebbe Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) e un Euro del nord rivalutato (ossia in sostanza un grande marco) che includerebbe la mitteleuropa insieme alla Finlandia e agli altri paesi inclusi nell’area di influenza economica più diretta della Germania.

La prospettiva non è affatto irrealistica, considerando che la Francia potrebbe trarre benefici tanto da un vero bilancio europeo che solidarizzi il debito pubblico (laddove la Germania da sempre osteggia con vigore simili soluzioni) quanto dallo stare in un’area monetaria unica con l’Italia (ma senza la Germania). La Francia – in questi decenni – ha infatti investito ingentissimi capitali nel nostro paese (acquisendo il controllo di parecchie grandi imprese, banche e assicurazioni nazionali), dunque non dovrebbe essere disposta a correre il rischio di veder svalutare i propri asset finanziari per effetto o di una italexit o della creazione di un “euro 2” che non vedesse la partecipazione anche della Francia. Se invece fosse la Germania, insieme ai suoi paesi satelliti, a lasciare l’area monetaria in cui stanno Italia e Francia, quest’ultima non avrebbe problemi di svalutazione dei propri investimenti nel nostro paese.

Si noti poi che anche la Germania potrebbe in realtà trarre alcuni vantaggi dalla separazione delle aree monetarie, a patto che entrambe le aree restassero nel contesto di un mercato unico europeo di libera circolazione delle merci. I tedeschi potrebbero infatti beneficiare della svalutazione dell’Euro del sud (o, se si preferisce, dalla rivalutazione del grande marco) per importare a minor prezzo quel che già importano ora delle imprese del sud Europa (e, per quel che interessa a noi, del nord Italia) che sono integrate nelle sue filiere produttive. Il problema di una divisione delle aree monetarie, per i tedeschi, starebbe dunque solo nella riduzione dell’export verso il sud Europa e – soprattutto – nel fato che il suo già traballante settore bancario vedrebbe svalutata la (davvero notevole) mole di crediti accumulati in questi anni nei confronti di debitori dei paesi del sud.

 Nello scenario in questione – anche se non è il caso di approfondire in questa sede un argomento tanto complesso – va considerata anche la spinosa questione del saldo passivo Target 2, ossia degli ingentissimi crediti (per ora solo figurativi, a causa del fatto che nel sistema Euro sia le banche centrali dei paesi creditori che quelle dei paesi debitori sono altrettante emanazioni della BCE) vantati dal sistema bancario tedesco confronti di quello italiano e degli altri paesi del sud Europa. In caso di creazione di una duplice moneta nell’area dell’UE, la gestione di questi crediti potrebbe infatti essere negoziata, compensando in qualche modo l’inevitabile svalutazione dei crediti in questione che seguirebbe alla creazione della seconda moneta.

La partita vera – a livello di politica internazionale – si giocherebbe tuttavia sulla creazione di un bilancio dell’UE, che sia finanziato, non solo e non tanto con tasse unioniste, ma anche e con emissioni di titoli pubblici comuni, garantiti da una BCE capace a sua volta, non solo di emettere moneta, ma anche di acquistare direttamente quegli stessi titoli e, dunque, di assumere il ruolo di vero e proprio prestatore di ultima istanza. Una simile prospettiva – come già si diceva – va nell’interesse di Francia e Italia, mentre è qualcosa che la Germania, quanto meno sinora, ha sempre mostrato di non voler in alcun modo accettare. Se dunque nell’UE iniziasse a formarsi – nei paesi del sud Europa – un fronte comune a favore di una riforma nei termini espressi in precedenza, potrebbe a quel punto essere la stessa Germania a prendere in considerazione la soluzione della duplice moneta UE (o di andarsene essa stessa dall’Euro o dall’Unione), in modo da poter organizzare secondo i principi economici e monetari più funzionali ai suoi specifici interessi (ma che poi sono quelli che attualmente ispirano il sistema dell’UE e che vengono imposti a tutti quanti, anche se ne beneficiano in pochi) solo la sua area più prossima di influenza economica.

Si noti infine che, in questo complesso gioco di equilibri, l’Italia ha in mano uno strumento di pressione da non sottovalutare e che sinora non è mai stato messo sul tavolo da alcuno dei governi di centro-sinistra. L’eventuale uscita unilaterale dell’Italia dal sistema della moneta unica (previa “segregazione” pure unilaterale del suo sistema finanziario, ossia limitazione per legge alla possibilità di circolazione dei capitali in uscita dal nostro paese), provocherebbe infatti nell’UE – specie nel sistema finanziario e bancario di Germania, Olanda e Francia – un mezzo cataclisma. Per un verso infatti l’italexit renderebbe assai meno conveniente per la stessa Germania la conservazione di una moneta unica (strumento che, è inutile raccontarsi le favole, è stata voluta dalla Germania anche per ridimensionare il solo vero concorrente europeo sul manifatturiero, ossia l’Italia). La Francia si troverebbe a sua volta di fronte alla prospettiva di una pesante svalutazione dei suoi ingentissimi investimenti in Italia e a dei rischi di rientro dei capitali investiti nel nostro paese. Infine, il già traballante sistema bancario e finanziario tedesco (ma anche quello olandese) dovrebbero affrontare il rischio non riavere mai indietro (o, comunque, di veder pesantemente svalutati) i crediti verso l’Italia, sia a livello di crediti verso i privati sia a livello di saldo Target 2. In sintesi: l’Italia – anche se il gioco in UE dovessi iniziare a farsi duro – avrebbe a disposizione tutti gli strumenti per reggerlo a muso altrettanto duro. Queste sono cose che, ovviamente, Mario Draghi sa benissimo.

Quo vadis Mario?

La linea politica di un nuovo governo si valuta solitamente usando due criteri: equilibri tra partiti nella sua composizione e primi provvedimenti. Vediamo di capire che sta facendo Draghi. La lista dei ministri presentata per il suo governo non include nomi di spicco nei posti chiave (ad eccezione forse del MEF). Dunque è restato deluso chi, come me, si aspettava un esecutivo composto esclusivamente di tecnici di alto livello, senza chiara appartenenza politica, confinando la “vera politica” al livello – pure importante, ma meno decisivo in termini di immagine e di linea politica – dei sottosegretari.

 Se ci limitassimo all’esame dei ministri ci troveremmo di fronte ad una specie di riedizione del Conte bis, che parrebbe voler dare il colpo di grazia politico al M5S e coinvolgere la Lega in ministeri o poco importanti o “difficili”, considerando anche che il solo incarico ministeriale di peso è stato attribuito a un esponente della corrente più europeista della Lega. Quanto ai ministri in quota Forza Italia, ben due su tre stanno a loro volta nell’ala del partito più favorevole all’intesa col PD. In sintesi: il partito che politicamente ha tratto più vantaggi dalle nomine ministeriali è stato il PD, che non solo ha guadagnato ministeri importanti, ma soprattutto ha consolidato la sua leadership nella coalizione di centro sinistra. Per il resto, il governo Draghi pare essere stato composto per dare un assist a Forza Italia (ma indebolendo la posizione di Silvio Berlusconi nel partito) e alla vecchia guardia della Lega (quella nordista e meno keynesiana).

L’impressione è insomma di avere a che fare con ministri nominati più da Mattarella che da Draghi, il quale – quanto meno in quella prima fase – non ha mostrato particolare ansia di cercare una discontinuità di indirizzo politico rispetto al suo predecessore (e – di conseguenza – rispetto ai governi degli ultimi dieci anni), in modo da ritagliarsi sin da subito un ruolo da protagonista che, per competenze e prestigio, avrebbe potuto anche voler assumere sin da subito (e che, a dire il vero, diversi italiani – e non solo di centro sinistra – sperano vivamente che possa assumere). Draghi, uomo notoriamente prudente, potrebbe insomma aver voluto iniziare a saggiare solo in punta di piedi il terreno minato della politica nazionale, onde evitare false partenze.

Si tratterebbe peraltro di una prudenza più che giustificata, se si pensa che conferire l’incarico a Draghi già nella prima parte dell’anno (dunque a emergenza sanitaria in corso) – mettendolo a capo di una maggioranza eterogenea e di una compagine ministeriale che sembra fatta apposta per creare discordia più che per governare in armonia una crisi epocale – potrebbe anche essere una strategia del PD(R) per “bruciare” lo stesso Draghi come candidato alla presidenza della repubblica, onde tentare un Matterella bis (mandato che, nel PD, è ritenuto assai importante trovandosi a cadere in un periodo in cui il parlamento sarà quasi certamente appannaggio del centro-destra). Dalle parti di Berlino (e dunque di Bruxelles), peraltro, un Draghi “forte” al Quirinale piacerebbe certamente meno del remissivo Mattarella. Dunque non è peregrino supporre che il PD, di concerto col Colle, abbia tentato di ostacolare la corsa al Quirinale di Draghi, creando una compagine ministeriale tale da generare tensioni e conflitti nella nuova maggioranza, sperando magari che sia proprio la Lega – come era accaduto già con il primo governo Conte – a volersi poi assumere la responsabilità politica dinanzi al paese di mandare a monte l’esecutivo di larghe intese.

Il sospetto che qualcuno, a sinistra, potrebbe voler mettere in difficoltà Draghi pare avvalorato dalla considerazione che il primo provvedimento adottato dal governo ancor prima della fiducia (e proprio dal ministro Speranza, ossia da uno dei “reduci” di Conte salvati da Mattarella) è stata la chiusura degli impianti da sci dieci ore prima della riapertura già preparata – con il placet dello stesso ministero – da diverse settimane, inducendo gli imprenditori a fare gli ennesimi investimenti inutili in un momento di assenza di fatturato. Draghi è stato informato del decreto e non si è opposto, ma – a governo non ancora “fiduciato” – difficilmente avrebbe potuto fare diversamente. Nello stesso senso potrebbe peraltro essere letta la cronometrica precisione delle esternazioni del solito Ricciardi che chiede immediatamente (al solito Speranza) un lockdown nazionale totale. Ma non diversamente potrebbe dirsi della già ampiamente manifestata volontà del ministro della salute di proseguire fino a Pasqua nella vecchia linea “chiusurista a colori” sinora adottata (peraltro senza particolari risultati) e che trova eco nelle politiche di chiusura ad oltranza imposte anche da Parigi e Berlino nei rispettivi paesi.

Chiunque creda che certe iniziative abbiano a che fare con la crisi sanitaria, coltiva pie illusioni perché evidentemente non conosce bene la politica italiana. Simili provvedimenti e annunci hanno infatti assai poco a che vedere con la volontà di risolvere l’epidemia, ma perseguono scopi chiaramente politici, essendo mirati (dal lato Speranza) più che altro a colpire chirurgicamente gli interessi della piccola borghesia che vota Lega o centroderstra (ossia di chi è costretto a lavorare per campare, non appartenendo a nessuna delle varie categorie protette che vanno a comporre quella che è stata efficacemente definita come “società signorile di massa” e che – in maggioranza – vota il centrosinistra). Simili attacchi al ceto medio lavoratore e produttivo alimentano infatti tensioni interne al governo ma anche tra le due anime della Lega e, infine, creano delle frizioni tra gli alleati della coalizione di centrodestra. Se Draghi – che per ora ha dato assenso alla linea Speranza sulla crisi sanitaria – si mostrasse in futuro troppo condiscendente di fronte simili giochi politici (giochi che, è bene chiarirlo, se davvero sono frutto della strategia sopra ipotizzata, andranno avanti senza tregua), potrebbe essere Draghi stesso a pagare, insieme alla Lega, il conto politico.

Probabilmente in questa prospettiva va dunque letta la scelta del centrodestra che – prevedendo possibili imboscate di Mattarella e del PD – ha scelto, verosimilmente di comune accordo tra i partiti della coalizione, di lasciare Fratelli d’Italia all’opposizione. Una simile scelta mitiga l’impatto negativa, in prospettiva elettorale, dell’appoggio leghista al governo Draghi, dato che i sovranisti più “duri e puri” eventualmente delusi dalla Lega – alle prossime elezioni – traghetterebbero quasi certamente nel partito di Giorgia Meloni, lasciando invariata la forza elettorale complessiva della coalizione. A loro volta, invece, una parte degli elettori di Forza Italia potrebbero scegliere di passare a votare una Lega “più moderata”, specie se – in caso di nuova crisi di governo – l’ala meno berlusconiana di Forza Italia riuscisse a imporre al partito o una alleanza con il centro sinistra o una convergenza col nuovo centro renziano. Se Mattarella e il PD hanno dunque mostrato la consueta abilità nel tentare di trasformare Draghi nel presidente del consiglio dell’ennesimo governo a trazione PD, il centrodestra sta giocando bene le sue carte per mandare a monte il piano senza rompersi le ossa alle prossime elezioni.

Ed infatti le conseguenze politiche dell’appoggio della Lega a Draghi non hanno tardato a mostrarsi: coalizione di centrodestra che resta coeso anche con la Meloni all’opposizione, Movimento 5 stelle prossimo alla scissione che si affida a Conte, dunque togliendo consensi al PD, che dunque a sua volta entra in grave fibrillazione con dimissioni di Zingaretti, aprendo la delicata fase del “con Renzi” o “contro Renzi”. Sin qui, dunque, si può dire con una certa sicurezza che il centrodestra stia portando a casa la partita sul piano tattico. Ma quel che interessa davvero capire è altro: al di là dei giochi dei partiti politici che lo sostengono da che parte sta davvero – in termini di linea politica – Mario Draghi?

Per capire le intenzioni del nuovo Presidente dei Consiglio appaiono interessanti anzitutto le nomine dei sottosegretari (che, a quanto sembra, sono state decise da Draghi in autonomia dopo un confronto coi partiti e dunque senza un intervento diretto di Mattarella). I sottosegretari sono infatti una componente meno nota – ma altrettanto essenziale e politicamente importante – nella composizione dell’esecutivo. E qui Draghi ha mostrato di voler “compensare” la Lega (e scontentare il PD), assegnando al carroccio vice ministri di dicasteri “pesanti” e soprattutto strategici in termini di influenza politica per la stessa Lega (ad esempio gli interni). Pure nel senso di una cesura rispetto al passato piddino suona la scelta di affidare a un tecnico senza evidenti targhe politiche (l’ex capo della polizia, Gabrielli) la delicatissima delega ai servizi segreti, su cui Conte e Renzi erano entrati in conflitto. Analogamente – con l’aggiunta del fatto che si tratta di uomini considerati vicini al ministro Speranza – deve dirsi della sostituzione del capo della protezione civile, Borrelli, e soprattutto del supercommissario Arcuri. Anche i primi passi di politica estera – specie in UE – paiono mostrare una certa discontinuità rispetto alla linea, totalmente filotedesca, mostrata dal Conte bis, ad esempio sulla questione del passaporto vaccinale e sul blocco all’export dei vaccini. Qualche segnale importante di discontinuità rispetto al Conte due, dunque, il nuovo Governo lo sta dando.

Mario Draghi – controllando il ministero dell’economia (che è stato affidato a un tecnico suo fedelissimo) – si è inoltre messo nella posizione di regolare la distribuzione delle risorse economiche e, di conseguenza, di decidere lo spazio di manovra dei vari ministeri. Lo stesso Draghi gode infine anche di contatti al massimo livello nelle istituzioni finanziarie internazionali e straniere, che potrebbero consentirgli di “gestire” sia lo spread che i rating con facilità maggiore rispetto a qualunque altro uomo politico italiano. Quel che è certo è insomma che l’attuale Presidente del Consiglio ha in mano tutti gli strumenti, se vuole, per avviare una fase nuova nel paese, dando inizio a quella che potremo dunque chiamare la “terza repubblica”. Il che – secondo chi scrive – è un passaggio politico ormai ineludibile.

Dopo un anno di “non gestione” dell’emergenza sanitaria ed economica, l’Italia che lavora e che ha ancora voglia di fare e investire è allo stremo delle forze e al limite della sopportazione (e questo Draghi lo sa o quanto meno dovrebbe saperlo). Il paese – specialmente nel suo ceto medio produttivo, lavoratore e “non garantito” – ha bisogno di ritrovare fiducia nel futuro, dopo essere stato martoriato da dieci anni di austerità e deflazione e, da un anno a questa parte, essere stato spaventato, disorientato e maltrattato dal precedente governo. Se non si restituisce al paese che lavora e fa la fiducia nel futuro, non ci sono ristori o recovery plan che tengano: il paese crolla. Nel suo discorso di Rimini (e nel precedente articolo pubblicato sul Financial Times) Draghi aveva fatto capire di avere delle idee piuttosto diverse rispetto al mainstream UE sul come far uscire l’Europa dalla crisi (e non solo da quella Covid). Idee che – se tradotte in azione di governo – potrebbero davvero rilanciare l’economia nazionale, fiaccata da un decennio di austerità e stremata dalle misure di (non) reazione al Covid messe in campo dal precedente esecutivo. Secondo alcuni, invece, Draghi sarebbe solo un nuovo Monti, vale a dire un liquidatore del benessere degli italiani nell’interesse dei paesi dominanti in UE. Io credo sinceramente che non sia così.

Se l’intento che sta dietro l’operazione politica cui stiamo assistendo fosse stato davvero – di concerto con una UE per nulla disposta a scostarsi dal suo tradizionale rigore teutonico – solo una nuova epoca di tagli di spesa pubblica e aumento delle tasse per divorare il risparmio privato, accompagnato dall’azzeramento di interi comparti economici nazionali per far spazio ad attività green e digital e all’ingresso sempre più massiccio in Italia di imprese e capitali stranieri; se l’intento fosse questo – dicevo – non occorreva certo scomodare un pezzo da novanta del calibro di Mario Draghi per fare al ceto medio produttivo e ai lavoratori del nostro paese un funerale di prima classe, con tanto di banda e carrozza con cavalli neri. A seppellirci vivi in casa, farci perdere il lavoro o chiudere l’attività, alzare le tasse e tagliare il welfare, bastava e avanzava un Conte qualunque. Anzi il secondo governo Conte – con la sua incapacità e litigiosità interna e col suo bias pauperista e anti piccolo borghese – sarebbe stato l’esecutore perfetto di un simile disegno.

Se questo fosse dunque lo scenario in cui si colloca la scelta di Draghi, usare il “nome” e il prestigio del personaggio avrebbe avuto un solo plausibile scopo politico: offrire a Forza Italia e alla corrente meno keynesiana della Lega una occasione “vendibile” ai rispettivi elettorati per far fare anche al ceto medio produttivo la stessa misera fine che il PD ha ormai già fatto fare ai lavoratori dipendenti. Il tutto senza andare a toccare le piccole e grandi rendite di posizione dei vari soggetti che compongono quella società signorile di massa, che – come sempre negli ultimi vent’anni – senza far nulla applaude, incassa e – standosene al calduccio – brinda questa volta alla “salute prima di tutto”, ai prodigi dello smart working, al food delivery e a quanto è bella la consegna a domicilio di Amazon.

Siccome non credo che un politico dello spessore tattico di Matteo Salvini sia stato tanto sprovveduto da accettare un simile rischio (quanto meno senza aver avuto qualche concreta garanzia in sede di consultazioni per la formazione del governo), ritengo che la strategia politica di Mario Draghi sia ben più ampia – e soprattutto non condizionata da eventuali desiderata dell’UE, di Berlino e tanto meno del PD o di Sergio Mattarella – rispetto a quella in cui si era a suo tempo mosso Mario Monti. E si tratta di una prospettiva che non coinvolge solo l’azione di questo governo e neppure solo la gestione dell’emergenza sanitaria ed economica Covid, consistendo nell’impostazione – anche da futuro Presidente della Repubblica – di una complessiva e profonda riforma economica ed istituzionale del paese, volta appunto a superare la logica fallata della deflazione cronica causata dalla società signorile di massa. Riforma che, in quanto volta a modificare lo status quo, non potrà che essere condotta in certa misura “contro” i voleri di PD e Germania (anche se non necessariamente contro l’UE, ove questa sia disposta a sua volta a cambiare qualcosa) e, dunque, “da destra”.

In questa prospettiva va anche considerato che Draghi – a differenza di Conte, ormai legato mani e piedi al movimento 5 stelle e ad una alleanza con la componente prodiana del PD – è certamente uomo “americano” assai più che “cinese”. Siccome gli USA, anche con il neo eletto presidente Biden, continuano a mantenere una linea di nettissima ostilità nei confronti di Pechino (che da parte sua, è bene ricordarlo, è divenuto il primo partner commerciale dell’UE a trazione tedesca, scalzando proprio gli USA), è verosimile aspettarsi che Draghi potrebbe contare anche sulla sponda di Washington se decidesse di spingere modifiche all’UE nel senso di ridurre l’egemonia tedesca nel vecchio continente. Infine, e sempre nell’ottica degli interessi strategici degli attori in gioco, non va sottovalutata neppure la tensione tra Francia e Cina che sta generando il crescente espansionismo di Pechino in Africa. Anche a livello internazionale, dunque, un Draghi che voglia avviare un percorso di riforme contro l’attuale UE “tedesca” potrebbe trovare alleati di peso sia all’interno che al di fuori dell’Unione.

Il momento della verità, con ogni probabilità, verrà presto, ossia quando si tratterà di discutere del ritorno dei vincoli europei ai bilanci nazionali, della cessazione del programma straordinario di acquisti di titoli pubblici da parte BCE per finanziare il rientro dell’emergenza Covid e di eventuali possibili vie alternative per finanziare ulteriormente i debiti pubblici nazionali (così come della sorte ultima del debito monstre accumulato durante il Covid da tutti gli stati dell’Unione). La Germania – che, come di consueto, ha saputo sfruttare la “finestra di libertà” offerta dalla sospensione delle regole unioniste per imbottirsi di aiuti di stato in misura assai maggiore rispetto all’Italia – sta infatti già dando i primi segni di nervosismo di fronte all’inflazione (o, meglio, “stagflazione”) che l’iniezione di liquidità da parte della BCE sta provocando e di cui iniziano già a vedersi i primi segni.

Sarà dunque proprio su questi dossier che – con ogni probabilità – si parrà la nobilitate di Draghi: riuscirà a portare la Francia, che pure di ulteriore liquidità ha disperato bisogno, dalla parte dell’Italia e in opposizione alla Germania? Ma – e direi soprattutto – quale è il “piano B” in caso di insuccesso? Che si fa se la Germania, come è prevedibile, cercherà di proporre un cambiamento in corsa delle regole per aiutare solo la Francia e non anche l’Italia? Mario Draghi accetterà a quel punto di mandare l’Italia in default controllato nell’area euro come è già accaduto con la Grecia (salvando l’UE attuale al prezzo di finire di demolire il benessere della maggioranza degli italiani) o avrà la forza – magari con la sponda di Washington – di mettere sul tavolo dell’UE l’ipotesi concreta di una italexit come “mezzo di persuasione di massa” al fine di giungere alla creazione di due aree monetarie nel contesto dell’Unione o alla creazione di un bilancio unionista capace di emettere titoli di debito comune? E se anche così gli diranno di no, il presidente del consiglio farà a quel punto l’interesse della maggioranza dei cittadini italiani o quelli degli ambienti finanziari? Questo non lo possiamo sapere. Possiamo però sperare nel fatto che sia una brava persona.




Il Covid come otto settembre del liberalismo italiano

Non serve il comitato tecnico scientifico per capire che il tasso di mortalità causato dal virus tra i liberali è prossimo al 100%.

Quello che mi ha più colpito nel “fenomeno covid”, considerato nel suo complesso (vale a dire come fenomeno sociale), è la pressoché totale assenza, in Italia, di intellettuali o commentatori capaci di mettere in dubbio l’opportunità delle limitazioni di libertà personale imposte dal Governo per rimediare all’emergenza sanitaria per il solo fatto che, appunto, i poteri pubblici abbiano imposto dei forti limiti ad alcune libertà fondamentali dei cittadini. E se dico in Italia è perché ad esempio in Svizzera è stato addirittura lo stesso Consiglio Federale (il massimo potere esecutivo a livello nazionale) a chiarire all’inizio della pandemia – verosimilmente per evitare che i Cantoni procedessero con lockdown locali in ordine sparso – che si potevano sì limitare le attività economiche entro certi limiti e con certi criteri, ma che non era possibile ad esempio limitare la libertà di circolazione dei cittadini, in quanto si trattava di un diritto garantito dalla Costituzione svizzera (che, è bene ricordarlo, è una delle ultime costituzioni autenticamente liberali esistenti nel vecchio continente).

Nell’UE, in compenso, nello stesso momento in cui volavano gli stracci sullo stato di diritto che sarebbe stato violato da Polonia e Ungheria, era (ed è) tutta una gara a chi chiude di più (sia saracinesche che gente in casa). Una gara in cui l’Italia, secondo quel che ci raccontano in numeri, sta riuscendo a guadagnarsi un poco ambito podio sia per la mortalità che per il calo di PIL, essenzialmente per il fatto di aver preteso di affrontare il problema senza potenziare in estate i presidi di cura e le strutture sanitarie, obbligando le imprese a dotarsi di misure di sicurezza per poi spargere lockdown estemporanei – a singhiozzo e di varia intensità – con preavvisi di un paio di giorni. A settembre il Presidente del Consiglio annunciava solennemente che escludeva ogni lockdown, per poi invece disporlo a ottobre. A ottobre raccontava che chiudevano in autunno per lasciarci liberi a Natale e capodanno, per poi chiudere tutto da Natale all’epifania. A Natale ci hanno raccontato la nuova favola che chiudevano per poter ripartire a Gennaio ed invece le restrizioni “a colori” stanno proseguendo, anzi mettendo dei criteri più restrittivi di prima. Pochi giorni fa il ministro Speranza ha parlato addirittura di “alcuni mesi” di misure restrittive e qualche esperto televisivo (spero in vena di battute) prevedeva “anni” di mascherina obbligatoria.

Il tutto sulla base di criteri definiti come “scientifici” ma assai poco chiari e ancor meno chiaramente illustrati, con decisioni prese a distanza di qualche giorno in un crescendo rossiniano, dunque forse più sull’onda delle continue gufate televisive o sulla carta stampata dei soliti tre o quattro virologi da passerella che non sulla base di una oggettiva e fredda valutazione dei risultati delle misure precedenti. E come non menzionare i verbali secretati e il clima generale di opacità che fa a pugni con l’obbligo di motivazione degli atti amministrativi e con l’esigenza di trasparenza dell’azione di governo. Se c’è insomma un modo per riuscire – in sol colpo – a maltrattare la costituzione, a stendere l’economia del paese e a far venire l’esaurimento nervoso ad un popolo, senza in compenso ottenere risultati apprezzabili sotto il profilo sanitario, credo che il governo Conte secondo lo abbia trovato. Anzi, a Caporetto in corso era tutto un vantare il “modello Italia” (che in realtà è un modello sì, ma forse di cosa non fare), aggiungendo dunque anche la beffa ai danni recati al paese.

La Germania invece – stato che, anche quando si imbarca in scelte opinabili, è noto che si impegna a perseguirle con grande zelo – ha pensato bene addirittura di mettere in cantiere in parlamento una legge in forza della quale – per “proteggere il popolo” contro i rischi sanitari – il Governo può legittimamente derogare alle libertà fondamentali, di guisa che – per esempio – la polizia potrebbe violare il domicilio personale al fine di verificare il rispetto delle norme di reazione al Covid. In Francia, paese il cui popolo da sempre reagisce con forza e in piazza contro le leggi che considera ingiuste, il governo si accinge a emanare una legge (“sulla sicurezza globale”, titolo da brivido) che consentirebbe alle forze di polizia di agire travisate nell’espletamento di compiti di ordine pubblico e che vieterebbe di filmarne l’azione in luoghi pubblici. Insomma, in un’Europa che si dichiara a parole la paladina dei diritti umani e del già citato stato di diritto (per lo più però quando si tratta di dar fastidio a governi considerati “sovranisti” o “populisti”), i fatti sembrano indicare che stiamo attraversando una deriva decisamente poco liberale, che appare più accentuata proprio negli stati in cui governano le grandi coalizioni identificabili come di centrosinistra europeista.

La ragione ultima di questo fenomeno potrebbe consistere nel fatto che tanti stati europei sono condotti da governi che – a causa delle loro politiche sbilanciate sulla tutela di interessi cari all’UE e che dunque non hanno tenuto in conto le specifiche esigenze dei rispettivi elettorati nazionali – non godono più un radicato consenso popolare e dunque difettano dell’autorevolezza politica sufficiente per adottare soluzioni autenticamente liberali (che ovviamente implicano dei costi sociali e sanitari), trovandosi costretti a ricorrere ai metodi autoritari per nascondere – dopo decenni di austerità e tagli al servizio sanitario pubblico spacciati come la sola ricetta per renderlo efficiente – la conclamata incapacità di tutti questi sistemi sanitari “efficientati” di fornire assistenza adeguata alla popolazione di fronte all’epidemia di una malattia neppure particolarmente grave, ma assai contagiosa e che soprattutto – nei soggetti a rischio – richiede trattamenti sanitari rapidi e capillari sul territorio per non degenerare in quadri clinici gravi. Le socialdemocrazie europee, in altre parole, dopo aver tagliato a man bassa la sanità pubblica in nome dei sacri verbi rigoristi (dunque creando la situazione per cui basta una influenza particolarmente cattiva per mandare in tilt i pronto soccorso di tutta Europa), si sono trovate costrette a imporre serrate di stato a interi settori economici e a mandare variamente agli arresti domiciliari (o al confino o in consegna notturna) i cittadini che non erano più in grado di curare. E così gli europei, dopo il danno causato dalla devastazione della sanità pubblica, stanno subendo pure la beffa dell’autoritarismo di stato “per il loro bene” come rimedio a quel danno.

Se dunque i politici europei – anche quelli liberal-liberisti – hanno le loro valide (quanto meno dal loro punto di vista) ragioni per ricorrere all’autoritarismo sanitario nell’affrontare l’epidemia, più difficile da decifrare è l’atteggiamento conformista assunto da pressoché tutti quanti gli intellettuali di casa nostra (salva qualche lodevole ma isolatissima eccezione). Qui da noi, ben più che all’estero dove il dibattito è più acceso, è infatti stato un coro unanime di “la salute prima di tutto” e “le regole vanno rispettate” e “occorrono sacrifici per il bene comune” e via luogocomuneggiando. Che a sinistra si sostenga che lo stato, in nome di esigenze collettive, ha il potere di limitare anche i diritti fondamentali di cittadini che devono solo tacere e ubbidire (e che anche chi si rifà alle idee di una certa destra dica questo) invero non mi stupisce più di tanto, considerando le culture politiche e le ideologie storiche di cui simili intellettuali hanno raccolto in vario modo l’eredità. Il silenzio che sconcerta è infatti quello di chi – pure in diverso modo e a vario titolo – in passato si è dichiarato (e magari ha anche ora il coraggio di dichiararsi) di area o di idee “liberali”.

Che cosa è infatti il liberalismo se non l’idea secondo cui certe libertà individuali del cittadino (libertà personale, di assemblea, di circolazione, di manifestazione del pensiero etc.) devono essere messe davanti a qualunque pretesa dello stato di conculcarle, per qualunque ragione? E si badi che il comodo espediente di sostituire le libertà coi “diritti” è – appunto – un comodo espediente di chi liberale non è più, giacché il liberalismo predica che certi diritti di libertà non possono mai e per nessuna ragione essere limitati dallo stato, perché lo stato è tenuto semmai a “riconoscerli” e non ha dunque il potere di decidere a sua discrezione se “concederli” o meno. Basta del resto passare in rassegna la storia del novecento per capire che gli stati autoritari di ogni colore e genere trovavano sempre almeno un “diritto” (e primo fra tutti quello alla “sicurezza” del popolo) per giustificare norme liberticide. Che non ci si possa nascondere dietro al diritto positivo per comprimere le libertà fondamentali è insomma cosa che chi vuole definirsi liberale dovrebbe sapere come le tabelline.

La mia impressione è peraltro che la mutazione del liberalismo di ieri nel “dirittismo” sia un aspetto del complessivo mutamento culturale che ha segnato – a livello di Zeitgeist – il passaggio da una narrazione incentrata sul potere veritativo della ragione dialettica (che rappresenta la vera anima ideologica – di ascendenza illuminista – del liberalismo classico) verso l’agnosticismo postmoderno nichilista del pensiero debole (che rappresenta il vero tratto dominante trasversale della cultura odierna, oltre che la perfetta scusa che consente agli ignoranti di apparire colti). In altre parole: il sedicente liberale di oggi, non trovando più a sua disposizione i vecchi diritti naturali e una razionalità “forte” cui riferirsi per costruire la propria gerarchia dei valori, si trova costretto a rifugiarsi nel giuspositivismo, cercando nel diritto positivo la fonte dei diritti naturali. Inutile dire che – in questo modo – ha però già smesso di essere liberale: i diritti naturali sono stati a loro tempo creati infatti al preciso scopo di limitare il potere dello stato, di guisa che una volta che sia ammetta che lo stato stesso può ridefinirli liberamente (dunque in sostanza una volta ammesso che lo stato “concede” i diritti fondamentali ai cittadini), si è ammesso anche che quei diritti non limitano più un bel nulla e che lo stato fa quel che vuole delle libertà dei cittadini. E con questo, ovviamente, si esce dal perimetro del liberalismo.

Il sedicente liberale di oggi pensa allora di risolvere il problema sostenendo che la “giustizia in sé” dei diritti deriverebbe in re ipsa dalla procedura democratica di adozione delle leggi che quei diritti tutelano. Che la democrazia non sia garanzia di giustizia, però, non ce lo raccontano solo la storia e l’attualità, ma lo conferma soprattutto il fatto che, se così davvero fosse, non esisterebbero le costituzioni, la cui funzione è appunto quella di porre dei limiti al legislatore anche nei sistemi democratici. Ecco allora che il nostro liberale – un po’ in spiazzato – ripiega ulteriormente, individuando il surrogato del diritto naturale, appunto, nella costituzione, dimenticando che quasi tutte le costituzioni – anche la nostra – possono comunque essere modificate, seppure con maggioranze qualificate, dallo stesso parlamento che, se davvero si trattasse di costituzioni che “riconoscono” diritti naturali, dovrebbe invece esserne vincolato in modo assoluto. Morale della favola: il liberale di oggi si è trasformato in un giuspositivista, senza accorgersi che il prezzo del cambiamento di pelle è stata la perdita della sua identità.

Risultato ultimo di questo processo metamorfico è che in Italia non si trova più un liberale (salvo un paio di casi isolati e comunque nessuno tra i sedicenti liberali che vanno per la maggiore nel circuito informativo mainstream) che abbia il coraggio (non dico di sostenere, ma anche solo) di riconoscere agibilità nel discorso pubblico delle opinioni per cui la tutela di vita e salute potrebbe anche non venire “sempre” prima di alcune libertà fondamentali dell’individuo. Anzi: quei pochi che si azzardano a sostenere una simile (liberalissima) tesi in pubblico vengono apostrofati – anche da alcuni di quelli che amano definire sé stessi come liberali – come negazionisti, se non peggio.

In sostanza nessun “liberale” ha sinora avuto nulla da eccepire in pubblico circa il fatto che è da diversi mesi che il nostro paese si trova nella situazione per cui i cittadini non sanno oggi se il governo nella notte ha deciso che li lascerà uscire di casa domani, o se dovranno restare agli arresti domiciliari o al confino coatto, ed in cui gli imprenditori non sanno oggi se il governo nella notte ha deciso di lasciargli aprire l’azienda domani (e in quali ore e con quali modalità) o se deve tenerla chiusa. Lo stesso governo, si badi, che a questi imprenditori impedisce di licenziare nonostante la crisi e attribuisce ristori ridicoli in rapporto al danno che stanno subendo per le serrate di stato: tutte misure che sono quanto di meno liberale si possa immaginare. Per non parlare della questione dell’obbligo vaccinale, in cui sembra che – anche per certi liberali – la vaccinazione sia divenuta una specie di nuovo battesimo laico per la salvezza universale. In un panorama – che per un liberale dovrebbe essere urticante – accade insomma che quasi tutti quelli che, prima dell’avvento del Covid, strombazzavano a destra e a manca fede e proclami liberali, se ne stanno ben zitti e coperti.

E a me, sinceramente parlando, è proprio quest’ultima cosa a spaventare di più. Ben più dell’epidemia stessa e pure dei balzani rimedi inventati sinora dai nostri governanti per (non) risolverla. E mi spaventa, si badi, perché invece noto che parecchi liberali – su temi come aborto e fine vita – stanno continuando a dire proprio l’opposto di quel che dicono sul Covid, ossia che, in nome della libertà di scelta di una persona o dei costi delle cure per la società, un’altra persona ben può essere mandata a stendere (e non per dormire), con tanto di autorizzazione e timbri dei pubblici uffici. Occorre allora chiedersi – o ancora meglio chiedere loro – perché mai vita e salute del potenziale contagiato di Covid valgono di più di quelle di un “normale” malato terminale o della futura vita e salute di un figlio non desiderato. A voler essere malevoli, viene da pensare che la differenza stia nel fatto che tra i potenziali malati di covid ve ne sono tanti (specie persone in là con gli anni, dato che siamo un paese anagraficamente anziano) che ancora compreranno il giornale, guarderanno la TV e/o voteranno alle prossime elezioni, mentre feti e moribondi sono dei senza letture né suffragio (e – anzi – a votare e leggere sono semmai proprio quelli che potrebbero avere un qualche interesse a disfarsene). Ma noi non siamo malevoli, dunque non crediamo possibile che degli intellettuali liberi – anzi, liberali – siano disposti a piegarsi certe logiche piccine. Dunque stiano tranquilli i veri liberali: le nostre insinuazioni sono dirette solo ai liberali finti, e – in genere – agli intellettuali asserviti alle logiche del potere o, peggio, dello stipendio a fine mese.

Che gli intellettuali possano avere delle ragioni di convenienza a seguire le narrazioni dominanti è cosa nota. Che lo facciano tutti quanti è in compenso cosa grave. Come dicevo c’è infatti da aver paura quando il tema delle libertà personali non viene più sollevato pubblicamente, neppure dai liberali, di fronte alla pretesa dello stato di “proteggere il popolo” (tanto per citare la già citata legge tedesca sulle emergenze sanitarie, che dice esattamente questo, riprendendo sul punto la ben più celebre legge fatta emanare tra le due guerre mondiali da Hitler, al tempo legittimo cancelliere a capo di una maggioranza eletta, in seguito all’incendio del Reichstag e con cui ebbe inizio la “vera” dittatura nazista). La storia del vecchio continente ci insegna infatti che le fasi di emergenza sono state quasi sempre l’anticamera di una qualche forma di deriva autoritaria. Questo perché quella stessa limitazione delle libertà fondamentali che viene affermata come “giustificata” oggi (ad esempio, nel caso del covid, in presenza di un’emergenza sanitaria) diventa un precedente che renderà più facile invocare domani limitazioni analoghe per vere o supposte emergenze di diverso genere. Si chiama “legge del piano inclinato” e, purtroppo, fa scorrere le cose sempre verso il basso.

Tanto per fare qualche esempio io ho sempre contestato tutti quelli che liquidavano con un semplice “ma cosa sarà mai!” le famose “domeniche a piedi” causa inquinamento. E non certo perché usassi la macchina nel fine settimana, ma proprio perché avevo il sentore che si trattasse di un precedente che avrebbe abituato il popolo a subire limitazioni della libertà di spostamento “per il suo bene”, e che dunque – secondo la legge del piano inclinato – avrebbe potuto portare altrove. Per queste stesse ragioni non mi sono mai piaciute le crociate contro il fumo anche nei luoghi aperti o pubblici (e non sono neppure un fumatore). Ma non diversamente pensavo (e penso) male del fatto che – in nome della sacra lotta all’evasione fiscale – lo stato ormai si arroga il diritto, senza alcun controllo della magistratura, di andare a ficcare il naso in ogni rapporto economico dei cittadini, declassandoli al rango di presunti evasori sotto perenne indagine patrimoniale. Ma anche la questione della moneta elettronica e della lotta al contante – sempre portata avanti in nome della mistica della lotta all’evasione per il bene di tutti – mi paiono altrettanti attentati alle libertà (in questo caso economiche) dei cittadini. E che dire della tematica dei vaccini obbligatori, che non è affatto una questione di “vax” contro “no vax” (e tanto meno è una questione che riguarda solo l’emergenza covid), ma il terreno che consente di capire davvero se la salute si può ancora considerare un diritto che lo stato deve riconoscere e garantire ai cittadini o se è diventato una specie di dovere dei cittadini verso lo stato. In sintesi: in questi ultimi anni mi pare di assistere, specie in Europa, al tentativo dei pubblici poteri di mitridatizzare i popoli, assuefacendoli progressivamente – con piccole ma crescenti dosi di restrizioni alle loro libertà – all’autoritarismo di stato.

E il risultato iniziamo a vederlo proprio col covid: proprio grazie alla paziente e costante mitridatizzazione delle maggioranze all’autoritarismo legalitario “per il bene di tutti”, l’intera popolazione dei maggiori paesi europei sta sperimentando un anno di arresti domiciliari a singhiozzo e di serrate di stato di interi settori produttivi per causa di un’epidemia influenzale non particolarmente grave, ma resa pericolosa piuttosto dal fatto che è assai contagiosa e che – quanto meno in Italia, ma non diversamente accade altrove nell’UE – la sanità pubblica è stata resa così economicamente efficiente da non essere in grado di curare adeguatamente gli ammalati, né sul territorio coi medici di base né negli ospedali (che sono stati ridotti di numero). Ma la domanda che mi pongo io è un’altra: visto che col covid gli stati hanno verificato che quasi nessuno protesta, quale sarà il prossimo “diritto” in nome del quale – nel silenzio degli intellettuali liberali – i poteri pubblici provvederanno a toglierci un’altra fetta delle nostre libertà individuali? Magari domani ci diranno che – per ridurre i costi per la sanità – dovremmo sottoporci obbligatoriamente a screening genetici o di altri esami di vario genere? E dopodomani che cosa potrebbero inventarsi, sempre a fin di bene, si intende! La domanda, ovviamente, la giro soprattutto ai liberali, così magari ci pensano e iniziano a dire qualcosa di liberale.

 

I giuristi liberali e lo strano caso dei diritti “diversamente fondamentali” nella gerarchia costituzionale.

Per poter parlare davvero male dei (finti) liberali di casa nostra, non mi limiterò a denunciarne la scomparsa: scenderò sul loro stesso terreno, quello del diritto positivo. Il che significa entrare nel merito della questione costituzionale relativa alla domanda: il diritto alla salute/vita viene realmente sempre prima di qualunque libertà civile? Molti – anche giuristi liberali – liquidano la questione sostenendo che la risposta è certamente sì, perché la vita è il presupposto dell’esercizio di qualunque libertà dell’individuo. Tutto vero e tutto giusto. Ma come si spiega allora l’aborto legale e le disposizioni sul fine vita che ammettono la soppressione di persone (o di future tali) senza il loro espresso e contestuale consenso? La questione è insomma più ben complessa di così e merita approfondimento, partendo magari proprio dal testo quella costituzione che – a giudicare da certe prese si posizione – viene più invocata che letta.

Si deve osservare infatti che il diritto alla salute (ossia il fatto che lo stato deve occuparsi delle malattie, consentendo ai cittadini di curarsi o agendo per prevenirle) è soggetto – ai sensi dell’art. 32 Cost. – a (sola) riserva di legge, laddove il diritto alla libertà personale e all’inviolabilità del domicilio è soggetto, oltre che a riserva di legge, anche a riserva di giurisdizione. Questo significa che, mentre una legge dello stato è sufficiente per prescrivere ad esempio un vaccino obbligatorio, se per inoculare il vaccino occorresse usare la forza (dunque occorresse fare un vero e proprio TSO) o se servisse entrare nel domicilio di un cittadino senza il suo consenso (sfondando la porta o entrando dalla finestra del balcone come Batman), allora la legge che volesse autorizzare simili procedure dovrebbe prevedere anche l’autorizzazione di un Magistrato che emani un provvedimento ad hoc per ogni singolo caso. Analogamente: se per prevenire il contagio epidemico si mettono agli arresti domiciliari i cittadini di intere regioni del paese, occorre (anzi, vista la situazione, occorrerebbe) prevedere l’autorizzazione di un giudice. Ma se alcuni diritti (libertà personale e inviolabilità del domicilio) godono di tutele costituzionali maggiori contro l’intervento dei pubblici poteri rispetto ad un altro diritto (salute), logica giuridica – e buon senso – inducono a supporre che quei diritti siano stati a suo tempo considerati dai costituenti più importanti di questo. Ed invece un sacco di giuristi – anche liberali – dicono cose diverse.

Ma fingiamo per un momento che nella costituzione non ci sia scritto quel che invece sta scritto (o, più semplicemente, riconosciamo candidamente che nel dibattito culturale odierno la logica non sia più di moda). Dunque, ipotizziamo pure che si tratti di diritti di pari rango costituzionale. In una simile situazione – per capire entro che limiti è legittima la compressione di un diritto in nome della tutela di un altro diritto di analogo rango – soccorre il principio di proporzione e ragionevolezza nel contemperamento degli interessi sottostanti ai diritti tutelati. Dunque la domanda che un liberale – che abbia letto un po’ distrattamente la costituzione – potrebbe e dovrebbe farsi è se sia proporzionato e ragionevole limitare ad intermittenza la libertà personale di tutti i cittadini per un anno intero al fine di ridurre la mortalità causata da una malattia epidemica in determinate fasce minoritarie della popolazione che si trovano ad essere particolarmente esposte alla malattia. La risposta, ovviamente, dipende dal complesso delle conseguenze sociali provocate dalle limitazioni di libertà individuale adottare per tutelare il diritto alla salute.

Ma se questa è la prospettiva, purtroppo, ad un giurista liberale che osservi la situazione oggettivamente dovrebbero rizzarsi i capelli in testa: a fronte di una mortalità tra le più alte al mondo, ci sta cascando in testa un disastro economico immane, che provocherà, stando alle stime della Cerved, quasi una mezza milionata di attività imprenditoriali che non riapriranno mai più e quasi due milioni di disoccupati (non appena verrà meno il divieto di licenziamento). Il tutto come antipasto di una stagnazione economica che andrà avanti verosimilmente per qualche decennio prima di recuperare i numeri precedenti al Covid. E questo senza contare la possibilità che – grazie al fatto che abbiamo accettato un regolamento sul recovery fund che include espressamente la restaurazione del patto di stabilità nella versione più antica (e dunque rigorosa) – dovremo dichiarare default (o ammazzare definitivamente l’economia del paese con una bordata di nuove tasse e tagli che andranno a colpire il risparmio di un popolo di senza lavoro e dunque senza reddito) quando, tra un paio di anni, l’Unione Europea sancirà la fine della crisi sanitaria e tornerà al rigore di bilancio e noi ci troveremo con un debito colossale ed in più con le rate del recovery fund da rimborsare a colpi di austerità (quella che ai liberali piace tanto).

Ma è proprio in relazione a questo secondo aspetto della questione che entra in campo un altro “peso massimo” della gerarchia costituzionale, rappresentato dal diritto al lavoro, che l’art. 1 della Costituzione identifica niente meno che come uno dei fondamenti, insieme al principio democratico, della stessa repubblica. Se c’è infatti un diritto che può essere catalogato senza tema di smentita come diritto “fondamentale” nel nostro quadro costituzionale è proprio quello al lavoro. Il che consente di sostenere che abbiamo a che fare con un diritto che “pesa” in termini costituzionali almeno quanto il diritto alla salute e alla vita. E dunque: se per tutelare un solo diritto fondamentale (salute) ne comprimiamo in modo significativo altri due (libertà personale e lavoro) che “pesano” almeno uguale al primo, qualcosa parrebbe non funzionare nell’artimetica (costituzionale) del modo in cui il nostro Governo ha scelto di affrontare l’emergenza.

Dunque, davvero non se ne esce: o si è disposti ad ammettere – ma questo un liberale vero non può farlo – che la salute pubblica da sola vale di più della libertà personale e del diritto al lavoro dei cittadini messi insieme (ma la Costituzione questo non consente di farlo con troppa sicurezza, anzi fornendo indicazioni in senso differente) oppure un liberale avrebbe degli ottimi argomenti a sua disposizione per obiettare che qualcosa non va nel modo in cui si è impostata la reazione al Covid in Italia.

 

Per il disastro del “modello Italia” dobbiamo ringraziare anche l’assenza – a livelli di dibattito politico – di voci autenticamente e radicalmente liberali.

La mancanza di ragionevolezza e proporzionalità nelle misure di reazione al covid di cui si è detto poc’anzi (al di là dei possibili risvolti giuridici) assume rilievo anche a livello politico. Per capire i termini della questione occorre tuttavia riassumere per sommi capi in cosa consiste il “modello Italia” (che a questo punto, vista la piega della crisi, potremmo definire “modello Conte bis” o “modello giallorosso”). E non mi riferisco tanto alle forme giuridiche con cui le istituzioni hanno scelto di agire (su cui pure ci sarebbe molto da dire, come ho avuto modo di segnalare in alcuni articoli pubblicati in passato su questo sito e relativi ai profili di possibile incostituzionalità di alcune misure restrittive disposte dal Governo), ma soprattutto alla sostanza delle cose.

Questo “modello” consiste nel disporre una raffica di lockdown domiciliari e di coprifuoco a intermittenza e senza alcun preavviso, conditi da chiusure di attività a casaccio (dopo averle obbligate a spender soldi per mettersi in sicurezza) senza alcuna programmazione né possibilità di previsione e senza in compenso investire a tempo debito – ossia questa estate – risorse per potenziare cure domiciliari e strutture sanitarie. Il tutto nascondendosi dietro alle valutazioni di comitati tecnici di cui non è dato conoscere gli atti né i dati utilizzati per decidere. Quanto ai “ristori”, al di là del fatto che si tratta di briciole in confronto al danno economico subito da certe categorie costrette ad una serrata totale per mesi, è evidente che un’economia ferma o rallentata non può essere sanata con il trasferimento continuo di risorse pubbliche: se fosse così tutti gli stati pagherebbero i cittadini solo per esistere e lo stesso problema economico (ossia della gestione delle risorse di un paese) non esisterebbe neppure come oggetto di dibattito politico.

Le risorse straordinarie vanno usate per riavviare l’economia azzoppata, non per evitare che una ferita ancora sanguinante sporchi troppo in giro. L’idea dei ristori è insomma solo lo specchietto per le allodole (o l’esca per gli allocchi) con cui si tenta di illudere la gente che lo stato stia aiutando anche le persone che invece sta distruggendo a colpi di lockdown. La brutta verità è che l’Italia – ma lo stesso vale per quasi tutti gli altri paesi dell’UE – ha semplicemente scelto la soluzione più facile e meno responsabilizzante per chi governa (la più comoda ma anche la meno liberale), evitando di investire subito ingenti risorse sulla sanità (sia mai che la “liberalissima” UE avvii qualche procedura di infrazione per aiuti di stato) e dunque scaricando la gran parte del costo sociale ed economico dell’epidemia sui cittadini che lavorano, curandosi – qui da noi – di mantenere caldi e al sicuro (i voti del)le categorie già più protette (dunque anziani pensionati, dipendenti pubblici, lavoratori dipendenti delle grandi imprese sindacalizzate), mandano invece più o meno allo sbaraglio gli altri, specie il ceto medio produttivo (quello degli evasori/kulaki che, anzi, ben gli sta!).

Del resto, va pure riconosciuto che il recovery fund (dipinto come una specie di “vaccino economico” capace di sanare tutti i mali del mondo) deve essere usato – dato che così sta scritto nelle regole europee – per finanziare anzitutto transizione green, digitalizzazione e parità di genere, mentre solo circa un 10% può essere usato per la sanità. Per quella al massimo c’è il MES sanitario (ossia un diverso genere di prestiti, ma sempre condizionati, tanto convenienti che in UE nessuno stato se li è filati). Siccome è l’UE che detta l’agenda ai governi su come usare questi fondi, non si può neppure dire che la mancanza di investimenti sanitari sia tutta colpa di Conte e di tutta la maggioranza che lo sostiene. Semmai la colpa del Governo italiano è stata quella di non avere finanziato la spesa sanitaria come hanno fatto altri stati, ossia emettendo una montagna di titoli pubblici (ora che vengono acquistati dalla BCE senza limiti e che il patto di stabilità è sospeso) per finanziare aiuti di stato diretti.

La ragione di questa resistenza sarebbe che non si voleva far crescere troppo il debito. Ma il fatto è che il debito pubblico comprato dalla BCE è rinnovabile a scadenza con nuove emissioni di titoli, mentre quello del recovery fund (e del MES, se verrà attivato) deve essere rimborsato tutto quanto alla sua scadenza (si badi bene: anche per la parte definita “a fondo perduto”, che comunque viene ripagata o con tasse unioniste quali IVA e plastic e sugar tax oppure restituito mediante i contributi nazionali al bilancio UE). Dunque – al netto delle valutazioni di convenienza politica – sarebbe stato in ogni caso meglio per noi fare tanta spesa sanitaria contraendo debito nazionale rinnovabile (e pure ridenominabile in valuta nazionale in caso di italexit dalla moneta unica) e non farne poca vincolandoci con debito europeo da rimborsare a scadenza (e che non può essere neppure convertito in moneta nazionale in caso di uscita dell’Italia dall’euro). Non è dunque certo un caso che altri stati – specie la Francia, che pure a debito pubblico sta messa assai male – abbiano invece finanziato la spesa pubblica di reazione al covid emettendo quantità immense di titoli pubblici. Ma non diversamente sta facendo la Germania che – sfruttando la sospensione del patto di stabilità – ha accumulato in questi mesi emissioni di titoli pubblici che hanno finanziato aiuti di stato alle imprese per migliaia di miliardi di euro.

Se dunque a crisi finita accadrà – come alcuni (tra i quali anche il sottoscritto) sospettano – che gli stati che più hanno fatto spesa pubblica troveranno alla fine il modo di far monetizzare quel debito alla BCE (in sostanza facendo in modo che la BCE accetti che siano resi perpetui i titoli pubblici nazionali acquistati durante l’emergenza covid), noi italiani faremmo l’ennesima figura dei fessi che dovranno restituire con gli interessi (e senza poter emettere nuovo debito) quello che altri paesi non dovranno invece mai restituire a nessuno. Ma non ditelo ai liberali, per favore, altrimenti non possono scrivere sui giornali e dire in televisione che mamma Europa vuole sempre e solo aiutarci.

Ma torniamo al punto politico: un governo che riesce a mettere in piedi un simile disastro – senza riuscire a risolvere il problema sanitario, dando aiuti che non innescano la ripresa e scegliendo di finanziarli in modo assai meno conveniente rispetto ad altri stati europei, facendo cose diverse da quelle che stanno facendo Francia e Germania, dunque creando il concreto rischio di dover dichiarare default o ammazzare il paese di tasse e tagli tra un paio di anni – deve essere chiamato a risponderne (o a chiarire le ragioni delle sue scelte) di fronte all’opinione pubblica. Ed è esattamente qui che sta la colpa dei liberali: proprio loro dovrebbero essere infatti la voce principale del controcanto alla narrazione governativa. E invece questa voce è mancata del tutto. Ed è mancata perché in Italia non c’è più una vera cultura liberale.

Gran parte dei liberali di oggi sono infatti i comunisti moderati di ieri, quando non addirittura dei sessantottini invecchiati male. Questo spiega perché questi liberali sui generis si sono ridotti a predicare solo i “nuovi” diritti civili che vanno di moda a sinistra (inclusività, parità di genere, non discriminazione et similia), dimenticando invece del tutto i “vecchi” diritti fondamentali su cui si fondano le società occidentali: libertà personale, libertà di assemblea e di riunione, libertà di circolazione, libertà di manifestazione del pensiero. La gran massa dei liberali di casa nostra sono insomma solo una sbiadita copia dei liberal americani: pasdaran allevati alla scuola del politicamente corretto e – dunque – in realtà mossi da convinzioni profondamente illiberali, in quanto sotterraneamente convinti che lo stato sia lo strumento demiurgico con cui imporre il progressismo (socialdemocratico) come panacea di tutti i mali. In altre parole: tanti sedicenti liberali di oggi, essendo (a sinistra) degli ex sessantottini in pantofole o (a destra) dei teorici della sicurezza sociale come primo compito dello stato, non sono in grado di interiorizzare il tratto essenziale del vero liberalismo, rappresentato dalla naturale diffidenza nei confronti di qualunque forma di stato paternalista e in particolare verso qualunque tentativo del potere esecutivo di limitare le libertà individuale.

Per questo oggi assistiamo allo spettacolo surreale di sedicenti liberali che osannano il sistema cinese di reazione all’epidemia, forse scordando che – quando la mortalità provocata da un virus è allo 0.3% – per uno stato (con una popolazione mediamente molto giovane) che controlla totalmente sia l’informazione che i social media non è poi tanto difficile sostenere dinanzi al proprio popolo e al mondo la narrazione secondo cui l’epidemia sarebbe stata risolta, quando forse non è del tutto così. Qualcuno potrebbe invece sospettare che le autorità Cinesi abbiano ritenuto che un altro lockdown – di quelli “duri”, specie se esteso a tutto il paese e non ad una sola provincia, come era stato il primo – non sarebbe comunque servito a fermare la seconda ondata ed avrebbe soprattutto provocato eccessivi danni economici, decidendo dunque – assai pragmaticamente – di affrontare la seconda ondata facendo in modo che il popolo ne ignorasse le conseguenze (tutt’al più mettendo in campo, con poco clamore mediatico, una serie di mini-lockdown mirati nelle zone dei nuovi focolai). I cittadini cinesi non possono scegliere i loro governanti e dunque anche se lo stato non riesce a curare tutti per bene, il partito può permettersi di far spallucce, enfatizzando il fatto che l’economia cinese è l’unica economia mondiale che è riuscita a crescere in epoca covid (altro dato che dovrebbe far riflettere).

Qui da noi, invece, i governi sono troppo impegnati a chiudere in casa le persone e a terrorizzarle e confonderle allo scopo di nascondere l’inefficienza dei rispettivi sistemi sanitari (causata, non mi stancherò mai di dirlo, anche dalle politiche di rigore imposte dall’UE a tutti gli stati e sostenute dai nostri liberali). E ora che anche Germania e Francia iniziano a pagare un conto davvero salato in termini di morti, state pur certi che faranno pressioni per indurre tutti quanti gli altri stati dell’UE a chiudere tutto, sia mai che qualche stato membro possa avvantaggiarsi e riprendere a vivere e fare affari liberamente prima che possano farlo tedeschi e francesi. Ecco dunque apparire – dopo Natale e capodanno aperti al di là delle alpi – lo spettro delle zone “rosso scuro” individuate dall’UE per limitare la circolazione in Europa. E invece – quando eravamo stati noi a dover chiudere tutto a marzo 2020 – gli altri stati (e l’UE) sono andati avanti tranquilli per mesi senza imporre lockdown o altre misure rigide. Ma forse è solo un caso.

La frecciatina ai nostri fratelli europei (o, per meglio dire, a chi li rappresenta politicamente) non è una cattiveria fine a sé stessa, né il frutto di personale malevolenza, ma solo un espediente narrativo per mostrare al lettore un’altra strana coincidenza: gli pseudo-liberali di casa nostra sono infatti quasi tutti europeisti di stretta osservanza (tra l’altro l’UE è un pachiderma burocratico e dirigista che predica un singolare liberalismo fatto di mille regole e controlli, ma passiamo oltre) e dunque farebbero una certa fatica a spiegare ai loro lettori ed elettori – ai quali hanno raccontato per venti anni le res gestae dell’UE liberale impegnata a combattere gli sprechi anche sanitari degli italiani spendaccioni e statalisti che vivevano al di sopra delle proprie possibilità – perché mai proprio le politiche di taglio alla spesa pubblica sanitaria hanno finito per creare una situazione in cui esercitare le libertà fondamentali dei cittadini sarebbe stato vietato dal governo in quanto rischioso per la salute pubblica.

Ma non è che un intellettuale smette di essere liberale se trova il coraggio di ammettere serenamente che un certo livello di spesa pubblica sanitaria forse è necessaria – anche in uno stato liberale – perché solo se uno stato ha un sistema sanitario in grado di affrontare adeguatamente anche situazioni di grave emergenza, le libertà fondamentali civili ed economiche (dunque quelle che un liberale dovrebbe voler tutelare) possono essere garantite senza chiedere in cambio troppi sacrifici in termini di salute e di vite. L’epidemia di covid dovrebbe insomma aver fatto capire (ai liberali) che un robusto welfare sanitario anche pubblico è, paradossalmente, una delle condizioni che consente agli stati di essere liberali nei fatti e non solo a chiacchiera.

Ma spesso i dogmi valgono più del buon senso, specie per chi si trova ad avere una situazione economica e uno status sociale che gli consente di andare avanti a predicare dogmi che stanno facendo (e faranno) del male solamente ad altri. Il liberalismo all’italiana di tanti intellettuali – di recente – emana insomma sempre più spesso la fragranza radical chic dei croissant di Maria Antonietta. Croissant che, come sappiamo, possono però finire malamente di traverso a chi ne abusa, quando, alla fine, la maggioranza di un popolo viene messa davvero alle strette.

 

Il covid come otto settembre del pensiero autenticamente liberale.

Non resta a questo punto che trattare della posizione “etica” dei nostri liberali. Mi rendo conto di quanto sia demodé parlare di etica oggi. Eppure secondo me qui una riflessione etica è legittima proprio perché la distinzione tra “giusto” e “lecito”, di nuovo, è qualcosa che i liberali (quelli che non si sono mutati in “dirittisti”, che identificano la legge di uno stato democratico nella giustizia universale) dovrebbero riconoscere, comprendere e – magari – anche condividere. In questa sede, visti gli spazi, ci limiteremo solo a pennellate impressionistiche, intorno alla domanda fatidica: davvero la vita biologica viene prima di tutto nella gerarchia dei valori?

A ripercorrere la storia dell’occidente, dunque adottando una prospettiva empirica e storicistica, parrebbe proprio di no. Per secoli gli europei – ma anche gli americani, dopo la colonizzazione, dunque tutti i popoli che possono definirsi “occidentali” – hanno sacrificato la vita per conquistare prima, e per mantenere poi, le libertà individuali contro l’oppressione dei poteri pubblici assoluti (stranieri o domestici che fossero). Anzi, viene da dire che sia proprio la volontà di mettere la libertà civili davanti alla sicurezza e alla stessa vita fisica – dalle Termopili a Popper – a rappresentare uno dei tratti distintivi peculiari della stessa cultura occidentale. Passando dalla storia alla ragione dialettica, va detto che, a voler ragionare come fanno certi ayatollah salutisti dell’ultima ora, se dovessimo subire una dichiarazione di guerra sarebbe inevitabile arrendersi all’istante, sia mai che – quando la guerra davvero comincia ad imperversare – poi muore qualcuno. E che dire della circolazione stradale? Tali e tanti sono i morti, gli invalidi e i feriti gravi (per non parlare della pressione sul sistema sanitario) che provoca ogni anno l’andare in macchina, che un bel lockdown stradale su tutto il territorio nazionale ogni fine settimana (o magari anche durante la settimana, a giorni alterni, con incentivi statali all’acquisto di un triciclo a pedali, ma con cambio Shimano a millemila rapporti) mi pare il minimo sindacale. Ma mentre scrivo quest’ultima frase mi assale la spiacevole sensazione che quello che per me è una battuta per qualcuno potrebbe anche essere una ipotesi sensata.

Tornando all’etica, va rilevato che la nuda vita materiale come primo interesse rilevante appartiene anche alla cifra di quel mondo degli “ultimi uomini” di cui Nietzsche – che pure liberale non era affatto – parlava con disgusto misto a paura. E come non citare le preoccupazioni di un gigante della filosofia del secolo scorso come Heidegger (altro pensatore per nulla liberale) per il dilagare della tecnoscienza – di cui il paradigma che pone la vita fisica come sommo bene e a sua volta certamente manifestazione – come unico criterio ordinatore di una società occidentale ormai preda del nichilismo. Su come la pensino Popper e Habermas della questione credo non vi sia nulla da dire, se non che si tratta di altrettante icone liberali. Tutto questo per dire che nella nostra tradizione culturale e filosofica (anche in quella non liberale) non mancano certo i moniti a non cadere preda del primo leviatano che passa di lì offrendo ai cittadini sicurezza in cambio di sottomissione.

Pare però che i moniti siano stati tutti ignorati. E lo sono stati perché il covid è stato un po’ l’otto settembre della cultura liberale in Europa (escluse Svizzera, Svezia e poche altri nazioni, che hanno resistito alla tentazione di rispondere alla crisi con la soluzione del dispotismo salutista in salsa pechinese): come racconta l’omonimo romanzo di Curzio Malaparte – quando saltano tutti i riferimenti ideali e culturali che tengono unite le persone in un popolo dotata di una propria identità – alla prima vera crisi ognuno pensa per sé e dunque solo la “pelle” conta davvero. A quel punto tutto diventa lecito e legittimo alla sola condizione che io salvi la mia pelle (e magari, già che ci sono, anche il mio conto in banca e stipendio), non importando nulla quanto dovrà o potrebbe soffrire il mio prossimo. Questa reazione “di pancia” – che tutto sommato ci si poteva anche aspettare dalle masse postmoderne private di ideali forti e di identità culturali definite – invece che essere stigmatizzata è stata condivisa, legittimata (e dunque ideologicamente coperta) anche da tanti intellettuali che si definiscono liberali. L’otto settembre non è dunque tanto quello delle masse, bensì quello del liberalismo.

Gli intellettuali italiani ed europei, quegli stessi che sino a ieri tessevano le lodi di Popper e Habermas, di fatto oggi si trovano a sostenere (spesso senza rendersene neppure conto) tesi che appaiono ispirate piuttosto agli insegnamenti di due illustri discepoli eterodossi di Hegel: il nostro Gentile, che vedeva nello stato (totale e totalitario) la sola possibile fonte del vero e del giusto in un dato momento storico e contesto sociale e Marx, che leggeva il mondo solo come materia, economia e interessi collettivi che prevalgono in ogni caso sui diritti individuali. Entrambi in compenso bollavano le vecchie libertà liberali come inutili e dannose sovrastrutture borghesi. Suona dunque strano che proprio ora che i liberali hanno l’occasione perfetta di prendersi una rivincita, innalzando il vessillo delle libertà individuali contro il dispotismo in camice bianco del novello regime medical-paternalista, preferiscano tacere. Ma forse queste cose agli intellettuali liberal(i) di oggi non interessano un granché: loro adesso hanno il gender, la discriminazione razziale, l’antifascismo, il populismo e i tagli alla spesa pubblica e agli sprechi di cui occuparsi (e con cui ovviamente indignarsi). Ogni epoca ha in definitiva i liberali che si merita. E la nostra epoca parrebbe essere quella dei piccoli conformisti che – nello stesso momento in cui dicono cose vagamente fasciste o maoiste – per qualche strana ragione amano farsi chiamare liberali.

A voler trovare il lato positivo di questa paradossale situazione, si può dire che il covid ha quanto meno fatto cadere la maschera (anzi, la mascherina) di parecchia gente, consentendo alla fine di capire chi – pur dichiarandosi (o magari anche credendosi) liberale – è invece portatore di gravi forme di totalitarismo asintomatico ovvero della classica variante italica del servilismo acuto verso i potenti di turno. Sta di fatto che dopo il Covid i liberali – quelli veri – almeno potranno contarsi tra loro (e, si spera, non sulle dita in una mano). Io non mi considero un liberale, quanto meno non tour court (visto che non sono un liberista in economia e su alcuni temi etici potrei essere bollato comodamente come veteroreazionario), però so bene che i liberali duri e puri (anche se liberisti e pure se mangiapreti) sono una componente imprescindibile della dialettica culturale e politica europea. Se dunque un giorno i liberali veri scomparissero davvero dal discorso pubblico– e col Covid mi è venuto il sospetto che il processo, quanto meno qui da noi, sia in corso – quel giorno resteremmo tutti quanti più esposti al neo-dispotismo del leviatano securitario, situazione che non occorre certo essere liberali o liberisti per voler evitare.




I partiti italiani: la crisi della Seconda Repubblica e l’epoca del rigore europeista

I partiti italiani: parte seconda

Il cambio di paradigma: tutte le strade portano a Berlino, ma passando da Bruxelles.

Come dovrebbe essere chiaro leggendo la prima parte di questo scritto, la cosiddetta seconda repubblica entra in crisi per effetto di una pressione esogena dell’Unione Europea, mossa a sua volta da interessi nazionali franco-tedeschi. Non dovrebbe tuttavia essere sfuggito ai lettori che sia Bruxelles che  Berlino e Parigi sono stati (e sono) in realtà gli esecutori (co-interessati) di un disegno più vasto, che affonda le radici nella volontà dei centri di investimento della finanza internazionale e delle grandi imprese multinazionali di adeguare anche i paesi del cosiddetto “sud Europa” a modelli economici e sociali funzionali alla globalizzazione planetaria dei mercati. Modelli che – nelle intenzioni dei detentori dei grandi capitali e di big dell’economia – richiedono che gli stati mettano al primo posto delle rispettive agende di politica economica (non più il benessere dei cittadini, bensì) la produttività del sistema, mettendo in campo, per un verso,  misure tese ad aumentare il PIL aggregato (dunque senza interesse alla distribuzione del benessere medio) e, dall’altro, la redditività dell’investimento in capitale di rischio.

La tesi dei fautori della globalizzazione, che però – come vedremo – in Italia non ha retto alla prova dei fatti, è infatti che la maggiore produttività sul lato dell’offerta, in un sistema di libero scambio tendenzialmente capace di allocare da sé in modo ottimale i fattori produttivi su scala internazionale, consentirebbe a sua volta un progressivo miglioramento del tenore di vita dei cittadini. Il che può essere (in parte) vero per i cittadini dei paesi in via di sviluppo, mentre non lo è invece per quelli dei paesi già economicamente avanzati.

Il modello economico e sociale – praticamente opposto a quello italiano – che la finanza internazionale intende far adottare all’Europa è in particolare quello elaborato progressivamente in Germania nella seconda fase del cancellierato di Angela Merkel (con la “grande coalizione” tra socialdemocratici e popolari) e può essere riassunto nelle famigerate “riforme Hartz”. Si tratta di un modello in cui lo stato resta sostanzialmente neutrale nei confronti della piccola e media impresa, mentre adotta una serie di misure per favorire la produttività delle grandi imprese a scapito della piena occupazione. Questo avviene in particolare attuando una significativa precarizzazione del lavoro dipendente (in Germania, ad esempio, con i cosiddetti “mini job”) e favorendo l’immigrazione per consentire una compressione delle dinamiche salariali. La ricetta in questione prevede anche una riduzione della spesa previdenziale, con aumento dell’età pensionabile e – in generale – misure che tendono all’erosione (o quanto meno alla difficoltà di accumulo) del risparmio privato, con forte incentivo all’indebitamento dei cittadini verso il sistema bancario privato. Il quadro viene completato, sul versante della spesa sociale, con una riduzione degli investimenti infrastrutturali e dei servizi di welfare pubblico, a fronte della previsione di misure assistenziali – mediante sussidi pubblici diretti di integrazione al reddito – ai lavoratori a basso reddito e agli inoccupati.

L’effetto ultimo perseguito da questa politica economica è generare una crescita economica poco inflattiva (che garantisce la “stabilità dei prezzi”, vera ossessione per i tedeschi e – di conseguenza – dell’UE), ma a fronte di una depressione della domanda interna, compensabile solo mediante un aumento della quota di export nella bilancia commerciale degli stati. Tutto questo si traduce, per gli stati che adottano questo modello, nella necessità di esercitare una forte aggressività commerciale in termini di esportazioni. Questi paesi, infatti, hanno in sostanza la necessità di importare, mediante l’export di beni e di capitali, la ricchezza che non può più essere generata dalla domanda interna, depressa dalle politiche economiche volte a limitare salari e capacità di accumulo di risparmio in capo ai cittadini.

Si tratta di stati che, dunque, di fatto si vedono costretti a usare  l’export come strumento per sottrarre ad altri stati (quelli verso cui esportano) la ricchezza prodotta in questi ultimi. Quello tedesco è dunque un sistema per certi versi assimilabile a quello dell’epoca coloniale, dato che gli stati economicamente avanzati vengono messi in competizione tra loro sul terreno di chi “preda” meglio – con l’export di beni e capitali – le economie altrui. Questo spiega del resto perché da alcuni anni è in corso un vasto conflitto internazionale tra stati come Germania e Cina (che perseguono simili politiche e – di conseguenza – generano enormi surplus commerciali) e stati come gli Stati Uniti (che, specie durante l’amministrazione Trump, hanno invece mostrato una politica più sensibile allo sviluppo, e dunque alla protezione, del mercato interno).

La cosa importante da capire è tuttavia che, sul versante interno, la crescita generata (ma sarebbe meglio dire “importata”) dagli stati che adottano il modello in questione, per quanto più moderata, ha come conseguenza, rispetto al modello keynesiano, di generare benefici economici maggiori a favore dei detentori dei capitali delle grandi imprese e ai loro finanziatori, ma a scapito dei lavoratori, specie del settore privato. Si tratta inoltre di un modello che favorisce la concentrazione delle attività d’impresa in poche imprese di grandi dimensioni (dunque è un sistema che tende a creare concentrazioni e oligopoli) e in cui la classe media è assai più ristretta, rispetto ai paesi che adottano il modello keynesiano, in termini numerici. I cittadini benestanti, nei sistemi alla tedesca, sono infatti molto meno numerosi in percentuale rispetto al modello italiano (ma sono assai più ricchi) mentre tutti gli altri – ossia la grande maggioranza delle persone – non possono considerarsi realmente benestanti, in quanto non beneficiano di livelli di reddito sufficienti né per accumulare un significativo risparmio privato né per acquistare quantità significative di beni e servizi differenti rispetto a quelli funzionali alla soddisfazione dei bisogni di base. Ma – soprattutto – il modello tedesco praticamente annulla ogni spazio per l’ascensore sociale, fondandosi sulla necessità di mantenere basso il reddito dei lavoratori, specie se dipendenti, mediante la conservazione di un certo tasso di disoccupazione.

Può dunque anche essere vero anche che ai giorni nostri – ma solo dopo che, da Monti in poi, è cambiato il nostro modello economico per adeguarsi a quello tedesco – l’operaio italiano stia peggio di quello tedesco, ma non è vero che l’operaio tedesco di vent’anni fa (ossia quando l’Italia era libera di portare avanti il proprio modello di politica economica) – in termini di ricchezza reale – stesse meglio di quello italiano. Anzi era vero il contrario. Ma vediamo di approfondire il confronto tra modello tedesco (ma ormai europeo) e italiano.

Ma la questione di cui forse ci si rende meno conto – quanto meno a livello politico (e non solo in Italia) – è che gli anche stati che adottano alla perfezione il modello tedesco (Germania per prima), riducendo la capacità dei loro cittadini di generare risparmio privato, finiscono per divenire sempre più dipendenti (oltre che dalla “predazione” delle altrui economie mediante l’export, anche) dai grandi investitori privati per poter finanziare il debito pubblico medianti i propri titoli di debito. Si tratta insomma di una politica che forse può portare vantaggi a breve ma che, dal punto di vista dei governi nazionali, appare miope, in quanto – da un lato – mette le economie nazionali in competizione tra loro (dunque generando conflitti economici tra stati invece che maggiore integrazione) e – dall’altro lato – mette il debito pubblico di tutti gli stati che vi aderiscono nelle mani dei grandi centri di potere finanziario privato, assoggettando le scelte politiche ciascuno stato (anzi, in special modo di quelli più “virtuosi” secondo il modello in questione) ad una dipendenza dalle scelte di investimento delle finanza privata. Si dice spesso che la Germania, tramite l’UE, sta mettendo il “cappio” del rigore agli stati del sud Europa, ma in realtà è anche la stessa Germania che – accettando di perseguire certe politiche – hanno messo la testa nel cappio della grande finanza. Quando avranno finito di erodere il tenore di vita dei cittadini del sud Europa, i grandi investitori inizieranno a regolare i conti anche con quelli del nord. E i governi dovranno tacere ed eseguire. E’ dunque solo questione di tempo prima che la globalizzazione colpisca anche al di là delle alpi. E’ dunque l’UE il vero esecutore degli interessi della finanza internazionale, non la Germania e tanto meno la Francia, stati che invece – accettando il TUE e il TFUE nella speranza di fare il proprio interesse –  si sono legati mani e piedi a determinati centri di potere economico, di fatto mettendosi in una posizione di sudditanza rispetto ad essi.

La politica mercantilista dell’UE è insomma un perfetto esempio di divide et impera messo in campo dai grandi poteri economici anche ai danni degli stessi stati che, apparentemente, ne beneficiano. Alla fine – con questo sistema – perderanno tutti quanti, tranne i padroni dei grandi capitali. Gli europeisti e i rigoristi di vario genere sparsi per l’Europa questo paiono non capirlo oppure, se lo capiscono, forse hanno interesse a che non lo capiscano le maggioranze votanti. Del resto i politici (quanto meno in Europa) sono preoccupati solo dall’esito dei sondaggi e delle prossime elezioni, non certo dall’interesse oggettivo del loro paese a lungo periodo. Per vincere alle prossime elezioni si alleerebbero dunque anche con il diavolo, cosa che – come si è visto – stanno facendo.

Il mercantilismo nord-europeo del terzo millennio: neo-liberismo all’americana o capitalismo assistito alla pechinese (condito da qualche diritto civile)?

Mentre il modello tradizionale italiano può tranquillamente essere definito di matrice keynesiana in quanto volto a stimolare la domanda interna mediante risorse ed interventi pubblici, il modello tedesco – è bene chiarirlo subito – ben difficilmente può essere definito liberista in senso classico, ma è semmai una forma di dirigismo economico neo-mercantilista, volto cioè a usare le risorse pubbliche e l’intervento dello stato per promuovere, per un verso, la maggiore produttività delle grandi imprese (specie in funzione dell’incentivo all’export di beni e servizi finanziari) e, per altro verso, una più efficace remunerazione del capitale di rischio e degli investimenti del settore finanziario.

Nel sistema in questione, insomma, i lavoratori – ma anche piccoli imprenditori e professionisti – sono messi peggio rispetto a un “vecchio” sistema liberale o liberista, in quanto – nel sistema tedesco – lo stato in realtà investe risorse nel sistema (dunque ha bisogno di spendere e, di conseguenza, di mantenere alta sia la pressione fiscale, specie sul ceto medio, sia l’emissione di titoli del debito pubblico acquistati dal mercato finanziario), ma lo fa appunto allo scopo di favorire il capitale e la grande impresa a scapito del lavoro e della piccola impresa. In questo sistema, dal capitalismo di stato a scopo di welfare non torniamo insomma al vecchio laissez faire liberista, ma passiamo a un vero e proprio capitalismo assistito dallo stato, in cui il lavoro (dipendente e indipendente) viene (tar)tassato al fine di favorire spesa pubblica che va a favore della grande impresa e, sopratutto, del sistema creditizio e finanziario.

La differenza fondamentale tra il dirigismo all’italiana e quello alla tedesca è infatti che, nel primo, lo stato – quando interveniva creando limiti e vincoli ovvero impiegando risorse pubbliche – lo faceva puntando anche allo stimolo della domanda interna con aumento del benessere medio e diffuso dei cittadini, laddove, nel secondo, l’investimento pubblico e l’interventismo dello stato nell’economia – pur essendo altrettanto massiccio (e dunque costoso in termini fiscali) – si indirizza a favore dell’offerta, perseguendo l’efficienza del sistema produttivo in termini aggregati e la remunerazione dell’investimento, mentre – sul versante sociale e del lavoro – taglia il welfare propriamente detto, limitandosi a fornire sussidi assisstenziali diretti, dunque redditi di cittadinanza et similia, per compensare il disagio economico e sociale questo sistema tende a provocare in misura maggiore rispetto ai sistemi più keynesiani.

Anche se dunque oggi si fa un grande parlare di deriva “neo-liberista”, specie negli ambienti marxisti e del socialismo democratico, la mia impressione è che quella del neo-liberismo sia un’etichetta apposta forse troppo facilmente a un modello più complesso e che, per quanto indubbiamente intenda favorire il capitale rispetto al lavoro, di liberista ormai ha davvero ben poco. L’uso (e abuso) di questo termine avviene infatti essenzialmente per giustificare la l’idea secondo cui un puro e semplice ritorno alle antiche ricette keynesiane del dopoguerra sarebbe sufficiente per superare il problema della crisi economica provocata in Italia dal rigore europeista e montiano. Molti tra i keynesiani di oggi (specie tra quelli che economisti non sono, con una particolare frequenza tra i giuristi) sostengono infatti che il sistema attuale sarebbe neo-liberista perché così possono più “comodamente” affermare che basterebbe applicare oggi l’ortodossia keynesiana – quella studiata per porre rimedio alla depressione post-bellica del 1945 e che ha trovato ipostasi normativa ad esempio nella costituzione italiana e nella politica perseguita dalla democrazia cristiana nella prima repubblica – per risolvere i problemi, in termini di distribuzione del benessere e di scarsa crescita, che sta provocando nel nostro paese la progressiva instaurazione del sistema economico (mercantilista e deflattivo) definito nei trattati unionisti europei di Lisbona e Maastricht, insieme alla moneta unica, che rappresenta l’altro fattore (questa volta monetario) che favorisce il mercantilismo tedesco.

Sennonché pare a chi scrive che la dialettica storica non abbia mai avuto il tasto reverse e che, di conseguenza, la pretesa di superare il modello proposto dall’UE con una “restaurazione” tale e quale di un modello nazionale che pure ha indubbiamente funzionato bene in passato sia operazione destinata a fallire per il semplice fatto che il sistema attuale ha in certa misura assorbito alcuni elementi di quello precedente. La mia impressione è infatti che, se è vero – come a me pare vero – che il sistema attuale non si riduce a una pura e semplice restaurazione del paradigma liberista, la logica conclusione è che una pura e semplice “contro-restaurazione” della politica economica a suo tempo attuata nella prima repubblica non rappresenta un’alternativa proponibile.

L’impressione è in altre parole che il “neo-liberismo” sia un ologramma creato dai nostalgici della prima repubblica – in sostanza facendo passare per neo-liberista qualunque modello economico differente rispetto a quello dell’epoca d’oro dello sviluppo economico italiano – in modo da avere a disposizione un bersaglio perfetto per poter riproporre tali e quali i tradizionali argomenti di Keynes. Temo tuttavia che una simile operazione – come tutte quelle che utilizzano la tesi per definire l’ipotesi – implica il rischio di combattere un nemico più immaginato che reale. Le soluzioni keynesiane classiche erano state elaborate dal brillante economista britannico (e hanno funzionato assai bene in Italia) per ovviare alle carenze del “vero liberismo” (quello che ha preceduto la crisi del 1929) e in una situazione in cui vi era molto da ricostruire anche sul piano materiale (nel dopoguerra), con la conseguenza che si tratta di soluzioni che – per funzionare anche contro il neo-mercantilismo europeo dell’ultima parte del XX secolo, epoca in cui le varie crisi economiche succedutesi nel tempo hanno intaccato il benessere e le garanzie dei lavoratori senza demolire gli edifici e le infrastrutture che quegli stessi lavoratori potrebbero essere chiamati dallo stato a ricostruire – richiedono probabilmente una rimeditazione.

Si pensi – per fare un esempio – alla nota tesi attribuita a Keynes circa l’opportunità di creare, in momenti di grave crisi economica, impiego pubblico al limite anche solo per scavare e riempire buche (stiamo parlando di posti pubblici creati al solo scopo di generare un reddito per sostenere la domanda interna): il sistema Hartz – dunque quello che in tanti si ostinano a chiamare neo-liberista – ha certamente tenuto presente la questione del sostegno alla domanda interna in momenti di debolezza ciclica, ma lo ha risolto sorpassando in certo senso “a sinistra” lo stesso Keynes, vale a dire proponendo al lavoratore inoccupato o al lavoratore a basso reddito forme di reddito di cittadinanza o altri sussidi diretti e permanenti di integrazione al reddito.

E’ chiaro allora che su questo punto occorre capire che la soluzione di Keynes (una volta esclusa ogni considerazione etica sul valore del lavoro come strumento di realizzazione personale, che in economia lascia il tempo che trova) può essere proposta come alternativa preferibile a quella offerta dal mercantilismo tedesco solo a condizione che si possa sostenere che, nel singolo caso, il posto pubblico presenta una qualunque forma di utilità economica ulteriore rispetto al puro e semplice effetto di dotare di reddito spendibile un disoccupato. Altrimenti finisce che la soluzione (mercantilista) del sussidio di stato garantito al non lavoratore verrà preferita non solo dalle imprese ma anche dagli stessi (non) lavoratori. Analogamente deve dirsi della questione della compressione dei salari, che un keynesiamo risolve con interventi normativi tesi a promuovere la piena occupazione (ad esempio rendendo più difficili i licenziamenti per motivi economici), che a sua volta innesca una dinamica crescente dei salari, laddove il neo-mercantilismo tedesco tratta la questione compensando direttamente con integrazioni e sussidi pubblici i lavoratori a basso reddito.

Anche chi dunque si riconosce nella tradizione socialista – o, economicamente, nella dottrina keynesiana – non può limitarsi a proporre un nostalgico e generico ritorno dell’età dell’oro della prima repubblica democristiana come panacea di tutti i mali moderni, ma deve assumersi il compito di ripensare Keynes alla luce dell’oggi, perché quelli che una volta erano i “liberisti”, vale a dire i grandi capitalisti e le rispettive corti imprenditoriali e politiche, hanno saputo ripensare lo stesso capitalismo andando ben oltre il tradizionale paradigma liberale. Il punto è che i soggetti che controllano le leve del capitalismo finanziario del terzo millennio, non sono affatto dei neo-liberisti, ma – semmai – sono dei capitalisti che si sono fatti furbi a sufficienza per capire che prestare montagne di soldi allo stato stato, accettando di buon grado alcune misure “sociali” (che poi sono quelle assistenziali, che risultano più convenienti per loro) poteva essere nel loro interesse (non solo più del tradizionale modello di stato sociale keynesiamo) ma anche più dell’antico dogma liberale e liberista del “lasciar fare” ai rapporti di forza economica.

Non deve allora stupire più di tanto che gli stessi grandi capitalisti che hanno messo nel mirino – e, per ora, nel sacco – il la socialdemocrazia keynesiana del sud Europa siano quegli stessi soggetti che investono ingenti risorse nel (e guardano con estremo interesse al) modello di sviluppo economico cinese, che naturalmente tutto è tranne che liberista. Il dubbio che infatti mi sta venendo negli ultimi tempi è che il vero nemico del benessere diffuso dei cittadini (cui mirava Keynes, che – è bene ricordarlo – per quanto criticasse il liberismo ma non apprezzava affatto le idee di Marx) sia rappresentato da una sintesi dialettica – attuata da stati ormai connotati da pesanti tratti etici (in senso hegeliano-gentiliano, dunque ideologicamente fascisti) – tra il capitalismo finanziario globalista e l’ugalitarsimo della povertà assistita di stampo marxista. Si tratta di uno scenario che dovrebbe risultare indigesto sia ai socialdemocratici (veri) quanto ai liberali (veri). E invece vedo i liberali che puntano il dito solo contro “la spesa pubblica” mentre i socialdemocratici se la prendono solamente con “il neo-liberismo”, facendo dunque la figura – entrambi – dei capponi di manzoniana memoria.

Il concreto rischio che invece io vedo per l’Europa (e in particolare per l’Italia, che in Europa – nonostante il suo peso storico ed economico – è da tempo trattata come stato periferico di seconda categoria) non è quello di una trasformazione in una specie di nuova America (intesa come far west neo-liberista), ma quello che la demolizione del benessere del ceto medio allargato – specie della piccola e media impresa, dei commercianti e delle attività professionali – trasformi il paese in una piccola pseudo-Cina in cui una ristretta elite politica ed economico/finanziaria controlla la società per mezzo di un pachidermico e soffocante apparato burocratico pubblico e di poche grandi corporation private che occupano la gran parte delle attività economiche del paese, mentre i cittadini sono tutti quanti ugualmente poveri e – rispetto ai cinesi veri – possono tutt’al più esercitare qualche diritto civile in più (ma solo se poco “costoso”), come protestare un po’ sui social network, esercitare il culto che preferiscono, manifestare pubblicamente le più disparate tendenze sessuali, avere a disposizione qualcuno da denunciare se subiscono un danno (e magari denunciare i propri genitori quando tentano di educarli), ma – soprattutto – giocare all’antifascismo per poi poter correre felici a votare in massa i partiti che il sistema dei mass media dipingerà a reti e titoli unificati come i soli davvero impegnati in continue “riforme” verso le splendide e progressive sorti dell’unione e fratellanza tra i popoli europei, in modo da tnere lontani i perfidi sovranisti e populisti.

La crisi della seconda repubblica: i mandanti

Tornando al nostro excursus storico, abbiamo visto che – a cavallo del secondo millennio – la grande finanza internazionale sente l’esigenza, cessata la minaccia sovietica dell’instaurazione manu militari del socialismo reale, di “normalizzare” l’Europa al nuovo vangelo della globalizzazione. Siccome però i modelli (quelli sì, davvero neo-liberisti) adottati in alcuni paesi emergenti ben difficilmente sarebbero stati digeriti facilmente nell’Europa continentale, ecco che – nel vecchio continente – si è optato per il modello mercantilista e oligopolista di matrice teutonica. Questo tentativo di riassetto regionale trova peraltro un preciso suggello giuridico – e una conferma sul piano della verità storica – nel passaggio dalla vecchia CEE (sostanzialmente una zona di libero scambio in cui l’Italia poteva ancora giocare con regole proprie la partita economica per il benessere dei suoi cittadini) alla nuova UE, rigida gabbia dirigista economica e monetaria governata dalle arcigne regole dei trattati di Lisbona e Maastricht e dalle norme sulla moneta unica, dunque da ricette deflattive, rigoriste e volte esclusivamente al perseguimento della stabilità dei prezzi e della competitività con taglio della spesa sociale, e dunque con inevitabile compressione dei salari medi, dei diritti dei lavoratori e di ogni forma di spesa espansiva (ma – è bene ricordarlo ancora – non della spesa pubblica tout court, che può restare alta a patto che venga convogliata verso iniziative utili alle grandi imprese e al sistema creditizio e, sul versante opposto, verso le forme di welfare più assistenziale).

L’avvio di una nuova fase politica post-berlusconiana in Italia (da Monti in poi) va dunque collocato in questo quadro complessivo, trovando in particolare la propria ragion d’essere nella necessità per la finanza e il grande capitalismo nazionale di chiudere la fase della convergenza politica verso il centro causata dall’inatteso ingresso in campo del Cavaliere e dall’adozione di sistemi elettorali maggioritari: fase che – attribuendo ancora un notevole peso politico agli interessi del ceto medio allargato – aveva rallentato e ostacolato l’adeguamento del nostro paese ai modelli del nord-Europa. Quella fase interlocutoria – essendo nel frattempo già andato in porto il grosso dello shopping straniero sulle grandi imprese di stato e sulle partecipate pubbliche italiane – poteva (e dunque doveva) finire.

Ma questa volta l’obiettivo era (e ancora è) quello di far piazza pulita (non più solo dei referenti politici del ceto medio italiano, vale a dire quel che si era a suo tempo tentato di fare con tangentopoli, ma che la discesa in campo di Berlusconi aveva poi impedito), ma dello stesso ceto medio allargato del paese, il cui risparmio e benessere dovevano essere demoliti e che – quanto meno nella sua componente media e bassa – doveva essere poco a poco riproletarizzato (per poi poter essere sussidiato e dunque meglio controllato politicamente) a colpi di “riforme” modellate sulla falsa riga della dottrina Hartz.

L’Italia come colonia del nord Europa: esecutori, complici e vittime designate.

Questo essendo il piano per l’Italia del post berlusconismo, il problema per i “poteri forti” era capire come – e soprattutto con chi – attuarlo. In realtà i soggetti interessati alla demolizione del benessere italiano non mancavano affatto. La decostruzione del modello economico italiano e del ceto medio allargato era infatti anzitutto nell’interesse strategico della Germania, che poteva in tal modo affossare l’industria nazionale (specie piccola e media) nel manifatturiero, dunque il suo concorrente più pericoloso, creando in compenso in Italia un buon mercato per l’export dei suoi prodotti (ad alto valore aggiunto) e servizi finanziari, ma continuando a importare semilavorati e componenti a prezzi ancora più convenienti. La Francia, a sua volta, poteva sfruttare la deflazione italiana e la crisi dell’industria per partecipare alla spartizione, insieme alla finanza di oltre oceano, delle ultime eccellenze nazionali rimaste in piedi nel settore privato.

Ecco dunque spiegato perché l’Unione Europea iniziava spingere sempre più forte per imporre al nostro paese un’agenda fondata sulla progressiva “normalizzazione” del paese (e del sud Europa in genere) al modello tedesco, sia mediante la moneta unica (che impedisce svalutazioni competitive alle economie più deboli mentre consente a quelle forti di operare con una moneta svalutata, dunque colpendo l’export delle prime e favorendo quello delle seconde anche verso le prime), sia con regole come il pareggio di bilancio e il patto di stabilità (che scoraggiano ogni politica economica espansiva e di sostengo alla domanda interna) sia infine portando avanti una politica di “aiuti” consistenti nella concessione di prestiti a condizioni finanziariamente vantaggiose, ma rigorosamente condizionati all’adozione di misure di politica economica – ovviamente tutte quante in senso “teutonico” – indicate dagli stessi organi UE.

Siccome però l’UE non poteva obbligare l’Italia a entrare “di forza” nel sistema della moneta unica, o nel patto di stabilità o in tutti gli altri marchingegni economico-giuridici escogitati per imporle il modello socio-economico ispirato alla dottrina Hartz, occorreva la collaborazione di una primaria forza politica che, dall’interno, consentisse di attuare il piano. E – dopo un primo momento di sostanziale equidistanza – la scelta cadde alla fine sul Partito Democratico.

Per tanti anni il consenso all’adesione alle regole europee (e il consenso alle privatizzazioni) era infatti stato ampiamente bipartisan: tanto il “primo” centrodestra berlusconiano quanto il “primo” centrosinistra prodiano avevano accolto con entusiasmo un po’ tutto quel che proponeva Bruxelles. Quando tuttavia – specie in seguito all’aggravarsi della crisi finanziaria del 2008 – iniziarono a mostrarsi con chiarezza le conseguenze negative, sul tenore di vita del ceto medio e sull’economia nazionale, della scelta di aderire alla moneta unica e ai vincoli imposti dalle regole europee, il centrodestra – specie nella sua componente leghista, ma anche con alcuni ministri di spicco di Forza Italia come Tremonti – iniziò a manifestare i primi dubbi sull’effettiva utilità per il nostro paese di una adesione senza se e senza ma ai modelli economici imposti dall’adesione all’Euro e ai trattati di Lisbona e Maastricht.

Con tutta probabilità Berlusconi non era antieuropeista per principio, ma semplicemente si era reso conto a posteriori che una parte del suo elettorato di riferimento – in particolare piccola e media impresa, professionisti e artigiani – non stava traendo affatto i benefici promessi dalle ricette europee (e dall’adesione all’Euro), anzi risultandone danneggiata. Questo aveva indotto il centrodestra italiano a iniziare a sollevare timidamente il tema sui tavoli negoziali europei, promuovendo una discussione su possibili modifiche alle regole dell’austerità, onde renderle più compatibili con il modello di sviluppo economico italiano (e del sud Europa in generale). A quel punto – resisi conto del fatto che il centrodestra non avrebbe più accettato senza fiatare l’agenda di normalizzazione dell’Italia – l’UE, naturalmente spalleggiata dagli ambienti finanziari internazionali, decideva di far fuori quello che ormai era diventato un personaggio potenzialmente ostile.

Dopo che Tremonti aveva proposto alcune modifiche alle regole UE, chiedendo di consentire alla Cassa Depositi e Prestiti italiana di concedere aiuti pubblici alle imprese in modo analogo alla KFW tedesca o alle banche dei Laender (ossia potendo non conteggiarli come debito pubblico), dunque mostrando per fatti concludenti che il centrodestra non avrebbe più accettato regole unioniste create ad hoc per favorire Germania e Francia, veniva messa in campo la famosa manovra speculativa di vendita sui titoli di stato italiani (a quanto pare partita proprio dalla stessa Bundesbank oltre che dai signori di Wall Street) che – anche grazie alla celebre “lettera” spedita al Governo nazionale dalla BCE – generava la crisi di spread che costringeva il governo Berlusconi a dimettersi.

Quel che è forse meno noto, ma invece assai importante politicamente, è che, a quanto pare, in questa manovra (che ormai viene ritenuto da una parte dei commentatori un vero e proprio “golpe finanziario”) avrebbe avuto una parte l’allora inquilino del Quirinale, Giorgio Napolitano, il quale – da politico di lungo corso abituato ad agire in complessi contesti internazionali – aveva probabilmente intuito che prendere decisamente le parti di UE, Francia e Germania in quella crisi avrebbe consentito al suo partito, ossia al PD, di assicurarsi l’appoggio di forze (non solo politiche) che gli avrebbero garantito un grandissimo potere di influenza sulla politica italiana nei futuri decenni. E l’intuizione politica di Napolitano si sarebbe rivelata quella giusta, perché così accadde, seppure in modo progressivo.

La “scommessa europea” del PD: sacrificare il benessere del ceto medio (anche di sinistra) senza perdere troppi consensi.

Per comprendere le ragioni profonde della mossa politica del PD occorre ricordare che il keynesianesimo italiano della prima repubblica aveva creato almeno tre diversi raggruppamenti sociali assai numerosi (e dunque dotati di peso elettorale) all’interno di quello che abbiamo definito come ceto medio allargato: si tratta di dipendenti pubblici, pensionati e lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese. Tre categorie che – durante la prima repubblica – votavano o la vecchia sinistra comunista o le componenti di sinistra della DC (che poi erano confluite nel PD, specie nella corrente Prodiana). Dunque la linea politica del PD – sia nella seconda repubblica, ma con una decisa accelerazione da Monti in poi – è stata in sostanza quella di garantirsi l’appoggio dell’UE (e dunque di Germania e Francia così come della grande finanza e impresa multinazionale) abbandonando l’”ecumenismo politico” democristiano – che aveva garantito la prosperità di un vasto ceto medio esteso a categorie sociali anche molto diverse – continuando a tutelare solo la parte di quel ceto medio che in maggioranza già votava le forze e correnti politiche poi confluite nel PD. Il tutto facendo pagare il conto economico e sociale dell’operazione alla parte di ceto medio che, invece, solitamente non votava quelle forze. Si tratta di una scommessa politica che – è bene dirlo – appare assai azzardata.

Dove porta il rigore “alla tedesca”, quando viene lasciato libero di agire sino in fondo per normalizzare sistemi che erano keynesiani, lo ha infatti ormai dimostrato la “gestione europea” della crisi greca, che è stata condotta a livello nazionale – anche in questo caso (e, aggiungo io, non a caso) – da partiti della nuova sinistra greca (dunque da omologhi del PD). Ebbene: le “riforme” imposte dell’UE alla Grecia – e fedelmente attuate dalla “neosinistra” greca – hanno prima messo in ginocchio, con la leva fiscale, le piccole imprese e i professionisti, poi hanno precarizzato i lavoratori dipendenti con pesanti tagli salariali del settore privato. Nel frattempo la Germania ha fatto man bassa a prezzi di saldo di tutte le imprese greche importanti nei settori strategici, specie nel settore pubblico. In seguito – e questo è appunto il pezzo della storia che il PD non riesce a vedere (o magari semplicemente non vuole mostrare ai suoi elettori storici) – sono cominciati i tagli delle pensioni per finire con le riduzioni agli stipendi pubblici e i tagli ai servizi pubblici con conseguenti licenziamenti anche nel settore pubblico. Se al precedente greco aggiungiamo poi il fatto che il PD – con una politica migratoria sempre più improntata alle frontiere aperte anche per i semplici migranti economici – sta importando attivamente un “esercito industriale di riserva” di marxiana memoria (dunque lo strumento ideale per comprimere i salari dei lavoratori autoctoni), chi vota PD – anche se appartiene ad una delle poche categorie ancora “protette” da quel partito – dovrebbe forse iniziare a farsi qualche domanda in più.

Ci si potrebbe chiedere ad esempio se il PD non sia caduto nel medesimo errore – anche se di segno opposto – commesso da Berlusconi quando ha accettato di partecipare alla stagione delle liberalizzazioni, non capendo cioè che benessere di una delle due parti del ceto medio allargato (nella specie, per il PD, quella “di sinistra”, rappresentata da dipendenti pubblici, pensionati e lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese) dipende in ampia misura dalla capacità dell’altra parte di quello stesso ceto medio (vale a dire quella “di destra”: piccole imprese, professionisti ma anche da una parte dei dipendenti del settore privato) di creare ricchezza diffusa e, dunque, di sostenere una forte domanda interna.

Questo gioco delle parti era infatti il cuore della “sintesi” che aveva mantenuto in equilibrio – e fatto prosperare – l’Italia durante l’epoca d’oro democristiana: governo e potere politico nazionale a forze di centro-destra, ma compensato da una parte della magistratura ideologicamente schierata a sinistra a tutela dei diritti dei lavoratori, da una forte presenza comunista negli enti locali e da una serie di “poteri di fatto” – sindacali, culturali e nel mondo dell’informazione – pure in mano alla sinistra, che agivano appunto come “calmieratore” a favore delle classi meno agiate. Il punto è che la cancellazione per via giudiziaria di quel centro-destra aveva aperto la strada per una concentrazione di tutto il potere – istituzionale e di fatto – nelle mani degli eredi di quella sinistra, di fatto sbilanciando il sistema e gettando le basi per una frattura dell’equilibrio tra le varie componenti del ceto medio allargato, che avrebbe portato ad una profonda crisi del paese. Questa frattura – e dunque le conseguenze negative sul sistema economico e sociale nazionale – sono state in prima battuta scongiurate proprio dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, che aveva provocato una alternanza al governo del paese tra centro-destra e centro-sinistra capace di evitare che una sola delle due parti del ceto medio allargato finisse per essere impoverita eccessivamente. Abbattuto Berlusconi, però, la frattura si è stata consumata, per effetto della traduzione in azione politica di quella feroce campagna di divisone e di odio sociale che – per tutta l’epoca di Berlusconi – la sinistra non ha mai cessato di alimentare nel suo elettorato.

A voler essere maligni, si potrebbe dunque supporre che il PD sia semplicemente stato scaltro, ben sapendo di poter vendere piuttosto facilmente ai suoi elettori (dopo un paio di decenni di addestramento all’odio antiberlusconiano) l’idea per cui, grazie allo stesso PD, saranno loro i soli a “salvarsi” anche nel sistema del rigore UE, ma a patto che facciano pagare il conto fiscale al ceto medio “di destra” (in cui tutti quanti sono evasori, avidi, brutti e cattivi). In questo modo, infatti, il PD sarebbe non solo riuscito a regolare i conti col suo arcinemico Berlusconi, ma anche – se non soprattutto – a far piazza pulita nel medio periodo addirittura dell’elettorato di riferimento del polo opposto (cui aveva dovuto obtorto collo fare ancora qualche concessione nell’era della convergenza al centro), rappresentato da quel ceto medio benestante attivo soprattutto nel settore privato, verso il quale lo stesso PD poteva far valere ancora la tradizionale invidia sociale – ma forse sarebbe meglio chiamarla “ossessione per il kulako” (oggi “evasore fiscale”) – che alla fine della fiera anima da sempre una larga parte degli elettori che si considerano a vario titolo “di sinistra”.

Tutto questo, peraltro, a fronte dell’accettazione del rischio che – prima o poi, dopo aver ammazzato a furia di tasse e rigore il benessere della componente “di destra” del vecchio ceto medio allargato – i padroni europei possano iniziare – come è accaduto in Grecia con Tsipras – a chiedere allo stesso PD, sotto minaccia delle stesse ritorsioni economiche e finanziarie utilizzate contro Berlusconi, di far pagare dazio anche alla parte “di sinistra” di quel ceto medio, ossia – nell’ordine – ai lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese, ai pensionati di medio reddito e in fine anche agli “intoccabili” per eccellenza, i dipendenti pubblici. Accettare vincoli esterni giuridicamente vincolanti per ragioni di tattica politica nazionale è sempre una scelta rischiosa, visto che simili vincoli – spostando fuori dal paese il baricentro decisionale delle scelte politiche – riducono l’autonomia anche degli stessi partiti che dovessero accettarli al solo scopo di usarli come arma politica sul versante interno. Ipotecare l’indipendenza politica del proprio paese per vincere le prossime elezioni o per controllare il paese anche quando si perdono le elezioni – perché questo è quel che sta facendo da diverso tempo il PD – potrebbe dunque non essere stata affatto una buona idea, neppure per il PD (o, quanto meno, per il suo elettorato).

A voler ragionare strategicamente hanno insomma vinto Bruxelles, Berlino e Parigi, alla cui influenza il PD – specie ora che è stata ratificata la modifica del MES e se verranno concessi i prestiti del recovery fund e delle altre misure unioniste di reazione alla pandemia – non avrà più alcun modo di sottrarsi. E’ però anche vero che, una volta accettati i rischi per i loro elettori che implica l’assunzione di ruolo di viceré coloniale, il PD – nel mostrarsi docile esecutore dell’agenda dell’UE – si è assicurato per diversi anni un vantaggio enorme in termini di peso politico nazionale

Come si è già accennato – a differenza del centrodestra, specie quello berlusconiano, che aveva un po’ “tutti contro” nella cosiddetta “società civile” – il PD poteva infatti (e può tuttora) contare sul fervente appoggio di parte della magistratura (specie inquirente) così come di settori strategici dell’impiego pubblico (deep state, istruzione, università, enti locali), dell’informazione pubblica e dei sindacati confederali. Inoltre, il PD aveva creato negli anni – quando ancora era partito comunista – una fitta rete di attività economiche e sociali connesse con gli enti pubblici territoriali, specie in regioni come Emilia Romagna, Toscana e Umbria, creando un “sistema” che si alimentava grazie a continui “scambi” tra economia locale e sistema politico-amministrativo pure locale. A tutto questo va aggiunto l’importante appoggio di una parte del cattolicesimo cosiddetto progressista (specie quello dossettiano e facente capo alle ACLI) e di larga parte del gesuitismo: appoggio che – restato sotterraneo negli anni in cui la chiesa ancora restava fedele al suo magistero sociale tradizionale – è divenuto via via sempre più manifesto per effetto dei bruschi cambiamenti intervenuti col pontificato di Bergoglio.

Questo poderoso sistema di “appoggi” non istituzionali si accompagnava a una estrema attenzione ed abilità politica della sinistra nel gestire le scadenze elettorali in modo tale da non lasciare mai ad esponenti dello schieramento politico avverso la possibilità di influire in modo determinante sulla nomine delle istituzioni di garanzia del paese (Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale) così come dei ruoli chiave del deep state, con la conseguenza che – eliminato dal gioco un “potente” come Berlusconi – il PD si è ritrovato a tirare le fila di un sistema di potere ben difficile da contrastare anche per forze politiche che avessero raccolto un ampio consenso elettorale. Si trattava infatti (e si tratta ancora oggi) di un sistema che trova il proprio punto di forza proprio nella sua capacità di riuscire ad esercitare ancora il potere in assenza di una maggioranza parlamentare, potendo valersi – a supporto dell’azione di opposizione (o qualora il PD si trovi in situazione di minoranza relativa nella compagine che sostiene il governo) – di molteplici strumenti (istituzionali e non) in grado di mettere i bastoni tra le ruote anche a governi sostenuti da forti maggioranze parlamentari così come ad eventuali partiti “alleati” che dovessero godere di più ampi consensi elettorali. In questo senso, peraltro, un ruolo di assoluto primo piano viene rivestito ad una parte della magistratura inquirente, la cui azione ha più volte destato il sospetto di essere connotata da una certa “attenzione” alle esigenze della sinistra.

Aggiungere a questa rete di influenze, poteri e connivenze l’appoggio della grande finanza e delle imprese multinazionali e dei pochi grandi capitalisti italiani rimasti (dunque dei mezzi di comunicazione di massa che questi soggetti sono in grado di controllare), il pesante vincolo esterno dell’UE e l’influenza di stati importanti come Francia e Germania, ha dunque sortito l’effetto di rendere il PD senza dubbio il primo partito del paese in termini influenza politica reale, dunque anche a prescindere dai suoi risultati elettorali. Risultato, questo, che – sul piano della tattica politica – si è evidentemente ritenuto che valesse bene qualche disinvoltura ideologica, così come l’accettazione del rischio che a pagare il conto dell’operazione potessero alla fine essere anche gli stessi elettori di sinistra.

Cinquanta sfumature di UE da Monti a Gentiloni: la consumazione della frattura tra le diverse componenti del ceto medio allargato

La nuova fase post-berlusconiana veniva inaugurata con il governo – definito “tecnico”, ma in realtà destinato ad attuare nel nostro paese la politica economica indicata dall’UE, dunque in sostanza di deprimere la domanda interna – capeggiato da Mario Monti. Si tratta di un esecutivo che attuava con determinazione l’agenda di decostruzione del sistema Italia: eliminazione delle garanzie di stabilità per i lavoratori, tagli pensionistici, regimi fiscali volti a erodere il risparmio privato (introduzione dell’IMU sulla prima casa e legge Fornero sono solo due esempi eclatanti tra i moltissimi in tal senso). Il governo in questione, sul modello delle larghe intese tedesche, veniva sostenuto da tutte le forze parlamentari – incluso il centrodestra – con le sole eccezioni del piccolo partito di Di Pietro (passato all’opposizione subito dopo aver sostenuto la composizione del governo) e, soprattutto, della Lega nord, solo movimento politico che – a differenza degli altri movimenti di centrodestra – a manifestare una aperta ostilità alla normalizzazione dell’Italia ai modelli economico-sociali indicati dall’UE. All’esecutivo Monti seguiva una lunga teoria di governi sempre più costruiti intorno al ruolo egemone del PD (Letta, Renzi e Gentiloni), che proseguivano la politica di austerità deflattiva inaugurata da Monti (ad esempio con il jobs act di Renzi e la rincorsa agli aumenti dell’IVA).

Questo tentativo del centro-sinistra a guida PD di adeguare l’Italia ai modelli tedeschi mediante eliminazione del suo ampio ceto medio benestante ha delle caratteristiche distintive piuttosto evidenti, che vale la pena di riassumere qui di seguito. Anzitutto si tratta di una fase che segna l’abbandono da parte del PD – e in genere di tutta la sinistra non comunista – di ogni posizione di politica economica anche solo lontanamente keynesiana e a favore dei lavoratori.

Il “nuovo” PD non è però un partito neo-liberista, nel senso che – come tutti i partiti socialdemocratici degli altri paesi europei – non è contrario alla spesa pubblica o all’interventismo pubblico nell’economia (ossia a quegli strumenti di spesa – e dunque di distribuzione di risorse – che gli assicurano consenso elettorale); semplicemente usa la spesa e la mano pubblica per attuare una versione all’italiana del modello Hartz: aiuti pubblici (e interventi normativi) ritagliati sulle esigenze e sulle possibilità di grandi imprese e operatori finanziari, incentivo all’afflusso di investimenti stranieri, creazione di adempimenti burocratici complessi e onerosi quasi impossibili da attuare per le piccole imprese, deciso favor per le concentrazioni di imprese specie nel settore finanziario. Tutto questo a fronte del mantenimento di garanzie e dei redditi solo per dipendenti pubblici e lavoratori dipendenti a basso reddito del settore industriale, con limitazione dei servizi sociali gratuiti solo per le fasce più disagiate (il che rappresenta una tassazione indiretta sulla restante parte della popolazione, che deve ricorrere a redditi e risparmi per fruire di servizi sociali pubblici che in precedenza erano gratuiti). La differenza rispetto al passato non è dunque il volume di spesa pubblica, che anche con il PD continua a crescere senza freni, quanto il fatto che questa spesa pubblica viene ora indirizzata, per la parte in cui non serve a coprire gli interessi sui debiti pregressi, a favore di grandi imprese e mondo finanziario e viene finanziata sempre di più con l’erosione di reddito, patrimonio e risparmio del ceto medio “di destra”.

Delle vecchie categorie sociali care alla sinistra, infatti, a valle della conversione del PD ai dogmi mercantilisti euro-teutonici – come si è già detto – solo quattro sono “sopravvissute” alla scure del rigore europeista: l’impiego pubblico, i pensionati a basso reddito, i lavoratori sindacalizzati a basso reddito delle grandi imprese e il mondo dell’informazione e del giornalismo. A queste categorie si sono tuttavia aggiunte una lunga teoria di minoranze etniche, culturali, sessuali e di altro genere, la cui soddisfazione porta altri voti al PD “costando” tutto sommato poco in termini di spesa pubblica. In compenso questo “nuovo” centrosinistra, incassa ora il convinto plauso (nonché voto e appoggio) dei ceti più benestanti, dei rentier, dei CEO delle grandi imprese, del ceto dirigenziale e dei professionisti ad alto reddito nonché – ovviamente – della grande impresa e finanza nazionale e internazionale.

Il grande escluso dall’agenda del PD resta – come si diceva – il ceto medio propriamente detto, che però è stato anche la spina dorsale del sistema economico nazionale: l’operaio o impiegato della piccola e media impresa (quello meno sindacalizzato), il piccolo imprenditore, l’artigiano, il negoziante, il professionista di medio reddito, per finire con i pensionati con trattamenti mensili lordi di una certa entità. Tutte queste categorie, da Monti in poi, vengono sistematicamente colpite e tartassate – specie fiscalmente – ad ogni possibile occasione.

Questa stagione politica segna peraltro anche un ritorno del centrosinistra alla politica “discendente”, ma con una sfumatura coloniale, nel senso che alla neo-sinistra italiana europeista le ricette di politica economica arrivano ormai già confezionate in comode proposte di “riforma” – che di solito condizionano l’accesso a finanziamenti o il placet della Commissione alla legge di bilancio – gentilmente recapitate, su carta intestata di Bruxelles, sui tavoli dei nostri esecutivi nazionali. Se qualcuno anche a sinistra osasse fiatare, del resto, ci penserebbe la finanza internazionale (o qualche dichiarazione della BCE) a scatenare una bella fiammata di spread per far capire chi comanda davvero. Conseguenza di questa situazione è una politica economica nazionale da stato-colonia: eterodiretta nelle sue linee di fondo dalle istituzioni europee (che agiscono di concerto con le cancellerie degli stati egemoni dell’Unione) ed in cui le forze di centrosinistra – sul versante nazionale – non si occupano più della crescita economica e del benessere del paese,  ma esclusivamente di preservare i benefici delle categorie sociali che le appoggiano elettoralmente, facendo in modo che il conto dell’austerità finisca sempre sulle spalle di piccole imprese, commercianti e artigiani, liberi professionisti nonché degli operai e impiegati del settore privato, specie se a medio reddito e non sindacalizzati. Verrebbe da dire che la nuova lotta di classe, nell’Italia del PD, è tra chi per vivere è ancora obbligato a lavorare (e che lavorando ormai per mantenere tutti alla fine sta sempre peggio) e chi invece riesce – a vario titolo e in diverso modo – riesce vivere di rendita (e che sta sempre meglio). Anzi, l’intento pare essere quello di importare dall’estero, non risorse, ma nuovi bisognosi sia da impiegare per ridurre le pretese economiche e le garanzie dei lavoratori autoctoni sia da utilizzare – prevedibilmente dopo averli muniti del diritto di voto con una legge sullo ius soli – per consolidare il proprio consenso politico.

Il tutto – va detto – in perfetta sintonia con i risultati che intendevano ottenere gli ambienti finanziari ed imprenditoriali che, con tangentopoli prima e con la campagna contro Berlusconi dopo, hanno inteso condurre una decostruzione programmata del sistema Italia. Questa è però anche la ragione per cui tra qualche tempo (ossia quando saranno infine esauriti i redditi e soprattutto i patrimoni del ceto medio “di destra”) – al nobile fine di aiutare i nuovi poveri (specie quelli importati in massa) – verrà con ogni probabilità sacrificato sugli altari del rigore europeista anche il reddito e il patrimonio dell’elettore di sinistra. Sventolando la bandiera nobile della solidarietà e dei sacri principi unionisti verrà infatti il momento del rigore anche – nell’ordine – per i pensionati a basso reddito, per i lavoratori della grande impresa e, come gran finale col botto, per la grande parte degli impiegati pubblici (con l’unica eccezione di deep state e magistratura). Si tratta solo di aspettare che – con l’aiuto di qualche bella tassa patrimoniale e/o successoria – vengano prosciugati i risparmi di chi ancora era riuscito a mettere qualcosa da parte. A quel punto inizieranno a piangere anche le categorie che ora si credono al sicuro.

Curare un anemico con i salassi, prima di ammazzarlo …. lo fa arrabbiare.

Basta guardare ai dati macroeconomici (andamento del PIL, consumi e bilancia commerciale) per capire che è bastato un decennio scarso di europeismo “alla piddina” per presentare un conto salatissimo alla maggioranza dei cittadini italiani. Da Monti in poi è infatti proseguita (peggiorando) la tendenza alla decrescita economica nazionale (qui stiamo parlando di tredici trimestri consecutivi di recessione, dunque di una serie storica negativa che non si è avuta neppure durante il secondo conflitto mondiale). Questa crisi è stata causata da una caduta della domanda interna, ampiamente prevista (e anzi voluta) proprio in attuazione dell’agenda rigorista e deflattiva europea, che a sua volta ha innescato l’erosione del risparmio dei cittadini e del tenore di vita medio dei cittadini.

La situazione ha colpito anzitutto i giovani, specie quelli senza titolo di studio, i quali (anche per effetto della concorrenza del già citato esercito industriale di riserva importato dall’estero) si sono trovati a dover accettare lavori sempre più precarizzati e sottopagati senza poter in compenso più contare, come un tempo, sul contributo “start up” garantito dei risparmi e dalle seconde case dei genitori. Erosione del risparmio famigliare e lavoro giovanile sottopagato e reso sempre più precario hanno avuto come conseguenza anche la scomparsa di quell’ascensore sociale intergenerazionale ed interclassista che rappresentava uno dei tratti peculiari – e uno dei punti di forza nonché di coesione ideologica e culturale – della società italiana della prima e, in parte, anche della seconda repubblica. Genitori che lavoravano e risparmiavano non solo per mantenersi ma anche per garantire gli studi e un futuro migliore ai propri figli era infatti la regola d’oro che ha fatto sviluppare in armonia ed equilibrio il paese per decenni. Ora è solo un bel ricordo: tutti sono stati messi contro tutti, genitori e figli inclusi.

L’erosione di reddito e patrimonio del ceto medio e la compressione delle dinamiche salariali ha mandato ancora più in crisi la domanda interna, con pesanti ricadute su numerose imprese – specie nei settori del commercio al dettaglio e del piccolo manifatturiero – che pure in passato avevano operato con estremo successo. Le imprese sono dunque state costrette ad aprirsi ai capitali stranieri (che spesso ne acquisivano il controllo, tagliando l’occupazione in Italia e spostando gli utili all’estero) o ad attuare processi di delocalizzazione della produzione in paesi emergenti, contribuendo alla crisi occupazionale nazionale che – in una spirale perversa – alimentava uleriormente la deflazione. Gli italiani hanno ricominciato a emigrare a decine di migliaia in cerca di lavoro, con l’aggravante che, questa volta, a emigrare – in quota ben più consistente rispetto al passato – ormai erano anche i cosiddetti “cervelli”, vale a dire lavoratori e professionisti su cui il sistema economico italiano aveva già investito ingenti risorse (private e pubbliche) in formazione, ma della cui alta professionalità finiscono per beneficiare economie straniere.

Il mercato dei beni di consumo, in compenso, ha visto una sempre maggiore presenza di prodotti (e di grandi distributori) stranieri nonché l’ingresso sulla piazza italiana di prestatori di servizi finanziari stranieri, che hanno via via soppiantato gli operatori nazionali, specie quelle di piccole dimensioni. La crisi economica e l’erosione dei risparmi ha infatti provocato un sempre più frequente ricorso degli italiani al credito al consumo, che però – in presenza di una crisi occupazionale crescente e di deflazione della domanda interna – ha finito per tradursi in estese sofferenze bancarie che hanno indotto, anche per effetto delle normative unioniste (improntate anche in questo caso al rigore e all’impossibilità di aiuti pubblici), le banche a chiudere i cordoni della borsa.

In tal modo la crisi economica è divenuta anche una crisi nazionale del credito. I finanziamenti alle imprese sono dunque sì stati concessi dalle banche a tassi assai più bassi rispetto al passato, ma si sono sempre più concentrati verso le grandi imprese – che forniscono garanzie maggiori – laddove le piccole e medie imprese hanno dovuto affrontare un significativo credit crunch. I dissesti bancari nazionali – per effetto dei regolamenti di Basilea e delle norme sul cosiddetto bail in – sono stati scaricati sui risparmiatori (ma solo dopo che le banche dei paesi del nord erano già state salvate con bail out finanziati con soldi pubblici). Anche la politica di gestione dei crediti deteriorati imposta dall’UE ha finito per penalizzare gli operatori finaziari nazionali.

L’ingresso di capitali stranieri sotto forma di finanziamenti di venture capuital alle imprese o di prestiti da banche straniere, che nel breve periodo era stato dipinto come la panacea di tutti i mali, iniziava a mostrare il suo lato oscuro dopo qualche anno, quando cioè quei capitali hanno iniziato a tornare all’estero sotto forma di utili e/o di restituzione del capitale con gli interessi.

Giusto per dare il colpo di grazia al sistema, sono stati messi in campo diversi tentativi – per ora falliti – di introdurre, oltre all’IMU e alle tasse locali sulla casa e ai bolli sui conti correnti, ulteriori forme di imposizione fiscale patrimoniale anche su ricchezze di media consistenza, mentre la tassazione sulle rendite finanziarie – per cifre rilevanti – viene mantenuta stabilmente inferiore a quella sul reddito. Anche l’IVA è stata aumentata, con effetto depressivo sui consumi. Insomma, è davvero difficile negare che i governi da Monti a Renzi hanno fatto un po’ tutto quel era in loro potere per distruggere il tenore di vita della parte più attiva e produttiva del paese.

Il concorrere di questi fattori ha ovviamente aumentato le disuguaglianze rispetto al passato: in Italia stiamo assistendo a un aumento della ricchezza dei più agiati, dei rentier e dei manager apicali delle grandi imprese, con caduta in povertà (se non vera e propria riproletarizzazione) del ceto medio basso e significativa riduzione delle disponibilità economiche e del tenore di vita del ceto medio propriamente detto, con l’unica eccezione dei dipendenti pubblici e, ma solo in parte, dei pensionati. Si noti peraltro che le disuguaglianze causate dalle politiche europeiste del PD vengono usate da questo stesso partito per aizzare anche i nuovi poveri contro il ceto medio. In sintesi: per lasciare intatti (anzi aumentare) i benefici dei primi, il PD prima ha allargato la platea degli ultimi, e ora vorrebbe aizzare i “nuovi ultimi” contro i penultimi, in modo da usare i soldi dei penultimi per favorire ancora di più i primi. Gramsci si sta ovviamente rivoltando nella tomba.

Questa essendo la situazione del paese, non deve allora stupire più di tanto che – dopo un pochi anni di governi ultra europeisti a trazione PD – abbiano acquisito un forte consenso nel paese movimenti di opposizione e protesta che – manifestando posizioni “antisistema” più o meno radicali – si sono fatti appunto interpreti degli interessi di questi ultimi e penultimi, ossia – da un lato – della parte di ceto medio produttivo vessato di continuo dalle politiche del “nuovo” centro-sinistra e – dall’altro lato – di tutte quante le varie altre “vittime sacrificali” dell’adeguamento forzato del nostro paese al rigore mercantilista della dottrina Euro-Hartz.    E’ proprio su questi presupposti sociali ed economici che nel vecchio continente inizia – non solo in Italia (ma in particolare in Italia) – una nuova fase politica differente rispetto alla seconda repubblica – ed attualmente ancora in corso – che vede progressivamente emergere una nuova dialettica storica tra movimenti “europeisti” (ed “elitisti”) e movimenti “sovranisti” (e “populisti”). Proprio di questa nuova fase – e dei suoi possibili sviluppi futuri – avremo però modo di parlare nell’ultima parte di questo scritto, che dovrebbe essere pubblicata sempre sul sito della fondazione Hume nei prossimi mesi.

 




La “seconda ondata” di misure restrittive: il DPCM del 4 di novembre alla prova della costituzione

Visto che il Governo – di fronte alla recrudescenza del virus – ha ritenuto, all’inizio di novembre, di procedere nuovamente con una serie di misure di contenimento dell’epidemia tali da limitare diversi diritti fondamentali dei cittadini, occorre verificare se l’Esecutivo – a questo “secondo giro” di restrizioni –  ha evitato di incappare negli errori del primo, che – come detto in un precedente contributo sul tema per la fondazione Hume – sono consistiti nell’adottare, tra le altre, misure potenzialmente tali da comprimere la libertà personale (da tenere distinta rispetto alla semplice libertà di circolazione), ma senza il rispetto della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Costituzione e senza che gli atti amministrativi (i DPCM) che eccezionalmente disponevano simili restrizioni senza l’intervento del Giudice fossero in qualche modo coperti da una autorizzazione contenuta in norme di legge di rango costituzionale. Per compiere questa verifica senza dilungarci in inutili ripetizioni è quindi il caso di limitarci in questa sede a riassumere i principi che – sotto il profilo costituzionale – devono guidare i poteri dello stato nel gestire le misure di reazione a situazioni di emergenza nazionale. Il lettore potrà infatti – se lo desidera – trovare nel nostro precedente contributo un dettaglio degli argomenti giuridici su cui possono essere fondati i principi in questione. Ma veniamo, appunto, all’elenco dei principi di cui si tratta.

Primo: quello che viene normalmente definito come “stato di eccezione” è figura di diritto pubblico e internazionale residuale e vicaria, che dunque non può essere invocata quando la costituzione nazionale disciplina già con apposite norme i corrispondenti casi di emergenza. Assume allora rilievo (per escludere appunto la possibilità di ricorrere allo “stato di eccezione” – eventualmente fatto risalire alla dichiarazione di pandemia dell’OMS – come fondamento delle norme che provocano limitazioni dei diritti fondamentali) la considerazione che la nostra carta fondamentale già prevede norme per disciplinare ogni possibile caso di emergenza nazionale.

Secondo: l’art. 78 Cost. tratta del caso più grave di stato di emergenza nazionale, la guerra, stabilendo la possibilità di una delega del potere normativo generale al potere esecutivo (i famigerati “pieni poteri”), ma ponendo condizioni: anzitutto è il parlamento che deve deliberare lo stato di guerra (dunque non può il Governo conferirsi da solo i pieni poteri); in secondo luogo è ancora il parlamento a decidere quali poteri conferire al Governo (dunque il Governo non può neppure decidere da sé quanto “pieni” dovranno essere, né quanto dureranno, i poteri che potrà esercitare durante il periodo bellico); infine va notato che il parlamento conferisce i poteri eccezionali al Governo nella sua collegialità (neppure in caso di guerra la Costituzione prevede dunque l’attribuzione di “pieni poteri” al Presidente del Consiglio) In sintesi: anche nella peggiore delle emergenze possibili, per i costituenti, resta ferma sia la centralità del parlamento nella decisione iniziale del conferimento dei pieni poteri al Governo (e dei relativi limiti di oggetto e durata) sia il principio che non deve esserci alcun uomo solo al comando (politico) del paese.

Terzo: per ogni stato di emergenza diverso dalla guerra dispone la seconda parte dell’art. 77 Cost., a norma del quale, qualora si dia un caso di emergenza che al Governo appare “straordinario” in termini di “necessità” e di “urgenza”, lo stesso Governo – mediante appositi atti, i “decreti legge” emanati dal Consiglio dei Ministri, controfirmati dal Presidente della Repubblica e pubblicati in Gazzetta Ufficiale – può esercitare una potestà legislativa eccezionale e provvisoria, che resta soggetta a una conferma a posteriori, entro il termine fissato dalla stessa Costituzione stessa, da parte dal Parlamento con maggioranza ordinaria (altrimenti i decreti già emessi diventano inefficaci con effetto retroattivo, salvo il potere del Parlamento – dunque non del Governo – di disciplinare le situazioni pendenti).

Quarto: la dichiarazione di stato di emergenza pronunciata dal Governo in data 31 gennaio 2020 – e poi prorogata in estate – in forza della legge sulla protezione civile [ossia del Dlgs. 2 gennaio 2018, n. 1, in particolare con riferimento all’articolo 7, comma 1, lettera c), e all’articolo 24, comma 1] non è in alcun modo idonea a spostare i termini della questione costituzionale della legittimità dei DPCM, considerando che la legge sulla protezione civile è una semplice legge ordinaria, dunque non di rango costituzionale, con la conseguenza che quella legge – e gli atti adottati in forza di quella legge – non potrebbero in alcun caso legittimamente conferire ad organi del poter esecutivo delle potestà legislative ulteriori rispetto a quelle previste espressamente dalla Costituzione.

Quinto: la stessa legge sulla protezione civile – considerando il contenuto oggettivo delle sue norme – non sembra affatto riconoscere al Governo (e tanto meno al Presidente del Consiglio o ai singoli ministri) il potere di emettere provvedimenti diversi da quelli che rientrano nella ordinaria competenza secondo la legge amministrativa e la Costituzione.

Sesto: nel valutare la legittimità costituzionale di alcune misure occorre sempre tenere distinti i provvedimenti che limitano la libertà di circolazione ai sensi art. 16 Cost. (che possono essere adottati in forza di norme con rango di legge) da quelli che limitano la libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost. (che invece restano soggetti sia a riserva di legge sia a riserva di giurisdizione, dunque non possono essere adottati in forza di una norma di legge che non subordini la restrizione all’intervento – con un provvedimento ad hoc per ciascuna situazione concreta – della magistratura). A tale riguardo occorre in particolare ricordare che la Corte Costituzionale ha sostenuto a suo tempo (Sent. 68/1964) che le limitazioni alla libertà di circolazione sono certamente quelle che limitano l’accesso a determinati luoghi, ma non possono estendersi – quanto agli effetti – sino a tradursi in un obbligo di permanenza domiciliare, altrimenti trasformandosi in limiti alla libertà personale. Secondo la giurisprudenza costituzionale – in altre parole – i limiti della libertà di circolazione hanno per oggetto dei “luoghi” definiti e circoscritti il cui accesso può essere impedito ai cittadini per legge (o in base ad atto amministrativo legittimamente emanato in base ad una norma con forza e rango di legge) perché sono pericolosi, mentre se il divieto di spostamento colpisce direttamente delle categorie di persone, saremmo in presenza anche di limitazioni della libertà  personale, dunque la legge (o un atto amministrativo emesso sulla base di una norma con rango di legge) non sarebbe sufficiente per adottare la limitazione in forma generale ed astratta, ma servirebbe prevedere anche un provvedimento di conferma del Magistrato che autorizzi la limitazione in concreto e in relazione al singolo caso. Sempre in applicazione di questo principio, peraltro, di limiti alla libertà personale, peraltro, si dovrebbe parlare – in forza del principio di prevalenza della sostanza sulla forma quando si tratta di verificare i vulnus costituzionali – ogni volta in cui la limitazione di accesso ad una determinata zona (o di circolazione all’interno della zona) è sì strutturata in modo da riguardare formalmente dei luoghi, ma presenta estensione ed incisività tali da avere gli stessi effetti di un confinamento domiciliare delle persone che in quei luoghi si trovano a dimorare con continuità.

Settimo: secondo la più recente giurisprudenza del Tribunale dei Ministri (quella formatasi in occasione dei famosi casi sui migranti che hanno coinvolto l’ex Ministro dell’Interno), la limitazione della libertà personale in forza di un atto amministrativo che viola norme di rango sovraordinato, anche quando si tratta atto formalmente legittimo perché adottato da un membro del Governo in forza di una norma di legge, può comunque dar luogo a sequestro di persona (aggravato da abuso di potere) e, più in generale, soggiacere al sindacato del giudice penale, che – previa autorizzazione parlamentare a procedere per reati ministeriali – può conoscere delle fattispecie criminose eventualmente integrate, di fatto “disapplicando” anche ai fini penali – in presenza di una norma sovraordinata in senso difforme – la norma che autorizza l’emissione dell’atto amministrativo (formalmente legittimo ma) che contravviene alla norma sovraordinata.

Ottavo: il DPCM è un atto amministrativo, dunque – a voler ritenere che, quanto meno per le procedure di impugnazione, prevalga la forma sulla sostanza – è atto che resta sottratto, per un verso, al controllo previo di costituzionalità prima facie attuato per mezzo della controfirma del Presidente della Repubblica e, per altro verso, al sindacato della Corte Costituzionale, essendo viceversa annullabile dal Giudice amministrativo e disapplicabile dal Giudice civile ordinario nei casi in cui limita diritti soggettivi (oltre che da quello penale, quanto meno secondo l’interpretazione di cui abbiamo detto nel punto sette qui sopra, anche).

Svolte queste necessarie premesse, vediamo ora di analizzare più in dettaglio la struttura degli atti e il contenuto delle norme con cui – all’inizio di novembre – sono state create le famose “zone” di rischio a colore differenziato del territorio nazionale. Partiamo col dire che l’impianto di queste nuove misure è in certa misura diverso da quello precedente (e che, per questa ragione, in parte risolve alcuni problemi costituzionali che affliggevano in particolare le misure restrittive valide per la prima fase dell’emergenza e contenute nei primissimi DPCM della primavera scorsa), mentre – sotto altri profili – i nuovi provvedimenti ricalcano il modello di quelli vecchi e dunque ne ripropongono le criticità.

Il nuovo DPCM – entrato in vigore il 4 novembre 2020 ha anzitutto un’efficacia limitata nel tempo, pari a un mese, di guisa che alla scadenza dovrà essere adottato un nuovo DPCM. Il DPCM dispone due gruppi di restrizioni: alcune riguardano tutto il territorio nazionale e sono entrate in vigore automaticamente per effetto del DPCM stesso, altre – pure definite dal suddetto DPCM – hanno invece valenza solo regionale ed entrano in vigore, sempre automaticamente, in ragione della classificazione della singola regione (a seconda del livello di rischio). La classificazione delle regioni è variabile nel tempo ed è demandata al Ministero della Salute, che provvede con decreto ministeriale, d’intesa con i presidenti delle regioni, sulla base di una complessa serie di indici (si tratta di 21 parametri che si basano su indici e dati medici e di altro genere che si trovano contenuti nel documento condiviso con la Conferenza delle Regioni e titolato “Prevenzione e risposta Covid-19, evoluzione della strategia per il periodo autunno-inverno” allegato al DPCM). I provvedimenti ministeriali di classificazione del rischio sono soggetti a una verifica dei dati su base settimanale, in vista di una loro modifica, ma durano in vigore almeno 15 giorni dall’adozione. Veniamo ora al contenuto delle misure.

Per l’intero territorio nazionale, il DPCM prevede diverse restrizioni: limitazione della circolazione delle persone dalle 22 alle 5, salve ragioni di lavoro, necessità o salute (c.d. “coprifuoco”); chiusura di mostre e musei; didattica a distanza al 100% per scuola secondaria, salva attività di laboratorio; attività in presenza per asili, primarie e secondarie di primo grado (scuole medie), con utilizzo di mascherine, salvo per bambini al di sotto dei 6 anni; chiusura esercizi commerciali, nelle giornate festive e prefestive, dei centri commerciali salvo per le farmacie, negozi di generi alimentari, tabacchini ed edicole presenti nella struttura; 50% di occupazione massima della capienza su mezzi pubblici del trasporto locale e ferroviario regionale; chiusura bar e ristoranti dalle 18, con possibilità di restare aperti per il pranzo della domenica; sospensione dello svolgimento delle prove preselettive e scritte dei concorsi pubblici e privati (comprese le procedure di abilitazione all’esercizio delle professioni) salvo per i casi in cui la valutazione vada effettuata solo su basi curriculari ovvero in modalità telematica; chiusura giochi e scommesse presso bar e tabaccherie; consentiti eventi e competizioni (che siano riconosciuti di interesse nazionale con provvedimento del CONI e del CIP), riguardanti gli sport individuali e di squadra organizzati dalle rispettive federazioni sportive nazionali, discipline sportive associate, enti di promozione sportiva o da organismi sportivi internazionali, all’interno di impianti sportivi a porte chiuse o all’aperto ma senza la presenza di pubblico; “raccomandazione” (ma non obbligo) di non spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, se non per esigenze lavorative, di studio o per motivi di salute.

Al Ministro della Salute – come si diceva – è affidato il compito di regolare l’entrata in vigore di eventuali ulteriori misure restrittive nelle aree dove la diffusione del virus risulta più elevata e le strutture sanitarie più congestionate, classificando – con decreto ministeriale – le regioni in tre “zone di rischio” connotate ciascuna da un diverso colore, cui corrispondono diversi livelli – crescenti – di restrizioni.

Zona gialla: regioni a livello di rischio moderato, in cui si applicano solo le limitazioni a valenza nazionale indicate in precedenza.

Zona arancione: Regioni a criticità medio-alta, per cui sono previste le seguenti misure aggiuntive rispetto a quelle valide su scala nazionale: divieto di spostamento, in entrata e in uscita, dalla Regione (salvo per comprovate esigenze di lavoro, salute e casi di necessità e urgenza); quanto alla didattica, sono consentiti solo spostamenti strettamente necessari ad assicurare lo svolgimento della didattica in presenza e nei limiti in cui la stessa risulta consentita; in ogni caso vi è la possibilità di rientro nel proprio domicilio o nella propria residenza; vietato ogni spostamento in un comune differente da quello di residenza, domicilio o abitazione, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di studio, motivi di salute, situazioni di necessità e urgenza o per svolgere attività o usufruire di servizi non sospesi e non disponibili nel proprio comune; sospese le attività dei servizi di ristorazione, salvo mense, catering e ristorazione con asporto e con consegna a domicilio.

Zona rossa: zona a criticità più elevata, per cui valgono le seguenti misure aggiuntive: divieto di ogni spostamento – non solo in entrata e in uscita dalla Regione e dei confini del comune di residenza, domicilio o abitazione – ma anche all’interno del territorio comunale stesso, salve comprovate esigenze lavorative, di salute ovvero necessità e urgenza; chiusura per i negozi di commercio al dettaglio, ad eccezione di generi alimentari, farmacie, edicole; chiusura dei mercati di generi diversi da quelli alimentari; divieto di attività di somministrazione di alimenti e bevande da parte di bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie, salva la ristorazione con consegna a domicilio e, ma solo fino alle ore 22.00, quella con asporto e – in questo caso – con divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze; sospese le attività sportive, anche svolte nei centri sportivi all’aperto; consentita l’attività motoria in prossimità della propria abitazione, nel rispetto della distanza personale di almeno un metro e con obbligo di mascherina; consentita l’attività sportiva esclusivamente all’aperto e in forma individuale; sospesi eventi e competizioni di enti di promozione sportiva; consentita l’attività scolastica in presenza solo per asili, scuola primaria e prima media; consentite le attività inerenti servizi alla persona; i datori di lavoro pubblici limitano la presenza del personale nei luoghi di lavoro per assicurare esclusivamente le attività che ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente tale presenza.

Questa essendo la sostanza delle nuove misure, vediamo di concentrarci su quelle che appaiono più “problematiche” in termini di diritti fondamentali, che sono il “coprifuoco” dalle 22 alle 5 su tutto il territorio nazionale, il divieto di spostamento tra diverse regioni e/o comuni nelle zone arancioni e, infine, il “confinamento domiciliare” all’interno delle zone rosse. In relazione a tutte queste ipotesi – per cui valgono sempre le eccezioni delle esigenze lavorative, di salute e di altre “necessità” e “urgenze” – si ripropone infatti il problema della riserva di giurisdizione (non garantita dai DPCM, ma) prevista dalla Costituzione per le limitazioni della libertà personale.

Si tratta di un problema che lo stesso Governo ha tentato a suo modo di risolvere quando – dopo un primissimo periodo in cui i suoi DPCM sono risultati “non coperti” da alcuna norma con forza di legge – ha emanato una serie di decreti legge che autorizzavano la successiva adozione, con atto amministrativo, di misure generali di contenimento dell’epidemia. Nelle norme contenute in questi decreti legge (si veda in particolare l’art. 1.2 del Decreto Legge n. 19 del 2020) si menziona infatti espressamente la possibilità di limitare la libertà di circolazione (dunque non la libertà personale), affermando però che queste limitazioni di libertà di circolazione potrebbero essere adottate anche “prevedendo limitazioni alla possibilità di  allontanarsi  dalla  propria residenza, domicilio o dimora se non per spostamenti individuali limitati nel tempo e nello spazio o motivati da esigenze  lavorative, da situazioni di necessità o urgenza, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni”. Questo significa – in sostanza – che il Governo, in veste di legislatore delegato, ha sostenuto nei suoi decreti legge che rappresenterebbe una “semplice” limitazione della libertà di circolazione (e non dunque anche della libertà personale) il fatto di porre limiti agli spostamenti dei cittadini di incisività tale da tradursi in un divieto di allontanamento “senza giusta causa” dal proprio domicilio o dalla propria dimora.

Tali decreti sono stati poi convertiti dal Parlamento, che dunque ha fatto propria la tesi del Governo. E’ tuttavia evidente che né il Governo (e tanto meno il legislatore in sede di conversione) hanno competenza a fornire una interpretazione autentica alle norme della Costituzione, e che neppure possono decidere da sé quali libertà una norma restrittiva comprime, essendo entrambi tenuti al pieno rispetto delle regole e dei principi costituzionali per come definiti e interpretati nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. Va tuttavia aggiunto che il fatto che sia i decreti legge sia le leggi di conversione siano stati controfirmati dal Presidente della Repubblica senza sollevare rilievi significa che il punto di vista del Quirinale è che si tratti di misure – quanto meno secondo una valutazione prima facie – legittime, dunque che anche il Capo dello Stato ritiene non manifestamente infondata la tesi del Governo e del legislatore secondo cui quel tipo di restrizione – per quanto “forte” – potrebbe rappresentare una semplice limitazione della libertà di circolazione e non anche della libertà personale.

Nonostante l’autorevolezza dell’avallo del Quirinale, resta il fatto che – guardando tuttavia ai già citati principi elaborati in passato sul tema dalla giurisprudenza costituzionale – resta lecito sostenere una tesi diversa, ossia che la sola misura certamente legittima (a voler ritenere che il DPCM del 3-4 novembre possa avere forza e valore equiparato ad una legge, per effetto appunto della “copertura” fornita dai decreti legge convertiti dal parlamento) sia quella che limita lo spostamento tra diverse regioni (o tra diversi comuni della stessa regione) quando in almeno uno dei due territori esiste un rischio sanitario classificabile almeno nella categoria “arancione”. In queste ipotesi, in effetti, si limita la libertà di spostamento – dunque la libertà di circolazione – secondo criteri territoriali e sulla base del grado di pericolo rilevato nei relativi territori. Questo consente di sostenere che limitazione alla circolazione non dissimula un limite alla libertà personale e, dunque, incontra solo una riserva di legge, di guisa che con tutta probabilità – a voler ritenere, come pare di potersi fare, che l’ultimo DPCM sia atto “autorizzato” dai decreti legge precedenti – saremmo in presenza di una limitazione alle libertà personali disposta secondo procedure istituzionalmente corrette e con atti legittimi sotto il profilo costituzionale.

Più problematica appare la situazione con riferimento alle misure del cosiddetto “coprifuoco” (divieto di uscire di casa tra le 22 e le 5 su tutto il territorio nazionale) e del “confinamento domiciliare” (divieto di abbandonare senza giusta causa la dimora o il domicilio se si trova nelle regioni “rosse”). Anche in relazione a simili restrizioni, come si è visto, il Governo ha ritenuto di potersela cavare – con l’appoggio del legislatore e con l’avallo del Colle – sostenendo che si tratterebbe sì di limiti più incisivi, ma pur sempre alla sola libertà di circolazione. In realtà, come si diceva, si potrebbe sostenere anche che si tratta di restrizioni che – per quanto facciano salva la possibilità di spostarsi per ragioni di lavoro, salute o casi di necessità e urgenza – si sostanziano in vere e proprie limitazioni di libertà personale destinate a colpire categorie di soggetti (piuttosto che non determinati luoghi o territori) e che di conseguenza – rientrando nel disposto dell’art. 13 Cost. – dovrebbero restare soggette a riserva non solo di legge ma anche di giurisdizione. Il che le renderebbe illegittime anche a voler ritenere che al DPCM del 4 novembre sia attribuito valore e forza di legge per effetto della “delega” di adottare quelle misure concessa con i decreti legge precedenti. Si noti in particolare che l’esistenza delle tre “eccezioni” previste dai DPCM sia per il coprifuoco che per il confinamento domiciliare non pare poter mutare di molto la sostanza delle cose, essendo evidente che obbligare un cittadino a non poter uscire di casa se non per “lavorare”, “curarsi” o “far la spesa nelle vicinanze” e soddisfare altre “necessità urgenti”, significa limitare in misura assai significativa la sua libertà personale. Per capire che le cose stanno in questi termini basta infatti considerare che regimi di “libertà ridotta” di questo genere appaiono (oltre che compatibili con certe forme di schiavitù conosciute nella storia, anche) piuttosto simili al regime che connota alcune misure alternative all’esecuzione delle pene detentive. Tutto questo per dire che, in relazione al coprifuoco notturno nazionale e al confinamento domiciliare in zona rossa, resta assai concreto il rischio di una loro illegittimità costituzionale, sotto il profilo della violazione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost., anche a voler ritenere che si tratti di misure espressamente autorizzate dai precedenti decreti legge.

Ma veniamo ora proprio alla questione – più generale, ma molto importante – del valore, in termini di gerarchia della fonti, del DPCM del 4 novembre. La domanda fondamentale da porsi – come dovrebbe ormai essere chiaro – è infatti se questo DPCM può avere forza cogente pari a una legge, per l’effetto potendo legittimamente comprimere – quanto meno – le libertà fondamentali (di circolazione, di istruzione e di iniziativa economica) soggette a semplice riserva di legge. La risposta alla domanda dipende ovviamente dalla norma su cui quel DPCM si fonda.

Come abbiamo visto, la dichiarazione di stato di emergenza ai sensi della legge sulla protezione civile – sia perché le norme di quella legge non depongono in tal senso sia, e soprattutto, perché si tratta di legge ordinaria e non costituzionale, che dunque non può derogare alle disposizioni della carta fondamentale che tracciano la gerarchia delle fonti del diritto – non consente di attribuire ad alcun organo del potere esecutivo poteri legislativi differenti rispetto a quelli ordinariamente previsti dalla Costituzione. Dunque il DPCM, se fosse stato emesso dal Governo esclusivamente nell’esercizio di poteri fondati su quella dichiarazione o su quella legge, non potrebbe derogare ad alcun diritto costituzionale soggetto a riserva di legge.

A sua volta, come pure abbiamo visto, la Costituzione prevede, in ogni caso di necessità e urgenza diverso dalla guerra, che il potere emergenziale di legiferare attribuito all’Esecutivo sia esercitato sotto forma di decreto legge. Il che esclude ogni possibilità di sostenere che i DPCM possano risultare in qualche modo “coperti” – sotto il profilo della legittimità delle limitazioni ai diritti fondamentali – dallo stato di eccezione (eventualmente fondato a sua volta sulla dichiarazione di pandemia da parte dell’OMS).

Le considerazioni che precedono inducono dunque a ritenere che, per capire se le restrizioni contenute nell’ultimo DPCM siano legittime costituzionalmente, occorre in realtà verificare se le corrispondenti norme del DPCM siano o meno “coperte” da almeno uno dei decreti legge, tra i tanti che sono stati emessi nei mesi passati per la gestione dell’emergenza Covid. Si tratta di una verifica resa in certa misura più complicata del dovuto dal fatto che lo stesso DPCM, nel suo preambolo, menziona in pratica tutti i decreti emessi sino ad ora dal Governo e convertiti dalle Camere (tra i quali anche – in particolare – i Decreti Legge n. 6 e 19 del 2020, entrambi convertiti dal Parlamento), aggiungendovi – giusto per non farsi mancare nulla – la già citata legge sulla protezione civile (con relativa dichiarazione di stato di emergenza e rinnovo) così come due atti di indirizzo politico parlamentare e, infine, la dichiarazione di pandemia dell’OMS.

Quel che si può a mio avviso ragionevolmente sostenere è che le misure restrittive contenute nel DPCM del 4 novembre si fondano sulla “delega” – e dunque sull’autorizzazione – a limitare le libertà dei cittadini che si trova contenuta nel Decreto Legge n. 19/2020, poi convertito dalle Camere. Il che induce a ritenere che – in questo caso – quel DPCM sia sì un atto legittimo nella parte in cui dispone le misure restrittive, ma solo nella misura in cui tali misure limitano diritti soggetti a semplice riserva di legge e non anche quelli che incontrano una riserva di giurisdizione. Questo significa – in ultima analisi – che anche in relazione al nuovo DPCM del 4 novembre, così come si era visto per gli atti emessi nella primavera scorsa, il vero punctum dolens è rappresentato da misure restrittive (il coprifuoco notturno e il divieto di allontanamento da dimora o domicilio, salvo specifiche esigenze, all’interno delle zone rosse) in relazione alle quali esiste – come si è visto – un serio dubbio che si tratti di limitazioni di libertà personale e non della sola libertà di circolazione.

Ritenere che simili misure implichino anche limitazioni alla libertà personale (e non solo alla libertà di circolazione) implicherebbe importanti conseguenze sul piano giuridico. La prima è che le norme dei decreti legge convertiti che – sul presupposto che simili misure rappresentino solo ipotesi di limitazione della libertà di circolazione (ad esempio il già citato art. 1.2 del DL n. 19/2020 così come la corrispondente parte della legge di conversione) – hanno autorizzato l’Esecutivo a disporre con atto amministrativo generale e astratto il coprifuoco e/o i divieti di allontanamento dalla dimora o dal domicilio potrebbero essere impugnate – mediante rimessione di questione incidentale da parte di un qualunque Giudice chiamato ad applicare gli atti sanzionatori nel frattempo irrogati per la loro violazione – dinanzi alla Corte Costituzionale per violazione dell’art. 13 Cost., nella misura in cui, appunto, si potrebbe trattare di norme che hanno attribuito all’Esecutivo un potere (quello di limitare la libertà personale con atto amministrativo) che invece, secondo la norma costituzionale da ultimo citata, avrebbe dovuto essere concesso solo richiedendo un intervento autorizzativo della magistratura. Va da sé peraltro che l’eventuale declaratoria di parziale incostituzionalità dei Decreti Legge e delle leggi di conversione avrebbe – a sua volta – importanti ripercussioni a diversi livelli dell’ordinamento.

L’incostituzionalità del conferimento del potere di adottare certi provvedimenti si rifletterebbe infatti anzitutto in una annullabilità da parte del giudice amministrativo, nella parte de qua, degli atti amministrativi conseguenti a quel conferimento: non solo dunque le norme dei DPCM che prevedono quelle misure, ma anche gli atti derivati con cui sia stata irrogata una sanzione per la loro violazione. Inoltre, considerando che l’eventuale esercizio illegittimo dei poteri pubblici in questi casi inciderebbe certamente su diritti soggettivi, gli atti amministrativi in questione (anche qui: tanto il DPCM quanto gli atti che hanno irrogato sanzioni) saranno disapplicabili dal giudice ordinario, ad esempio ai fini dell’annullamento delle sanzioni amministrative. Questo significa però anche, sotto diverso profilo, che qualunque conseguenza dannosa – in termini patrimoniali, morali, biologici o psicologici – eventualmente causata ai cittadini per effetto della corrispondente parte del DPCM o degli atti sanzionatori successivi, rappresenterà ipotesi di danno ingiusto risarcibile ai sensi degli artt. 2043 e seguenti del codice civile, dunque autorizzando una condanna per danni nei confronti degli enti pubblici coinvolti. Restano invece ancora tutte da chiarire – specie in caso di azioni civili per danni da parte dei cittadini contro lo stato o contro singoli esponenti dell’Esecutivo – le possibili conseguenze in termini di danno erariale dell’eventuale annullamento e/o illegittimità dei provvedimenti di cui si è detto.

Conseguenza ultima (e per certi versi estrema) dell’eventuale illegittimità costituzionale della parte del DPCM del 4 novembre che ha disposto il coprifuoco e il divieto di allontanamento ingiustificato dalla dimora in zona rossa sarebbe peraltro anche l’illegittimità della limitazione della libertà personale provocata dall’attuazione di questi provvedimenti, con possibilità di procedere – anche con iniziativa d’Ufficio – all’apertura di indagini penali (ad esempio per sequestro di persona con abuso di autorità, almeno a voler seguire la più recente giurisprudenza del Tribunale di Ministri in relazione ai noti casi relativi ai migranti). Naturalmente si tratterebbe di reati ministeriali, dunque vi sarebbe in ogni caso, per gli inquirenti eventualmente intenzionati a procedere contro membri del Governo, la necessità di richiedere una previa autorizzazione delle Camere. Proprio in questo senso a mio avviso va letto il fatto che il Presidente del Consiglio, nel preambolo del DPCM del 4 Novembre, abbia menzionato gli atti di indirizzo parlamentare votati nel frattempo dal parlamento: in caso di eventuale richiesta della magistratura di una autorizzazione da parte del parlamento a procedere penalmente contro membri dell’Esecutivo, il Governo potrebbe infatti usare quegli atti di indirizzo politico che sostenere di aver agito nell’ambito di un mandato politico, dunque sottraendosi al sindacato della giustizia penale. Va però precisato che il Parlamento – quando decidere di una autorizzazione a procedere – agisce con discrezionalità politica, di guisa che una “garanzia” per il Governo che il parlamento decida su eventuali future autorizzazioni a procedere in modo coerente ai suoi atti di indirizzo politico precedenti è in realtà una garanzia che vale solo sino a quando la maggioranza parlamentare è la stessa che ha adottato l’atto di indirizzo politico.

Infine – trattandosi di Decreti Legge e Leggi di conversione che sono state controfirmate senza rilievi dal Presidente della Repubblica – nel caso in cui la Corte Costituzionale dovesse mai giungere alla conclusione che le norme in questione rappresentavano una violazione dell’art. 13 Cost. – si aprirebbero inevitabilmente accesi dibattiti circa il fatto che vulnus alla riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost. fosse anche “chiaramente evidente” già al momento dell’adizione dei decreti e della loro conversione, di guisa che il Capo dello Stato ben avrebbe potuto (ma anche – a quel punto – dovuto) esercitare le proprie prerogative per rimandare la legge alle Camere in seconda lettura. In una simile evenienza andrebbe tenuto peraltro in adeguato conto, da un lato, che l’esistenza di una situazione di grave emergenza nazionale – e dunque l’opportunità di lasciare che il Governo reagisse celermente – potrebbe giustificare una minore propensione del Presidente della Repubblica ad esercitare i propri poteri di controllo (rispetto a casi in cui in passato alcuni provvedimenti – oggettivamente ben più “blandi” sotto il profilo del potenziale vulnus costituzionale – sono stati invece rinviati alle camere in seconda lettura). Per altro verso è innegabile che, già al momento della loro adozione, era piuttosto evidente che misure restrittive tanto incisive ed estese, non solo avrebbero limitato pesantemente le libertà fondamentali di milioni di cittadini, ma avrebbero avuto ricadute – in termini economici, di flessione della domanda interna e soprattutto di occupazione – tali da mettere in serio pericolo l’equilibrio dei conti pubblici e la tenuta dell’economia nazionale. Tutto questo per dire che, con ogni probabilità, il vero fulcro del problema – anche in relazione alla questione del potere di controllo del Presidente della Repubblica sulle misure emergenziali – resta quello di capire se le misure più estreme contenute nel DPCM del 4 novembre rappresentano – secondo una valutazione sommaria e dunque prima facie – una “semplice” limitazione della libertà di circolazione e non anche una vera e propria restrizione della libertà personale.

Personalmente ritengo che sollecitare una serena ma rigorosa verifica nelle sedi competenti – dinanzi alle differenti articolazioni della magistratura ordinaria, amministrativa, contabile e costituzionale – circa il fatto che le istituzioni dello Stato, dinanzi a una situazione emergenziale, abbiano saputo sempre tenere distinte le limitazioni alla libertà di circolazione (e delle altre libertà soggette a semplice riserva di legge) da quelle che incidono anche sulla libertà personale dei cittadini (e che invece – così come per l’inviolabilità del domicilio – richiedono sempre l’intervento di un giudice “terzo” anche in presenza di gravi emergenze nazionali diverse dagli eventi bellici) non sarebbe esercizio di sterile. Si tratta anzi di un passaggio essenziale – in uno stato che voglia definirsi liberale – per mantenere saldi i principi dello stato di diritto anche in situazioni di emergenza, ossia in casi in cui – come la storia insegna (e anche i nostri padri costituenti ben sapevano) – è più probabile che i poteri dello stato incappino (più o meno consapevolmente e più o meno in nome una “buona causa”) in derive autoritarie.

Principi come la libertà personale e l’inviolabilità del domicilio – ma non diversamente dovrebbe dirsi anche del divieto di imporre trattamenti sanitari senza il consenso di chi li subisce – non sono infatti un “lusso” che lo stato concede ai cittadini solo in situazione ordinaria (cosa che invece così tanti commentatori – e purtroppo anche qualche giurista – mostrano di ritenere): sono il fondamento ultimo del nostro concetto di rapporti tra società e poteri dello stato. Qualunque stato che voglia infatti chiamarsi davvero “stato di diritto” – tema di cui in sede EU si parla spesso – dovrebbe infatti saper mantenere fermo il principio secondo cui, di fronte a certe libertà individuali, il potere pubblico non può provvedere con atti d’imperio, neppure se adottati o autorizzati dal legislatore. Nessuna maggioranza politica parlamentare ordinaria può arrogarsi il potere di limitare o eliminare certi diritti, neppure per legge, senza l’intervento caso per caso del Giudice, ossia senza l’intermediazione di un potere terzo e imparziale rispetto alle decisioni politiche. Proprio a questo serve del resto la Costituzione: a difendere certi diritti di ciascun singolo cittadini contro l’arbitrio del potere sovrano, anche quando un simile potere viene esercitato da un Parlamento. Lo stato di diritto viene prima della stessa democrazia, in quanto consente che quest’ultima non si trasformi in una tirannia della maggioranza politicamente rappresentata. E questo – si badi – vale certamente anche in situazione di emergenza. Anzi: vale soprattutto in situazione di emergenza.

Una questione di simile portata – ossia la possibile violazione della libertà personale di milioni di cittadini posta in essere dai poteri pubblici al di fuori delle dovute garanzie costituzionali – non si può dunque certo liquidare prendendo come oro colato l’espediente usato dal legislatore di affermare che limitino solo la libertà di circolazione delle misure che – consistendo in una sorta di arresti domiciliari attenutati – ben potrebbero aver anche intaccato e limitato la libertà individuale. La “parola” del Governo (così come della maggioranza che lo sostiene in Parlamento) non basta infatti per tutelare il cittadino quando l’abuso di potere potrebbe essere stato perpetrato proprio da quello stesso governo e legislatore. E anche il controllo del Presidente della Repubblica non pare sufficiente – trattandosi comunque di un controllo sommario e che viene operato da un organo nominato pur sempre da una maggioranza parlamentare – quando i diritti in gioco sono quelli davvero fondamentali per conservare lo stato di diritto. C’è poco da fare, insomma: solo la terzietà di un vero giudice – in simili casi – offre sufficienti garanzie di indipendenza.

Sollecitare una verifica da parte della magistratura sull’operato delle istituzioni di fronte all’emergenza avrebbe dunque il benefico effetto di richiamare l’attenzione di chi governa (ma anche di chi sostiene in Parlamento l’azione di questo Governo) sulla necessità di evitare che anche da noi ci si avvii sulla china che parrebbe essere stata imboccata ad esempio in Germania, paese in cui la maggioranza parlamentare sta mettendo ai voti una proposta di legge che – in caso di emergenza sanitaria – in nome della “protezione del popolo” attribuisce al potere esecutivo, per di più senza specificare limiti di durata, pieni poteri tanto intensi da consentire limitazioni – tra le altre – anche della libertà personale dei cittadini e dell’inviolabilità del loro domicilio. Per non parlare delle voci che – all’estero ma anche qui da noi – si levano sempre più di frequente per invocare un obbligo di vaccino generalizzato imposto per legge. Simili misure – che davvero rappresentano un potenziale vulnus al concetto di “stato di diritto – non appartengono alla nostra cultura giuridica. Ci si chiede peraltro perché mai l’UE, così solerte nel lamentarsi con Ungheria e Polonia per pretese violazioni della rule of law perché le rispettive legislazioni attenterebbero alla divisione dei poteri, nulla abbia da eccepire quando le derive illiberali sono poste in essere da altri stati.

In particolare proprio la proposta di legge attualmente in discussione in Germania – che viene presentata da quel governo come strumento per la “protezione del popolo” – dovrebbe far ricordare che il concetto stesso di costituzione (o quanto meno quello di costituzione rigida) si fonda sull’assunto per cui esistono diritti – quali appunto la libertà personale e l’inviolabilità del domicilio – la cui tutela contro lo stato, anzi: soprattutto contro lo stato, consente di conservare quello che noi chiamiamo “stato di diritto”.  Vivere in uno stato di diritto significa vivere in un ordinamento in cui la costituzione difende alcune libertà del cittadino contro il potere dello stato, obbligando lo stato stesso – se vuole limitarle – a confrontarsi col cittadini davanti a un giudice terzo e indipendente, non potendo i pubblici poteri agire unilateralmente né con atti governativi né sulla base di leggi approvate da maggioranze parlamentare ordinaria).

Questa è del resto anche la semplicissima e chiara ragione –ormai ignorata dai più – per cui ad alcuni diritti fondamentali della persona (la libertà personale e inviolabilità del domicilio) non sarebbe comunque legittimo attribuire rango costituzionale inferiore al diritto alla salute e all’incolumità personale. E tutto questo senza ricordare che così tanti hanno sacrificato la propria vita nei decenni passati per dare a noi oggi la garanzia costituzionale della libertà personale e dell’inviolabilità del domicilio che appare davvero difficile capire per quale ragioni così tanti oggi – anche tra i giuristi e politici che si dichiarano a gran voce democratici e liberali – possano sostenere a cuor leggero che la vita e la salute sono “certamente” più importanti, nella scala costituzionale, della libertà personale.

Chi teme per la salute e la vita di alcune categorie a rischio oggi vorrebbe infatti comprimere “senza se e senza ma” la libertà personale di tutti quanti, senza capire che – seguitando su questa strada – potrebbe trovarsi un giorno senza alcuna difesa legale di fronte a uno stato che – a quel punto – potrà disporre come meglio crede anche della salute (e dunque della vita) di chiunque. Suonano insomma tremendamente attuali – per quanto siano stato pronunciate ormai già più di due secoli fa – le parole di Thomas Jefferson, secondo cui “chi rinuncia alla sua libertà per la sicurezza, non ottiene nessuna delle due”. Stiamo dunque attenti, perché – dopo decenni in cui la politica ci ha abituati a gridare al fascismo o allo stalinismo di fronte a qualunque quisquilia – rischiamo alla fine di non far più caso ai “veri” segnali del fatto che – in Italia e in Europa – i principi fondamentali dello stato di diritto iniziano davvero a essere messi in discussione dalle stesse istituzioni che invece dovrebbero garantirli.




I partiti italiani: cenni costituzionali e breve storia dal dopoguerra alla seconda Repubblica

Nell’era dell’antipolitica mi sono chiesto in che misura i movimenti presenti in parlamento possano ancora essere definiti partiti, nel senso in cui lo erano i partiti tradizionali della prima Repubblica. Mi sono poi anche chiesto quali siano di destra e quali di sinistra, sempre che le categorie in questione abbiano conservato un proprio significato, ossia se ai termini “destra” e “sinistra” corrisponde ancora un minimo comune denominatore in termini o di uniformità ideologica o quanto meno di interessi e categorie sociali di riferimento. Per rispondere alla prima domanda è occorre definire il quadro costituzionale dell’attività dei partiti, dal momento che è proprio dalla definizione che la carta fondamentale dà di queste organizzazioni che consente di verificare se anche i movimenti politici di oggi rientrano della nozione giuridica di partito.

L’art. 49 della Costituzione, contenuto nel titolo relativo ai rapporti politici, dispone che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Si tratta di una norma che, nella carta fondamentale, si trova collocata dopo quella sul suffragio universale e sul il diritto/dovere di voto dei cittadini.

Il fatto che l’articolo 49 Cost. parli di partiti come “libere associazioni” di cittadini ci dice intanto che un partito, per essere tale, deve essere espressione di autonomia e, dunque, della libertà di chi sceglie di aderirvi. In Italia non può esistere alcun “partito di stato”. Questo significa che il nostro ordinamento prevede una distinzione tra l’attività politica in seno alle istituzioni (anche rappresentative), che resta soggetta a regole e vincoli di garanzia, e la dinamica politica sociale in cui invece vale il principio di piena libertà.

La preoccupazione dei costituenti era duplice: da un canto volevano evitare che i partiti politici potessero restare soggetti a qualunque forma di controllo da parte dei poteri pubblici e, per altro verso, intendevano scongiurare il rischio della costituzione di partiti-organo come il vecchio PNF (ma anche ai comitati direttivi dei partiti comunisti sovietico e cinese): partiti-organo in cui – di fatto – viene decisa la linea politica dello stato del tutto al di fuori delle procedure e garanzie previste per l’attività politica istituzionale, di guisa che le istituzioni finiscono per assumere un ruolo di mera ratifica formale. Si badi bene, tuttavia: anche ora in via di fatto avviene così (è noto che le segreterie di partito si accordano prima sulla linea di governo e di opposizione e anche sui singoli provvedimenti), ma la differenza essenziale rispetto al sistema dei partiti-organo è che comunque si tratta di attività che resta confinata nella sfera della libertà dei singoli partiti, mentre le decisioni con valore vincolante sono esclusivamente quelle che traducono gli accordi politici in atti formali delle istituzioni politiche adottati con le previste procedure.

Sempre secondo l’art. 49 Cost., la funzione costituzionale del partito – dunque la funzione che consente di definirlo come tale nel nostro ordinamento – è di concorrere a determinare la politica nazionale. Il partito ha insomma funzione di mediatore politico tra cittadini e istituzioni di rappresentanza politica, nel senso che il suo compito costituzionale è di raccogliere e organizzare il consenso popolare consentendo che si traduca in una rappresentanza parlamentare articolata in gruppi omogenei sotto il profilo ideologico e/o programmatico. Questa funzione deve però, secondo la carta fondamentale, essere esercitata dai partiti “con metodo democratico”, dunque appunto tramite la rappresentanza elettorale a suffragio universale. Il che significa che può essere considerata “partito” qualunque associazione privata tra cittadini costituita con lo scopo di presentare candidati ad elezioni sulla base di un programma politico. In sintesi, dunque, partiti per la costituzione sono organi non istituzionali di rappresentanza politica. E’ proprio il fatto di organizzare – al di fuori delle istituzioni – il consenso dei cittadini a fini politici per presentarsi alle elezioni che consente dunque di distinguere i partiti da altri movimenti – ad esempio di opinione, culturali o sindacali – che pure hanno struttura collettiva e volontaria nonché, almeno in parte, oggetto o scopo politico.

Questo significa che un qualunque ente che riunisce una pluralità di persone, che è regolato dall’autonomia privata degli aderenti e che si prefigge di presentare delle candidature ad una qualunque elezione sulla base di un programma o di una serie di principi di azione politica può “giuridicamente” essere ritenuto partito. In questo senso, si deve allora concludere che tutti i movimenti attualmente presenti in parlamento, così come quelli esclusi che avevano partecipato (o si prefiggono di partecipare) ad elezioni politiche o amministrative, possono essere considerati altrettanti partiti politici.

Il primo novecento

Smarcata la questione giuridica, resta da capire ancora in che misura – politicamente parlando – i partiti di oggi sono assimilabili a quelli della prima repubblica e se ha ancora senso parlare di destra e sinistra. Per rispondere a simili interrogativi è tuttavia necessario fare un po’ di storia – seppure soltanto a spanne – della politica nazionale degli ultimi decenni. A questa breve ricostruzione storica sarà dunque dedicata la prima parte di questo scritto per la fondazione Hume, laddove la seconda parte (che verrà pubblicata nei prossimi mesi sempre sul sito della fondazione) cercherà – proprio sulla base dei risultati della prima – di tirare le fila del ragionamento stodico in modo da fotografare il presente dei movimenti che animano la politica nazionale contemporanea, tentando una sintesi sui rispettivi orientamenti politici di fondo.

Partiamo dalla storia, dunque, e anche da piuttosto lontano, per segnalare che in epoca pre-novecentesca i partiti esercitavano più o meno tutti quanti una funzione politica che potremmo definire “discendente”, nel senso che si presentavano come interpreti e attuatori di differenti ideologie contrapposte (o, come va di moda dire oggi, di “grandi narrazioni”) che esistevano prima e al di fuori dei partiti stessi. I partiti dunque traducevano in prassi i fondamenti dei sistemi ideologici cui si ispiravano: i socialismi intendevano tradurre in prassi i principi del marxismo, mentre le destre storiche facevano la stessa cosa col liberalismo. L’ideologia cui si ispiravano i diversi partiti consentiva anche di individuare piuttosto facilmente gli interessi e le categorie che intendevano rispettivamente promuovere (o, secondo i marxisti, per converso erano gli interessi di classe che i partiti tutelavano a consentire di definirne l’ideologia): fatto sta che i partiti della sinistra storica esprimevano e tutelavano in via di principio gli interessi dei proletari (identificati grosso modo con i lavoratori dipendenti di basso reddito, che erano la grande maggioranza) mentre quelli della destra storica si occupava degli interessi della borghesia (identificata con i proprietari terrieri e con la grande borghesia proprietaria mezzi produttivi e finanziari, ma anche con la piccola borghesia di commercianti e artigiani). Si trattava di un mondo politico vagamente manicheo e, dunque, tutto sommato facile da decifrare.

La prima vera crisi del modello avviene col fascismo, che – tentando, con Gentile, di tradurre in prassi politica alcune teorie di Hegel – mirava a superare tanto la tradizionale dialettica parlamentare quanto quella classista dei marxisti, proponendosi di cercare, a livello di partito unico, la sintesi degli interessi di tutte le categorie sociali. Nell’era del fascismo maturo (parliamo dunque della fase post-squadrista, ossia di quella del partito-stato e del sistema corporativo) il PNF (ovviamente partito unico) si trasforma in una sorta di meta-istituzione dello stato, rendendo superflua la dialettica politica parlamentare fondata sul voto a maggioranza, per cercare la sintesi politica (dialettica, appunto) sul terreno del confronto “puro” di interessi delle varie categorie economiche e sociali all’interno del partito stesso, alla luce del comune e superiore interesse dello stato italiano, inteso come collettività e tradizione nazionale, di cui il PNF intendeva farsi garante.

Questo spiega la singolare situazione di un partito unico che, alla stregua di una istituzione pubblica, tutto governa, ma che è tutt’altro che ideologicamente unitario: il partito nazionale fascista, ancora in pieno ventennio, era infatti notoriamente diviso in correnti – che facevano capo a gerarchi spesso in aspro conflitto tra loro – che si ponevano come espressione di interessi e gruppi sociali differenti e a volte confliggenti (dei lavoratori, delle grandi imprese, dei diseredati del primo conflitto mondiale, dei monarchici, di una parte del mondo cattolico etc. etc..) con il capo partito, Mussolini, che per quanto dinanzi al popolo il ruolo assumesse il ruolo di decisore ultimo, all’interno del partito-stato sostanzialmente esercitava una funzione di mediazione e garanzia delle varie “anime” del partito. Solo in questo modo si spiega il fatto, piuttosto inusuale in un regime totalitario, che il dittatore sia stato destituito dal ruolo di capo del governo niente meno da una votazione a maggioranza del gran consiglio del fascismo, dunque – in sostanza – dai vertici dello stesso partito fascista di avrebbe dovuto essere il capo indiscusso.

Il dopoguerra e la prima repubblica

Finita l’era fascista, con la costituzione del ’48 si ritorna al tradizionale modello di confronto in sede parlamentare tra una pluralità di partiti “ideologicamente” ispirati a diverse visioni di mondo. La peculiarità dello scenario politico postbellico è tuttavia rappresentato dall’affermazione di un “nuovo” soggetto politico tanto inafferrabile secondo le categorie tradizionali (ossia quelle di destra e sinistra) da venire riassunta in un toponimo che non dice nulla se non, appunto, che non si tratta né di sinistra né di destra: il “centro”. La nascita di un forte “centro” nell’Italia del dopoguerra, in realtà, potrebbe stupire solo chi non ha capito cosa intendeva essere il fascismo maturo di Gentile e non è disposto a riconoscere quanto importante sia stata, per la politica italiana del primo novecento, l’incapacità di destre e sinistre storiche (divise su quasi tutto tranne che sull’anticlericalismo) di trattare adeguatamente la questione romana, invece risolta dal concordato fascista.

Il centro politico del primo dopoguerra sostituisce infatti il fascismo come forza di opposizione al socialismo massimalista e al comunismo, ma declinando questa opposizione in chiave geopolitica (dunque atlantica ed antisovietica) assai più che per vera e propria pregiudiziale ideologica, come invece aveva fatto il fascismo. Ma non solo: il concetto di “centro” nasce infatti anche come ipostasi politica del ritorno nell’agone parlamentare del cattolicesimo romano, che – non essendo all’epoca né liberale né socialista, ma essendo stato pochi anni prima contrario tanto ai liberali quanto ai socialisti – appariva tuttavia in linea, a livello di prassi, con alcuni aspetti di entrambe le parti politiche. Il centro dell’era della DC di De Gasperi, per quanto nasca come centro cattolico (quindi non fascista, non socialista e non liberale), ha insomma ben poco a che vedere con il partito popolare di Sturzo, svolgendo piuttosto una funzione di sintesi politica analoga a quella tentata dal fascismo, ma declinandola in un contesto democratico, in sostanza assorbendo (e traducendo in altrettante correnti del partito, come faceva appunto il fascismo) le idee e gli interessi che, per quanto fondate su ideologie differenti, non apparivano a livello di prassi radicalmente incompatibili con il suo baricentro ideologico, che restava cattolico. Così facendo la DC iniziava ad attrarre progressivamente nei propri programmi politici diverse idee di liberali e socialisti, ma moderandone gli aspetti più estremi. Non è infatti un caso che uno degli aggettivi che si usano più di frequente per definire le forze centriste sia quello di “moderate”: la moderazione deriva infatti proprio da un processo di sintesi per attrazione tra le idee cattoliche della DC e quelle dei partititi esistenti nell’epoca precedente al fascismo. E così, dal dopoguerra in poi, si è andati avanti per diversi decenni – anche grazie a leggi elettorali proporzionali – con un centro anticomunista a parole ma che mostrava all’occorrenza di sapere essere “moderatamente socialista” (in senso keynesiano). Un centro che ruotava intorno al pivot rappresentato dal partito – formalmente cattolico ma politicamente ecumenico – della Democrazia Cristiana, che governava il paese insieme ad alcune forze politiche minori (eredi dei vecchi partiti storici) riunite nel pentapartito, cambiando maggioranze e governi di frequente, ma a fronte di una sostanziale continuità di linea politica.

A questa continuità politica delle forze di governo, faceva da contraltare una sinistra comunista, che – nonostante godesse di ampio consenso nel paese – restava all’opposizione in parlamento (solo perché parte dell’internazionale socialista a trazione sovietica laddove l’Italia era invece membro del patto atlantico). A questa forte sinistra comunista – come compensazione per la mancata partecipazione al governo nonostante i vasti consensi elettorali – veniva tuttavia consentito di partecipare alla dinamica politica e sociale del paese – e dunque al suo governo di fatto – per mezzo di strumenti non istituzionali (o, per usare il lessico comunista, gramsciani); i movimenti cooperativi, il sindacalismo organizzato nella CIGL, l’egemonia negli ambienti culturali e del giornalismo e – infine ma molto importante – una forte influenza su una parte della magistratura e della pubblica amministrazione, specie in settori come la pubblica istruzione, l’università e gli enti locali.

Il quadro politico era completato dall’MSI, movimento che – al di là dei numeri parlamentari – non aveva reale influenza sulla politica nazionale, essendo a priori escluso, in quanto erede ideale del fascismo, da ogni possibilità di alleanza politica con altri movimenti sulla base della dottrina del cosiddetto “arco costituzionale”.

Si noti che in questo lungo periodo – a fronte di una sinistra rappresentata da un partito ideologico ancora rigorosamente “discendente”, essendo ispirato al marxismo-leninismo e di un partito ideologico di destra, analogamente “discendente” in quanto ispirato invece al fascismo repubblichino – i partiti della coalizione, a furia di assorbire, mescolare e moderare idee cristiane, socialiste e liberali, perdevano progressivamente i rispettivi riferimenti ideologici tradizionali. Addirittura il più ideologico di essi – vale a dire il partito cattolico, rappresentato dalla DC – col tempo aveva fortemente attenuato la propria linea politica confessionale (si pensi al divorzio e all’aborto, in cui la DC aveva assunto una posizione di fatto “morbida” nonostante la dura opposizione della chiesa), per diventare un partito in cui le diverse correnti esprimevano ormai solo altrettante sfumature di centrismo. Questo processo merita di essere sottolineato in quanto è molto importante per la nostra storia politica, segnando il passaggio – nel mondo politico italiano (quanto meno in quello non comunista) – dalla vecchia dinamica politica “discendente”, in cui cioè è il partito a proporre all’elettore un’idea di mondo e società, a una dinamica che potremmo definire “ascendente”, in cui il partito diventa sostanzialmente agnostico sul piano ideologico, assumendo il compito di “raccogliere” le istanze delle diverse categorie di elettori di cui intende captare il voto, per poi tradurle in provvedimenti di legge o in un indirizzo politico di governo che mirino a soddisfare quegli interessi. La fase del pentapartito segna dunque in Italia il definitivo tramonto delle ideologie non socialiste.

La repubblica keynesiana italiana e la nascita del ceto medio allargato

Questa lunghissima fase di stabilità politica (inaugurata da De Gasperi, proseguita da Andreotti per concludersi infine con la caduta di Craxi) si traduceva – con il consenso tacito anche dei comunisti che pure formalmente erano all’opposizione – in una politica economica connotata da un significativo intervento pubblico nell’economia (sia in chiave di capitalismo di stato che di tutela del lavoro dipendente, con un numero significativo di assunzioni di impiegati pubblici e con cospicui investimenti pubblici infrastrutturali e in servizi sociali di welfare). La politica del grande centro della prima repubblica era insomma chiaramente di stampo keynesiano, dunque con scopo (ed effetto) espansivo in termini di stimolo di domanda interna. L’inflazione generata dalle politiche in questione veniva compensata da un meccanismo di adeguamento automatico per legge dei salari al costo della vita (la cosiddetta “scala mobile”) e dalla debolezza della moneta nazionale (gestita dal tesoro con periodiche svalutazioni) che consentiva di finanziare l’inflazione con un export in continua espansione. Anche il sistema bancario, controllato dallo stato, contribuiva a sua volta alle politiche espansive incentivando e tutelando adeguatamente il risparmio privato e finanziando le piccole e medie imprese.

Questo esteso sostegno alla domanda interna favoriva la creazione e il consolidamento negli anni di un ampio ceto medio benestante con caratteristiche peculiari rispetto al resto dei paesi europei: si trattava di un ceto benestante “allargato”, nel senso che si estendeva dall’operaio e impiegato del settore privato, al dipendente pubblico, all’artigiano e al commerciante, al libero professionista e al piccolo imprenditore manifatturiero. A partire dagli anni sessanta e almeno fino al termine degli anni ottanta, in altre parole, l’Italia è stato un paese che ha goduto di prosperità non solo crescente in misura almeno pari al resto dell’Europa (diventando quinta potenza mondiale in termini economico), ma anche – e soprattutto – di un benessere distribuito e diffuso in misura superiore rispetto ad altri paesi europei. Questo accadeva perché proprio il “centro” politico riusciva bene ad esprimere e tutelare i differenti interessi di questa vasta “borghesia allargata”, laddove la sinistra comunista – per quanto all’opposizione – riusciva a rappresentare un contrappeso al potere economico della grande borghesia industriale, mantenendo una consistente pressione politica e sociale sul governo per il mantenimento di quelle politiche keynesiane che stavano alla base di un modello economico espansivo che, alla fine dei conti, conveniva a tutti, anche se non sempre per ragioni economiche.

L’esistenza di una ampia classe media benestante in Italia conveniva infatti al grande capitale finanziario e industriale (sia nazionale che straniero) per ragioni strategiche: il benessere della classe media allargata evitava infatti che il partito comunista – in un tempo in cui una guerra di invasione sovietica rappresentata ancora un rischio reale per l’Europa occidentale – portasse avanti in Italia una linea politica aggressiva, in chiave anti-occidentale e anti-capitalsita, come aveva fatto negli anni cinquanta. Nel primo dopoguerra i comunisti italiani era infatti non solo forti a livello parlamentare sia anche molto attivi (per non dire minacciosi) a livello sociale e, di conseguenza, era nell’interesse dei grandi capitalisti fare in modo che l’economia di mercato, grazie ai correttivi keynesiani, fosse percepita da più italiani possibile – specie nella classe medio-bassa di impegnati e lavoratori – come un sistema tale da assicurare (almeno in prospettiva futura) un adeguato benessere. Una piccola dote di “cose da perdere” anche per l’operaio e l’impiegato era insomma la migliore polizza a favore dei grandi capitalisti per scongiurare il rischio di innescare derive politiche nazionali troppo sbilanciate verso il socialismo reale. Per questo erano disposti a pagare il premio.

Ecco spiegato perché che il “sistema italiano” – in cui in sostanza il debito pubblico veniva usato in funzione espansiva, ossia per creare una diffusa ricchezza privata – fino alla caduta del muro di Berlino era stato accettato di buon grado non solo da chi ne beneficiava (il ceto medio allargato) ma anche da chi ne veniva in certa misura danneggiato in termini di ripartizione del plusvalore (dunque dai grandi capitalisti sia stranieri che di casa nostra). Questo significa però anche che il “modello Italia” (e dunque il benessere diffuso che aveva consentito) è stato in sostanza per alcuni decenni solamente “tollerato” dal capitalismo nazionale e internazionale per precise ragioni geo-politiche. E questo spiega anche perché – una volta caduta l’URSS – l’Italia, che ancora si ostinava a praticare ricette economiche espansive volte a garantire anzitutto il benessere della maggioranza degli italiani, sarebbe ben presto finita nel mirino di chi faceva girare i soldi sua nel nostro paese che a livello planetario.

Il muro di Berlino, il Britannia, tangentopoli e la nascita della seconda repubblica

Negli anni novanta del ventesimo secolo, con un effetto domino di una rapidità che ha stupito tutti quanti, cadono uno a uno i regimi dei paesi del Patto di Varsavia e, poi, l’URSS. La caduta del socialismo reale sovietico ed europeo provoca dunque sul piano geopolitico sia il venir meno della pregiudiziale atlantica contro i partiti socialisti occidentali sia l’utilità  – per la grande finanza e impresa (internazionale e nazionale) – delle tradizionali politiche economiche keynesiane volte a mantenere nel benessere il ceto medio allargato del nostro paese. Siamo all’epoca dell’ormai celebre incontro riservato tenutosi nel 1992 sul panfilo Britannia tra esponenti del modo politico e istituzionale nazionale e grandi nomi dell’impresa e finanza internazionali: incontro in cui – verosimilmente – si è proprio discusso del “futuro” del modello Italia.

Il terremoto geopolitico della caduta del socialismo reale europeo, in Italia porta come conseguenza tangentopoli, fenomeno che verosimilmente può essere attribuito al fatto che – caduta l’Unione Sovietica – le potenze atlantiche, e gli interessi a queste potenze tradizionalmente vicini, non avevano più un forte interesse strategico ad opporsi a che gli ex comunisti potessero partecipare al governo del paese. La contropartita per il disco verde all’ex PCI al governo in Italia era che la grande finanza internazionale – insieme alle grande famiglie capitaliste nazionali – avrebbe acquisito il controllo delle migliori imprese e banche italiane (specie tra le partecipate pubbliche, che non erano certo poche e per di più erano attive in settori di importanza strategica ed economica). La magistratura venne dunque lasciata libera – per usare un eufemismo – di azzerare il vecchio pentapartito (cosa facilitata dal già ricordato tradizionale allineamento a sinistra di una parte consistente della magistratura inquirente) per spianare dunque la strada del governo agli ex comunisti. Il tutto allo scopo ultimo di liquidare il modello keynesiano italiano per sostituirlo, come vedremo più avanti, con un modello economico più favorevole alle grandi imprese e al capitalismo finanziario.

Nonostante questo, la sinistra post-comunista – così come i centri di interesse che avevano voluto (o almeno appoggiato) la distruzione del vecchio sistema del pentapartito, essenzialmente onde favorire il passaggio in mani private del capitalismo di stato nazionale e la dismissione delle tradizionali politiche di welfare keynesiano care al nostro sistema – non aveva tenuto conto del fatto che la morte politica dei vecchi partiti di centro, non aveva fatto venir meno né l’esigenza di una sintesi tra gli interessi delle varie categorie che componevano la “borghesia allargata” del nostro paese né la predilezione del popolo italiano per il metodo – inaugurato e perfezionato per decenni dalla DC – della politica “ascendente”. In sostanza, tangentopoli era riuscita ad eliminare i partiti di riferimento di una parte del ceto medio allargato, ma non aveva eliminato il ceto medio, che (a differenza della grande impresa e della finanza) non era ancora disposto ad affidare il proprio voto a una sinistra che, dopo svariati decenni di allineamento sovietico, si era all’improvviso dichiarata post-comunista.

Per questo – e specie appunto perché, in quella fase, gli ex comunisti non avevano fatto sforzi eccessivi per apparire diversi dalla “vera sinistra” da cui discendevano – il testimone politico lasciato cadere dal pentapartito veniva agevolmente raccolto da Forza Italia, che – sbandierando il vessillo dell’anticomunismo – poteva assumere il ruolo di una parte della vecchia DC, vale a dire di collettore degli interessi di quella parte di “borghesia allargata” che ancora diffidava di un partito comunista che – a quell’epoca – aveva cambiato nome ma non faccia (e facce). Quello che mancava a questa “nuova DC” era però la capacità (ma forse la sensibilità politica) per capire che, se voleva tutelare davvero gli interessi dei propri elettori, doveva opporsi alla massiccia dismissione del sistema del capitalismo di stato e alla riduzione delle politiche keynesiane che era stato portato avanti in passato dalla “vera” DC. Dichiarandosi invece apertamente come movimento di ispirazione liberale, in sostanza per fornire di un credibile substrato ideologico la sua esigenza di porsi come movimento contrapposto alla sinistra, il partito di Berlusconi finiva invece per fare l’opposto, dunque non opporsi all’agenda di privatizzazioni e dismissioni pubbliche che interessava alla finanza internazionale e avviando tagli del welfare pubblico, non accorgendosi che – in quel modo – avrebbe aperto la via che avrebbe consentito qualche anno più tardi ai suoi avversari del PD di prendere il potere per iniziare a demolire scientificamente il benessere proprio di quello stesso ceto medio che invece Berlusconi affermava di voler tutelare. Berlusconi, politicamente parlando, è stato dunque un eccellente tattico ma un pessimo stratega. O forse è stato anche un eccellente stratega, a voler dar conto alle opinioni che leggono la sua discesa in campo come la conseguenza della necessità di tutelare soprattutto gli interessi delle imprese di famiglia, che la caduta della prima repubblica aveva messo in pericolo.

La convergenza al centro come conseguenza della discesa in campo di Berlusconi e di un sistema elettorale maggioritario

Al di là degli interessi che hanno mosso il Cavaliere ad entrare nell’agone politico, è un dato di fatto che l’entrata in scena della nuova “DC di destra” targata Forza Italia, movimento che sbaragliava alle elezioni la gioiosa macchina da guerra apparecchiata dai postcomunisti (macchina su cui, come si è detto, avevano puntato la finanza internazionale e i salotti buoni nazionali), sortiva l’effetto che gli ex comunisti – ormai orfani di Marx e del Cremlino e restati ancora all’opposizione – mandava definitivamente in soffitta la sua tradizionale dinamica politica discendente per adottare quella ascendente, trasformandosi da partito socialista a movimento liberal (nell’accezione che di questo termini viene data nei sistemi politici anglosassoni). Una simile mutazione a sinistra veniva causata soprattutto dalle leggi elettorali maggioritarie che – in seguito alla stagione referendaria seguita agli scandali di tangentopoli – avevano sostituito i vecchi sistemi proporzionali.

L’esigenza di creare due vaste coalizioni contrapposte per competere in modo efficace in sistemi elettorali maggioritari, aveva infatti indotto il centro destra di Berlusconi ad assorbire in Forza Italia gli ex democristiani di destra, i liberali, i socialisti craxiani e parte dei repubblicani, laddove il partito che era stato PCI assorbiva la maggioranza degli ex comunisti, i socialisti non craxiani e una consistente fetta del mondo cattolico facente capo alle vecchie correnti di sinistra – specie quella dossettiana, di cui Prodi era il rappresentante – della democrazia cristiana e tutto l’insieme di interessi e voti orbitanti attorno al sistema delle ACLI. Sempre per effetto del sistema elettorale maggioritario, i maggiori partiti dei due poli di centrodestra e centrosinistra, stringevano altrettante alleanze elettorali con le (poche) forze che all’epoca erano ancora polarizzate ideologicamente: a destra con il partito di Alleanza Nazionale (che aveva raccolto l’eredità politica conservatrice del vecchio MSI, sfrondando i cascami ancora troppo legati al fascismo) e a sinistra con Rifondazione Comunista.

Una menzione a parte merita la Lega Nord, nata e cresciuta negli anni novanta come movimento territoriale di protesta autonomista (dunque con una sua linea ideologica, ma svincolata dalla tradizionale contrapposizione tra liberalismo e socialismo) e poi finita nell’aggregazione di centro-destra, in cui tuttavia manteneva una posizione di relativa autonomia di linea politica, laddove l’altro alleato – Alleanza Nazionale – si sarebbe invece sempre più allineato sulle posizioni di centro moderato di Forza Italia, in sostanza puntando ai voti della borghesia allargata meno liberale e più conservatrice.

Questo spiega perché i principali partiti di riferimento dei poli di centrodestra e centrosinistra, ormai costituiti da altrettanti conglomerati di residui di forze politiche precedenti non molto omogenee ideologicamente, adottavano sempre più decisamente modelli di dinamica politica ascendente, in cui entrambi i poli, per conseguire il successo alle elezioni, tentavano in sostanza di recepire le istanze di alcune categorie e gruppi sociali senza in compenso elaborare o proporre ai rispettivi elettorati ideologie e narrazioni di sintesi strutturate secondo un determinata visione di mondo e di società. Dalla politica delle idee e dei dibattiti si è così passati – per effetto della crisi della prima repubblica e del conseguente passaggio a un sistema elettorale maggioritario – alla politica delle grandi aggregazioni elettorali, degli interessi delle singole categorie e dello strapotere dei sondaggi. Conseguenza ultima di questo stato di cose era che entrambi i poli politici – potendo già contare sulla fedeltà di voto degli elettori che erano ancora restati ideologicamente schierati a destra e a sinistra – si confrontavano soprattutto per ottenere il consenso dell’elettorato di centro, dunque dell’ampio ceto medio (per il momento ancora benestante), i cui interessi continuavano dunque ad essere ben rappresentati in parlamento.

Questa situazione – insieme alla tradizionale foga che da sempre contraddistingue il dibattito politico italiano – induceva le forze politiche ad adottare modelli di propaganda conflittuale tesa alla costante polarizzazione dell’elettorato moderato, in cui i partiti – per occultare il fatto che in sostanza proponevano agli elettori analoghe ricette – si sforzavano di convincere l’elettore (specie quello cosiddetto “moderato”) a non votare l’avversario. Mentre tuttavia nelle precedenti fasi politiche questo avveniva mediante un tentativo di discreditare l’idea avversaria, ora – dovendo combattere per il consenso di soggetti che guardavano ai propri interessi concreti e dunque ben difficilmente sarebbero stati convinti da discorsi ideologici – era necessario screditare l’avversario con argomenti “morali”. E così, dall’avversario politico (che meritava comunque rispetto, anche se professava idee ritenute sbagliate) si arriva al politico avversario eticamente “impresentabile”. Questo spiega perché, nella fase politica di battaglia per il centro combattuta negli anni novanta del secolo scorso che prende il nome di seconda repubblica, aveva assunto un ruolo politicamente sempre più importante l’intervento del potere giudiziario, specie inquirente.

Da tangentopoli in poi – per effetto delle riduzioni delle tradizionali guarentigie parlamentari costituzionali incautamente votate da tutti i partiti politici sull’onda emotiva suscitata dagli scandali politici – la lotta per la conquista del centro da parte della sinistra è stata infatti accompagnata da un florilegio di inchieste penali sui politici di centrodestra, tanto da portare alla situazione in cui sono state le procure – dunque funzionari pubblici non eletti – a decidere, con un arresto o con un avviso di garanzia (dunque prima di qualunque condanna definitiva) le sorti di governi e maggioranze parlamentari. Questo fenomeno era facilitato dall’ampia cassa di risonanza mediatica che – a differenza di un tempo – veniva fornita dai mass media (alle inchieste giudiziarie sui politici. Una simile pressione giudiziaria (ma soprattutto mediatica) nei confronti del polo di centrodestra, con ogni probabilità si piega con il fatto che Berlusconi – oltre a non piacere alle correnti della magistratura ideologicamente schierate a sinistra – aveva guastato i piani della sinistra (non solo politica) – e soprattutto di certi ambienti finanziari e della grande impresa – che avrebbero voluto consegnare il paese all’ex PCI, per ragioni che spiegheremo tra poco.

La fine delle grandi privatizzazioni come punto di crisi della seconda repubblica

Il sistema del bipolarismo aggregativo convergente verso il centro (che alcuni, per sottolinearne la discontinuità rispetto al passato consociativo, hanno chiamato “seconda repubblica”) era dunque nato dalle ceneri della guerra fredda per impulso della grande impresa e finanza nazionale e internazionale, ma – per effetto dell’imprevista discesa in campo di Berlusconi – il progetto originario (che – come vedremo più avanti – era quello di normalizzare l’Italia al contesto di una “nuova” Unione Europea governata da un centro-sinistra che, in luogo delle tradizionali ricette keynesiane, avrebbe dovuto attuare dottrine neo-mercantiliste) era però andato a monte, trasformandosi in due decenni di alternanza al governo dei poli di centro-sinistra e di centro-destra, che però – essendo accomunati da una dinamica politica ascendente e dovendo contendersi soprattutto il voto dell’elettorato di centro – portavano avanti agende politiche centriste ben poco diverse tra loro e – soprattutto – non erano in grado di distaccarsi del tutto (o quanto meno nella misura in cui avrebbero desiderato la finanza internazionale e la grande borghesia italiana) dalle politiche keynesiane del passato.

La seconda repubblica restava tuttavia ancora conveniente per i centri di interesse che avevano promosso la caduta del vecchio sistema della prima, in quanto entrambi gli schieramenti politici – da Berlusconi a D’Alema a Prodi – si erano mostrati tutti quanti assai disponibili tanto alla progressiva dismissione del capitalismo di stato nazionale quanto all’indebolimento – mediante tagli di alcuni comparti del welfare pubblico e le prime timide riforme del mercato del lavoro – della tradizionale politica economica di stimolo espansivo e supporto alla domanda interna. Se guardiamo infatti ai conti pubblici nazionali di quegli anni vediamo abbastanza chiaramente che l’avanzo primario italiano dal 1990 ad oggi è quasi sempre stato, salvo rarissime eccezioni, in terreno ampiamente positivo (questo significa che la spesa pubblica corrente e per investimenti si è mantenuta al di sotto alle entrate pubbliche da tassazione). Il debito pubblico è dunque aumentato in questi stessi anni per effetto – non della spesa pubblica, che invece veniva ridotta – bensì a causa dell’onere degli interessi sul debito pregresso che doveva ancora essere pagato a tassi altissimi per effetto delle errate previsioni da parte del tesoro negli anni precedenti. In particolare il tesoro si era indebitato a lunghissimo termine a tassi alti (oltretutto adottando strumenti finanziari rischiosi per l’emittente e assai favorevoli per i grandi operatori finanziari privati che acquistavano gli strumenti), non prevedendo l’abbassamento ulteriore dei tassi sui titoli pubblici, con la conseguenza di trovarsi negli anni successivi a dover finanziare il rinnovo di titoli pubblici con titoli che rendevano assai meno rispetto a quelli che dovevano essere rinnovati.

Questo consente intanto di confutare la narrazione, assai comune a livello di informazione mainstream, secondo cui gli italiani, ancora verso la fine del secondo millennio, avrebbero vissuto al di sopra delle proprie possibilità per effetto della spesa pubblica, giacché – da tangentopoli in poi, dunque già all’epoca di Berlusconi e Prodi e ben prima dell’inizio del rigore montiano – gli italiani avevano in realtà già affrontato riduzioni di spesa pubblica tali da consentire una serie quasi ininterrotta di significativi avanzi primari di bilancio, non riuscendo a ridurre il deficit e il debito per ragioni essenzialmente legate alla dinamica internazionale dei tassi di interesse sui titoli del debito sovrano (che in quell’epoca stavano scendendo sempre di più sia per effetto dell’adesione all’euro sia di una politica monetaria che – a livello globale – appariva sempre più imperniata sul controllo dell’inflazione piuttosto che non sull’espansione economica).

La riduzione delle politiche espansive e la stagione delle privatizzazioni non si erano peraltro tradotte in un immediato e sensibile calo della domanda interna nazionale (e dunque del benessere complessivo), essenzialmente per due ragioni: per un verso gli italiani avevano accumulato negli anni precedenti un grande risparmio privato e laute pensioni cui potevano attingere per compensare la riduzione del welfare pubblico e, per altro verso, la già ricordata discesa progressiva dei tassi di interesse a livello globale – che aveva interessato non solo il debito pubblico ma anche l’attività creditizia – aveva favorito, in un primo tempo dopo l’adesione all’Euro, un più facile ricorso al credito per le imprese e per i consumatori, specie per acquistare beni importati dall’estero (che avevano prezzi inferiori a quelli nazionali). Il ceto medio allargato, nella seconda repubblica, non percepiva dunque ancora le conseguenze del cambio di paradigma avviato con la seconda repubblica – di guisa che la domanda interna si manteneva a livelli ancora capaci di sostenere bene il tessuto delle piccole e medie imprese – solo perché gli italiani, per compensare la riduzione del welfare, avevano iniziato a utilizzare i propri risparmi e le rendite pensionistiche nonché a indebitarsi (a basso costo) per acquistare beni di importazione (a basso costo).

La cosiddetta seconda repubblica va dunque avanti secondo questo schema per un paio di decenni fino a quando gli stessi ambienti e interessi che avevano decretato il crollo della prima (e che, da tangentopoli in poi, avevano ampiamente stimolato la dismissione del capitalismo di stato nazionale e l’indebolimento delle politiche keynesiane tanto care alla vecchia DC) decidevano che – essendoci ancora poco da privatizzare e da acquistare – era arrivato infine il momento di “normalizzare” anche l’Italia al modello economico e sociale (che vedremo essere quello tedesco) che più si conformava ai loro specifici interessi. Le ragioni di un simile attentato al tenore di vita della maggioranza dei cittadini del nostro paese (perché di questo, come vedremo, si è trattato e ancor oggi si tratta) meritano tuttavia un apposito approfondimento, che per esigenze di spazio dobbiamo rinviare alla seconda parte di questo scritto, che dovrebbe essere pubblicata nelle prossime settimane sul sito della fondazione Hume e sarà dedicata, appunto, ad una approfondita analisi delle ragioni della crisi del modello del bipolarismo convergente al centro che rappresenta la quidditas della seconda repubblica.