La “sperimentalità” dei vaccini contro il covid-19: un punto di vista giuridico.

L’articolo si propone di fornire un semplice contributo informato al pubblico dibattito senza alcuna pretesa di rappresentare una parere professionale sul tema.

In questi ultimi tempi si sono moltiplicati i dibattiti sul fatto che i vaccini (o, per meglio dire, le terapie) contro il covid siano o meno farmaci sperimentali. Nell’agone dialettico si sono cimentati in tanti e anche un discreto numero di giuristi, in particolare esperti di diritto costituzionale. Il tema della definizione di “sperimentalità” di una terapia – ad esempio quando dalla qualificazione si vogliono trarre conseguenze in tema di legittimità di eventuali obblighi vaccinali (o del green pass) – è infatti questione giuridica prima che politica o medica. Questo significa che – per discuterne – occorre prima di tutto evitare di cadere vittima dell’idea (che spesso il profano del diritto condivide) per cui, se la legge parla di “esperimento” o di farmaco “sperimentale”, il contenuto dei termini in questione potrebbe essere individuato semplicemente utilizzando o il vocabolario comune o (per i profani più attenti) il glossario medico. La realtà è invece che le norme sono strumenti che definiscono degli istituti giuridici che hanno uno scopo, e che – di conseguenza – la loro interpretazione non può che seguire regole che rispettino la funzione dell’istituto che di volta in volta le norme da interpretare concorrono a definire. Funzione che, a sua volta, deve essere desunta da quelle stesse norme, nel rispetto del principio di non contraddizione logica, in forza del quale norme che contengono definizioni di tenore letterale analogo non dovrebbero avere – se non definiscono istituti che hanno scopi radicalmente differenti – un contenuto diverso.

Tutto questo per dire che il tema merita di essere trattato, anche quando viene posto in termini di rispetto del diritto costituzionale e/o internazionale, tenendo conto del diritto regolatorio farmaceutico, ossia della parte (del diritto amministrativo e dell’Unione Europea) che disciplina – appunto – la sperimentazione di farmaci e trattamenti ad uso umano. E dunque – al fine di evitare antinomie, ossia contrasti tra definizioni uguali contenute in norme differenti – l’individuazione di quali farmaci possano considerarsi sperimentali (e di quali studi clinici possono essere considerati attività sperimentali), anche se condotta per verificare la possibilità di applicare principi e norme costituzionali o internazionali, non può prescindere da un esame delle norme (nazionali e di fonte UE) che disciplinano l’attività di sperimentazione dei farmaci al fine di garantire la sicurezza della loro somministrazione al pubblico. Con questo scritto intendo dunque dare un contributo al dibattito, ben conscio del fatto che ogni giurista si limita a indicare interpretazioni sulla base della sua conoscenza delle norme e dei principi ermeneutici, mentre sono altri soggetti – in primo luogo i giudici, ma anche i decisori politici – che hanno il non facile compito di decidere come stanno le cose, traendone le dovute conseguenze a seconda della sede.

Nel rispetto delle premesse indicate, dunque, possiamo porci la domanda: i farmaci autorizzati in via condizionata (e, nello specifico, i cosiddetti vaccini anti-covid) possono essere considerati “farmaci sperimentali” e/o attualmente sottoposti ad attività di studio clinico definibili come “sperimentazione”? Per rispondere a queste domande possiamo affrontare il tema in tre modi diversi.

Il primo – più semplice, ma forse anche un po’ semplicistico (e che dunque trova ampi consensi anche tra i non giuristi e tra i giuristi che hanno meno familiarità con le complicazioni del diritto regolatori farmaceutico) – è quello per cui, se un farmaco viene autorizzato per il commercio dall’ente regolatore, allora avrebbe per definizione cessato la fase di sperimentazione. Si tratta di una posizione che (certamente condivisibile in relazione alle AIC ordinarie) per le autorizzazioni in deroga, come quella concessa per ora ai cosiddetti vaccini anti-covid, richiede di superare almeno uno scolio.

E’ infatti vero che anche i farmaci autorizzati in deroga hanno superato una parte degli stessi test clinici previsti per quelli ordinari (quelli delle fasi uno, due e tre), ma altrettanto vero è – come vedremo quando esamineremo il contenuto di due autorizzazioni condizionate relative a vaccini anti-covid – che alcuni studi clinici sugli effetti del farmaco devono essere comunque condotti in epoca successiva al momento dell’autorizzazione condizionata, al fine di conseguire l’autorizzazione definitiva ordinaria (autorizzazione ordinaria che – si badi bene, perché il punto è importante – ancorché concessa a posteriori resta comunque necessaria per la prosecuzione della legittima vendita del farmaco).

Proprio muovendo da questa ultima considerazione, infatti, si potrebbe sostenere che – essendo come vedremo alcuni di questi test aggiuntivi riconducibili al genus attività di sperimentazione clinica ed essendo questi test in corso fino alla concessione della autorizzazione definitiva – i vaccini autorizzati in deroga, fino al momento della concessione dell’AIC ordinaria, potrebbero essere classificabili come farmaci sperimentali, appunto per il fatto che la verifica della loro sicurezza (quella ordinariamente richiesta per la somministrazione al pubblico) resta subordinata alla svolgimento di ulteriori verifiche e test sperimentali. Questo significa che a ben vedere – anche usando il criterio “semplice” che piace ai medici – resta possibile sostenere che i vaccini, per quanto già autorizzati (ma solo in via condizionata), siano ancora sperimentali.

Per risolvere il dubbio occorre dunque passare al secondo approccio al tema della “sperimentalità” dei vaccini; quello più attento alla coerenza del sistema nel suo complesso e che dunque passa per l’individuazione delle definizioni di “sperimentazione” e di “farmaco sperimentale” contenute nel diritto farmaceutico.

La prima fonte da considerare è rappresentata dal regolamento n. 536/2014 del Parlamento e del Consiglio UE sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano, promulgato il 16 aprile 2014 [il testo è accessibile al seguente link]. La sua importanza deriva dal fatto che si tratta del regolamento che deve sostituire (abrogandola) la direttiva n. 2001/20/CE concernente il ravvicinamento del diritto degli Stati membri in tema di applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione della sperimentazione clinica di medicinali ad uso umano. Si noti che il Regolamento in questione, per quanto adottato nel 2014, sarà in realtà applicabile solo dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’UE dell’avviso con il quale la Commissione europea avrà confermato la piena funzionalità del cosiddetto CTIS (Clinical Trial Information System). Questo significa che – essendo l’operatività del sistema CTIS attualmente prevista per dicembre 2021 – è assai probabile che il Regolamento possa iniziare ad applicarsi a decorrere da quella data, dunque da fine anno. Al di là della data di effettiva entrata in vigore, il regolamento riveste già ora un ruolo importante nel sistema del diritto farmaceutico dell’UE, in quanto destinato a disciplinare organicamente – con norme di applicazione uniforme che prevarranno, abrogandone le parti incompatibili, sulle singole discipline nazionali – la materia di cui stiamo parlando.

Prima di verificare il contenuto del regolamento in questione, può essere il caso di esaminare la direttiva che quel regolamento va a sostituire [accessibile al seguente link], tenendo conto del fatto che – per quanto non direttamente applicabile negli Stati Membri – anche questo testo normativo può fornire indicazioni sull’interpretazione delle rispettive normative nazionali di attuazione, così come anche sul senso dei termini utilizzati nel regolamento.

Ebbene: l’art. 2 della direttiva – intitolato “definizioni” – alla lettera d) definisce come “medicinale in fase di sperimentazione” ogni “principio attivo in forma farmaceutica o placebo sottoposto a sperimentazione oppure utilizzato come riferimento nel corso di una sperimentazione clinica, compresi i prodotti che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione se utilizzati o preparati (secondo formula magistrale o confezionati) in maniera diversa da quella autorizzata, o utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata” (le enfasi sono aggiunte, n.d.r.). Si noti in particolare la frase finale, secondo cui va considerato in fase di sperimentazione anche un farmaco che, per quanto già autorizzato al commercio, viene usato al fine di ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata. Il che – come vedremo meglio infra – accade proprio in relazione ai farmaci autorizzati in deroga, come i cosiddetti vaccini anti-covid.

A sua volta, l’art. 2 lettera a) della direttiva, definisce la “sperimentazione clinica”, come segue: “qualsiasi indagine effettuata su soggetti umani volta a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici e/o gli altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali in fase di sperimentazione e/o a individuare qualsiasi tipo di reazione avversa nei confronti di uno o più medicinali in fase di sperimentazione, e/o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione al fine di accertarne l’innocuità e/o l’efficacia”. Secondo la direttiva, si definisce come sperimentazione qualunque indagine – condotta su esseri umani – che mira a valutare gli effetti o la sicurezza di un “medicinale in fase di sperimentazione”. E deve considerarsi in fase di sperimentazione, come abbiamo visto, ogni medicinale – anche se già autorizzato per la commercializzazione nell’UE – purché usato, tra le altre cose, per raccogliere informazioni sugli effetti dello stesso medicinale. La definizione pecca di una certa circolarità, ma fa ritenere che se un farmaco è ancora soggetto a esami clinici condotti su persone, anche se già autorizzato, deve considerarsi un farmaco sperimentale. Per la direttiva, insomma, parrebbe che a fare la differenza – per poter considerare sperimentale un farmaco – sia il fatto che quel farmaco (anche dopo aver ottenuto una autorizzazione condizionata) è ancora soggetto a “indagini” cliniche relative ai suoi effetti.

Ma procediamo ora con l’esame della normativa nazionale di attuazione della suddetta direttiva, che è rappresentata dal decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211 [accessibile nel testo ufficiale qui].

All’art. 2 (definizioni) del decreto – come quasi sempre avviene – troviamo delle definizioni assai simili a quelle della direttiva. E dunque: alla lettera d) leggiamo che per “medicinale  sperimentale” si intende “una  forma  farmaceutica  di  un principio   attivo   o   di   un  placebo  saggiato  come  medicinale sperimentale o come controllo in una sperimentazione clinica compresi i prodotti   che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione ma  che  sono  utilizzati  o  preparati (secondo formula  magistrale  o  confezionati) in forme diverse da quella autorizzata, o quando sono utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata”. Alla lettera a) leggiamo invece che – per “sperimentazione   clinica” – dobbiamo intendere “qualsiasi studio  sull’uomo finalizzato   a   scoprire   o   verificare   gli   effetti  clinici, farmacologici  e/o  altri  effetti  farmacodinamici  di  uno  o  più  medicinali sperimentali, e/o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno a più medicinali sperimentali, e/o a studiarne l’assorbimento,  la  distribuzione,  il metabolismo e l’eliminazione, con  l’obiettivo di accertarne la sicurezza e/o l’efficacia”. La legge italiana pare dunque discostarsi dalla direttiva, prevedendo una nozione più ampia di sperimentazione: la norma nazionale parla infatti di ogni “studio” (non di ogni “indagine”, come la direttiva), facendo supporre che – quanto meno nel nostro ordinamento nazionale – possano rientrare nel concetto di attività di sperimentazione anche le procedure di semplice verifica dei dati raccolti senza protocolli aggiuntivi (ad esempio in sede di farmacovigilanza passiva), ancorché si tratti di attività che non implichino la conduzione di esami fisici aggiuntivi sui soggetti che ricevono (o hanno ricevuto) il farmaco. La differenza è importante e merita di essere sottolineata.

Assume tuttavia rilevanza ai fini della nostra indagine anche il decreto legislativo del 6 novembre 2007, n. 200 [accessibile al link che è uno dei decreti attuativi della diversa direttiva 2005/28/CE [il cui testo ufficiale è accessibile al seguente link]. Si tratta di una seconda direttiva che indica principi e linee guida dettagliate per la pratica clinica relativa ai medicinali in fase di sperimentazione a uso umano, nonché dei requisiti per l’autorizzazione alla fabbricazione o importazione di tali medicinali. E’ una direttiva che – di per sé – non ha un contenuto particolarmente interessante, mentre il relativo decreto attuativo (che analizzeremo qui appresso) contiene invece definizioni rilevanti per la nostra indagine.

La prima di esse è quella di “medicinale sperimentale” (art. 1 lettera h), definito come “una forma farmaceutica di un principio attivo o di un placebo saggiato come medicinale sperimentale o come controllo in una sperimentazione clinica, compresi i prodotti che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione, ma che sono utilizzati o preparati (secondo formula magistrale o confezionati) in forme diverse da quella autorizzata, o quando sono utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata o comunque utilizzati come controllo”. Qui per sperimentazione si intende ogni “uso” del farmaco – concetto a ben vedere ancora più ampio rispetto a quello di “studio” che abbiamo visto in precedenza – finalizzato a raccogliere dati sugli effetti del farmaco.

Seguono – in particolare alle lettere o) e p) dell’art. 1 del Decreto – le definizioni di “sperimentazione clinica” e – molto interessante ai nostri fini – quella di “sperimentazione non interventistica”.

Per “sperimentazione clinica” si intende infatti “qualsiasi studio sull’essere umano finalizzato a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici o altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali sperimentali, o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno o più medicinali sperimentali, o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione, con l’obiettivo di accertarne la sicurezza o l’efficacia, nonchè altri elementi di carattere scientifico e non”. Anche qui – dunque – il nostro legislatore include nella stessa categoria di sperimentazione clinica anche il semplice “studio”, dunque confermando quanto risultava già dall’altro decreto legislativo, ossia che per sperimentazione clinica – quanto meno secondo il nostro diritto nazionale – si può intendere anche una semplice verifica di dati senza condurre analisi cliniche (dunque attività fisica) su chi riceve il farmaco.

Che per il nostro legislatore la nozione di “sperimentazione” si estenda anche a semplici “studi” di dati clinici – dunque senza che sia necessario condurre indagini o esami fisici su chi riceve il farmaco – trova conferma nella previsione della sottospecie di sperimentazione – definita “sperimentazione non interventistica” – che viene descritta come “uno studio nel quale i medicinali sono prescritti secondo le indicazioni dell’autorizzazione all’immissione in commercio ove l’assegnazione del paziente ad una determinata strategia terapeutica non è decisa in anticipo da un protocollo di sperimentazione, rientra nella normale pratica clinica e la decisione di prescrivere il medicinale è del tutto indipendente da quella di includere il paziente nello studio, e nella quale ai pazienti non si applica nessuna procedura supplementare di diagnosi o monitoraggio”. Anche questa forma di studio (senza indagine medica e senza definizione di protocolli aggiuntivi) viene infatti definita “sperimentazione” dalla normativa nazionale italiana.

Pare insomma che il nostro diritto regolatorio nazionale adotti una nozione di sperimentazione di tipo formalistico, nel senso che – per aversi sperimentazione – non è necessario lo svolgimento di esami clinici sui soggetti che assumono il farmaco, ma sarebbe sufficiente anche la semplice raccolta e analisi di dati relativi agli effetti dei farmaci, senza la predisposizione di protocolli specifici all’uopo. Questa impostazione si spiega peraltro con il fatto che il legislatore nazionale ha inteso adottare per il settore farmaceutico un concetto di massima precauzione, considerando cioè ancora in fase sperimentale qualunque farmaco che sia ancora soggetto ad una qualunque forma di verifica degli effetti precedente alla sua piena commerciabilità con una autorizzazione ordinaria.

Questa considerazione è importante in quanto, come vedremo meglio infra, la somministrazione al pubblico di vaccini autorizzati in via condizionata resta sottoposta a farmacovigilanza e raccolta dati aggiuntivi anche in vista della formazione del dossier finale per la concessione dell’AIC definitiva: attività che, di conseguenza, potrebbe essere ritenuta una ipotesi di “sperimentazione non interventistica”. E tanto potrebbe essere a sua volta sufficiente per considerare come “medicinale sperimentale” il farmaco oggetto di autorizzazione  condizionata, in quanto di farmaco ancora oggetto a studi volti a ottenere ulteriori informazioni di natura clinica (ad esempio effetti avversi) sulla forma già autorizzata al commercio del farmaco stesso, in vista della sua autorizzazione ordinaria. Come vedremo tra poco, peraltro, i vaccini anti-covid in realtà – prima della concessione della autorizzazione definitiva – sono soggetti ad almeno un test clinico vero e proprio (uno studio randomizzato contro placebo, in cieco per l’osservatore), dunque a procedure che paiono rientrare nel concetto di sperimentazione con esame clinico propriamente detto.

Esaurito l’esame del nostro diritto nazionale – ed esaminata la direttiva che verrà sostituita dal regolamento – passiamo finalmente al contenuto del regolamento che, come si è anticipato, dovrebbe entrare in vigore nel prossimo futuro per disciplinare in modo uniforme ed organico la materia.

L’art. 2.2.3 del regolamento definisce come “sperimentazione clinica a basso livello di intervento” l’attività che segue: “una sperimentazione clinica che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) i medicinali sperimentali, ad esclusione dei placebo, sono autorizzati; b) in base al protocollo della sperimentazione clinica, i) i medicinali sperimentali sono utilizzati in conformità alle condizioni dell’autorizzazione all’immissione in commercio; o ii) l’impiego di medicinali sperimentali è basato su elementi di evidenza scientifica e supportato da pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza e l’efficacia di tali medicinali sperimentali in uno qualsiasi degli Stati membri interessati; e c) le procedure diagnostiche o di monitoraggio aggiuntive pongono solo rischi o oneri aggiuntivi minimi per la sicurezza dei soggetti rispetto alla normale pratica clinica in qualsiasi Stato membro interessato”.

Qui il punto cui fare attenzione è la lettera c): come si è già avuto modo di accennare, dopo la concessione dell’autorizzazione condizionata, le case farmaceutiche – insieme al SSN – stanno proseguendo nella raccolta di dati clinici sui vaccini, ad esempio sugli effetti avversi, per completare il fascicolo sugli effetti a medio periodo del farmaco che consentirà la concessione dell’autorizzazione ordinaria. Orbene: se la procedura di raccolta dati implica procedure diverse (e ulteriori) rispetto a quelle di normale farmacovigilanza per i farmaci autorizzati ordinariamente, è legittimo sostenere che vi sia “monitoraggio aggiuntivo” rispetto alla normale pratica clinica dello stato membro. E se vi è un monitoraggio aggiuntivo, ricadremmo allora nell’ambito della definizione di sperimentazione a basso livello di intervento secondo il regolamento e – di conseguenza – i vaccini autorizzati in via condizionata sarebbero annoverabili tra i farmaci sperimentali.

A tale riguardo può essere allora il caso di segnalare che il regolamento N. 507/2006 della Commissione del 29 marzo 2006 sulle autorizzazioni in deroga dei farmaci dispone – all’art. 5 – che “Il titolare di un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata ha l’obbligo specifico di completare gli studi in corso o di condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è positivo e di fornire i dati supplementari di cui all’articolo 4, paragrafo 1. Possono essere imposti obblighi specifici anche in relazione alla raccolta di dati di farmacovigilanza. 2. Gli obblighi specifici di cui al paragrafo 1 e il calendario per soddisfarli sono chiaramente precisati nell’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata. 3. Gli obblighi specifici e il calendario per soddisfarli sono resi pubblici dall’Agenzia”. Questo significa, in sostanza – che per capire se i cosiddetti vaccini covid sono ancora in corso di sperimentazione (a basso livello di intervento) secondo il regolamento UE n. 536/2014 – occorre capire se, nel concedere le autorizzazioni condizionate per questi vaccini, sono stati previsti dall’ente regolatore specifici obblighi di monitoraggio: se la risposta è sì, sono farmaci sperimentali, altrimenti no.

Assume dunque rilevanza in tal senso quello che si legge in questa dichiarazione ufficiale pubblicata dalla Commissione Europea, in particolare nelle frasi che seguono: “Inoltre, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA), in stretta collaborazione con la Commissione, gli Stati membri e i partner europei e internazionali, stanno istituendo attività rafforzate di monitoraggio per l’efficacia, la copertura, la sicurezza e l’impatto dei vaccini, compresi studi specifici per i vaccini anti-covid-19. Questi studi di monitoraggio supplementari e indipendenti vengono proposti per raccogliere e analizzare i dati sulla vaccinazione forniti dalle autorità pubbliche di tutti gli Stati membri sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini. Gli studi contribuiranno a definire la sicurezza e l’efficacia del vaccino durante il suo ciclo di vita. Questi dati supplementari possono essere utilizzati anche per integrare eventuali azioni normative, ad esempio modifiche delle condizioni d’uso, avvertenze e relative modifiche delle informazioni sul prodotto per gli operatori sanitari e i pazienti” (n.d.r. le enfasi sono aggiunte). Insomma, pare proprio che – quanto meno stando a sentire la stessa Commissione UE – per i vaccini di cui stiamo parlano sono state previste procedure di monitoraggio aggiuntive rispetto a quelle per altri farmaci (e, per quanto si legge, anche rispetto a quella per altri vaccini) di guisa che – fino alla concessione dell’AIC ordinaria – i vaccini autorizzati in via condizionata potrebbero ben considerarsi come farmaci sottoposti a sperimentazione clinica a basso livello di intervento, ai sensi del regolamento 536/2014.

L’impressione resta confermata quando scendiamo nel dettaglio dei singoli casi ed esaminiamo le autorizzazioni condizionate concesse sui vaccini. Se prendiamo ad esempio l’AIC di Moderna [in italiano], leggiamo – inter alia – quanto segue: “OBBLIGO SPECIFICO DI COMPLETARE LE ATTIVITÀ POST-AUTORIZZATIVE PER L’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO SUBORDINATA A CONDIZIONI. La presente autorizzazione all’immissione in commercio è subordinata a condizioni; pertanto ai sensi dell’articolo 14 a del Regolamento 726/2004/CE e successive modifiche, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve completare, entro la tempistica stabilita, le seguenti attività: Descrizione Tempistica Al fine di completare la caratterizzazione del principio attivo e dei processi di produzione del prodotto finito, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire dati aggiuntivi. Gennaio 2021 Al fine di confermare la coerenza del principio attivo e del processo di produzione del prodotto finito (scale iniziali e finali), il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire dati aggiuntivi di comparabilità e validazione. Aprile 2021 I rapporti ad interim saranno forniti su base mensile prima di tale data. Al fine di garantire una qualità costante del prodotto, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire informazioni aggiuntive sulla stabilità del principio attivo e del prodotto finito, ed esaminare il principio attivo e le specifiche del prodotto finito a seguito di ulteriori esperienze di produzione. Giugno 2021 Al fine di confermare l’efficacia e la sicurezza di COVID-19 Vaccine Moderna, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve presentare la Relazione finale dello studio clinico per lo studio mRNA- 1273-P301 randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore Dicembre 2022”. Si noti che lo stesso tipo di sperimentazione aggiuntiva (dunque anche quella che consiste in uno studio clinico randomizzato verso placebo in cieco) è prevista per il vaccino Pfizer.

L’esame delle specifiche AIC conferma che una serie di specifiche attività aggiuntive di monitoraggio degli effetti dei vaccini – rispetto a quanto accade con le autorizzazioni ordinarie – sono state previste dall’ente regolatore a carico dei produttori in sede di concessione dell’autorizzazione condizionata. E risulta anche – in particolare – che almeno una di queste attività di verifica aggiuntiva – consistendo in uno “studio clinico randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore” – presenti tutti i crismi per essere considerata una forma di sperimentazione clinica propriamente detta. Le considerazioni che precedono portano dunque a concludere che – sulla base di una interpretazione del concetto di farmaco sperimentale che voglia restare coerente col diritto regolatorio farmaceutico applicabile nel nostro paese (sia quello di fonte nazionale attualmente in vigore, sia quello dell’UE attualmente in vigore e sia infine quello di prossima entrata in vigore) – i cosiddetti vaccini contro il covid, sino all’avvenuta concessione dell’AIC definitiva, sono farmaci soggetti ad attività di sperimentazione sia clinica sia clinica a basso livello di intervento. Il che consentirebbe di classificarli come farmaci sperimentali.

Ma l’esame non può esaurirsi qui, giacché – come si diceva – il diritto si deve interpreta a seconda della funzione delle norme che si applicano. E nel caso dei vaccini anti-covid, in realtà, il dibattito sulla “sperimentalità” sorge essenzialmente per verificare l’applicabilità di alcuni principi e norme – costituzionali e di diritto internazionale – che prevedono dei limiti per i pubblici poteri di imporre obblighi di somministrazione di farmaci sperimentali.

Per completare l’indagine, dunque, occorre capire se la nozione di farmaco sperimentale desumibile dall’esame delle fonti di diritto regolatorio farmaceutico consente di soddisfare la ratio delle norme che prevedono quelle forme di cautela per la somministrazione di farmaci sperimentali. E qui occorre partire dalla considerazione che tanto le norme internazionali anzidette quanto quelle, di diritto farmaceutico, che disciplinano l’attività di sperimentazione  – sono accomunate dal fatto di ispirarsi al principio di piena volontarietà del consenso, in forza del quale – chi assume questa particolare categoria di farmaci – deve aver maturato la propria decisione in piena libertà, ossia – per un verso – dopo aver ottenuto una corretta, veritiera e adeguata informazione sulle possibili conseguenze per la sua salute e – per altro verso – senza aver subito coartazioni o pressioni di alcun genere per indurlo ad assumerlo. Si noti infatti che alcune delle normative di diritto regolatorio UE e nazionale citate in precedenza contengono disposizioni relative alla necessità del consenso informato di chi è coinvolto nell’attività di sperimentazione dei farmaci.

Questo consente di sostenere che tutte queste normative – tanto quelle regolatorie quanto quelle, di natura costituzionale o di fonte internazionale, che pongono limiti alla potestà degli stati di imporre la somministrazione di farmaci sperimentali – sono tutte quante ispirate a un principio di massima precauzione, mirando in ultima analisi a tutelare i cittadini, ma anche la salute pubblica, contro i rischi generati dal fatto che un farmaco ancora in fase di sperimentazione presenta normalmente dei margini di rischio per la salute superiori rispetto a quelli relativi a farmaci già completamente sperimentati, di guisa che nessuno deve essere in qualche modo costretto o indotto a esporsi a quel rischio se non in piena ed assoluta libertà e dopo una corretta informazione sulle possibili conseguenza dell’assunzione. Se però questa è la prospettiva comune che ispira tutte le norme di cui stiamo parlando (sia quelle di fonte internazionale e/o costituzionali, sia quelle contenute in norme di diritto regolatorio) è allora possibile considerare come farmaco sperimentale, ai fini dell’applicazione di tutte queste norme (dunque anche di quelle non regolatorie), ogni sostanza che contiene un principio attivo che – secondo l’ordinamento applicabile nello stato di riferimento – non si può considerare abbastanza sicuro da poter essere messo in commercio su larga scala senza la necessità di condurre ulteriori studi.

Se le cose stanno in questi termini, la “sperimentalità” di un farmaco autorizzato in via condizionata negli stati dell’UE (e in Italia) potrebbe allora essere fatta discendere dalla constatazione che, nonostante la concessione dell’autorizzazione condizionata, questi farmaci devono comunque ottenere – sulla base di studi degli effetti a medio periodo e di sperimentazioni cliniche aggiuntive (che, come si è visto poc’anzi, nel caso di due vaccini contro il covid includono uno “studio clinico randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore”) – una successiva autorizzazione definitiva, che ha lo specifico scopo di confermare la sicurezza del farmaco stesso, certificata dall’AIC definitiva.

E qui il diavolo, come spesso accade con le questioni legali, sta nei dettagli: i vaccini anti-covid hanno infatti superato anche la cosiddetta fase 3 della sperimentazione clinica, dunque – per capire si tratta di farmaci ritenuti dal legislatore sicuri “come” gli altri farmaci, vale a dire quelli autorizzati in via ordinaria – occorrerebbe condurre una analisi differenziale tra gli studi richiesti alle case farmaceutiche per la concessione dell’autorizzazione definitiva e quelli solitamente richiesti per i farmaci a valle della concessione di una autorizzazione ordinaria. Se vi è una significativa differenza, nel senso che per le autorizzazioni condizionate in genere (o per quelle sui vaccini in particolare) vengono (o sono state specificamente) richieste verifiche aggiuntive rispetto a quelle per i farmaci ordinari, questo sarebbe un indizio nel senso della minore sicurezza del farmaco autorizzato in via condizionata rispetto al farmaco autorizzato in via ordinaria (dunque del fatto che il primo sia un farmaco sperimentale ai fini delle norme che vietano obblighi di somministrazione senza il consenso del soggetto che riceve il farmaco). Se invece gli studi post-autorizzazione che sono stati richiesti per i vaccini anti-covid sono sostanzialmente i medesimi rispetto a quelli normalmente richiesti per i farmaci autorizzati in via ordinaria, se ne dovrebbe concludere che la sicurezza di questi farmaci sia analoga rispetto ai farmaci autorizzati in via ordinaria (e che dunque i vaccini contro il covid non sono sperimentali ai fini dell’applicazione delle norme di cui stiamo discutendo).

Nel contesto di un’analisi che voglia tuttavia essere davvero “sostanziale” non possono tuttavia essere trascurati due argomenti. Il primo è che lo stesso fatto che esista una autorizzazione condizionata (anticipata) concessa solo in situazioni particolari, più rapida e diversa rispetto a quella definitiva, potrebbe confermare che – in astratto – si tratta di una autorizzazione che (proprio perché più rapida) garantisce un margine minore di sicurezza rispetto ad un farmaco autorizzato in via ordinaria. In sostanza: un farmaco autorizzato in via condizionata dovrebbe in certa misura “presumersi” meno sicuro rispetto a quelli autorizzati in via ordinaria. Che dunque i farmaci autorizzati in deroga siano in certa misura più rischiosi di quelli autorizzati in via ordinaria è difficile da negare (altrimenti non avrebbe senso concedere autorizzazioni condizionate), restando semmai da capire in quale misura essi siano più pericolosi (e – soprattutto – se questa misura può essere ritenuta a sua volta tale da far scattare i divieti di coercizione alla loro sperimentazione).

A tale ultimo riguardo, potrebbe allora assumere rilevanza il fatto che le case farmaceutiche abbiano preteso dagli Stati un manleva che li mettesse al riparo da pretese relative ai danni da effetti avversi (e che gli Stati l’hanno concessa). Per altro verso, qui da noi in Italia, per lo specifico caso dei vaccini contro il covid è stato previsto anche uno scudo penale (in particolare una specifica causa di non punibilità per lesioni colpose e omicidio colposo), derogando – con una norma eccezionale – alle disposizioni del nostro codice penale. Orbene: nessuna di queste cautelare viene predisposta in relazione ai farmaci autorizzati in via ordinaria, dunque dimostrando che tanto le case farmaceutiche quanto gli stati temono gli effetti collaterali di questi vaccini in misura sensibilmente maggiore di quanto non temano gli effetti collaterali dei farmaci autorizzati in via ordinaria. Ma, si badi bene, pare che li temano anche in misura maggiore rispetto ad altri farmaci autorizzati in deroga, per i quali a chi scrive non consta che, in passato, siano mai stati previsti scudi penali o manleve eccezionali di tale incisività. La prudenza mostrata dalle case farmaceutiche (così come, se possibile ancora più significativa, la ampia disponibilità dello stato a concedere “salvacondotti” in relazione ai danni da effetti avversi dei vaccini) non può dunque essere ignorata, rappresentando un forte argomento “sostanziale” a conferma del fatto che, con i vaccini anti-covid autorizzati in deroga, un rischio maggiore per la salute dei cittadini non solo esiste, ma deve ritenersi tutt’altro che remoto o trascurabile.

Quest’ultima considerazione confermerebbe insomma – per comportamenti concludenti – la tesi, già sostenibile sulla base dell’esame delle norme di diritto regolatorio farmaceutico, per cui i cosiddetti vaccini anti-covid sarebbero non solo farmaci sperimentali, ma anche farmaci che – rispetto a quelli autorizzati in via ordinaria – sono connotati da un grado di rischio aggiuntivo per la salute di entità tale da consentire l’applicazione delle norme in tema di necessità, per la loro somministrazione, di un consenso libero e informato di chi riceve il corrispondente trattamento.

A conclusione di questo lungo e complesso discorso è possibile affermare che esistono degli argomenti – desumibili tanto dal diritto regolatorio farmaceutico UE e nazionale quanto dalla ratio delle norme che pongono limiti alle sperimentazioni farmaceutiche senza il pieno e libero consenso di chi riceve il farmaco – per sostenere che, sino all’avvenuta concessione delle AIC definitive, i vaccini anti-covid rientrino nella categoria dei farmaci sperimentali, così come per sostenere che una parte delle attività di verifica alle quali questi vaccini sono soggetti in vista dell’ottenimento dell’autorizzazione definitiva al commercio rientrino nel concetto di attività sperimentale (sotto il profilo della sperimentazione clinica propriamente detta, o come sperimentazione clinica a basso livello di intervento o come sperimentazione non interventistica). Infine, vi sono argomenti anche per sostenere che questi vaccini presentino apprezzabili margini di rischio per la salute rispetto ai farmaci autorizzati in via ordinaria (ma, forse, anche rispetto ad altri farmaci autorizzati in deroga in passato). Tutto questo induce a supporre che si tratti di farmaci che potrebbero anche rientrare nel concetto di farmaco o trattamento sperimentale rilevante ai fini dell’applicazione delle normative che – a diverso titolo e con diversa fonte – impongono ai pubblici poteri restrizioni e limiti all’imposizione di obblighi di somministrazione. Del resto è verosimile supporre che proprio simili considerazioni abbiano sinora consigliato al Governo estrema prudenza nel porre degli obblighi vaccinali generalizzati, preferendovi l’escamotage della pressione indiretta via green pass.




Manzoni (non viene più insegnato bene e dunque) non insegna più

Un vecchio detto dice che, quasi sempre, chi intende coprire un errore invece di ammetterlo, ne commette uno più grosso. Ebbene, la mia impressione è che questo detto si attagli alla perfezione al modo in cui i nostri Governi stanno gestendo la questione Covid. Il famoso green pass rappresenta l’ultimo anello di una catena di errori, sempre più gravi, commessi da un Esecutivo, che – sul tema della reazione al Covid – si sta avvitando su sé stesso, incapace di trovare la forza di rimediare – ponendosi in netta discontinuità col Conte II – a scelte precedenti che si erano dimostrate non soddisfacenti. Ma vediamo di partire dal principio.

L’Italia, come l’Europa che (purtroppo) dalla famosa riunione dell’aprile 2020 ne ha seguito l’esempio, ha ridotto la propria reazione al covid al binomio “lockdown e vaccini”. O meglio: solo lockdown – senza promuovere autopsie per capire l’eziologia della malattia e senza indicare protocolli di cura precoce per i malati, in modo da evitare i ricoveri – in attesa che arrivassero i messia-vaccini. La scelta politica alla base di questa scelta era forse quella di evitare attività troppo onerose sotto il profilo finanziario e di mantenere in sicurezza il sistema sanitario – reso molto fragile da decenni di tagli e austerità nonché dal mancato ricambio generazionale dei medici – piuttosto che preoccuparsi di curare efficacemente i cittadini. Insomma: spendere il meno possibile (ricordiamo tutti l’ex Ministro Gualtieri che sosteneva nel 2020 che 3,6 miliardi di euro sarebbero stati sufficienti per reagire all’epidemia, quando poi ne son stati spesi quasi duecento) e scaricare il grosso del costo sociale dell’epidemia su alcune categorie (piccole partite iva e giovani), tutelando altre (pensionati, impiego pubblico e – ma solo per un certo tempo – dipendenti privati). Risultato: un tasso di mortalità tra i più alti al mondo, per non parlare delle devastazioni economiche e sociali causate dalle chiusure. Quando poi i vaccini (o, per essere più precisi, le prime terapie a base di mRNA) sono arrivati, il Ministero dalla Salute e, di riflesso, il Governo erano già prigionieri di una trappola normativa dalla quale era ormai impossibile liberarsi se non – appunto – rinnegando su tutta la linea la strategia precedente. Ma vediamo di capire il perché.

Le autorizzazioni all’immissione in commercio dei cosiddetti vaccini per il covid (di tutti i vaccini covid) sono infatti autorizzazioni “condizionate”. La vulgata – quando parla di vaccini “sperimentali” – non va infatti molto lontano dalla verità, considerando che quelli che vengono chiamati vaccini covid, in realtà, sono terapie non ancora sperimentate in misura sufficiente da generare la documentazione clinica necessaria per concedere l’autorizzazione al commercio da parte delle agenzie preposte alla verifica della sicurezza dei farmaci (l’EMA europea e l’AIFA italiana). I test completi per il rilascio di un’autorizzazione ordinaria in relazione a queste terapie saranno infatti disponibili solo entro dicembre del 2023, dunque – in sostanza – i vaccini covid sono stati messi in commercio più e meno tre anni prima di quando lo sarebbero stati in una situazione ordinaria. Si noti peraltro che terapie di questo genere (che si basano tutte sull’uso di RNA messaggero), non solo sono state poco sperimentate per il covid, ma non risultano mai essere state utilizzate in passato in alcun farmaco autorizzato per uso umano. Insomma, questi vaccini – per un verso – rappresentano il primo tentativo di applicare certe tecnologie mediche all’uomo e – per altro verso – non sono stati sperimentati in misura tale da fornire le garanzie di sicurezza normalmente ritenute sufficienti nell’UE per mettere in commercio un farmaco. Tutto questo spiega del resto assai bene perché tutte le case farmaceutiche abbiano preteso che gli stati accettassero di escludere ogni loro responsabilità per eventuali conseguenze dannose dei vaccini in capo chi li avrebbe assunti. Anche lo stato, del resto, si è ben curato di evitare di assumere alcuna responsabilità per i vaccini, di guisa che il malcapitato che, assunto il farmaco, dovesse subire una reazione avversa – in teoria – non ha nessuno cui chiedere i danni. Che dunque si tratti di trattamenti sanitari che implicano un rischio sanitario maggiore di un normale farmaco (e che lo implichino perché non sono stati sottoposti alle sperimentazioni ritenute sufficienti per considerare un farmaco sicuro in misura tale da poter essere assunto su larga scala) mi pare un dato di fatto difficile da negare.

La possibilità di distribuire i vaccini dunque si fonda sul fatto che, anche prima che i test sperimentali normali siano completati, i regolamenti comunitari prevedono che si possa in via eccezionale autorizzare la commercializzazione anticipata di farmaci ad uso umano a patto che vengano rispettate alcune condizioni, tra cui quella dell’urgenza del trattamento sanitario. L’autorizzazione condizionata di un farmaco ancora in fase di sperimentazione ha infatti la funzione di rendere prioritaria la procedura di autorizzazione, in modo da sveltire l’approvazione di trattamenti efficaci per porre rimedio a situazioni di emergenza sanitaria. In particolare il regolamento in questione prevede che un’autorizzazione condizionata possa essere concessa per farmaci che rispondono a quella che viene definita come esigenza medica non soddisfatta. Ed è proprio in relazione alla sussistenza (e, soprattutto, permanenza) di questa condizione che è scattata la trappola normativa di cui si parlava in precedenza.

Il concetto di “esigenza medica non soddisfatta” – in parole povere – significa che, per autorizzare un farmaco provvisoriamente, non deve esistere alcuna terapia “ordinaria” ritenuta efficace per la malattia che quel farmaco vorrebbe curare. Se dunque una cura efficace per i Covid, mediante la somministrazione di farmaci autorizzati, già esistesse – e in particolare se Ministero della salute o AIFA riconoscessero in via ufficiale questo – verrebbero meno i requisiti per le autorizzazioni condizionate all’immissione al commercio dei vaccini. In sintesi: se si trova una cura per il Covid certificata come efficace e che prevede la somministrazione di farmaci già autorizzati in via ordinaria, verrebbe giù tutto il castello costruito attorno alla ricetta “lockdown fino ai vaccini”. Questo spiega perché il Ministro Speranza non vuole modificare il famigerato protocollo della “tachipirina e vigile attesa”, tanto da mantenere un rigoroso silenzio sul punto anche di fronte a una interrogazione parlamentare sul punto – a lui diretta – approvata a larga maggioranza in parlamento. Ed ecco qui manifestarsi il primo caso di errore più grande (insistere solo sui vaccini senza prendere in considerazioni protocolli di cura precoce domiciliare, nonostante ne siano stati proposti diversi) per non voler ammettere un errore precedente (impostare la reazione al covid solo in termini di lockdown con cura ospedaliera dei casi più gravi in attesa dei vaccini). Ma andiamo avanti con la storia.

I vaccini sperimentali (o, se preferite, autorizzati in deroga) – come è noto – alla fine sono arrivati e, col governo Draghi, le fasce più a rischio (ossia dai sessant’anni in su) sono state vaccinate con una copertura piuttosto ampia. Nel frattempo è però arrivata anche la famigerata variante Delta che, per quel che si capisce, “buca” il vaccino quanto a contagio anche se, stando ai primi dati dei paesi in cui si è diffusa, non provoca sintomi gravi in misura comparabile alle varianti precedenti. Dunque questa estate abbiamo un aumento di contagi a fronte di pochi malati gravi e di pochissimi morti.

In realtà il fatto di avere una popolazione già “molto vaccinata” nelle categorie a rischio, crea un problema di verifica dei dati: non si riesce a capire in particolare quanto l’assenza di effetti sintomatici gravi sia dovuta ai vaccini e quanto invece al fatto che questa variante sia meno aggressiva rispetto alle precedenti (o magari al fatto che sia intervenuta in un periodo, quello estivo, in cui anche il clima alle nostre latitudini aiuta a combattere la malattia). Anche su questo versante, peraltro, il Governo – e il teatro mediatico che lo sostiene – è partito in quarta affermando che il merito del minore impatto sanitario della variante Delta sia certamente da collegarsi solo ai vaccini. Ma si tratta di affermazione che appare fondata – più che su una prova empirica – sulla tautologia per cui siccome i vaccini non possono non essere efficaci (altrimenti il Governo perde la faccia) allora il minore impatto della variante Delta non può che derivare dal fatto che i vaccini sono efficaci. Ovviamente anche qui fa capolino la tendenza del potere politico ad evitare di mettere in dubbio la correttezza della propria attività passata: anche qui, per evitare il rischio di dover cambiare strategia (di fatto ammettendo un errore passato), il Governo commette infatti l’errore (gravissimo in questa fase di attacco delle varianti) di non verificare adeguatamente se davvero sono i vaccini ad aver disattivato la variante Delta o se per caso questa variante non rappresenta un primo passo della naturale evoluzione dell’epidemia verso l’endemia. Ottenere e analizzare questi dati è però essenziale per modulare la reazione al Covid in vista dell’autunno. Eppure CTS e Governo paiono avere una certa allergia a condividere i dati su cui fondano i loro vaticini, non consentendo dunque a nessuno di capire davvero su cosa stiano davvero fondando le loro scelte.

Fatto sta che, quanto meno per ora, i dati sui decessi e sulle ospedalizzazioni causati dalla variante Delta non destano troppe preoccupazioni. In una simile situazione, non si comprende allora – quanto meno sotto il profilo del rischio sanitario – l’isteria (davvero al limite della psicosi collettiva) che si è creata intorno al cosiddetto green pass alla francese: se gli anziani italiani infatti sono già stati vaccinati in larga parte e se la variante Delta non morde come le precedenti (come parrebbe dimostrare, specie all’estero, l’aumento dei contagi in assenza di aumenti di sintomatologie gravi), a che serve far pressione sui giovani e sulle fasce di età a rischio meno elevato per indurre anche loro a vaccinarsi? A nulla, verrebbe da rispondere, se non a vendere più dosi vaccino (sarà un caso, ovviamente, la stipula di un contratto da 900 milioni di dosi tra UE e Pfizer fino al 2023, con opzione di altre 900 milioni di dosi). Il punto vero è che obbligare (indirettamente) ai vaccini tutta la popolazione, oltre che inutile, per le fasce di età più giovani potrebbe risultare dannoso.

E qui non stiamo parlando solo dei danni alla salute dei più giovani in ipotesi provocati da possibili reazioni avverse gravi (come trombosi e miocarditi), ma anche di possibili responsabilità giuridiche in capo al Governo e/o al Ministero della Salute per i provvedimenti adottati. Ma vediamo di capire dove sta il problema. Il punto da cui partire è chiedersi perché mai, se fosse vero – come vanno dicendo alcuni costituzionalisti – che gli obblighi vaccinali possono essere imposti per legge, il governo non dispone direttamente un obbligo in tal senso per decreto legge (da convertire poi alle camere) invece che adottare strumenti di coercizione indiretta come il green pass alla francese.

La risposta è duplice: per un verso, in presenza di un obbligo vaccinale imposto dall’autorità, non avrebbero più alcun valore legale le rinunce sottoscritte dai vaccinati che escludono le responsabilità dei vari soggetti coinvolti nella filiera del vaccino. Il consenso alla rinuncia a un diritto da parte di chi fosse obbligato a rinunciare per potere adempiere all’obbligo vaccinale non è infatti valido secondo gli stessi principi generali del diritto civile in tema di vizi del consenso contrattuale. Questo significa che, non solo lo stato, ma anche le case farmaceutiche – in caso di obbligo legale di vaccinazione – sarebbero chiamati ad assumersi la responsabilità per eventuali effetti avversi (il vaccino in fin dei conti è autorizzato in deroga, dunque presenta per definizione un rischio aumentato, dunque tale da classificare la sua somministrazione come attività pericolosa). In una simile situazione il rischio che il Governo intende scongiurare è che le farmaceutiche, le sole ad avere un’idea chiara dei rischi reali che implicano queste terapie, in caso di obbligo (e conseguente eliminazione della manleva a loro favore) decidano di sospendere le forniture, dunque facendo cadere di nuovo tutto il castello di carte costruito intorno alla portata salvifica del vaccino. A quanto risulta dei leaks allo stato disponibili, infatti, i contratti negoziati dall’UE con le farmaceutiche sono tanto sbilanciati a favore di queste ultime da consentire loro di sospendere le forniture in presenza di un mutato quadro di rischio. E anche qui, dunque, ecco che un errore più grande (non imporre un obbligo vaccinale, ricorrendo all’espediente del green pass) viene commesso per evitare di mostrare l’errore commesso in precedenza (reagire al covid con una strategia che, di fatto, rende i governi totalmente dipendenti dalle scelte delle case farmaceutiche).

La seconda ragione per cui il Governo preferisce evitare di imporre obblighi vaccinali diretti va invece ricondotta di nuovo al fatto che si tratta di terapie in fase di sperimentazione, di guisa che non è affatto detto che sia del tutto legittimo una loro imposizione per legge, nonostante l’art. 32 Cost. ammetta espressamente trattamenti sanitari obbligatori e, in passato, siano stati adottati provvedimenti che hanno imposto vaccini a certe categorie di persone. Questo accade perché i vaccini sinora imposti per legge (come ad esempio quelli che condizionano l’accesso alla scuola dei bambini) erano tutti farmaci immessi in commercio dopo il ciclo ordinario di sperimentazione, dunque ampiamente collaudati, mentre quelli anti covid non lo sono ancora. Ed esistono infatti almeno due fonti normative internazionali – un regolamento comunitario sulle attività di sperimentazione medica (accessibile in italiano qui) e il cosiddetto codice di Norimberga (la cui tradizione italiana è accessibile qui) – secondo cui qualunque forma di sperimentazione sull’uomo è possibile solo con il pieno ed informato consenso di chi vi si sottopone. Si può dunque obiettare che assumere farmaci ancora in fase di sperimentazione sia qualcosa di diverso dallo sperimentarli, ma a mio modesto parere la considerazione fondamentale da cui partire per trattare la questione è che assumere un farmaco ancora non autorizzato in via ordinaria espone il cittadino a rischi per la salute del tutto analoghi a quelli che correrebbe se accettasse di partecipare alla sua sperimentazione clinica su quel farmaco, di guisa che le due situazioni ben difficilmente potrebbero essere trattate diversamente sotto il profilo della necessità di garantire la piena libertà di esporsi o non esporsi ad un rischio per la salute.

Va aggiunto che anche il regolamento dell’UE sul green pass (Regolamento 2021/953 che definisce, a livello sovranazionale, un quadro di regole comuni, direttamente applicabile in tutti gli Stati europei, per il rilascio di certificati COVID digitali) che varrà per spostarsi tra Stati dell’UE è piuttosto chiaro (si veda in particolare il considerando 36) nel senso che il green pass europeo deve evitare ogni forma di discriminazione anche nei confronti di chi abbia scelto liberamente di non vaccinarsi. E se è vero che il green pass europeo è cosa diversa da quello nazionale, è però anche vero che gli stessi ambienti e soggetti che si dichiarano ora a favore delle restrizioni ai non vaccinati sono per lo più gli stessi ambienti e soggetti che, su ogni altro tema dello scibile umano, si sgolano per ricordare che i principi di diritto dell’UE devono sempre prevalere sul diritto nazionale. Ma non basta.

Nella recente risoluzione n. 2361, l’assemblea permanente del Consiglio D’Europa ha sancito che – così come gli obblighi vaccinali non sono accettabili alla luce della convenzione europea dei diritti umani (CEDU) – per la stessa ragione gli stati devono comunque garantire la liberta ai cittadini di non vaccinarsi, così come devono evitare discriminazioni – o pressioni indirette – nei confronti di chi sceglie liberamente di non assumere il vaccino. Traducendo liberamente, il punto 7.3.1 della risoluzione (accessibile qui), recita infatti che “ci si deve assicurare che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno sia sotto pressione politica, sociale o altro se non desiderano vaccinarsi” mentre il punto 7.3.2 aggiunge “Ci si deve assicurare che nessuno subisca discriminazioni per non essere stato vaccinato a causa di possibili rischi per la propria salute o perché non vuole essere vaccinato”. Più chiaro di così è davvero difficile dirlo. E’ vero che la risoluzione in questione non è un atto vincolante. Ma altrettanto vero è che la risoluzione fornisce una sorta di interpretazione autentica della CEDU e la CEDU è invece una convenzione di diritto internazionale umanitario che ben può esplicare i propri effetti anche nel nostro ordinamento, per il tramite dell’art. 10 (e forse anche 11) della nostra Costituzione.

Tralasciando dunque la questione della prevalenza del diritto UE su quello nazionale (che parrebbe poter valere o non valere a seconda dell’opportunità politica), occorre considerare che sia il codice di Norimberga che, soprattutto, la risoluzione del Consiglio d’Europa che interpreta la CEDU sono fonti di diritto umanitario internazionale. Per questa ragione, gli organi di uno stato che venisse accusato di averli violati rischiano in futuro di andare incontro a problemi seri. La legge che imponesse obblighi (diretti o indiretti che siano) in violazione delle due convenzioni, infatti, avrebbe i crismi per la promulgazione (non ostandovi, come si diceva, il tenore letterale dell’art. 32 Cost.). Ma il punto è che quando le norme internazionali che si assumono violate da una legge nazionale riguardano la tutela dei diritti umani cosiddetti universali (quali quelli sanciti dalla CEDU o dal codice di Norimberga), la reazione dell’ordinamento alla loro violazione potrebbe non consistere solo nell’eventuale abrogazione postuma della legge da parte della Corte costituzionale nazionale (in applicazione dell’art. 10 Cost.) o in un semplice annullamento delle sanzioni da parte dei TAR o dei Giudici di pace (come avvenuto con le misure restrittive disposte coi DPCM). Vi sarebbero infatti rischi penali – per effetto di una disapplicazione da parte dei giudici penali nazionali dell’atto normativo illegittimo in forza appunto delle norme di diritto umanitario – per gli organi politici che hanno deciso di porre certi limiti (o che li hanno avallati), che a quel punto non potrebbero neppure valersi della scudo rappresentato dall’aver agito in esecuzione di un mandato politico o nell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali. Quando si tratta di potenziali violazioni di diritti umani, infatti, questa causa di non punibilità non necessariamente viene ritenuta applicabile.

Peraltro – qui – il mandato politico potrebbe anche difettare a monte, considerando che, essendo l’Italia in stato di emergenza, il governo – se non prevede passaggi parlamentari a sostegno dei provvedimenti che adotta – si deve assumere la piena responsabilità di quel che decide. Ed ecco manifestarsi qui un altro “errore storico” nella gestione “all’italiana” dell’emergenza covid, rappresentato dalla scelta di affidare gravissime decisioni sulle libertà individuali a organi non rappresentativi come la cabina di regia o il CTS o lo stesso Presidente del Consiglio (con Conte) e Consigli dei Ministri (con Draghi). Certe responsabilità politiche (implicando una limitazione delle libertà fondamentali dei cittadini) se le dovrebbe infatti assumere l’organo che rappresenta la sovranità popolare, dunque il Parlamento, non certo l’Esecutivo o – peggio ancora – comitati consultivi che non hanno alcun rilievo costituzionale. Ma, si dirà, in fin dei conti i decreti legge vengono poi convertiti dalle camere, dunque ci sarebbe almeno ex post una copertura politica democratica per il loro contenuto. Il che è certamente vero, salvo per il fatto che – di decreto legge in decreto legge – si crea una singolare dinamica normativa per cui il parlamento non viene mai messo in grado di legiferare per il futuro, potendo solo decidere di ratificare quel che si è già deciso per il passato. Il che – quando si vanno a comprimere fortemente e per mesi e mesi dei diritti fondamentali dei cittadini – potrebbe anche destare qualche perplessità in termini di effettività della “copertura parlamentare” di certi provvedimenti.

E tutto questo, si badi, a non voler considerare che, già sotto il profilo del nostro diritto costituzionale nazionale, qualunque obbligo terapeutico imposto per legge – così come qualunque limitazione di diritti fondamentali finalizzata a incentivare l’assunzione di terapie (specie se ancora sperimentali) – deve comunque essere proporzionato al rischio che intende scongiurare. E disporre obblighi e restrizioni di vario genere con gli ospedali vuoti e le terapie intensive semi-deserte e con una copertura vaccinale, nelle fasce di età a maggiore rischio, assai elevata, pone dei seri interrogativi in termini di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento degli interessi in conflitto.

Al là dei profili formali relativi al tipo di provvedimento normativo utilizzato (il Decreto Legge) e dei dubbi di diritto interno, unionista e internazionale sulla legittimità dei provvedimenti in questione, il Governo – nel merito – ha alla fine scelto di non disporre un obbligo diretto a vaccinarsi, sostituendovi una serie di restrizioni alla vita sociale di chi non si vaccina. Scelta pilatesca, che dunque non risolve il problema della legittimità delle restrizioni, ma semmai lo sposta dal “se” al “quanto” o, meglio, al “cosa” viene condizionato al green pass. E’ infatti piuttosto evidente – senza che occorra spendere toppe parole al riguardo (anche se stranamente insigni costituzionalisti non se ne sono resi conto) – che se il possesso di un lasciapassare condiziona l’accesso ad attività che siano svolte con frequenza e che possano essere ritenute essenziali per una vita normale (considerando che un tampone rapido costa non meno di trenta euro), è infatti chiaro – dicevamo – che in un simile situazione l’obbligo di green pass crea un apartheid sanitario che si risolve in un obbligo vaccinale di fatto, implicando i medesimi effetti in termini di coercizione della volontà individuale che avrebbe – ad esempio – una sanzione amministrativa pecuniaria posta a presidio dell’inottemperanza a un obbligo diretto. Si noti peraltro che questo obbligo indiretto sarebbe in realtà anche gravemente discriminatorio, risultando assai più incisivo nei confronti delle fasce di popolazione con meno disponibilità economiche, che – avendo pochi soldi in tasca (specie in periodo di crisi come quello che stiamo attraversando) – non possono permettersi il lusso di sostituire la vaccinazione con tamponi troppo frequenti.

Pensiamo allora a un lasciapassare che condizioni ad esempio l’accesso a centri commerciali, negozi, banche e supermercati. Ma pensiamo anche all’accesso a mezzi pubblici, treni o aerei o, ancora, alla scuola o alle strutture sanitarie o agli uffici pubblici. Si tratta di altrettante attività essenziali per la vita normale del cittadino e che vengono svolte con frequenza. Se queste attività fossero consentite dietro presentazione del green pass, saremmo certamente  presenza in un obbligo indiretto di vaccinazione, specie appunto per le fasce meno abbienti della popolazione.

Ed ecco materializzarsi il terzo errore (più grave) commesso per coprire gli errori precedenti (meno gravi): pensare – furbescamente – che un obbligo vaccinale indiretto via green pass possa mettere al riparo Governo, Ministro, CTS e cabina di regia dalle conseguenze di eventuali censure di illegittimità costituzionale (o del diritto unionista o di norme di diritto internazionale umanitario) che, invece, colpirebbero quasi certamente un obbligo vaccinale vero e proprio. L’errore, si badi, qui è soprattutto politico: al di là del rischio di subire processi di vario genere in futuro, non fanno infatti certo una bella figura di fronte al paese delle istituzioni che – durante un periodo di crisi sociale ed economica che dura ormai da due anni – si nascondono dietro a trucchi normativi per evitare di assumersi la responsabilità di decisioni che influiranno in modo assai incisivo sulla vita e sui diritti di milioni di cittadini.

Si noti infatti bene che Macron, in Francia, dopo aver tirato per primo il sasso nello stagno ha subito fatto macchina indietro (il primo ministro francese ha infatti dichiarato che il provvedimento sul green pass dovrà passare per una legge ordinaria discussa dall’assemblea nazionale e verrà in ogni caso sottoposto alla corte costituzionale per una verifica di legittimità) e che nel regno unito e in Germania – così come nella grande parte degli altri stati europei – nessuno ha mai seriamente avanzato la proposta di imporre green pass nei termini in cui se ne parla da noi. Del resto, viene da chiedersi perche nessuno – e dico nessuno – dei Signori al Governo, specie di quelli che sostengono che vaccinarsi sarebbe una sorta di dovere civile (categoria che invero appartiene al dominio dell’etica e che dunque non dovrebbe affatto interessare a chi governa uno stato che voglia definirsi laico) – abbia proposto di premiare i vaccinati per il loro supposto “impegno civico” invece che punire i non vaccinati per aver esercitato il loro diritto a non vaccinarsi. Un’impostazione premiale ben congegnata (magari meno goffa dei cento dollari per capita offerti dal Governo USA per vaccinarsi), in luogo di quella punitiva adottata col green pass, avrebbe infatti conseguito l’obiettivo utile, risultando meno divisiva a livello sociale, migliore in termini di immagine per lo stesso Governo nonché – infine – meno problematica in termini di compatibilità con la costituzione e le norme di diritto internazionale umanitario. La cosa è tanto evidente che, davvero, il fatto che nessun esponente politico l’abbia proposta fa sorgere il sospetto che il green pass abbia ragioni del tutto diverse da quelle dichiarate.

In effetti, da quando c’è il Covid, i nostri governi (ma, va detto, anche quelli di quasi tutti gli altri paesi europei) paiono non volersi lasciar scappare alcuna occasione per limitare le libertà dei cittadini, specie quando si può far danno ai piccoli esercenti e imprenditori e al settore del turismo (o, in generale, contribuire ad affossare ancora di più la nostra, già alquanto precaria, situazione economica). Al di là della sempre più manifesta vena repressiva (o deflattiva, se – come me – preferite il complottismo economico) di chi ci governa, viene davvero da chiedersi perché mai – nel giro di un paio di settimane – i nostri governanti abbiano tirato fuori dal cappello un sistema odioso come quello dell’apartheid sanitario, oltretutto a rischio di violazione di norme di diritto internazionale umanitario e che presenta aspetti critici in termini di proporzionalità costituzionale, in assenza di un rischio attuale e concreto (contagi in aumento, ma ospedalizzazioni e morti stabili), quando – come si diceva – sarebbe bastato concedere degli incentivi premiali a vaccinati vecchi e nuovi e si sarebbe risolto il problema.

Secondo alcuni la questione del green pass sarebbe una scusa per far passare l’ennesima proroga dello stato di emergenza anche in assenza di vera emergenza (proroga che servirebbe al governo per proseguire nella sua agenda di “riforme” tagliando fuori il parlamento dalle scelte importanti fino a fine anno). Secondo altri, sarebbe solo un modo per creare uno strumento giuridico con cui – nel prossimo futuro –  introdurre forme di controllo della vita dei cittadini anche per esigenze diverse rispetto a quelle dell’emergenza sanitaria, in sostanza inaugurando un sistema di crediti sociali “alla cinese”. Non manca infatti chi sottolinea come lo strumento di controllo in questione sia stato proposto solo in Italia e in Francia, ossia nei due stati che – una volta che sarà finito il quatitative easing della BCE (che da ottobre, data delle elezioni in Germania, finirà verosimilmente nel mirino del neo insediato Governo tedesco) – potrebbero trovarsi ad affrontare l’alternativa tra un abbandono dell’area Euro (o una sua profonda riforma) e un default alla greca. A volersi esercitare con un po’ di sano complottiamo geopolitico, dunque, si potrebbe anche leggere la mossa di Macron (intervenuta, si badi bene, poco dopo un incontro a Parigi con il Presidente Matterella) poi seguita da Draghi, proprio come il tentativo di introdurre strumenti di controllo sociale per sterilizzare eventuali derive sovraniste (e anti Euro) nei due stati che – per peso economico e per situazione di bilancio pubblico – potrebbero nel futuro mettere in crisi il sistema, ove non si prestassero ad applicare ai relativi popoli l’austerità “alla Greca” che rappresenta lo strumento con cui l’UE regola i conti con gli Stati che non si prestano alle sue ricette rigoriste e deflattive.

Ammetto che la teoria in questione mi affascina non poco, ma personalmente mi sono fatto un’idea diversa delle motivazioni che potrebbero celarsi dietro alle ultime decisioni. Troppo spesso, nella storia umana, decisioni grandi e tragiche sono state in realtà l’esito ultimo della combinazione di tante piccolezze umane.

Non serve infatti certo un genio per capire che tutti quelli che hanno sostenuto sin qui la linea “lockdown e vaccini” (ossia in primis Speranza, ISS e CTS ma prima Conte e, ora, anche Draghi) temono soprattutto che – di fronte ad ennesime varianti del covid, magari in autunno e magari meno “blande” in termini di sintomi rispetto alla Delta – i governi (e i governatori delle regioni) potrebbero disporre nuovi blocchi e restrizioni. Ecco allora che creare una classe di untori da accusare (i non vaccinati, appunto, prontamente ribattezzati no vax) rappresenta la migliore – in quanto storicamente ben sperimentata – delle scuse per non dover ammettere di aver insistito per due anni con una strategia di reazione all’epidemia del tutto inadeguata di fronte ad un virus ad alto tasso di mutazione. La realtà è infatti che – in un anno e mezzo di “emergenza” – il Governo, nonostante i suoi pieni poteri e una serie di scostamenti di bilancio da capogiro autorizzati via via dal parlamento, ha fatto poco o nulla per potenziare il tracciamento o per promuovere terapie precoci domiciliari che evitassero ai pazienti di aggravarsi in misura tale da richiedere ospedalizzazione. Ma si è fatto ben poco – quasi nulla – anche per potenziare i trasporti pubblici e le strutture sanitarie (sia in termini di medicina territoriale che di posti letto che, salvo qualche raro esempio, di reparti intensivi). Di fatto, insomma, il Governo – nonostante i pieni poteri e risorse finanziarie aggiuntive assai ingenti – ha reagito al Covid solo imponendo restrizioni alle libertà dei cittadini e terrorizzandoli con la retorica della peste manzoniana: prima sotto forma di divieti di spostamento e chiusure di attività (a colori) e ora per mezzo di obblighi più e meno diretti di trattamenti sanitari ancora sperimentali (e costosi). Il tutto – si noti bene, perché è significativo – mentre quello stesso Governo ci stava facendo indebitare fino alla gola con l’UE, e parliamo di decine e decine di miliardi di euro, onde promuovere agende certamente non essenziali in periodo pandemico (quali la transizione verde e digitale).

Questa essendo la situazione, è chiaro che se alla fine i vaccini davvero non dovessero scongiurare un’ennesima ondata autunnale provocata da qualche nuova variante del virus, il nostro Governo si troverebbe con ogni probabilità costretto a disporre degli ennesimi lockdown (magari chiamandoli in altro modo). Si noti che questo rischio è tutt’altro che remoto: la variante Delta sta contagiando alla grande anche i vaccinati (e anche i vaccinati contagiano, di guisa che i portatori di green pass, a essere onesti, propagheranno il virus forse pure di più dei perfidi no green pass che se ne staranno più isolati per effetto dei divieti). Ma, si sostiene, è proprio il vaccino impedisce alla variante Delta di far danni gravi. Eppure – come si diceva – manca in realtà allo stato la controprova che sia davvero il vaccino (e non la minore forza del virus variato) a causare questa minore gravità della malattia. Del resto, tutti i vaccini sono stati elaborati per contrastare la variante di Wuhan, dunque non dovrebbe stupire che funzionino meno contro altre varianti. Ecco dunque spiegato perché il Governo teme che l’avvento in autunno di un’eventuale Variante Gamma (magari più aggressiva della Delta i termini di sintomi) potrebbe obbligarlo a chiusure e restrizioni, che smentirebbero mesi di fanfara e grancassa ad ogni ora e a reti unificate sulla portata salvifica dei vaccini. Per non parlare delle dichiarazioni rese dallo stesso Mario Draghi in diretta nazionale, che ormai lo vincolano a garantire la salvezza del popolo dal virus per via vaccinale.

Il rischio per Draghi e Speranza – in caso di recrudescenza dell’epidemia – è dunque quello di aver fatto l’ennesima promessa di Pinocchio, dopo le famigerate chiusure di Conte a ottobre per salvare il Natale e quelle di febbraio per salvare la Pasqua. Ennesimo promessa infranta che – a questo giro – colpirebbe una popolazione prostrata da ben due anni di crisi nera, in un momento in cui non si potranno più garantire ristori economici (il quantitative easing della BCE non può durare in eterno, specie dopo le elezioni tedesche di ottobre), quando ci saranno stati un mare di licenziamenti (già siamo arrivati a 750.000 occupati in meno rispetto al periodo pre-covid e agosto e settembre saranno un bagno di sangue sotto questo profilo) e – soprattutto – quando staranno venendo meno anche gli ultimi divieti di licenziamento.

Ebbene: nei palazzi del potere sanno perfettamente che quando non mantieni troppe volte le promesse (specie di fronte a un popolo incattivito da quasi due anni di sofferenza), o dai al popolo un capro espiatorio con cui prendersela, o il popolo se la prende con te. Del resto, stanno facendo la stesa cosa da più di vent’anni con i piccoli  evasori fiscali, e funziona a meraviglia, perché non dovrebbero farlo anche con i non vaccinati? Ecco dunque a cosa serve soprattutto il Green Pass. Ed ecco spiegato perché non hanno optato per la soluzione “diplomatica” delle misure premiali per chi sceglie di vaccinarsi. Ma ecco spiegato anche lo stormire di fronde mediatico contro i perfidi no vax e  – infine – alcune discutibili dichiarazioni rese in conferenza stampa dallo stesso Draghi (in particolare quelle per cui tra vaccinati non ci si contagerebbe e che se uno si contagia e non è vaccinato alla fine muore). L’apartheid sanitario serve infatti a creare uno stigma sociale intorno ai non vaccinati, trasformandoli nel capro espiatorio da dare in pasto, all’occorrenza, a un popolo di vaccinati incattiviti per l’eventuale nuovo lockdown autunnale, onde distrarlo dal fatto che – se ciò davvero dovesse accadere – saremmo di fronte al totale e clamoroso fallimento della strategia dei lockdown senza cure nella (vigile) attesa dei vaccini.

Nell’attesa dei nuovi farmaci a base di anticorpi monoclonali (le cui autorizzazioni sono attese per fine anno), che dovrebbero – a quando si capisce – consentire cure domiciliari o quanto meno precoci (costose a sufficienza per essere gradite alla farmaceutiche) occorre infatti cautelarsi. Se infatti i nuovi farmaci funzioneranno, a quel punto si potrà cambiare narrazione rispetto a quella della vaccinazione come unica salvezza, ma siccome non v’è certezza che questo accada, occorre prima creare i presupposti per dare la colpa delle eventuali restrizioni autunnali ai perfidi no vax. A tale riguardo occorre peraltro ribadire che – a rigor di logica – saranno con ogni probabilità proprio i vaccinati (che sono la maggioranza della popolazione e non sono immuni a contagio e contagiosità) che quest’autunno, circolando per luoghi affollati grazie al loro green pass, costituiranno il più probabile veicolo di un contagio, di cui – però – verranno accusati solo i non vaccinati, invece costretti ad un maggiore isolamento. Cornuti e mazziati i no vax e solo mazziati i vaccinati, a solo beneficio di un Governo che intende autoassolversi creando colpevoli immaginari.

Se invece in autunno, al di là dei contagi, non ci sarà la temuta impennata di ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi, ecco che Speranza, Draghi & Co. potranno sostenere trionfanti – aiutati dalla solita grancassa mediatica – che il merito è stato tutto del pass vaccinale, appuntandosi sul petto con orgoglio la medaglia dei salvatori della patria (e magari – quanto al Ministro – pubblicando finalmente il famoso libro). Con la mossa del green pass, in sostanza, Governo e Ministero rischiano il meno possibile (di certo assai meno che se avessero previsto un obbligo vaccinale) e – soprattutto – hanno trovato il modo di non perdere troppo consenso politico, qualunque cosa accada a ottobre. Dal loro punto di vista è certamente la strategia ideale. Se poi sia anche quella migliore per il paese o per sconfiggere l’epidemia, non saprei dire, ma so che in certi ambienti non dovrebbe essere cosa che interessa più di tanto.

Se però questo è lo scenario – a meno che, come io spero, il covid non si estingua naturalmente al secondo anno come ha fatto a suo tempo la spagnola – sarà chiaro che una vera fine dell’emergenza sanitaria non è possibile senza un rimpasto di governo che tocchi il Ministero della Salute, sia nei suoi vertici che in quel sottobosco di “consiglieri e comitati” che vaticinano ormai da mesi sull’epidemia, presentando invariabilmente dati e scenari apocalittici – quasi sempre smentiti a posteriori dei fatti – solo per giustificare il protrarsi di una strategia (chiusure e vaccini a oltranza) che si sta rivelando sempre più fallimentare. Finché infatti staranno al timone gli stessi uomini che sinora hanno imposto sempre la medesima (errata) strategia, saranno essi stessi a spingere verso errori sempre più grandi (arrivando financo a mentire per sostenere le loro tesi) pur di non dover ammettere che, alla fine, potrebbe essere proprio l’impostazione di fondo ad essere sbagliata. Incolpare una parte del popolo per gli errori che derivano da scelte politiche – mettendo gli italiani gli uni contro gli altri in un momento di grave crisi economica e sociale – è stato probabilmente solo l’ultimo espediente in ordine di tempo escogitato per nascondere ai cittadini le verità scomode. Ovviamente fomentare l’odio sociale a scopo politico in momenti di grave crisi nazionale non è condotta da statisti. Ma i nostri governanti – a questo punto Draghi incluso, spiace dirlo, specie considerando il contenuto di certe affermazioni rese nella conferenza stampa con cui ha annunciato il green pass – come statisti vanno rimandati in blocco a settembre (in tutti i sensi e sperando che ad agosto non riescano a far peggio di quanto hanno già fatto sinora).

Nel frattempo non mi resta che augurare buone vacanze, estesi rigorosamente sia ai vaccinati che ai non vaccinati.




L’Italia del post covid come laboratorio politico e sociale per un neo keynesianesimo non socialista

C’era una volta in Italia la sinistra. Era per lo più comunista e stava all’opposizione. Un’opposizione numericamente importante e molto influente a livello sociale. Al governo invece, dalla fine della guerra sino a tangentopoli, stava la democrazia cristiana, un partito un po’ cattolico, un po’ di destra ma anche un po’ di sinistra. Con Craxi il partito socialista, che era stato di sinistra, passava dall’opposizione al governo, diventando anch’esso di centro. Questo equilibrio tra sinistra di piazza e centro di governo ha funzionato per decenni, dando luogo a politiche economiche e sociali – di tipo keynesiano – capaci di creare un benessere diffuso ed esteso a diversi strati della popolazione. Eppure il miracolo italiano si fondava su un equivoco ideologico.

Soltanto la DC è stato infatti il movimento che ha davvero perseguito in Italia politiche keynesiane, mentre il PCI (insieme ai socialisti del dopoguerra) era un movimento politico profondamente legato al marxismo sovietico, che – di conseguenza – non ha mai condiviso ideologicamente quelle ricette. I comunisti accettavano le politiche democristiane, certo, ma esclusivamente per pragmatismo ed esigenza tattica, perché – rispetto alle ricette proposte dai liberali – il keynesianesimo democristiano conduceva a risultati più favorevoli per proletari e impiego pubblico (tradizionali bacini elettorali del PCI). Ma i comunisti, quelle ricette, non perdevano occasione per criticarle con forza “da sinistra”. Keynes – in altre parole – non è mai stato “abbastanza socialista” per un partito che considerava ancora Mosca il suo modello ideale di società. Dunque occorre dirlo chiaro: i nostri socialisti (quelli ortodossi) non sono mai stati keynesiani e mai hanno considerato Keynes “uno dei loro”. Del resto, non poteva che essere altrimenti, essendo noto che lo stesso J.M. Keynes aveva criticato il marxismo, giungendo a dichiarare apertamente di non riuscire a capirlo e di non trovarvi nulla di interessante.

A riprova di questo atteggiamento del socialismo storico nazionale verso l’economista britannico citiamo qui sotto – dal sito dell’Avanti – ampi stralci di un articolo di Gianfranco Sabattini del 26 novembre 2019 in cui si riassumono con chiarezza le ragioni per cui i socialisti ortodossi affermavano (ed affermano anche ora) che Keynes non poteva essere considerato socialista. “Poiché (Keynes, n.d.r.) non aveva previsto la necessità di allargare l’intervento pubblico, sino a realizzare un socialismo di Stato che abbracciasse la maggior parte della vita economica della collettività, Keynes, per i suoi critici marxisti, non è possibile ritenerlo un socialista; anche perché, essendosi egli limitato ad affermare che, per assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi, non è tanto necessario che lo Stato assuma la piena proprietà dei mezzi di produzione, quanto che agisca con la sua diretta iniziativa per promuovere un volume complessivo di produzione corrispondente alla piena occupazione, la teoria neo-classica che lui criticava ha avuto modo di riproporre la validità dei suoi algoritmi. Il non-socialismo di Keynes, quindi, non sarebbe tanto motivato sulla base del rifiuto del socialismo di Stato, quanto sul fatto che le sue prescrizioni varrebbero a riproporre la validità della teoria neo-classica, sia pure in presenza dell’azione diretta dello Stato, per stabilire un volume complessivo di produzione tale da richiedere la piena occupazione”. Per proseguire così: “Keynes, quindi, non può essere considerato un socialista, perché la sua analisi non coglie le contraddizioni intrinseche all’ordinamento del capitalismo, e perché la sua critica al pensiero economico tradizionale è limitata al rifiuto della validità solo di due dei massimi principi del liberalismo: il primo, che ogni singolo soggetto sociale, perseguendo egoisticamente la propria felicità, concorra a realizzare quella di tutti; il secondo, che il mercato sia il sistema in grado di contribuire, meglio di ogni altro, alla ricchezza generale e all’equa distribuzione del prodotto sociale. Con ciò Keynes avrebbe concorso a salvare il capitalismo, limitandosi ad indicare quanto di esso può essere salvaguardato per assicurare l’uso efficiente delle risorse”. E chiudere con un perentorio “ciononostante, il mito di un Keynes socialista si è stato preservato e il suo pensiero ha continuato ad essere proposto come alternativa all’economia di mercato e all’ideologia propria del liberalismo. In realtà, la sua critica alla teoria neo-classica non ha nulla a che vedere con la critica marxista del modo di produzione capitalista; ciò perché la critica keynesiana non è stata volta al superamento della logica del profitto, ma è stata orientata a porre rimedio alle sue contraddizioni, solo attraverso una “macro-gestione tecnica” dell’economia. Troppo poco perché Keynes possa essere considerato un socialista; secondo i critici marxisti, la sua denuncia dei presunti malfunzionamenti del capitalismo “liberale” non gli ha consentito di proporre una strategia politica, economica e sociale con cui “salvare” la civiltà nel lungo periodo”.

La cartina al tornasole di come stessero davvero le cose tra socialisti e keynesiani è del resto rappresentata dal rapporto della sinistra storica con la classe media italiana. La DC ha infatti costruito il proprio successo politico proprio sulla creazione del benessere in una ampia classe media che potremmo definire come “trasversale” (usando le categorie marxiste), in quanto composta tanto da dipendenti privati e pubblici (dunque da proletari) quanto da piccoli imprenditori, artigiani e professionisti (dunque da soggetti che erano detentori di mezzi di produzione). I socialisti ortodossi e i comunisti invece – ragionando in termini marxisti e leninisti – dividevano la classe media in due categorie: i lavoratori dipendenti, che erano dei proletari da tutelare, e tutti gli altri che invece erano kulaki ai quali espropriare (a colpi di tasse) il capitale e i mezzi di produzione. La sinistra storica italiana ha dunque – per decenni – sostenuto e alimentato la divisione sociale tra la classe media “buona” da tutelare e quella “cattiva” da colpire, laddove la DC ha cercato sempre una sintesi nel benessere diffuso, mirando a trasformare gli ex proletari in piccoli borghesi.

Tangentopoli, come è noto, spazzava via DC e pentapartito. Il vuoto politico veniva però rapidamente occupato da Berlusconi che, essendo un uomo d’impresa, non comprendeva immediatamente che il successo dello scudo crociato non era fondato sull’anticomunismo in quanto tale, bensì su una abile disattivazione per via keynesiana delle derive marxiste della porzione “proletaria” del ceto medio. Berlusconi voleva diventare un Craxi o un Andreotti senza averne compreso fino in fondo la politica. Questo spiega perché lo stesso Berlusconi – cavalcando l’onda della caduta del muro di Berlino – si impelagava in una retorica liberale (del tutto estranea al sentire dell’ex democristiano di classe media) e anticomunista (sentimento invece ben radicato nei “kulaki” nazionali). Il tutto col risultato di aggravare la polarizzazione e la divisione nella classe media del paese, dunque – in sostanza – facendo, a differenza della DC, esattamente il gioco della sinistra ex comunista, che ovviamente non chiedeva di meglio per proseguire coi vecchi slogan, dunque accusando Berlusconi di essere un fascista e l’amico degli evasori-kulaki e – di conseguenza – il nemico giurato di chi aveva il cuore a sinistra.

Guardando tuttavia ai programmi del centrodestra del post-tangentopoli, si nota come – passando il tempo – Berlusconi, dopo un inizio dai toni assai “liberali”, si sia via via spostato verso politiche di stampo più democristiano. Col tempo, probabilmente, Berlusconi aveva intuito cosa la DC voleva essere e perché ha avuto successo. Il punto che mancava a Berlusconi – o che forse ha realizzato solo quando era tardi – era che la DC era stata in grado di “disattivare” i marxisti con le politiche keynesiane, perché lo stato, in passato, era libero di far due cose: svalutare la moneta e far emettere alla banca d’Italia moneta per acquistare i titoli del debito pubblico emessi dal tesoro. Il miracolo italiano indotto dal keynesianesimo non socialista della DC era stato infatti finanziato con debito pubblico monetizzato e sostenuto da svalutazioni competitive della lira al fine di rafforzare l’esportazione senza dover ricorrere alla compressione salariale per recuperare competitività. Dunque Berlusconi non si è accorto che – a partire dal divorzio tra Banca d’Italia e tesoro ma, soprattutto, con l’adesione dell’Italia all’Euro e al trattato di Maastricht – riproporre la politica keynesiana con cui la DC aveva reso benestanti così tanti italiani, creando una classe media “allargata e trasversale” che aveva lasciato in panchina per diversi decenni i comunisti, era diventato impossibile.

In quegli stessi anni, la sinistra che era stata comunista – pur accogliendo nel partito esponenti della DC (in particolare i dossettiani facenti capo a Prodi) – anche dopo la caduta del muro di Berlino era invece restata leninista, seguitando tetragona a perseguire l’ideale dell’ugualitarismo “al ribasso”. Laddove la DC aveva cercato di usare la spesa pubblica – finanziata col debito pubblico – per creare una sempre più ampia classe media (dunque con una spinta a migliorare il tenore di vita dei lavoratori dipendenti), la sinistra, anche dopo tangentopoli, continuava invece a concepire l’intervento pubblico essenzialmente come strumento – fondato sul prelievo fiscale – per “redistribuire” la ricchezza, dunque per rendere tutti uguali, ma al ribasso. In breve: mentre la DC voleva (ed era riuscita per decenni a) usare il debito pubblico per rendere borghese il proletario, la sinistra italiana ha sempre voluto (e vuole ancora oggi) usare le tasse per ridurre il borghese alla condizione di proletario.

La maniera in cui gli ex comunisti intendono l’uguaglianza è tuttavia, paradossalmente, quella che risultava più gradita ai nuovi padroni della globalizzazione: assai più del vecchio keynesianesimo democristiano. Questo spiega perché a “spingere” tangentopoli (ma soprattutto le riforme che sono seguite alla mattanza del pentapartito) ci siano stati interessi finanziari e imprenditoriali (anche stranieri) di vario tipo e genere. Anzi, spiega bene perché quegli stessi interessi avessero iniziato a “lavorare ai fianchi” il sistema democristiano ben prima di tangentopoli, a partire appunto dal divorzio tra bankitalia e Ministero del tesoro, che può considerarsi senza dubbio l’inizio della fine del keynesianesimo all’italiana. Può dunque essere il caso di fare una breve digressione sul tema.

Il libero mercato – in mancanza di correttivi adeguati – spinge naturalmente il lato dell’offerta verso le concentrazioni e l’oligopolio. E gli oligopolisti, non dovendo per definizione temere la concorrenza dei loro pari, finiscono per concepire la questione della produttività in termini di ricerca tecnologica e riduzione di costi. Dal canto suo, il sistema finanziario – che nel frattempo, anche in Italia, aveva visto la cancellazione della distinzione tra banche d’affari e banche a tutela del risparmio e del credito diffuso – non vedeva di buon occhio politiche espansive, in quanto potenzialmente inflattive, e per altro verso aveva tutto l’interesse a prestare danaro ai “solidi” oligopolisti piuttosto che non alla piccola borghesia imprenditoriale, meno remunerativa in termini di rendimento e meno affidabile in termini di solvibilità. Se dunque lo stato non poteva più iniettare ricchezza nell’economia usando il debito monetizzato, ecco che le banche potevano sostituirlo, ovviamente lucrandoci sopra. Ma, a differenza dello Stato che era stato disposto per ragioni politiche a “finanziare” ampiamente anche la piccola borghesia imprenditoriale, le banche (ormai tutte banche d’affari) avevano un chiaro interesse a prestare soldi esclusivamente alle imprese più “performanti”, ossia quelle grandi e strutturate. Per altro verso, se lo stato dismetteva le sue partecipazioni nelle grandi imprese pubbliche, ecco che le finanziarie di venture capital potevano sostituirlo, ma per fare utile. E, anche qui, investire soldi in grandi imprese in situazione di oligopolio era certamente un affare assai più lucrativo che non tutelare il risparmio e far credito alla piccola e media impresa. Infine, se lo stato non poteva più far debito pubblico “facile”, l’inflazione restava bassa e le imprese potevano comprimere i costi, soprattutto quello del lavoro. Una situazione che conveniva sia alle grandi imprese (che tagliavano i costi invece che fare ricerca e innovazione) sia alle banche (che potevano iniziare a fare credito al consumo anche ai lavoratori a basso reddito che non erano più in grado di risparmiare).

Questo significa, in sostanza, che tanto gli oligopolisti quanto le grandi banche d’affari e i grandi investitori istituzionali – tra le altre cose – erano (e sono) tutt’altro che contrari, da un lato, alla distruzione della piccola e media impresa (concorrenti fastidiosi e debitori meno affidabili) e, dall’altro, a un’economia a crescita moderata, sostenuta dal lavoro di una massa di proletari poco pagati e finanziata da un sistema creditizio che elargisce prestiti a tassi contenuti alle poche imprese di grandi dimensioni che in tal modo si spartiscono il mercato esercitando una posizione dominante collettiva. Ecco dunque spiegate le ragioni per cui tanto la finanza quanto la grande impresa sono state disposte a scendere a patti con gli eredi della nostra sinistra storica, ad esempio concedendo che alla massa degli ugualmente poveri – invece di un lavoro stabile e adeguatamente remunerato  – fosse concesso, ad integrazione di impieghi precari e poco pagati, un sussidio o qualche posto pubblico precarizzato.

Da parte sua, alla sinistra che era stata comunista, bastava rinunciare al dogma del monopolio pubblico dei fattori produttivi e i termini dell’accordo col grande capitale erano belli e pronti: riduzione complessiva del welfare pubblico e aumento della tassazione sulla classe media (anche su patrimonio e risparmio) con utilizzo delle risorse, da un lato, per fornire servizi gratuiti di assistenza solo ai cittadini in situazione di indigenza certificata e, dall’altro lato, per attuare politiche di incentivo sul lato dell’offerta di fatto accessibili solo per le grandi imprese e i grandi operatori finanziari e – infine –  concedendo dei sussidi assistenziali agli inoccupati e/o ai salariati sottopagati, con conservazione delle “vecchie” garanzie di stabilità e progressione salariale solo per il pubblico impiego, al prezzo – per il settore privato – di accettare una generalizzata compressione dei salari e una progressiva precarizzazione del lavoro (compensata appunto dai sussidi di stato).

Tra sinistra ex comunista, grandi oligopoli nazionali e stranieri e finanza internazionale si è insomma creata – a partire dagli anni novanta del secolo scorso – una convergenza di interessi nel senso di trasformare progressivamente l’Italia (ma il discorso vale anche per altri stati del sud Europa, come ad esempio Francia e Spagna) da una società del welfare diffuso in una società orizzontale di ugualmente poveri e sussidiati, sostenuta dall’influenza degli oligopoli e della finanza così come dal voto dei rentier così come dei poveri sussidiati, di quello dei dipendenti privati sindacalizzati e delle varie burocrazie e clientele pubbliche. Nel contesto di questo nuovo modello sociale, gli ex comunisti potevano infatti ritagliarsi il ruolo di elite burocratica e politica che gestisce il potere e le risorse pubbliche (dunque, grosso modo, il ruolo che avrebbero rivestito in un sistema di socialismo reale), lasciando tuttavia agli oligopoli privati sostenuti dalle banche e dagli investitori istituzionali (invece che alle imprese di stato) il compito di dare lavoro (poco pagato) ad una parte della popolazione attiva e di creare la ricchezza necessaria per consentire allo stato di distribuire ancora salari e posti pubblici e/o sussidi agli inoccupati. Il tutto garantendo la presenza costante nel paese di una grande massa di cittadini impoveriti e sussidiati e di dipendenti pubblici che, avendo un interesse alla continuità del “sistema”, sarebbero stati elettori assai fedeli di quella stessa sinistra che faceva favori ai loro padroni. E quando i poveri autoctoni hanno iniziato a scarseggiare (per ragioni demografiche), ecco che la soluzione per mantenere il sistema in piedi veniva immediatamente trovata dalla nuova sinistra nell’importazione dei poveri da altri paesi, mediante una politica dell’immigrazione (e – in prospettiva – della concessione della cittadinanza) a maglie a dir poco larghe.

Il vecchio comunismo socialista, a valle dello schianto del blocco sovietico, si è insomma evoluto in un neo-statalismo più mercantilista che marxista, nel senso che diversi principi tradizionali della vecchia sinistra ortodossa sono stati sacrificati dai post comunisti sull’altare dell’alleanza strategica con gli interessi degli oligopoli e la finanza. Questa è dunque l’essenza ultima dell’azione politica delle forze della neo-sinistra italiana (PD e M5S), ma che ispira anche – in Europa – la cosiddetta “grande coalizione” tra popolari e socialisti. Questa deriva del resto spiega bene anche perché l’ex PC (ora PD) manifesti di recente sempre più forti simpatie sia verso i democratici americani e professi una incondizionata adesione, per non dire aperta sudditanza, vero le politiche rigoriste e deflattive dell’UE a trazione tedesca. I post comunisti di casa nostra sono fatalmente attratti dal vincolo esterno dell’UE rigorista e deflattiva, in quanto vi scorgono – analogamente a quanto accadeva con l’URSS prima della caduta del muro – l’appiglio ideologico ideale per continuare la loro narrazione fondata sull’eterna lotta al kulako che impoverisce il proletario. Certo, tutto questo avviene al prezzo di consegnare il tenore di vita del proletario ai padroni delle ferriere e ai grandi banchieri. Però, tutto sommato, se quei padroni sono pochi, dare in pasto agli elettori di sinistra la rovina della piccola borghesia potrebbe bastare per evitare che la base elettorale del partito scenda al di sotto di un certo livello. Il resto lo fanno il deep state, l’informazione e la cultura “amiche” oltre naturalmente all’influenza economica di quegli stessi padroni. Sinora peraltro, lo schema ha funzionato molto bene, contando che il PD è da dieci anni che governa senza quasi mai aver vinto le elezioni.

Per giungere ad un simile risultato, come si diceva, la sinistra giallorossa ha accettato di sacrificare il tema del benessere diffuso dei cittadini in nome dell’ugualitarismo classista al ribasso, “finanziato” e sostenuto dalla pretesa maggiore efficienza, in termini aggregati, dal mercato oligopolistico a trazione finanziaria e dalle politiche deflattive e rigoriste imposte all’Italia dai paesi del nord Europa per mezzo del vincolo esterno dell’UE. La nuova sinistra ha smesso di promettere progresso economico al paese, riducendosi a garantire ai suoi elettori che – nella decrescita – almeno il loro vicino di casa non potrà avere qualcosa più loro (tutto questo, ovviamente, al prezzo di far accettare a quegli stessi elettori che i pochissimi padroni del vapore abbiano tantissimo). La deriva dalle “sorti progressive” di un tempo verso la decrescita felice con sollecitazione dell’invidia verso il kulako di oggi, insomma, è il destino cui vanno incontro gli eredi della tradizione del PCI così come gli ex contestatori del sistema a suon di vaffa. Un destino mesto e – visti i presupposti ideologici di partenza – ben poco esaltante. Non stupisce dunque che la “nuova sinistra” sia oggetto di critica anche “da sinistra”.

Di recente si sono moltiplicate infatti nel dibattito le voci che, dichiarandosi “di vera sinistra”, sostengono che la neo-sinistra piddo-grillina sarebbe niente meno che “neoliberista”, dunque omettendo di considerare che il fatto che la sinistra attuale di certo ha abbandonato alcuni dogmi marxisti, ma in compenso è restata classista (seppure restando legata alle classi ottocentesche, senza essere capace di usare l’analisi marxista per rileggere i rapporti di classe alla luce della situazione sociale attuale) e pure in certo modo è ancora leninista nel suo odio per la classe media, dunque che – in sostanza – è ancora “un po’ comunista”. Ma è proprio qui che emerge il tic gauchista più duro a morire (e che, come vedremo, rende velleitari i tentativi di criticare la sinistra da sinistra): l’incapacità di separare Marx (e la sua teoria sociale ed economica) da Lenin (e il sistema di socialismo reale), con conseguente difficoltà a ripensare Marx in modo non integralista, vale a dire riuscendo a mettere in discussione alcuni dei suoi aspetti.

Quello che i neo-gauchisti faticano a intuire è probabilmente che la nuova sinistra “ufficiale” – ossia PD e M5S – persegue in fin dei conti lo stesso fine ultimo di Marx (uguaglianza di un popolo fatto quasi solo di lavoratori dipendenti) per mezzo di una struttura sociale simile a quella che voleva lo stesso Lenin (elite ristretta che gestisce in autonomia e in modo centralizzato il potere politico ed economico), con la differenza però che – per la neo-sinistra in salsa europeista giallorossa – gli apparati politici e burocratici occupati dal partito spartiscono l’appartenenza alla cerchia della ristretta elite di potere con pochi grandi (oligo)capitalisti e con i padroni della moneta privata (dunque non rispettando il dogma marxista della proprietà pubblica dei mezzi di produzione). Siccome però lo stesso Marx sosteneva che la società comunista sarebbe sorta spontaneamente per effetto delle contraddizioni del capitalismo (mentre Lenin, con la dittatura del proletariato e il socialismo reale sovietico, intendeva solo dare un “aiutino” alla storia per velocizzare il processo dialettico), ecco che per un elettore medio di sinistra (che sia poco attento all’ortodossia ideologica, ma dotato della naturale invidia che spesso lo connota) è possibile leggere questa nuova fase come un passaggio intermedio (alternativo al socialismo reale ispirato al leninismo) nell’evoluzione del sistema capitalistico verso la società comunista dell’uguaglianza (al ribasso) che da sempre quel tipo di elettore vagheggia. Ed ecco spiegato il modo in cui la sinistra giallorossa – facendo leva in pratica solo sull’invidia sociale – riesce ad autoassolversi davanti a Marx, continuando ad apparire “autenticamente di sinistra” ai suoi elettori. Questa è del resto anche la ragione per cui i post comunisti del PD (così come i neo pauperisti del M5S) non hanno avuto problemi di sorta a mandare al macero il Keynesianesimo per sposare una specie di leninismo del mercato capace di sostenere al contempo gli oligopoli e le grandi banche, il rigore dei conti pubblici, la disoccupazione assistita, il reddito di cittadinanza e il mercantilismo globalista. Anzi, proprio la deriva antikeynesiana dei postcomunisti da quando sono arrivati al governo, rappresenta la conferma definitiva del fatto che il comunismo italiano non è mai stato keynesiano, ma – nella sua effettiva attuazione in prassi politica – profondamente leninista e sovietico (ancor più che marxista).

Chi invece critica la nuova sinistra da sinistra lo fa proponendo un “ritorno” al modello di sviluppo keynesiano, sul presupposto che quel modello sarebbe “autenticamente di sinistra”, perché corrisponde a quello pensato dai vecchi comunisti e socialisti italiani che hanno contribuito alla stesura della carta costituzionale. Il problema è che, a differenza della DC (e degli altri partiti che poi avrebbero costituito il “pentapartito”) che erano keynesiani, il socialismo tradizionale e il comunismo in Italia – come si è visto all’inizio di questo scritto – non sono mai stati keynesiani. Questo significa che i “neo socialisti costituzionali” di oggi si trovano costretti a proporre, spacciandola per autenticamente di sinistra, una costituzione economica (keynesiana) che i veri marxisti e socialisti dell’epoca (cui, si badi bene, questi nuovi “veri socialisti” vorrebbero ispirarsi) criticavano duramente proprio perché non la consideravano abbastanza socialista. Il che finisce per disorientare – inconsciamente – l’elettore medio di sinistra, per il quale essere di sinistra, proprio grazie alla lunga stagione del PCI, non può significare tornare alle politiche democristiane, ma semmai consiste nel considerare ancora il kulako come la sola causa di tutti i mali dei poveri, con la conseguenza che, per l’elettore medio che si riconosce nell’ideologia delle sinistra storica italiana, è difficile pensare che possa essere essere davvero “di sinistra” una qualunque proposta di politica economica che consente ai bottegai o agli idraulici di arricchirsi più degli operai.

Criticare la sinistra giallorossa “da sinistra”, nel nome della tradizione socialista e comunista, non porta dunque molto lontano, per il semplice fatto che i cittadini che mettono l’uguaglianza davanti alla crescita equilibrata della ricchezza (tratto assai comune a sinistra, sia nell’elettorato del vecchio PCI che in quello piddo-grillino cresciuto a pane e odio verso Berlusconi) si sono ormai quasi tutti naturalmente convertiti alle idee della “nuova” sinistra giallorossa, parte politica che sostiene con forza la retorica (tradizionale del comunismo italiano ma proseguita con l’antiberlusconismo) della lotta alle disuguaglianze mediante la disgregazione del benessere del ceto medio. I giallorossi, dunque, in sostanza cercano e trovano ancora i loro voti come i loro illustri predecessori, essenzialmente aizzando la massa degli ultimi contro i penultimi, ma lo fanno ora per favorire (oltre a sé stessi a livello politico) i pochissimi primi del grande capitale globalizzato. I nuovi “keynesiani socialisti” si sforzano invece di criticare la sinistra giallorossa sostenendo le stesse ricette democristiane che il socialismo tradizionale in passato non ha mai condiviso ideologicamente, ma anzi ha sempre attaccato. Critica che – dunque – è inevitabilmente destinata ad infrangersi contro la spessa coltre di invidia sociale che la sinistra ufficiale (comunista prima e antiberlusconiana poi) non ha mai smesso di creare nel paese dal dopoguerra ad oggi.

Tutto questo mi porta a concludere che, se qualcuno volesse proporre oggi in modo credibile il ritorno alle ricette dell’epoca d’oro del dopoguerra keynesiano, dovrebbe per prima cosa avere il coraggio di smarcarsi dall’eredità ideologica comunista e socialista, rifacendosi assai più a un De Gasperi e a un Mattei piuttosto che non, tanto per fare quale esempio illustre, a un Lelio Basso o a un Berlinguer. Ma i neogauchisti di casa nostra questo difficilmente potranno farlo, in sostanza perché sono ancora dei nostalgici, che – a livello profondo – non hanno ben metabolizzato la caduta dell’URSS, non accettando in particolare il dato storico per cui il socialismo reale sovietico è fallito perché modello economico meno efficiente, in termini di produzione di ricchezza aggregata, rispetto al mercato. Riconoscere questo, infatti, li avrebbe obbligati ad ammettere che la strada per l’attuazione del marxismo pensata in URSS (e risalente al bolscevismo leninista) non rappresenta più il modello cui un marxista moderno dovrebbe ispirarsi per far evolvere il capitalismo nella società comunista descritta da Marx. Questa resistenza inconscia a restare marxisti pur “lasciando Mosca” fa in modo che la maggior parte di chi critica la sinistra da sinistra non riesca a collocarsi politicamente: risulterà infatti non abbastanza “socialista” (nel senso non sufficientemente anti piccolo borghese) per la massa dei convertiti alla neo-sinistra piddo-grillina dell’invidia sociale, sarà ovviamente troppo marxista per i liberali ma – quel che è paggio – risulterà ancora troppo “comunista” per tutti i moderati (di centro) che, non essendo liberisti, sarebbero comunque a favore di politiche keynesiane volte a creare un benessere maggiore e diffuso. I nostalgici del socialismo postbellico (quello comunista e marxista), nella misura in cui parlano da Keynesiani ma usando come auctoritas dei padri costituenti socialisti e comunisti, si condannano dunque all’irrilevanza politica.

Dalla sostanziale sterilità delle critiche “da sinistra” alla nuova sinistra si deduce che quello che con ogni probabilità manca nel nostro panorama politico e sociale – come credibile antitesi dialettica del pensiero unico vertente sul dirigismo oligopolistico e mercantilista del nuovo centro-sinistra giallorosso – è un movimento keynesiano, che – senza cercare padri nobili o geniture ideologiche nella tradizione socialista e comunista del dopoguerra – metta semplicemente al centro del proprio programma delle politiche economiche espansive e anticicliche. Un movimento che, in altre parole, persegua – restando equidistante sotto il profilo ideologico tanto dal socialismo quanto dal neo-liberalismo classico – la creazione di un benessere diffuso e ben distribuito mediante lo stimolo alla domanda interna e la creazione di lavoro, evitando di cadere nella facile retorica della dekulakizzazione del ceto medio così come nella facile scappatoia dell’assistenzialismo strutturale come misura idonea per risolvere il problema della povertà indotta dalla carenza di lavoro. D’altro canto, questo movimento neo-keynesiano dovrebbe respingere con decisione una serie di concetti liberali che invece oggi vanno per la maggiore, quali l’austerità come virtù a prescindere, l’inoccupazione sussidiata e la estrema flessibilità del lavoro come valido strumento di soluzione del disagio sociale, il taglio della spesa pubblica come bene assoluto e l’inflazione come male assoluto. Sul versante dell’impiego pubblico, essere keynesiani vuol dire ammettere che assumere dipendenti pubblici (o investire in appalti pubblici) per fare cose utili è cosa buona, mentre non essere socialisti significa riconoscere d’altro canto che invece non è affatto cosa buona assumere persone che non vanno a fare cose utili né è cosa buona finanziare con danaro pubblico attività inutili. E si noti che mi sono riferito ad attività “utili” e non “necessarie”, per sottolineare che l’impiego di risorse pubbliche nell’economica non va ritenuto un male da ridurre al minimo, bensì – quando serve a far qualunque qualcosa che vada oltre il solo fatto di dotare di reddito spendibile una persona (per quello basta il reddito di cittadinanza, che è misura più socialista che keynesiana) – è comunque un arricchimento per il paese. Il debito pubblico è infatti ricchezza privata. Essere keynesiani ma non liberisti, infine, dovrebbe significare anche – contro i dogmi del capitalismo finanziario –  riconoscere che il credito e le banche devono avere anche la funzione di favorire il risparmio diffuso e l’incentivo a far credito alla piccola e media impresa territoriale, non rappresentando solo strumenti per la moltiplicazione del danaro e per l’investimento speculativo.

Si tratta peraltro di principi tutti ampiamente riconosciuti nella nostra Costituzione (che ha un impianto keynesiano, anche se questo assetto deriva in realtà dal compromesso tra liberali e comunisti, sotto la spinta del mondo cattolico) e che si pongono nel solco della dottrina sociale tradizionale della chiesa cattolica, ai quali potrebbero dunque prestare adesione sia elettori liberali moderati, sia di area cattolica. Per altro verso, si tratta di principi che non dovrebbero dispiacere a quegli elettori di sinistra, che hanno saputo superare il “trauma sovietico” e la retorica leninista fondata sull’invidia sociale verso il kulako.

Per tutti questi elettori il mercato può insomma ancora ben rappresentare la trave portante dell’economia nazionale, a patto che non si guardi con sfavore preconcetto – come invece predica la vulgata attuale del mainstream mercantilista della nuova sinistra europea – all’intervento pubblico per stimolare la domanda interna e la crescita della piccola e media impresa. Si badi bene, infatti, che anche nella società del mercantilismo oligopolista a trazione finanziaria vengono spesi soldi pubblici. E ne vengono spesi anzi parecchi, ma solo per alimentare le burocrazie e le clientele pubbliche e per incentivare le grandi imprese e banche private. Chi invece lavora nel privato (dipendente o kulako che sia), viene tagliato fuori dal circuito degli incentivi e, anzi, è chiamato a subire (sia fiscalmente che a livello di reddito) la forte deflazione artificialmente indotta dal meccanismo del rigore dei conti pubblici in presenza di una alta spesa pubblica di cui non può beneficiare. Un movimento neo keynesiano (non socialista) dovrebbe dunque proporsi come interprete della coscienza di classe di questa ampia e trasversale categoria di classi lavoratrice e produttrici oppresse dai percettori di rendite pubbliche e private. Che poi è quello che era riuscita a fare – più o meno consapevolmente, grazie al gioco delle correnti interne – la vecchia democrazia cristiana.

Certo, per portare avanti una linea politica di questo genere occorrono risorse (che non siano reperite nei redditi e nei risparmi del ceto medio lavoratore). Questo significa che, per attuare il paradigma keynesiano in un sistema di economia di mercato, diviene ineludibile sottrarre i decisori politici alla necessità di farsi prestare le risorse della finanza privata, che in cambio chiede incentivi alla produttività, strette fiscali mirate sui lavoratori, precariato e compressione salariale. Dunque, voler essere keynesiani oggi in Europa significa mettere sul tavolo il tema di un ritorno alla possibilità per le banche centrali di acquistare i titoli emessi dal tesoro e di emettere moneta per farlo, tornando ad agire come prestatori di ultima istanza. Inoltre, occorre anche affrontare la questione della restituzione ai governi nazionali della possibilità di svalutare competitivamente la moneta, invece di obbligarli – con un sistema di cambi fissi in aree economiche non omogenee – a svalutare il lavoro. Tutto questo porta inevitabilmente al “problema dei problemi”, rappresentato dal rapporto dell’Italia con l’Euro e con la costituzione economica del trattato UE.

Si tratta di un problema ormai ineludibile: la nostra costituzione economica è chiaramente keynesiana e dunque è ispirata a principi pressoché opposti rispetto a quella dei trattati fondamentali dell’UE. Questo significa che qualunque movimento che voglia oggi essere keynesiano ma non socialista deve dunque in certa misura essere anche sovranista (quanto meno sui temi di politica monetaria e sulla questione del controllo del tesoro sulla banca centrale). Quella del sovranismo in politica economica è infatti questione tutt’altro che ideologica, considerando che l’attuazione della nostra costituzione economica nazionale, in passato, ci ha resi ricchi ed ammirati nel mondo (tanto da giungere ad essere la quinta potenza economica mondiale), mentre – da quando abbiamo iniziato ad adeguarci alla costituzione economica impostaci dall’unione europea – ci siamo impoveriti progressivamente e, ormai, veniamo trattati dagli altri paesi dell’UE come uno stato mezzo fallito e come un popolo di incapaci e fannulloni. E la scusa della spesa pubblica eccessiva (con annessa retorica del “vivere al di sopra della proprie possibilità”) non regge di fronte alla constatazione che – prima dell’esplosione del debito da covid – il paese è stato in costante avanzo primario per due decenni e che, se il debito si allargava, era solo per pagare gli interessi su operazioni finanziarie (sbagliate) fatte dal Tesoro decenni addietro: interessi che, manco a dirlo, stanno arricchendo le grandi banche d’affari internazionali. In sostanza: siamo rimasti in debito per pagare interessi spropositati alle banche d’affari che ci avevano prestato soldi quando gli interessi erano alti e che, invece, noi dobbiamo restituire quando gli interessi sono bassi. Quello della spesa pubblica eccessiva è dunque un mito. Del resto, se fosse stato così, come si potrebbe spiegare il fatto che per decenni sono stati tagliati tutti i servizi pubblici, sono aumentate le imposte e il debito pubblico è comunque salito?

Dunque la verità è che gli stati del nord Europa è da decenni che ci legano mani e piedi – con regole unioniste di rigore di bilancio ritagliate per funzionare bene solo coi loro modelli economici – per poi poterci meglio accusare di non saper stare al loro passo ed obbligarci ad adottare misure di austerità che ci legano ancora di più. La cosa più grave non è peraltro la comprensibile volontà degli altri stati di perseguire il loro interessi nazionali a danno nostro, bensì il fatto che – qui da noi – tanto i liberal-liberisti all’amatriciana quanto gli ex comunisti e molti dei neo tribuni della plebe grillini (tutti folgorati sulla via di Bruxelles) si fanno in quattro per sostenere questa retorica anti-italiana, forse dimenticando che – quando quelle splendide regole unioniste non c’erano e dunque la piccola borghesia nazionale e le imprese di stato erano lasciate libere di fare “a modo nostro” – nel paese c’erano meno disuguaglianze e più ricchezza, tanto che erano gli stati del nord Europa a dover rincorrere noi.

Ma forse qualcosa si muove, per effetto dello scossone subito dal sistema per effetto del ciclone Covid. Se si presta attenzione alle fibrillazioni politiche seguite alla chiamata a Palazzo Chigi di Mario Draghi per guidare un governo di salvezza nazionale (e – soprattutto – a quelle attualmente in corso per il Quirinale), si comprende che in pentola sta bollendo qualcosa di grosso. Non credo che tutti gli attori politici del processo siano consapevoli di quel che sta accadendo, ma – per dirla con Hegel – la dialettica storica agisce spesso a prescindere dagli (e addirittura contro gli) intenti delle persone che di volta in volta la incarnano. Fatto sta che Mario Draghi è allievo di Federico Caffè, non è di certo né socialista né marxista, è vicino a certo mondo cattolico, non ha mai mostrato particolare simpatia per le politiche rigoriste dell’UE (dunque risultando inviso ai tedeschi), ma soprattutto a Rimini, l’estate dell’anno scorso, ha tenuto un discorso interessante (qui il mio commento). Inoltre – con le prossime elezioni politiche italiane e, ancora prima, con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica – assisteremo con ogni probabilità a uno spostamento verso destra (e verso una destra che include una forte componente sovranista) del baricentro politico delle istituzioni nazionali. Il che potrebbe favorire l’inizio di una stagione politica nel segno della discontinuità rispetto al decennio piddino prima e piddo-grillino dopo.

Contando allora che – nel frattempo – si svolgeranno anche elezioni politiche sia in Germania (con probabile vittoria dei falchi dell’austerità, che dovrebbero far cessare le attuali politiche monetarie espansive della BCE) sia Francia (in cui Macron è sempre più debole di fronte alla destra nazionalista e, in caso di cessazione della politica espansiva, si troverebbe a gestire un bilancio pubblico peggiore del nostro); ma contando anche sul fatto che è in atto da tempo un duro scontro a livello geopolitico tra Stati Uniti e Germania (sempre più vicina alla Cina e alla Russia); e contando infine sul fatto che gli Stati Uniti hanno adottato un poderoso pacchetto di stimoli economici monetari alla loro economia che andrà avanti qualche anno, mentre l’UE – sotto spinta della Germania e dei soliti “frugali” – sta già iniziando a mostrare i primi segni di voler cessare il quantitative easing post covid; tenendo conto di tutti questi fattori – dicevamo – il quadro geopolitico appare propizio per consentire un cambiamento di traiettoria in senso neo-keynesiano nella nostra politica economica nazionale. Stiamo dunque a vedere, perché viviamo tempi difficili ma anche interessanti e – forse – di svolta. Potrebbe essere infatti che questa volta la “crisi” sia vera, nel senso di corrispondere all’etimo greco della parola.




Le possibili ragioni dell’insistenza del Ministero della Salute sulla questione dei protocolli di cura domiciliare del Covid.

Ha destato un certo scalpore sui social media la notizia che AIFA e Ministero della Salute hanno impugnato – con esito positivo – la sospensiva concessa dal TAR sul famoso protocollo “Tachipirina e vigile attesa” per il trattamento dei casi di Covid. Il TAR, sospendendo il protocollo in via provvisoria con una decisione d’urgenza, aveva infatti in prima battuta lasciato liberi i medici di trattare simili casi in scienza e coscienza senza rischiare l’aggravio in termini di possibile responsabilità professionale derivante dal fatto di essersi discostati dai protocolli indicati dal Ministero. Tutto sommato, la sospensiva poteva essere considerata un risultato accettabile per il Ministero, che avrebbe potuto lasciar fare, sostenendo di voler rispettare la decisione dei giudici, lavandosi in tal modo le mani dall’accusa di voler mantenere a tutti i cosi un protocollo assai criticato. E invece Ministero e AIFA hanno insistito, impugnando la sospensiva dinanzi al Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso, con l’effetto di rimettere Speranza sul banco dei “cattivi” che non vogliono curare la gente. Perché dunque tutta questa insistenza, quando la decisione del TAR avrebbe in certo modo levato le castagne dal fuoco anche al Ministro?

A prima vista si potrebbe pensare che tratti dell’ennesimo esempio della inveterata tendenza dei nostri politici, quando si rendono conto di aver commesso un errore, a perseverare nell’errore (in modo da sostenere di non aver sbagliato) invece che assumersene la responsabilità dinanzi agli elettori, tentando di rimediare. Speranza avrebbe insomma semplicemente difeso il suo operato passato per non indebolirsi politicamente. Esiste tuttavia una lettura alternativa della vicenda, nel senso che l’insistenza nella difesa dei protocolli di “non cura” potrebbe in realtà dipendere dalla necessità di tutelare interessi assai più importanti rispetto alla “tenuta politica” di un ministro. Ma per capire quali potrebbero essere questi interessi occorre partire dall’analisi del contenuto della decisione del Consiglio di Stato che ha annullato la sospensiva del TAR. In particolare va sottolineato che il Consiglio di Stato ha espressamente affermato che va in ogni caso salvaguardata la liberta dei medici di curare in scienza e coscienza il Covid, di guisa che l’unico vero effetto della decisione di annullare la sospensiva è quello di non far venire meno l’efficacia giuridica del protocollo “tachipirina e vigile attesa”. Quel protocollo, dunque, oggi esiste e non esiste allo stesso tempo: esiste formalmente in quanto non ne è stata sospesa l’efficacia, ma non esiste sul piano degli effetti sostanziali perché il Consiglio di Stato ha anche sostenuto che non deve considerarsi vincolante per i medici. Perché dunque questo bizantinismo? Per capirlo occorre guardare altrove, in particolare al contenuto dei regolamenti relativi alle autorizzazioni al commercio dei farmaci (e dunque dei vaccini), per capire che in realtà l’effetto del protocollo che il Consiglio di Stato ha “salvato” si colloca su un piano differente rispetto a quello della responsabilità medica.

Come è noto, le autorizzazioni all’immissione in commercio dei vaccini Covid (di tutti i vaccini Covid attualmente presenti sul mercato dei paesi UE) sono autorizzazioni cosiddette “condizionate”. Per quanto la vulgata sostenga che si tratti di vaccini “sperimentali”, in realtà i vaccini in questione sono stati sperimentati, ma in misura non sufficiente per generare la documentazione ritenuta idonea – in condizioni normali – perché l’EMA (ossia l’agenzia europea del farmaco) conceda l’autorizzazione al commercio. Diciamo dunque che si tratta di vaccini sperimentati, ma non abbastanza per gli standard dei tempi ordinari. I regolamenti comunitari prevedono tuttavia che si possa comunque autorizzare la commercializzazione di farmaci (e dunque di vaccini) per i quali il fascicolo sperimentale non è ancora completo, a patto che vengano rispettate una serie di condizioni, tra le quali vi è quella della necessità e urgenza del trattamento sanitario corrispondente. L’autorizzazione subordinata a condizioni serve in altre parole a rendere prioritaria una procedura di autorizzazione, in modo da sveltire l’approvazione di trattamenti e vaccini ad esempio durante situazioni di emergenza per la salute pubblica. In particolare il regolamento UE sulle autorizzazioni dei medicinali prevede che una autorizzazione condizionata possa essere concessa – sulla base di dati meno completi di quelli normalmente richiesti – per farmaci che rispondono a una esigenza medica non soddisfatta adeguatamente da altre terapie.

Il concetto di “esigenza medica non soddisfatta” ovviamente significa – in parole povere – che non deve esistere già una cura alternativa ritenuta efficace per la malattia. Se dunque una cura alternativa efficace esistesse per il Covid – e, in particolare, se il Ministero della salute o l’AIFA riconoscessero ufficialmente che una cura efficace esiste, ecco che metterebbero a rischio la validità delle autorizzazioni condizionate all’immissione al commercio dei vaccini, per mancanza di una condizione essenziale, rappresentata appunto dall’esigenza medica non soddisfatta. E, si badi, anche se AIFA e Ministero non ritirassero le autorizzazioni in questione (eventualmente sostenendo che solo l’Agenzia Europea del Farmaco abbia il potere di farlo), da un lato avrebbero creato un imbarazzo all’EMA e, dall’altro, permarrebbe il rischio che qualunque soggetto interessato potrebbe agire dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per far dichiarare nulle le determinazioni AIFA che hanno rese efficaci in Italia le autorizzazioni (condizionate) concesse a dall’Agenzia Europea del Farmaco sui vari vaccini. Per farla breve: se si trovasse davvero una cura per il Covid certificata come efficace da qualche Ministero della salute di uno stato membro dell’UE, potrebbe venire giù tutto il castello costruito sulla ricetta europea “lockdown fino ai vaccini” – verosimilmente decisa nell’aprile del 2020 in un incontro dei governi dei maggiori paesi UE – che tanti disastri (economici e forse non solo) ha sinora provocato nel vecchio continente. Il che sarebbe uno smacco clamoroso per l’UE e per le forze politiche che tanto si sono spese per appoggiare l’approccio vaccinale (e dunque chiusurista) di reazione al Covid. Ma non basta ancora: se venissero meno per quella ragione le autorizzazioni al commercio dei vaccini, gli stati si troverebbero anche nella scomoda situazione di dover pagare miliardi di euro alle case farmaceutiche per l’acquisto di vaccini che non potrebbero poi neppure somministrare ai loro cittadini. E qui sarebbe la Commissione Europea a finire inevitabilmente sulla graticola, accusata dagli stati membri di aver fatto loro spendere un mucchio di danaro per nulla.

Questa lettura spiegherebbe del resto bene anche perché il Ministero – nell’accingersi a rivedere il protocollo della tachipirina e vigile attesa – si sia premurato, a quanto pare, di chiamare solo esperti contrari alle cure domiciliari e dunque favorevoli al vecchio schema. Anche qui – infatti – la ragione per l’adozione di un nuovo protocollo potrebbe non essere quella di verificare se davvero, e come, si può curare la malattia precocemente in modo efficace (con l’effetto di sgravare le strutture ospedaliere della pressione generata dai ricoveri dei malati di Covid), ma semmai poter continuare a sostenere ufficialmente che le varie cure domiciliari sinora proposte non sarebbero efficaci, in modo da poter continuare a sostenere che rappresenti ancora una “necessità medica” la somministrazione di massa di vaccini autorizzati solamente in via condizionata.

Sotto questo profilo l’azione del Ministero – e dell’AIFA – appare particolarmente ben congegnata. Il semplice fatto di adottare un nuovo protocollo di cure consentirebbe infatti di far decadere l’azione di annullamento già pendente davanti al TAR: se viene adottato un nuovo protocollo, il vecchio decade. E se decade il vecchio protocollo, viene meno automaticamente – per sopravvenuto ritiro dell’atto amministrativo – il procedimento di annullamento di quell’atto già pendente davanti al TAR. In questo modo cesserebbe il rischio che un giudice, rendendo la sentenza definitiva, sostenga “ufficialmente” che esistono delle cure efficaci per il Covid. Dunque, la direzione in cui si stanno muovendo sia il Ministero che l’AIFA è verosimilmente quella di ottenere una sospensiva dell’ordinanza cautelare del TAR, in modo da avere il tempo – prima della fine del processo di merito davanti allo stesso TAR – di adottare un nuovo protocollo che, per il semplice fatto di essere adottato in sostituzione del vecchio, faccia decadere l’azione pendente contro il vecchio protocollo. Il tutto facendo al contempo in modo che il contenuto del nuovo protocollo adottato dal Ministero sia tale da consentire ancora di sostenere che “ufficialmente” non esistono terapie efficaci contro il Covid, così da non creare i presupposti giuridici perché terzi possano attaccare dinanzi al TAR (o all’EMA) le autorizzazioni al commercio condizionate dei vaccini. Tutto questo sino al momento in cui le case farmaceutiche non avranno completato le sperimentazioni necessarie per presentare all’EMA la documentazione completa per ottenere una autorizzazione ordinaria al commercio dei vaccini.

Questa potrebbe dunque essere la vera ragione per cui il nostro Ministero della salute si è tanto speso in passato (e ancora oggi insiste) per non curarci dal Covid. La prova del nove – del resto – potrebbe arrivare appunto quando, a test clinici ultimati, saranno concesse dall’EMA le autorizzazioni definitive al commercio dei vaccini. Se a partire da quel momento il Ministero inizierà a dire che invece è possibile curare efficacemente il Covid, sarà chiara la ragione per cui in precedenza non l’ha mai voluto ammettere.




Brevetti su standard essenziali e shortage di vaccini Covid.

Per questo contributo al sito della Fondazione torno a parlare di diritto, anche se di questioni legali che hanno a che fare col covid. Parto dalla considerazione che l’Italia ha pochi vaccini, in sostanza c’è (ma il discorso vale forse anche per il resto dell’Europa) un surplus di domanda rispetto all’offerta; il che – ovviamente – favorisce l’offerta. Di qui la stipulazione di contratti troppo favorevoli ai titolari dei vari brevetti sui vaccini (che, ovviamente, sono tutti brevettati). Sennonché l’Italia è uno dei principali fabbricanti di farmaci generici d’Europa, dunque avrebbe tutte le potenzialità per produrre da sé i vaccini che gli servono. Ovviamente, per farlo servirebbe il consenso dei titolari del brevetti. Ma siamo davvero sicuri che sia così?

Forse no. I giudici di tutta Europa – Corte di Giustizia UE inclusa – conoscono infatti l’istituto dei brevetti sui cosiddetti standard essenziali (standard essential patents o SEP). Il SEP è un brevetto che copre una tecnologia che è stata inserita, da un ente certificatore, nell’elenco di quelle necessarie per realizzare un certo tipo di prodotto (ad esempio di telefonia mobile). Questa situazione attribuisce al titolare del brevetto un potere di mercato assai maggiore – dunque sproporzionato – rispetto all’effettivo valore della singola tecnologia brevettata. L’esistenza dello standard e l’essenzialità delle tecnologie brevettate necessarie per realizzare prodotti conformi, in altre parole, crea un posizione dominante collettiva di cui beneficiano tutti quanti i titolari dei SEP necessari per realizzare un prodotto che rientri nello standard medesimo. E delle posizioni dominanti, anche se derivano da legittimi diritti esclusivi di proprietà industriale o intellettuale, non si può mai abusare, altrimenti si violano le norme antitrust.

Proprio per questa ragione le corti degli stati europei hanno iniziato a sostenere che – per i SEP – non vale il normale diritto di esclusiva brevettuale “pieno”, bensì un diritto “attenuato”, nel senso che chi intende utilizzare un SEP per realizzare un prodotto che rientri nello standard, ha la facoltà di chiedere al titolare una licenza non esclusiva a condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie (fair, reasonable and non-discriminatory, di qui – appunto – l’acronimo FRAND). Se il titolare del brevetto rifiuta una offerta che rispetta i criteri FRAND, il giudice di fatto ha il potere di “paralizzare” il diritto esclusivo del titolare, in quanto abuso di posizione dominante, non emettendo provvedimenti restrittivi che impediscano al terzo di attuare il brevetto e, nella causa relativa ai danni, condannerà il terzo solo a pagare il canone FRAND, evitando di gravarlo di spese processuali o di costi ulteriori. Inutile dire che, in una simile situazione, il titolare non avrà interesse a continuare a litigare con il possibile licenziatario, ma concederà una licenza a condizioni ragionevoli. Questo schema è stato avallato anche dalla Corte di Giustizia UE, dunque può dirsi ormai acquisito come fonte di principi generali validi sia in Italia che negli altri paesi UE.

Lasciando per un attimo sullo sfondo la questione – peraltro assai importante – della individuazione dei criteri per definire la equità e ragionevolezza del canone di licenza (questione su cui sia la dottrina che i giudici non sono ancora unanimi), possiamo concentrarci sul principio ispiratore di questo genere di licenze, per verificare che si tratta di strumento che intende rimediare ad un problema che presenta una stretta analogia con la situazione dei vaccini Covid. Anche per i vaccini, infatti, abbiamo a che fare con imprese (oltretutto grandi imprese) che – a causa dell’emergenza pandemica – sono titolari di brevetti il cui oggetto ha un valore di mercato assai maggiore (e dunque sproporzionato) rispetto all’oggettivo contenuto tecnologico di quello che, in fin dei conti, è un vaccino contro una nuova variante influenzale. I titolari dei brevetti sui vaccini in questione sono dunque in posizione (contingentemente) dominante rispetto alla domanda di vaccino da parte degli stati. Il che potrebbe giustificare l’applicazione per analogia della dottrina dei SEP anche ai brevetti sui vaccini covid, con conseguente possibilità per chiunque intendesse realizzare quei vaccini, di farlo alla sola condizione di essere disposto ad offrire ai titolari dei brevetti di accettare una licenza non esclusiva con canone e a condizioni FRAND.

Siccome, come si diceva, in Italia abbiamo tanti fabbricanti di farmaci generici, lo stato (o eventualmente anche le regioni, da cui dipende la sanità pubblica) potrebbe allora commissionare alle imprese nazionali che hanno le capacità tecnologiche e produttive la realizzazione dei vaccini covid, al fine di acquistarli e distribuirli alla popolazione, dichiarandosi al contempo disposto a corrispondere ai titolari dei relativi brevetti – in luogo dei fabbricanti – una royalty FRAND. Ovviamente far ciò significherebbe scavalcare l’UE nella gestione dei vaccini, però – se davvero, come in tanti dicono, siamo “in guerra” – lo stato di eccezione dovrebbe poter valere anche per derogare “verso l’alto” alle norme unioniste e non solo per derogare alle regole (anche costituzionali) che, verso il basso, tutelano le libertà fondamentali dei cittadini. E tutto questo a maggior ragione tenendo conto del fatto che la gestione dei contratti di fornitura dei vaccini tra UE e case farmaceutiche è stata, non solo poco trasparente, ma anche assai deludente.