Le differenze di genere: quattro miti da sfatare

Il tema delle differenze di genere è sempre attuale e sempre capace di accendere gli animi, soprattutto quando il discorso si concentra su questioni “calde” come quelle della parità e degli stereotipi. Da parecchi anni faccio ricerca in quest’ambito, a cavallo tra la psicologia e la biologia; capisco bene l’urgenza di queste questioni, oltre che l’importanza di un confronto aperto a tutti i livelli e di un pubblico informato e consapevole. Purtroppo, il dibattito attuale è troppo spesso basato su prese di posizione ideologiche, e rimane ancorato ad assunti e modelli teorici che sono rimasti sostanzialmente fermi agli anni ’70. Anche quando ci si appella a “quello che dice la scienza”, si tratta quasi sempre di informazioni distorte, selettive o poco aggiornate. Soprattutto dal punto di vista biologico (ma anche da quello dell’analisi statistica), la ricerca in questo campo ha fatto passi avanti che in molti casi hanno cambiato nettamente i termini della questione; ma la consapevolezza di questi cambiamenti è ancora poco diffusa, non solo nel grande pubblico ma anche tra intellettuali e scienziati.

In questo articolo vorrei offrire una breve sintesi dello stato della ricerca sulle differenze di genere, che possa servire da introduzione e punto di partenza per ulteriori approfondimenti. Lo faccio in modo dialettico, partendo da quattro grandi “miti” che fanno da sfondo al dibattito ma che raramente vengono messi in discussione. Eccoli:

  1. La psicologia moderna ha dimostrato che maschi e femmine sono estremamente simili quanto a personalità, interessi e abilità cognitive.
  2. Le differenze di genere sono, in massima parte, un prodotto della cultura e della socializzazione.
  3. Non ci sono differenze di genere rilevanti a livello cerebrale; le poche differenze che si trovano sono prodotte dalle diverse esperienze che maschi e femmine fanno nel corso dello sviluppo.
  4. Gli stereotipi di genere sono dannosi, sostanzialmente infondati, ed esagerano quelle che in realtà sono differenze minime o inesistenti.

Per non appesantire la lettura, i riferimenti bibliografici sono tutti alla fine dell’articolo, organizzati per argomento. Alcune sezioni del testo sono adattate da questo articolo. Prima di iniziare, due note terminologiche. La prima è che spesso uso “maschi” e “femmine” in senso generico per non essere costretto a continue specificazioni per età (bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne…). Mi rendo conto che alcuni trovano questi termini indelicati o perfino offensivi, ma rimango in netto disaccordo: non c’è niente di cui vergognarsi nel riconoscere che siamo creature biologiche, plasmate dall’evoluzione e dalle dinamiche della riproduzione (senza le quali non esisteremmo come esseri umani). Penso anche che distinguere in modo netto tra “sesso” (riferito alla biologia del corpo) e “genere” (riferito al comportamento e culturalmente determinato) non sia molto utile a fare chiarezza; è una distinzione che sembra chiara e intuitiva ma, esaminata da vicino, si rivela fumosa e incoerente (come ho discusso qui). Per questo motivo uso “sesso” e “genere” come sinonimi, in modo flessibile a seconda del contesto.

Mito #1: La psicologia moderna ha dimostrato che maschi e femmine sono estremamente simili quanto a personalità, interessi e abilità cognitive.

Questa idea molto diffusa (e spesso ripetuta, sia negli articoli divulgativi che nei libri di testo) si basa su quella che possiamo definire una “mezza verità” scientifica. Un modo semplice e intuitivo per quantificare la grandezza delle differenze di genere è considerare la sovrapposizione statistica tra le distribuzioni di maschi e femmine. Maggiori sono le differenze, minore è la sovrapposizione; viceversa, differenze piccole si traducono in alte percentuali di sovrapposizione (fino al 100% quando le distribuzioni sono identiche). Nel caso della personalità, se si considerano tratti come estroversione, coscienziosità o impulsività, le differenze di genere in ogni singolo tratto tendono ad essere piuttosto limitate, con sovrapposizioni superiori al 90%. Anche nei tratti che mostrano le differenze più spiccate (come amichevolezza e stabilità emotiva nel modello di personalità dei Big Five) la sovrapposizione rimane intorno all’80-85%. Risultati simili a questo si ritrovano in altri ambiti della psicologia. Da qui l’idea che, contrariamente agli stereotipi, maschi e femmine siano estremamente simili dal punto di vista psicologico. Ma questa generalizzazione diventa inesatta e fuorviante—e quindi un mito da sfatare—perché non tiene conto di quattro fenomeni cruciali.

Per prima cosa, esistono dimensioni psicologiche importanti in cui le differenze di genere sono molto più marcate. Un esempio è la preferenza per professioni e attività orientate alle cose o alle persone (people-things orientation), dove la sovrapposizione tra i sessi è solo del 50-60%. Mentre gli uomini tendono a preferire lavori centrati su oggetti inanimati o concetti astratti, le donne (in media) hanno una preferenza per lavori centrati sulle persone o con una forte componente relazionale. Differenze di dimensioni simili o maggiori emergono anche nell’ambito dell’attrazione (per esempio rispetto all’età ideale del proprio partner) e della sessualità (per esempio rispetto alla frequenza/intensità del desiderio, o nella preferenza per la “varietà” sessuale con diversi partner, al di fuori da un rapporto di coppia stabile). Nel dominio delle abilità cognitive, non ci sono differenze marcate tra la media dei maschi e quella delle femmine nel quoziente intellettivo (QI) o simili indici di intelligenza generale (anche se, come discuto più sotto, ci sono differenze rilevanti nella loro variabilità). Ma quando si vanno a identificare dimensioni cognitive più specifiche, controllando statisticamente per l’intelligenza generale, le differenze emergono chiaramente e la sovrapposizione tra i sessi si riduce al 60-80%. Soprattutto a partire dall’adolescenza, le femmine sono relativamente più brave nei compiti basati sul ragionamento verbale e in quelli che richiedono di dividere l’attenzione tra molti elementi diversi. I maschi invece hanno prestazioni più alte nei compiti che richiedono abilità visivo-spaziali, e sono avvantaggiati quando si tratta di prestare attenzione in modo focalizzato; la divergenza maggiore si trova nei compiti che richiedono di ragionare su meccanismi e sistemi fisici. Queste differenze di abilità si combinano con quelle nelle preferenze e influenzano in modo sostanziale le scelte accademiche e professionali. Ad esempio, gli studenti che possiedono abilità visivo-spaziali e quantitative relativamente più sviluppate di quelle verbali e sono più interessati alle cose rispetto alle persone scelgono più spesso di iscriversi a facoltà scientifico-matematiche (le cosiddette STEM). A causa della diversa distribuzione di questi tratti nei due sessi, tra gli studenti con questo tipo di profilo ci sono molti più ragazzi che ragazze.

Il secondo punto critico è che piccole differenze in diversi tratti presi singolarmente possono sommarsi, e diventare grandi quando gli stessi tratti vengono considerati nel loro insieme. Nel caso della personalità, la sovrapposizione tra maschi e femmine nei singoli tratti è in genere piuttosto alta; ma quando si consideranoprofili di personalità che mettono insieme i vari tratti (tenendo in considerazione le loro correlazioni reciproche), la sovrapposizione si riduce a meno del 50%. Applicando procedure statistiche per correggere l’errore di misura (che nei test psicologici è tutt’altro che trascurabile), si arriva a una sovrapposizione del 20-30%. Considerazioni analoghe si possono fare per le abilità cognitive, le preferenze per il partner, e le preferenze lavorative (nel caso di queste ultime, la sovrapposizione tra i sessi arriva intorno al 40% quando si considerano più variabili contemporaneamente).

Ma anche quando le differenze sono relativamente modeste, bisogna tenere conto che piccole differenze “medie” in un certo tratto possono trasformarsi in differenze notevoli agli estremi di quel tratto. Questo succede perché le differenze tendono ad amplificarsi via via che ci si muove verso gli estremi della distribuzione. Per esempio, il tratto dell’amichevolezza nei Big Five identifica persone che tendono ad essere cooperative, generose, empatiche, gentili, fiduciose e poco aggressive; al contrario, le persone con bassi livelli di questo tratto tendono ad essere ostili, aggressive, egoiste, abrasive, sospettose e poco empatiche. La sovrapposizione tra i sessi in questo tratto è intorno all’80%; la “donna media” è più amichevole dell’”uomo medio”, ma non di molto. Però, se andiamo a vedere chi sono le persone che si collocano a livelli estremamente alti di questo tratto (cioè all’estremo superiore della distribuzione), troviamo circa due-tre donne per ogni uomo; e se consideriamo i livelli estremamente bassi, troviamo circa quattro uomini per ogni donna. In altre parole, ci possono essere divergenze notevoli agli estremi della distribuzione anche se le medie dei due sessi non sono così diverse tra loro. Questo fenomeno si ritrova in moltissimi altri tratti. La differenza tra maschi e femmine nell’aggressività fisica è simile a quella nell’amichevolezza (sovrapposizione intorno al 75%); ma più del 90% degli omicidi (la forma più estrema di aggressività) vengono commessi da uomini. Sulla stessa falsariga, le differenze nel tratto della stabilità emotiva (che misura la tendenza a provare emozioni negative come paura, ansia e tristezza, e mostra una sovrapposizione intorno all’80%) si traducono in un rischio di sviluppare disturbi depressivi, d’ansia e da stress che è all’incirca doppio nelle donne rispetto agli uomini. Considerazioni analoghe valgono per le abilità cognitive, dove gli estremi (ad es., le persone con livelli eccezionali di abilità visivo-spaziali o matematiche) tendono a mostrare differenze di genere più marcate rispetto a quelle che si osservano nei dintorni della media. E se le differenze medie sono già sostanziali (come nel caso delle preferenze cose-persone), possono diventare davvero notevoli quando ci si muove verso gli estremi della distribuzione.

Per finire, in molti tratti psicologici (ma anche fisici, come ad esempio l’altezza o il volume del cervello) le differenze non riguardano solo la media ma anche il grado di variabilità all’interno dei due sessi. In generale, i maschi tendono ad essere più variabili tra loro delle femmine; questa differenza si manifesta soprattutto agli estremi della distribuzione dei tratti. Sottolineo subito che ci sono diverse eccezioni a questa “regola”; per citare due esempi già nominati sopra, le femmine (considerate a livello di gruppo) risultano più variabili dei maschi sia nel tratto della stabilità emotiva che nel desiderio sessuale. Nel dominio delle abilità cognitive, invece, la variabilità è sistematicamente più alta nei maschi. Questo fenomeno è molto importante da comprendere, perché può creare differenze agli estremi anche in assenza di differenze medie. Nel caso paradigmatico del QI, le differenze medie tra i sessi sono spesso considerate trascurabili (anche se alcuni studi recenti trovano una lieve differenza a favore dei maschi nell’intelligenza generale, a partire dall’adolescenza). Ma a causa della maggiore variabilità maschile, si trova una preponderanza di uomini sia ai livelli più alti che a quelli più bassi della distribuzione del QI (compreso il ritardo mentale). Questa osservazione ha suscitato controversie scientifiche per centocinquant’anni (fin da quando è stata descritta da Darwin in The Descent of Man), ma è stata confermata dagli studi più grandi e rappresentativi che abbiamo a disposizione.

Riconoscere che le differenze psicologiche tra i due sessi sono reali, tangibili, e a volte di notevole entità non vuol dire negare la variabilità individuale o voler schiacciare maschi e femmine su rappresentazioni e ruoli rigidamente “binari”. Anche nei tratti più fortemente differenziati esiste un certo grado di sovrapposizione; in ogni ambito psicologico (dalla personalità alla cognizione) ci sono uomini con profili tipicamente femminili e donne con profili tipicamente maschili, oltre che molte persone con profili “misti” che combinano aspetti caratteristici dei due sessi. Sullo sfondo delle differenze di genere c’è ampio spazio per eccezioni, gradazioni, e tutte le variazioni sul tema che ci rendono non solo maschi o femmine ma persone uniche quali siamo. Possiamo dare il giusto risalto alla variabilità individuale e all’unicità delle persone senza dover fingere che maschi e femmine siano completamente sovrapponibili e omologati dal punto di vista psicologico, o che le differenze di genere siano così trascurabili da non avere ricadute importanti a livello personale, sociale e lavorativo.

 

Mito #2: Le differenze di genere sono, in massima parte, un prodotto della cultura e della socializzazione.

Il modello a “tabula rasa” secondo cui le differenze di genere sono fondamentalmente arbitrarie e costruite dalla socializzazione ha iniziato a prendere piede in psicologia più di cent’anni fa; ha preso forza con il comportamentismo e si è cristallizzato negli anni ’70, all’apice dell’influenza delle teorie dell’apprendimento sociale. Nel tempo, quello che sembrava un approccio moderno e sofisticato si è trasformato in un dogma, sempre più impermeabile alle disconferme empiriche. Per dirlo in modo diretto: allo stato attuale delle nostre conoscenze non c’è alcun motivo solido per ritenere che le differenze di genere siano prodotte esclusivamente (o quasi) dall’apprendimento sociale. Al contrario, ci sono diversi motivi importanti per ritenere che i fattori biologici contribuiscano in modo sostanziale allo sviluppo psicologico di maschi e femmine. In un articolo così breve è impossibile rendere giustizia a un dibattito così complesso; dando per scontato che nelle società umane “natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo complesso e creativo, mi limito a descrivere le principali fonti di informazione che evidenziano i limiti della “tabula rasa” e indicano un ruolo importante per la nostra biologia.

Innanzitutto ci sono i modelli della biologia evoluzionistica, in particolare quelli che riguardano la selezione sessuale (cioè la selezione naturale che avviene attraverso la scelta del partner e l’accoppiamento). I modelli teorici, che in quest’ambito sono di solito espressi in forma matematica, permettono di spiegare le ragioni profonde di alcuni motivi ricorrenti: ad esempio il fatto che, nella maggior parte delle specie animali, i maschi tendono ad essere più aggressivi, competitivi e indiscriminati nella scelta del partner, mentre le femmine tendono ad avere criteri di scelta più stringenti e ad occuparsi di più (quando non in modo esclusivo) della cura dei piccoli. Gli stessi modelli permettono di capire quando e perché queste asimmetrie comportamentali possono attenuarsi—come accade spesso nelle specie in cui entrambi i genitori provvedono alla cura dei piccoli—ma anche di spiegare le eccezioni alla norma (come nei cavallucci marini, dove la gestazione delle uova è portata a termine dai maschi). Oltre alla teoria, in biologia si ricorre spesso al confronto tra specie diverse, più o meno strettamente imparentate e più o meno simili nelle loro caratteristiche ecologiche. Per esempio le differenze di genere negli esseri umani possono essere illuminate grazie al confronto con altri primati, ma anche con alcune specie di uccelli, che hanno sistemi di accoppiamento e riproduzione per molti versi più vicini a quelli della nostra specie. È importante sottolineare che gli studi comparativi possono dare informazioni preziose anche quando evidenziano differenze e unicità; lo scopo è descrivere i fattori che spiegano la variazione e le somiglianze tra specie diverse, non dimostrare che gli esseri umani “sono proprio come” gli scimpanzé, i bonobo o qualche altro animale.

Un altro strumento chiave per separare parzialmente “natura” e “cultura” è la comparazione cross-culturale, sia nello spazio (tra diverse società nello stesso momento storico) che nel tempo (la stessa società in tempi ed epoche diverse). Un ruolo particolare è ricoperto dallo studio dei cacciatori-raccoglitori, che sono in larga parte isolati dall’influenza dei mass media e dei modelli culturali occidentali, oltre a vivere in condizioni molto più simili a quelle in cui la nostra specie si è evoluta per centinaia di migliaia di anni. Le notevoli differenze economiche, sociali e di stile di vita che esistono tra diversi Paesi e regioni del mondo possono essere usate in modo efficace per mettere alla prova ipotesi alternative sulle cause delle differenze di genere. Contrariamente a quello che ci si aspetterebbe sulla base dei modelli di socializzazione, le differenze nei tratti di personalità, nelle preferenze, nei valori, nelle abilità cognitive, e perfino in certi disturbi mentali (come la depressione) non diminuiscono nei Paesi con livelli più alti di parità di genere (che tendono anche ad essere più ricchi ed economicamente avanzati). Anzi, nella maggior parte dei casi i dati mostrano l’effetto opposto: al diminuire delle disparità di genere a livello socio-culturale, le differenze di personalità diventano più marcate, come se in presenza di una società più aperta e individualista (e probabilmente una maggiore libertà data al benessere economico) le persone tendessero a esprimere in modo più netto le loro predisposizioni biologiche. Questo è un dato estremamente robusto che mette in crisi il modello “puro” della socializzazione.

Cambiando livello di analisi, è importante considerare gli studi in cui i tratti psicologici vengono correlati a variazioni negli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e androgeni. Naturalmente le correlazioni, prese da sole, non permettono di fare affermazioni certe rispetto alle cause del comportamento. Però i dati correlazionali diventano molto più forti quando l’esposizione agli ormoni avviene all’inizio dello sviluppo, o addirittura prima della nascita durante la gestazione. Con le dovute cautele, i dati raccolti negli esseri umani possono essere confrontati e integrati con quelli degli studi animali, dove invece è possibile applicare controlli sperimentali e manipolare direttamente i meccanismi ormonali. I ricercatori sfruttano anche quelli che possono essere considerati “esperimenti naturali”: patologie o condizioni di sviluppo atipiche in cui vengono modificati i normali processi di differenziazione sessuale, come nel caso dell’iperplasia surrenale congenita (congenital adrenal hyperplasia o CAH). L’iperplasia surrenale causa un’iper-produzione di androgeni nelle femmine, ed è particolarmente importante perché le pazienti che ne sono affette vengono esposte ad un profilo ormonale “mascolinizzato” prima della nascita, ma una volta nate (e sottoposte a trattamenti per ridurre i livelli di androgeni) vengono socializzate come le altre bambine. Si tratta di una patologia piuttosto rara, ma i dati che fornisce sono estremamente preziosi per isolare in modo preciso gli effetti degli ormoni sessuali nello sviluppo. Gli studi che hanno seguito nel corso degli anni dei campioni con questa patologia hanno rivelato effetti significativi degli androgeni prenatali su una gamma notevole di tratti psicologici. Rispetto alla media, le bambine affette da CAH tendono ad essere fisicamente un po’ più aggressive, meno interessate ai neonati, e a preferire compagni di gioco maschi. Più tardi sviluppano abilità visivo-spaziali più spiccate, tendono ad essere fortemente interessate ad attività e professioni orientate alle cose, e hanno una maggiore probabilità di essere sessualmente attratte da altre ragazze.

Altre fonti di evidenza sono più indirette, ma sempre utili per circoscrivere il ruolo dell’apprendimento ed evitare di attribuire automaticamente certe osservazioni all’influenza dell’ambiente. Per esempio, le correlazioni tra genitori e figli nell’aderenza a comportamenti e stereotipi di genere sono piuttosto modeste; e almeno nei Paesi occidentali, gli studi che hanno indagato le differenze nel modo in cui i genitori trattano bambini e bambine hanno rilevato pochissime differenze significative. Il ruolo dei genitori è stato ridimensionato anche dalla genetica del comportamento, che ha mostrato chiaramente come il comportamento genitoriale sia fortemente influenzato dalla personalità e dalle caratteristiche individuali dei figli, che a loro volta sono parzialmente determinate a livello genetico.

Per tornare all’esempio delle preferenze cose-persone, questi interessi emergono molto presto nello sviluppo (secondo alcuni dati, forse addirittura alla nascita), e sono influenzati sia da fattori genetici che dall’esposizione agli androgeni durante le prime fasi della vita. La socializzazione di genere sembra avere un ruolo limitato: come in molti altri casi, lo scarto tra maschi e femmine sulla dimensione cose-persone è più forte nei Paesi con maggiore parità di genere; inoltre, l’andamento generale delle differenze è rimasto praticamente invariato per più di cinquant’anni, nonostante i cambiamenti massicci che sono avvenuti nel mondo del lavoro e dell’educazione. L’origine evoluzionistica di queste predisposizioni si trova, molto probabilmente, nella divisione del lavoro in base al sesso che ha caratterizzato la nostra storia per centinaia di migliaia (se non milioni) di anni. Nessuno dubita che, nel passato degli esseri umani, alcuni compiti (come la caccia e la produzione di utensili) siano stati appannaggio maschile, mentre altri (come la cura dei piccoli) siano stati delle occupazioni prevalentemente femminili. Dal punto di vista evoluzionistico, è molto difficile pensare che aver ricoperto ruoli specializzati per decine o centinaia di migliaia di generazioni non abbia plasmato in qualche misura anche i nostri interessi e i nostri profili cognitivi.

Leggendo quello che ho scritto finora, a qualcuno potrebbe sembrare che io voglia sostenere il primato assoluto della biologia e l’irrilevanza dell’apprendimento. Niente di più sbagliato: una volta assodato che i fattori biologici sono importanti, inizia la parte più affascinante del lavoro, cioè capire esattamente come questi fattori si esprimono e interagiscono con le caratteristiche dell’ambiente. I dati che ho riassunto fin qui non dipingono un quadro in bianco e nero, ma un mondo ricco di sfumature e potenzialità. Un esempio istruttivo viene dal dibattito sulle abilità visivo-spaziali, vista la loro rilevanza per le carriere nell’ambito delle discipline STEM. I dati raccolti su bambini e adulti indicano chiaramente che queste abilità mostrano un certo livello di plasticità e possono essere migliorate con l’esercizio, almeno nel breve periodo. Inoltre, lo scarto tra maschi e femmine non è costante ma aumenta progressivamente durante lo sviluppo. Questi risultati sono compatibili con il dispiegarsi di effetti genetici e ormonali attraverso le varie tappe di sviluppo, ma anche con l’instaurarsi di cicli di feedback positivo che amplificano e consolidano le differenze iniziali. Alcuni ricercatori li hanno usati per sostenere che le differenze di genere nelle abilità visivo-spaziali sono prodotte interamente dalla socializzazione; si tratta di un’argomentazione debolissima, perché la plasticità delle abilità cognitive non contraddice le spiegazioni evoluzionistiche. Per analogia, anche i muscoli sono plastici, e la massa muscolare si può aumentare con l’esercizio; questo non toglie che le differenze nella costituzione corporea (e quindi nella forza fisica) di uomini e donne abbiano una chiara base biologica.

 

Mito #3: Non ci sono differenze di genere rilevanti a livello cerebrale; le poche differenze che si trovano sono prodotte dalle diverse esperienze che maschi e femmine fanno nel corso dello sviluppo.

Il terzo mito che passo in rassegna riprende gli elementi dei primi due, ma li declina nell’ambito delle neuroscienze. Fino ad ora, il dibattito si è concentrato soprattutto sugli aspetti anatomici del cervello in relazione al genere. Da questo punto di vista, la principale differenza sta nel volume cerebrale, che è maggiore del 10-15% negli uomini rispetto alle donne (uno scarto piuttosto ampio dal punto di vista statistico, che corrisponde a una sovrapposizione del 30-50%). Questa differenza è spiegata solo in parte dal fatto che gli uomini in media hanno un corpo più grande, e al momento non è chiaro cosa possa significare dal punto di vista funzionale. Per esempio, a livello individuale il volume del cervello è correlato positivamente al QI; ma le differenze medie nell’intelligenza di maschi e femmine sembrano troppo piccole per giustificare uno scarto così ampio (anche se il dibattito a riguardo rimane ancora aperto). Poi ci sono molte altre differenze, sia nelle dimensioni delle varie regioni cerebrali che nelle connessioni tra diverse regioni. Grazie a queste differenze, è possibile sviluppare algoritmi che, partire dall’anatomia di un cervello, riescono a “indovinare” correttamente il sesso della persona in più del 90% dei casi. Ma una porzione importante di queste differenze è una conseguenza (diretta o indiretta) del maggior volume del cervello dei maschi; quando lo scarto nel volume totale viene corretta con metodi statistici, le differenze diventano nettamente più piccole e l’accuratezza nella classificazione scende al 60-70%.

Che conclusioni si possono trarre da questi dati? Non molte, per la verità. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza le piccole dimensioni delle differenze (una volta corrette per il volume totale) e i risultati contrastanti degli studi in questo campo; su questa base hanno sostenuto che le differenze di genere nella struttura e funzione cerebrale sono sostanzialmente trascurabili. Ma proprio perché le differenze sono statisticamente deboli mentre le misurazioni sono imprecise e piene di difficoltà tecniche, è probabile che anche gli studi più grandi eseguiti finora siano in realtà troppo piccoli per dare risultati affidabili. Proprio adesso stanno iniziando a uscire i primi studi con decine di migliaia di soggetti, e i risultati sono molto più precisi e robusti di quanto si sia visto finora. Il problema più profondo è che, visto che sappiamo molto poco di come la struttura fisica del cervello influisca sul funzionamento cognitivo, risulta molto difficile decidere se differenze che ci sembrano “piccole” possano invece avere effetti rilevanti sul comportamento. Gli studi che hanno provato a correlare configurazioni cerebrali più “mascoline” o “femminili” con aspetti mascolini-femminili della personalità e del comportamento hanno trovato effetti a volte significativi, ma sempre piuttosto deboli. (Anche in questo caso, si tratta di studi condotti su campioni relativamente piccoli, e i risultati devono essere considerati provvisori).

Ancora più importante è il fatto che, se non si correggono statisticamente le misure per eliminare le differenze di genere nel volume cerebrale totale, i cervelli di uomini e donne risultano piuttosto diversi in tutta una serie di caratteristiche anatomiche. Rimuovere queste differenze equivale ad assumere che non abbiano nessuna importanza dal punto di vista funzionale, ma non abbiamo idea se sia davvero così. Le poche indicazioni di cui disponiamo sembrano puntare nella direzione opposta: gli studi sulle associazioni fra tratti di personalità, comportamenti e anatomia cerebrale hanno trovato le correlazioni più forti proprio con il volume totale del cervello e altre misure globali. Anche queste associazioni però tendono ad essere piuttosto piccole in senso assoluto, in linea con l’idea che la personalità sia determinata soprattutto da meccanismi neurochimici (neurotrasmettitori, ormoni, ecc.) piuttosto che da differenze anatomiche. È molto probabile che il funzionamento cerebrale sia più differenziato dal punto di vista neurochimico di quanto non lo sia dal punto di vista puramente anatomico. La ricerca sull’espressione genetica ha individuato migliaia di geni che si esprimono in modo differenziato nel cervello di maschi e femmine, raggiungendo il massimo della divergenza durante la pubertà. In breve, le nostre conoscenze sulle differenze di genere nella struttura e nel funzionamento del cervello hanno appena iniziato a scalfire la superficie del problema.

Quando le differenze di genere a livello cerebrale non vengono minimizzate, si tende a spiegarle (spesso in modo sbrigativo) facendo riferimento al concetto di plasticità cerebrale: se il cervello è malleabile e si modifica in risposta all’ambiente, le differenze tra maschi e femmine non fanno che riflettere le loro diverse esperienze nel corso dello sviluppo. Sicuramente la plasticità è una caratteristica basilare del cervello, dal momento che rende possibili l’apprendimento e la memoria. Però è anche importante non interpretare questo concetto in modo troppo “libero”, soprattutto dal momento che la nostra comprensione dei processi di plasticità è ancora più frammentaria e incompleta di quella sulla neurochimica o sulle differenze anatomiche. Per il momento, la ricerca genetica ha mostrato chiaramente che le caratteristiche anatomiche e funzionali del cervello a livello macroscopico—come il volume, lo spessore e le connessioni tra diverse aree, ma anche i profili di attività a riposo o durante compiti cognitivi—sono influenzate in modo sostanziale dalle differenze genetiche tra le persone. Non solo: gli effetti genetici sono spesso più forti di quelli ambientali, ed è possibile predire somiglianze e differenze nelle caratteristiche cerebrali a partire da somiglianze e differenze nel corredo genetico delle persone. In assenza di prove schiaccianti, questi dati dovrebbero suggerire un certo scetticismo rispetto all’idea che le differenze cerebrali tra maschi e femmine possano essere spiegate facilmente (e interamente) come prodotti dell’esperienza e dell’apprendimento.

Mito #4: Gli stereotipi di genere sono dannosi, sostanzialmente infondati, ed esagerano quelle che in realtà sono differenze minime o inesistenti.

Come ho cercato di mettere in risalto fin qui, le differenze psicologiche tra maschi e femmine sono tutt’altro che minime, e sono profondamente radicate nella nostra biologia piuttosto che un prodotto esclusivo dell’apprendimento e dei condizionamenti sociali. Oltre a dare per scontata l’idea (non più sostenibile) che le “vere” differenze di genere siano trascurabili, il discorso mainstream sugli stereotipi di genere confonde tra loro tre questioni distinte che dovrebbero essere affrontate separatamente: quella della rigidità delle aspettative e opinioni comuni, quella della loro accuratezza, e quella dei loro effetti.

Non c’è alcun dubbio che le persone (così come le società) possano formarsi idee troppo rigide e schematiche sulle differenze tra maschi e femmine, senza tenere in dovuta considerazione la variabilità individuale e la flessibilità del comportamento umano. Ma anche nei casi in cui gli stereotipi sono eccessivamente rigidi, possono essere basati sull’osservazione di fenomeni reali e quindi essere almeno in parte veritieri. La tendenza più discutibile in questo campo è quella di giudicare qualsiasi affermazione sulle differenze di genere—per quanto realistica e sfumata—come uno “stereotipo” da smontare, frutto di ignoranza e pregiudizi. In realtà, la ricerca sugli stereotipi di genere ha mostrato molto chiaramente che, in media, le aspettative delle persone tendono ad essere sorprendentemente accurate e aderenti alla realtà; quando si osservano deviazioni dai dati empirici, gli errori vanno più spesso nella direzione di sottovalutare le differenze piuttosto che di esagerarle. (In più, contrariamente a quanto spesso si crede, la maggior parte delle persone è piuttosto brava a rivedere o mettere da parte le sue aspettative quando riceve informazioni sulle caratteristiche di una specifica persona).

Nel campo della personalità, i tratti in cui si trovano le maggiori differenze di genere comprendono stabilità emotiva, ansia, amichevolezza, calore interpersonale, dominanza/assertività e sensibilità (sia in senso empatico che in senso artistico/estetico). Il fatto che queste differenze corrispondano a degli stereotipi comuni non le rende meno reali; e soprattutto non dimostra in alcun modo che siano gli stereotipi a causare le differenze, piuttosto che il contrario. Per fare un esempio banale, sicuramente esiste uno “stereotipo” sul fatto che gli uomini abbiano la voce più profonda delle donne, ma sarebbe assurdo argomentare che questo stereotipo sia la causa dell’abbassamento della voce nei ragazzi quando arrivano alla pubertà. Vista da vicino, l’idea che la scienza abbia “sfatato gli stereotipi di genere” si rivela essa stessa un mito da sfatare.

L’aspetto più complesso e delicato da affrontare riguarda gli effetti degli stereotipi. Con poche eccezioni, la ricerca psicologica e sociologica su questo tema si basa sull’assunto che gli stereotipi siano a priori infondati e dannosi. Sicuramente, gli stereotipi di genere—soprattutto se esagerati o troppo rigidi—possano creare ingiustizie e disagi, soprattutto nelle persone con personalità o interessi “atipici” rispetto agli altri membri del proprio sesso. Il problema è che l’attenzione a senso unico verso gli effetti potenzialmente negativi degli stereotipi finisce per oscurare i loro aspetti positivi. Negare o minimizzare quelle che sono differenze reali tra i sessi può avere conseguenze altrettanto deleterie, sia a livello sociale (per esempio con l’adozione di politiche fallimentari o controproducenti) che a livello personale (per esempio rendendo più difficile la comunicazione tra uomini e donne; incoraggiando la lettura distorta di differenze negli interessi e nelle abilità come “discriminazioni”; o privando gli psicologi di strumenti utili per la comprensione e il trattamento della sofferenza mentale). Un approccio bilanciato a questo tema dovrebbe riconoscere entrambi i lati della medaglia, ed essere aperto all’eventualità che avere degli “stereotipi” flessibili ma allo stesso tempo realistici possa aiutare a vivere il rapporto con il maschile e il femminile in modo più sereno e consapevole.

Questa non è solo una speculazione: diversi studi hanno rilevato che le persone con una visione stereotipata ma generalmente positiva delle differenze tra maschi e femmine (soprattutto in modi che enfatizzano la complementarietà tra i sessi) tendono anche ad avere maggiori livelli di benessere, maggiore autostima, e relazioni di coppia più soddisfacenti. Anche se non dimostrano una relazione causale, questi dati sono in linea con l’idea che una “modica quantità” di stereotipi di genere possa contribuire al benessere psicologico e relazionale, sia negli uomini che nelle donne. Purtroppo, l’approccio ideologico che domina quest’ambito di ricerca fa sì che i risultati vengano riletti in chiave sempre negativa: così, gli stereotipi positivi (indipendentemente dalla loro fondatezza) vengono etichettati come “sessismo benevolo”, e le associazioni con benessere e autostima vengono spiegate come “effetti palliativi” o forme rassicuranti ma subdole di “negazione della discriminazione”. L’ipotesi che alcuni stereotipi possano essere un segno di realismo e maturità non viene nemmeno presa in considerazione.

Tra i vari modi in cui la psicologia tende a enfatizzare gli aspetti deleteri degli stereotipi, l’esempio più eclatante è sicuramente la teoria della “minaccia dello stereotipo” (stereotype threat). L’idea di base è che “attivare” la rappresentazione di uno stereotipo di genere (per esempio leggendo un brano sul fatto che i maschi sono più bravi in matematica) sia sufficiente per suscitare ansia e tensione nei membri del gruppo sfavorito (in questo caso le femmine), e quindi interferire con la loro prestazione cognitiva. Secondo questa teoria, alcune disparità persistenti tra maschi e femmine (in particolare nelle abilità matematiche) non sono che il frutto di una profezia che si auto-avvera, per cui l’esistenza di uno stereotipo negativo produce effetti che finiscono per confermare lo stereotipo. Questo filone di ricerca è nato negli anni ‘90 e ha ricevuto un’enorme pubblicità, perché sembrava dimostrare in modo inequivocabile il potere degli stereotipi di plasmare cognizione e comportamento. Quello che ancora pochi sanno è che i risultati iniziali non sono stati replicati negli studi più grandi e meglio controllati, e che una volta corretti i dati per la tendenza a pubblicare più facilmente i risultati positivi (publication bias), l’effetto si riduce di molto o addirittura scompare. Anche se in futuro la ricerca dimostrasse in modo indiscutibile che la “minaccia dello stereotipo” può ridurre lievemente le prestazioni cognitive, un effetto di quella dimensione non sarebbe lontanamente sufficiente per spiegare le differenze che si osservano nel mondo reale. Ma la teoria (ormai quasi del tutto falsificata) ha già influenzato pesantemente la conversazione pubblica, ed è stata usata per giustificare interventi anche piuttosto invasivi nel campo dell’educazione, della selezione del personale, e così via.

Per concludere, voglio sottolineare ancora una volta che l’antidoto ad una visione manichea e dogmatica delle differenze di genere non deve tradursi in una semplificazione di segno opposto, per cui tutti gli stereotipi sono sacrosanti e i due sessi diventano categorie monolitiche, composte da individui tutti uguali che devono imparare a “stare al loro posto”. Sfatare i miti che oscurano la visuale è un passo necessario, ma rimane solo il primo passo. Come sempre, la vera soluzione passa per uno sforzo di riflessione e di sintesi; una sintesi capace di integrare anche i limiti e gli aspetti meno gratificanti della nostra natura, riconoscere che i fenomeni psicologici hanno quasi sempre sia costi che benefici, e resistere alla tentazione di voler giudicare e cambiare la realtà prima di averla compresa.

Marco Del Giudice è professore associato di psicologia all’University of New Mexico (USA). Ha pubblicato oltre 100 articoli, capitoli e monografie su temi di ricerca che spaziano dalla neurofisiologia dello stress alla plasticità nello sviluppo, fino all’evoluzione della personalità e alle basi biologiche dei disturbi mentali. È riconosciuto a livello internazionale per i suoi contributi teorici e metodologici allo studio delle differenze di genere. Il suo sito web è marcodg.net.

 

Bibliografia

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Video intervista (Marco Del Giudice, con Giulio Anichini): Le differenze di genere: cosa sappiamo e cosa no. Link (YouTube)

Video intervista (Marco Del Giudice, con il Pub del Lunedì Sera, ): La scienza delle differenze di genere: Sessista o femminista? Link (YouTube)

Video intervista (Marco Del Giudice, con Ricardo Lopes): The evolutionary psychology of gender differences. Link (Youtube): Part 1, Part 2

Video intervista (David Geary, con Ricardo Lopes): Male, Female: The Evolution of Human Sex Differences. Link (Youtube): Part 1, Part 2

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Una rassegna molto utile degli studi sulle differenze di genere nella variabilità:

https://heterodoxacademy.org/blog/the-greater-male-variability-hypothesis

Video intervista (Richard Lippa, con Ricardo Lopes): Sex Differences in Cognition and Interests. Link (Youtube)

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Sulle influenze genetiche nell’anatomia e nel funzionamento cerebrale:

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Un articolo recente di Lise Eliot e colleghi sulla natura (secondo loro trascurabile) delle differenze cerebrali, e alcune risposte critiche molto interessanti:

Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

DeCasien, A. R., Guma, E., Liu, S., & Raznahan, A. (2022). Sex differences in the human brain: a roadmap for more careful analysis and interpretation of a biological reality. Biology of Sex Differences, 13(1), 43. Link

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Hirnstein, M., & Hausmann, M. (2021). Sex/gender differences in the brain are not trivial-a commentary on Eliot et al. (2021). Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 130, 408-409. Link

Williams, C. M., Peyre, H., Toro, R., & Ramus, F. (2021). Sex differences in the brain are not reduced to differences in body size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Stereotipi di genere

Sull’accuratezza degli stereotipi:

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Jussim, L., Crawford, J. T., & Rubinstein, R. S. (2015). Stereotype (in) accuracy in perceptions of groups and individuals. Current Directions in Psychological Science, 24(6), 490-497. Link

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Sull’associazione tra stereotipi di genere e benessere psicologico:

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Sulla teoria della “minaccia dello stereotipo”:

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Implicazioni per la parità/disparità di genere in campo accademico e lavorativo

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Barbero, le donne e quel dogma dei cervelli identici

Rapida e puntuale come un riflesso condizionato, è scoppiata la polemica sulle differenze di genere, stavolta a seguito di una domanda “eretica” dello storico Alessandro Barbero: “vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?”

Queste parole hanno scatenato uno tsunami di commenti scandalizzati su giornali e media, con toni variabili tra l’indignazione e il compatimento. Tra le tante risposte, mi è stata segnalata quella di Antonella Viola, immunologa con un dottorato in biologia evoluzionistica e quindi dotata di una voce autorevole con cui dare pareri sulla questione delle differenze biologiche tra maschi e femmine. In un articolo uscito sulla Stampa, la prof.ssa Viola liquida come una “stupidaggine colossale” l’idea che il successo lavorativo nel mondo contemporaneo possa essere influenzato da differenze biologiche. Prosegue affermando che “dal punto di vista strutturale e funzionale, i cervelli di uomini e donne si somigli[a]no moltissimo”, e che “quando si analizza il cervello, a meno di non studiare i neonati, è impossibile distinguere il contributo del sesso da quello del genere”, attribuendo quest’ultimo agli stereotipi culturali. Anche ammettendo che esistano differenze nella personalità di maschi e femmine, queste sono dovute all’azione degli stereotipi a partire dall’infanzia, non certo a predisposizioni biologiche. Per finire, le disparità di genere nel mondo del lavoro non riflettono le differenze psicologiche tra i sessi ma “una storica gestione del potere da parte degli uomini, che hanno definito il gioco e le sue regole fino a pochissimo tempo fa”.

La prof.ssa Viola è una scienziata eccellente e una divulgatrice di primo piano. È un peccato notare che queste affermazioni, presentate come verità assodate, non rispecchiano tanto lo stato della ricerca scientifica in questo campo quanto certi dogmi ideologici di vecchia data, cristallizzati nel femminismo a partire almeno dagli anni ’70 e in alcuni casi da più di un secolo. Che questi preconcetti continuino a circolare in modo acritico anche tra scienziati e intellettuali di livello testimonia quanto la narrazione sulle questioni di sesso e genere sia diventata semplicistica e distorta, anche sulla scia delle accuse di “neurosessismo” lanciate da ricercatrici e divulgatrici femministe come Cordelia Fine, Gina Rippon, Angela Saini e altre. Questa visione del mondo, che dipinge il cervello come una tabula rasa su cui la cultura incide i suoi stereotipi e pregiudizi, può esercitare un grande fascino su chi ha a cuore valori di giustizia e uguaglianza. Lo so bene anche perché ci sono passato nel corso della mia formazione, prima di cominciare a capire che l’evidenza puntava da un’altra parte e che esisteva un modello alternativo in grado di integrare la psicologia delle differenze di genere con i dati dell’antropologia, della biologia e delle neuroscienze all’interno di una cornice evoluzionistica. Un modello che non è solo meglio fondato dal punto di vista scientifico ma che a mio parere si rivela anche molto più interessante, sofisticato, e rispettoso della realtà psicologica di uomini e donne.

Nel resto di questo articolo rispondo, in estrema sintesi, ai punti sollevati dalla prof.ssa Viola, che rappresentano bene il modello a “tabula rasa” delle differenze di genere. Per ogni punto cerco di offrire una breve panoramica di quello che è lo stato dell’arte della ricerca, con l’obiettivo di ampliare lo spazio della discussione e offrire una prospettiva alternativa. Per non appesantire la lettura, i riferimenti bibliografici si trovano alla fine dell’articolo. A chi volesse approfondire questi e altri aspetti delle differenze di genere, consiglio lo splendido libro di David Geary Male, Female: The Evolution of Human Sex Differences, che purtroppo non è stato ancora tradotto in italiano. Ho discusso alcuni di questi temi in questa intervista per il canale YouTube Il pub del lunedì sera, e a breve ne uscirà un’altra per il canale Liberi oltre le illusioni – STEM. Un’intervista più approfondita (in inglese) si può trovare qui e qui. Come nota a margine, penso che fare distinzioni tra “sesso” (riferito alla biologia del corpo) e “genere” (riferito al comportamento e culturalmente determinato) non sia molto utile a fare chiarezza; è una distinzione che sembra intuitiva ma, esaminata da vicino, si rivela fumosa e incoerente (come ho discusso qui). Per questo motivo uso “sesso” e “genere” come sinonimi, a seconda del contesto.

Distinguere tra natura e cultura: mission impossible?

Dando per scontato che nelle società umane “natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo complesso e creativo, è davvero impossibile identificare i contributi della biologia alle differenze tra i sessi, come sembra implicare la prof.ssa Viola nel suo intervento? Sicuramente è un compito difficile e laborioso, ma (per fortuna) tutt’altro che impossibile. Ci sono almeno quattro fonti di informazione che permettono, in modi diversi tra loro, di separare parzialmente natura e cultura. Ciascuna ha i suoi limiti, ma diventano estremamente potenti quando vengono integrate tra loro.

Per prima cosa ci sono i modelli della biologia evoluzionistica, come quelli che riguardano la selezione sessuale (cioè la selezione naturale che avviene attraverso la scelta del partner e l’accoppiamento). I modelli teorici, di solito espressi in forma matematica, permettono di spiegare le ragioni profonde di alcuni motivi ricorrenti: ad esempio il fatto che, nella maggior parte delle specie animali, i maschi tendono ad essere più aggressivi, competitivi e indiscriminati nella scelta del partner, mentre le femmine tendono ad avere criteri di scelta più stringenti e ad occuparsi di più (quando non in modo esclusivo) della cura dei piccoli. Gli stessi modelli permettono di capire quando e perché queste asimmetrie comportamentali possono attenuarsi (come accade spesso nelle specie in cui entrambi i genitori provvedono alla cura dei piccoli) e di spiegare le eccezioni alla norma (come nei cavallucci marini, dove la gestazione delle uova è portata a termine dai maschi).

La seconda fonte di informazione (strettamente legata alla prima) è il confronto tra specie diverse, più o meno strettamente imparentate e più o meno simili nelle loro caratteristiche ecologiche. Per esempio le differenze di genere negli esseri umani possono essere illuminate dal confronto con altri primati, ma anche con alcune specie di uccelli, che hanno sistemi di accoppiamento e riproduzione per molti versi più vicini a quelli della nostra specie. Per sfatare un luogo comune molto diffuso, vorrei sottolineare che gli studi comparativi possono dare informazioni preziose anche quando evidenziano differenze e unicità; lo scopo è descrivere i fattori che spiegano la variazione e le somiglianze tra specie diverse, non dimostrare che gli esseri umani “sono proprio come” gli scimpanzé, i bonobo o qualche altro animale.

La terza fonte è la comparazione cross-culturale, sia nello spazio (diverse culture nello stesso periodo storico) che nel tempo (la stessa cultura in tempi ed epoche diverse). A dispetto di certi stereotipi, i ricercatori evoluzionisti hanno una lunga tradizione di studi cross-culturali, non solo tra diversi Paesi occidentali ma estesi anche all’Asia e all’Africa. Un ruolo particolare è ricoperto dallo studio dei cacciatori-raccoglitori, che sono in larga parte isolati dall’influenza dei mass media e dei modelli culturali occidentali, oltre a vivere in condizioni molto più simili a quelle in cui la nostra specie si è evoluta per centinaia di migliaia di anni. Le notevoli differenze economiche, sociali e di stile di vita che esistono tra diversi Paesi e regioni del mondo possono essere usate in modo efficace per mettere alla prova ipotesi alternative sulle cause delle differenze di genere.

Per finire, ci sono gli studi in cui tratti, comportamenti e differenze cerebrali vengono correlati a variazioni negli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e androgeni. Naturalmente le correlazioni, prese da sole, non permettono di fare affermazioni certe rispetto alle cause del comportamento. Però i dati correlazionali diventano molto più forti quando l’esposizione agli ormoni avviene all’inizio dello sviluppo, o addirittura prima della nascita durante la gestazione. Con le dovute cautele, i dati raccolti negli esseri umani possono essere confrontati e integrati con quelli degli studi animali, dove invece è possibile applicare controlli sperimentali e manipolare direttamente i meccanismi ormonali. I ricercatori sfruttano anche quelli che possono essere considerati “esperimenti naturali”: patologie o condizioni di sviluppo atipiche in cui vengono modificati i normali processi di differenziazione sessuale. Un esempio è il trasferimento ormonale prenatale tra gemelli, per cui (ad esempio) le gemelle femmine ricevono una dose maggiore di androgeni se passano la gestazione insieme ad un gemello maschio, rispetto a quelle che si sviluppano insieme ad un’altra gemella. Un altro è l’iperplasia surrenale congenita, una patologia che causa un’iper-produzione di androgeni nelle femmine che ne sono affette. Si tratta di dati difficili da ottenere, ma molto utili per isolare in modo preciso gli effetti degli ormoni sessuali nello sviluppo. Ad esempio, gli studi che hanno seguito nel corso degli anni dei campioni di bambine con iperplasia surrenale hanno rivelato effetti importanti degli androgeni sugli stili di gioco e sull’aggressività, e più tardi sugli interessi lavorativi, su certe abilità cognitive, e sull’orientamento sessuale (ma solo in modo marginale sull’identità di genere, nel senso di identificazione con il sesso maschile o femminile).

L’ipotesi di Barbero: realtà o fantasia?

Cosa possiamo dire dell’idea che, in media, le donne manifestino meno “aggressività, spavalderia e sicurezza di sé” degli uomini per ragioni in parte biologiche? Traducendo nel linguaggio della psicologia della personalità, “spavalderia e sicurezza di sé” indicano tratti come assertività, dominanza, autostima e propensione al rischio. Insieme all’aggressività fisica e verbale (la cosiddetta “aggressività relazionale” fa eccezione), tutti questi tratti sono più elevati nei maschi, soprattutto a partire dalla media fanciullezza (il periodo dai 6 agli 11 anni circa, in cui avvengono importanti cambiamenti ormonali) e proseguendo con la pubertà. Queste differenze di genere non sono particolarmente grandi, nel senso che, dal punto di vista statistico, c’è una larga sovrapposizione tra i punteggi di maschi e femmine. Ma sono molto robuste, e vanno nella stessa direzione in culture molto diverse tra loro, comprese le popolazioni di cacciatori-raccoglitori. Contrariamente a quello che ci si aspetterebbe sulla base dei modelli di socializzazione (che attribuiscono lo sviluppo della personalità ad aspettative sociali, stereotipi e discriminazione), queste differenze non diminuiscono nei Paesi con livelli più alti di parità di genere (che tendono anche ad essere più ricchi ed economicamente avanzati). Anzi, nella maggior parte dei casi i dati mostrano l’effetto opposto: al diminuire delle disparità di genere a livello socio-culturale, le differenze di personalità diventano più marcate, come se in presenza di una società più aperta e individualista (e probabilmente una maggiore libertà data al benessere economico) le persone tendessero a esprimere in modo più netto le loro predisposizioni biologiche. Questo è un dato importante, anche perché risulta molto difficile da spiegare con un modello di socializzazione.

Aggressività, dominanza, assertività, autostima e propensione al rischio non sono un assortimento casuale: sono tutti tratti che contribuiscono alla competizione diretta per lo status, cioè la forma di competizione tipica dei maschi, non solo negli esseri umani ma in molti altri primati e mammiferi. Questo è assolutamente in accordo con i modelli di selezione sessuale, che (sulla base delle caratteristiche fisiche riproduttive della nostra specie) predicono una maggiore tendenza maschile alla competizione. Un altro aspetto da considerare è che, in tutte le culture studiate finora, le donne tendono a trovare più attraenti i partner che hanno un alto status sociale; questo implica che, attraverso la nostra storia evolutiva, la selezione per tratti e comportamenti rivolti alla competizione diretta per lo status è stata particolarmente forte nei maschi. Non a caso, la ricerca di dominanza è probabilmente il tratto comportamentale che si associa in modo più robusto agli effetti del testosterone negli adulti. Naturalmente, tutti questi tratti si esprimono e manifestano in modi diversi a seconda del contesto culturale e di sviluppo; lo fanno con luci e ombre, costi e benefici, sia per l’individuo che per la società. La stessa competizione per lo status può avvenire con modalità molto differenti, dall’aggressività fisica alla conquista di ricchezza e ruoli prestigiosi, dall’esibizione di abilità fisiche o intellettuali a quella di qualità morali e di leadership. La cultura incanala, dirige e dà forma alle nostre predisposizioni biologiche, ma non le elimina e soprattutto non le crea dal nulla.

Prima di chiudere questa sezione, c’è un punto fondamentale da chiarire rispetto alle dimensioni delle differenze di genere. Come ho notato prima, le differenze nei tratti di personalità aggressivi e competitivi sono abbastanza contenute, con una larga sovrapposizione tra i punteggi di maschi e femmine. Ma anche quando la differenza media è relativamente piccola, le disparità si amplificano via via che ci si muove verso gli estremi. L’ “uomo medio” non è molto più fisicamente aggressivo della “donna media”, ma se andiamo a vedere chi sono le persone estremamente aggressive, troveremo molti uomini e poche donne. Bisogna anche considerare che, nella maggior parte dei tratti di personalità (così come in molte caratteristiche fisiche come l’altezza), i maschi sono più variabili delle femmine, e quindi hanno una maggiore probabilità di trovarsi sia all’estremo più alto che a quello più basso della distribuzione. Questo vuol dire, per esempio, che ci sono più uomini che donne tra le persone con alta propensione al rischio, ma anche (in misura minore) tra quelle con livelli particolarmente bassi di propensione al rischio. La maggiore variabilità del sesso maschile non è una particolarità degli esseri umani; è una caratteristica comune che si ritrova nella maggior parte delle specie animali e sembra legata, almeno in parte, all’asimmetria della selezione sessuale (che di solito è più intensa nei maschi).

Le stesse considerazioni si applicano anche agli altri tratti discussi qui sopra, e l’effetto si amplifica quando si prendono in considerazione più tratti contemporaneamente. Se so che una persona è piuttosto aggressiva, estremamente dominante e assertiva nelle situazioni sociali, ha l’autostima alle stelle, e non vede l’ora di provare il brivido del rischio e trovarsi in situazioni in cui “o la va o la spacca”, la probabilità che quella persona sia un uomo è davvero molto alta. Da un altro punto di vista: esistono donne con personalità fortemente dominanti, assertive, aggressive, eccetera? Certo che sì, ma sono molte meno degli uomini con le stesse caratteristiche. Anche senza arrivare agli estremi, avere livelli più alti o più bassi della media in questi tratti può influire in modo notevole nei più svariati ambiti di vita. Pensare che queste tendenze a livello della popolazione non abbiano alcun impatto sulle differenze nel successo lavorativo, soprattutto in campi con una forte componente di competizione e/o rischio, è semplicemente assurdo. C’è anche un altro lato della medaglia, che di solito non viene considerato: per i motivi discussi fin qui, possiamo aspettarci che, rispetto alle donne, gli uomini (considerati come gruppo) corrano un rischio più alto di fallimento, spesso proprio negli stessi campi in cui hanno più probabilità di successo. Come ha potuto constatare Barbero, anche solo sfiorare questi temi scatena dei fortissimi tabù intellettuali; ma sono tabù che non hanno motivo di esistere e che non aiutano nessuno a capire le dinamiche sociali, né tantomeno a trovare modi realistici e costruttivi per cambiarle in meglio.

I cervelli di uomini e donne: uguali o diversi?

Anche se Barbero non lo ha nominato, il cervello ha un ruolo di primo piano nell’intervento della prof.ssa Viola, che sottolinea come quest’organo sia “plastico: ciò significa che i circuiti neuronali non sono statici ma si modificano e si creano nel tempo in base agli stimoli ricevuti”. Sicuramente la plasticità è una caratteristica basilare del cervello, dal momento che rende possibili l’apprendimento e la memoria. Però è anche importante non interpretare questo concetto in modo troppo “libero”. La ricerca genetica ha mostrato chiaramente che le caratteristiche anatomiche e funzionali del cervello a livello macroscopico (come il volume e lo spessore di diverse aree, le connessioni tra aree, e i profili di attività sia a riposo che durante compiti cognitivi) sono influenzate in modo sostanziale dalle differenze genetiche tra le persone, e che gli effetti genetici sono spesso più forti di quelli ambientali. Questi dati suggeriscono un certo scetticismo rispetto all’idea che le differenze cerebrali tra maschi e femmine possano essere spiegate facilmente come prodotti dell’esperienza e dell’apprendimento.

Dal punto di vista anatomico, la principale differenza di genere sta nel volume del cervello, che è maggiore del 10-15% negli uomini rispetto alle donne (uno scarto piuttosto ampio dal punto di vista statistico). Questa differenza è solo in parte spiegata dal fatto che gli uomini in media hanno un corpo più grande, e al momento non è per nulla chiaro cosa significhi dal punto di vista funzionale; per esempio, il volume del cervello è correlato al quoziente intellettivo (QI), ma non ci sono differenze marcate nel QI medio tra maschi e femmine. Poi ci sono molte altre differenze, sia nelle dimensioni delle varie regioni cerebrali che nelle connessioni tra regioni. Grazie a queste differenze, è possibile creare algoritmi che, partire dall’anatomia di un cervello, riescono a “indovinare” correttamente il sesso della persona in più del 90% dei casi. Ma una porzione importante di queste differenze è una conseguenza (diretta o indiretta) del maggior volume del cervello dei maschi; quando lo scarto nel volume totale viene corretta con metodi statistici, le differenze diventano nettamente più piccole e l’accuratezza nella classificazione scende al 60-70%.

Che conclusioni si possono trarre da questi dati? Non molte, a dire la verità. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza le piccole dimensioni delle differenze (una volta corrette per il volume totale) e i risultati contrastanti degli studi in questo campo; su questa base hanno sostenuto che le differenze di genere nella struttura e funzione cerebrale sono sostanzialmente trascurabili, come sostiene anche la prof.ssa Viola. Ma proprio perché le differenze sono statisticamente deboli mentre le misurazioni sono imprecise e piene di difficoltà tecniche, è probabile che anche gli studi più grandi eseguiti finora siano in realtà troppo piccoli per dare risultati affidabili. Proprio adesso stanno iniziando a uscire i primi studi con decine di migliaia di soggetti, e i risultati sono molto più precisi e robusti di quanto si sia visto finora. Il problema più profondo è che, dal momento che sappiamo molto poco di come la struttura fisica del cervello influisce sul funzionamento cognitivo, risulta molto difficile decidere se differenze che ci sembrano “piccole” possano invece avere effetti rilevanti sul comportamento.

Ancora più importante è il fatto che, se non si correggono statisticamente le misure per eliminare le differenze di genere nel volume cerebrale totale, i cervelli di uomini e donne risultano piuttosto diversi in tutta una serie di caratteristiche anatomiche. Rimuovere queste differenze equivale ad assumere che non abbiano nessuna importanza dal punto di vista funzionale, ma non abbiamo idea se sia davvero così. Per esempio, uno studio recente sulle associazioni tra tratti di personalità e anatomia cerebrale ha trovato le correlazioni più forti proprio con il volume totale e altre misure globali. Anche queste correlazioni però tendono ad essere piuttosto piccole in senso assoluto, in linea con l’idea che la personalità sia determinata soprattutto da meccanismi neurochimici (neurotrasmettitori, ormoni, ecc.) piuttosto che da differenze anatomiche. È probabile che il funzionamento cerebrale sia ancora più differenziato dal punto di vista neurochimico di quanto non lo sia dal punto di vista puramente anatomico.

Anche se capiamo ancora poco del funzionamento del cervello nei due sessi, ne sappiamo molto di più sulle loro abilità cognitive. Come accennavo prima, il QI è una misura dell’intelligenza generale (indipendente dal tipo specifico di compito). Anche se alcuni studi hanno trovato una media leggermente più alta dei maschi, si tratta di differenze abbastanza piccole e statisticamente difficili da misurare con precisione. Le differenze tra maschi e femmine non stanno tanto nel livello generale di intelligenza quanto nella distribuzione delle abilità cognitive specifiche. Soprattutto a partire dall’adolescenza, le femmine sono in media più brave nei compiti basati sul ragionamento verbale, mentre i maschi hanno prestazioni più alte nei compiti che richiedono abilità visivo-spaziali (per esempio visualizzare oggetti tridimensionali complessi), quantitative, e meccaniche. Inoltre le femmine hanno un vantaggio nei compiti che richiedono di dividere l’attenzione tra molti elementi diversi, mentre i maschi sono avvantaggiati nel prestare attenzione in modo focalizzato. Questi “profili cognitivi” tipici dei due sessi sono robusti dal punto di vista statistico, hanno dei paralleli funzionali in molti altri mammiferi, si ritrovano in culture differenti tra loro, e influenzano in modo sostanziale le scelte accademiche e professionali (per esempio, le persone che hanno abilità visivo-spaziali e quantitative relativamente più sviluppate di quelle verbali tendono a scegliere più spesso di iscriversi a facoltà scientifico-matematiche, le cosiddette STEM).

Come nei tratti di personalità, anche nelle abilità cognitive si osserva il fenomeno della maggiore variabilità maschile. I maschi sono più variabili delle femmine nelle misure generali di QI, nelle abilità cognitive specifiche (verbali, visivo-spaziali, matematiche…) e nei punteggi ai test di creatività, oltre che in molti aspetti dell’anatomia cerebrale. Il risultato è che ci sono più maschi che femmine agli estremi più bassi delle abilità cognitive (e molti più maschi che soffrono di ritardo mentale), ma anche agli estremi più alti delle stesse abilità. Se andiamo a vedere chi sono le persone con capacità quantitative e visivo-spaziali fuori dal comune, troveremo una netta preponderanza maschile, perché il vantaggio medio dei maschi in questo tipo di abilità viene amplificato dalla loro maggiore variabilità. Ovviamente ci sono donne a tutti i livelli della distribuzione, fino ai profili di abilità più estremi; ma, come nel caso della personalità, sono meno degli uomini con le stesse caratteristiche. Come si può immaginare, i tabù sulle differenze di genere nella cognizione sono ancora più incandescenti di quelli sulla personalità. Per questo motivo, i dati che ho presentato in questa sezione rimangono spesso confinati nell’ambito specialistico della ricerca sull’intelligenza, nonostante siano robusti, replicabili e importanti dal punto divista sociale.

C’è un altro aspetto delle differenze di genere che si interseca con quello delle abilità, ma probabilmente risulta ancora più importante nel determinare le scelte lavorative di uomini e donne. Si tratta delle preferenze rispetto alla cosiddetta dimensione cose-persone: mentre gli uomini tendono a preferire lavori centrati su oggetti inanimati o concetti astratti, le donne (in media) hanno una preferenza per lavori centrati sulle persone o con una forte componente relazionale. Si tratta di una delle differenze di genere più marcate tra quelle studiate in psicologia; gli interessi per cose e persone emergono molto presto nello sviluppo (forse addirittura alla nascita), e sono influenzati dall’esposizione agli androgeni durante lo sviluppo. La socializzazione sembra avere poco a che fare con l’origine di queste differenze, anche perché lo scarto tra maschi e femmine sulla dimensione cose-persone è rimasto praticamente invariato per più di 50 anni, nonostante i cambiamenti massicci che sono avvenuti nel mondo del lavoro e della formazione. L’origine evoluzionistica di queste predisposizioni si trova, molto probabilmente, nella divisione del lavoro in base al sesso che ha caratterizzato la nostra storia per centinaia di migliaia (se non milioni) di anni. Non c’è alcun dubbio sul fatto che, nel passato degli esseri umani, alcuni compiti (come la caccia e la produzione di utensili) siano stati appannaggio maschile, mentre altri (come la cura dei piccoli) siano stati delle occupazioni prevalentemente femminili. Dal punto di vista evoluzionistico, è davvero difficile pensare che aver ricoperto ruoli specializzati per decine o centinaia di migliaia di generazioni non abbia plasmato anche i nostri interessi e i nostri profili cognitivi.

Il dibattito natura-cultura in quest’ambito si è concentrato soprattutto sulle abilità visivo-spaziali, vista la loro rilevanza per le carriere nell’ambito STEM. I dati indicano chiaramente che queste abilità mostrano un certo livello di plasticità possono essere migliorate con l’esercizio, almeno nel breve periodo. Insieme al fatto che lo scarto tra maschi e femmine aumenta progressivamente durante lo sviluppo, questo risultato è spesso visto come una dimostrazione che le differenze di genere nelle abilità visivo-spaziali sono prodotte dalla socializzazione. Ma si tratta di un’argomentazione debolissima: anche i muscoli sono plastici, e la massa muscolare si può aumentare con l’esercizio, ma questo non toglie che la differenza nella forza fisica di uomini e donne abbia una chiara base biologica. Così come nelle abilità cognitive, anche le differenze nella forza fisica e nella massa muscolare emergono gradualmente nello sviluppo, aumentando nella media fanciullezza e poi con la pubertà. Il fatto che una certa differenza non sia presente alla nascita dice molto poco sulla sua natura biologica o culturale, come si può capire immediatamente pensando a tratti sessualmente differenziati come la voce, la barba, e così via. Sicuramente esiste uno “stereotipo” sul fatto che gli uomini abbiano la voce più profonda delle donne, ma sarebbe surreale argomentare che questo stereotipo è la causa dell’abbassamento della voce nei ragazzi. Lo stesso discorso si può fare rispetto alle differenze nella personalità, nelle preferenze e nelle abilità cognitive: la semplice esistenza di stereotipi di genere (che, messi alla prova empirica, di solito si rivelano sorprendentemente accurati) non dimostra che siano gli stereotipi a causare le differenze e non viceversa. Alcuni lettori avranno sentito parlare della ricerca sullo stereotype threat, secondo cui “attivare” gli stereotipi di genere (per esempio leggendo un brano sul fatto che i maschi sono più bravi in matematica) è sufficiente per far calare la prestazione di donne e ragazze in certi compiti cognitivi. Questo filone di ricerca ha ricevuto una grandissima pubblicità, perché sembrava dimostrare in modo inequivocabile il potere degli stereotipi di plasmare cognizione e comportamento. Quello che pochi sanno è che i risultati iniziali non sono stati replicati negli studi più grandi e meglio controllati, e che una volta corretti i dati per la tendenza a pubblicare più facilmente i risultati positivi, l’effetto si riduce di molto o addirittura scompare.

Le differenze nelle abilità cognitive e quelle nelle preferenze cose-persone si rinforzano tra loro, e insieme contribuiscono a spiegare la minore rappresentazione delle donne nelle professioni STEM (anche se molto probabilmente non la spiegano del tutto). Se c’è un fattore che sicuramente non spiega le differenze nelle discipline STEM, si tratta della disparità di genere a livello socio-culturale. Infatti, nei paesi con più alta parità di genere i profili delle prestazioni cognitive di maschi e femmine tendono a diventare ancora più sbilanciati, e la proporzione di ragazze che si iscrivono a facoltà STEM tende a diminuire invece che aumentare. È probabile che, anche in quest’ambito, l’allentamento delle pressioni sociali ed economiche porti le persone ad esprimere più liberamente le proprie inclinazioni, con il risultato che le differenze di genere vengono amplificate piuttosto che eliminate.

Per concludere

Nel suo intervento, Barbero ha espresso in modo colloquiale un’idea di senso comune ma tutt’altro che ridicola, che di fatto (e con le dovute precisazioni) collima con i risultati della ricerca sulle differenze di genere. Ma le differenze nei tratti competitivi come assertività e propensione al rischio sono solo una tessera di un puzzle molto più ampio, che spazia dalla personalità fino alle abilità cognitive, agli interessi e alle preferenze. Lo studio di queste differenze rivela un panorama complesso e affascinante, collega tra loro diverse discipline scientifiche, e permette di spiegare in modo coerente moltissimi fenomeni del mondo reale. Tra le altre cose, mostra chiaramente che la discriminazione non è l’unica spiegazione possibile delle differenze di genere, e in molti casi neanche la più rilevante. Il tema della discriminazione in campo formativo e lavorativo è troppo ampio per poterlo aprire qui, ma è importante sottolineare che i dati a riguardo non sono né facili da interpretare né tantomeno “a senso unico”; in bibliografia ho messo degli articoli utili da cui partire per esplorare questo tema, soprattutto rispetto all’ambito accademico e alle discipline STEM.

Purtroppo la nostra cultura intellettuale ha un’enorme difficoltà a fare i conti con le differenze, e le risposte a Barbero ne sono una dimostrazione tra le tante. La cosa più grave è che, a forza di ignorare ostinatamente i dati “scomodi” e reagire attaccando chiunque esca dal recinto stretto del politicamente corretto, la narrazione su questi temi diventa sempre più autoreferenziale, povera di contenuti e sganciata dalla realtà. Con questo articolo ho cercato di dare il mio contributo ad una conversazione più aperta e bilanciata. Che il dibattito continui!


Riferimenti bibliografici

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Uno scambio tra un gruppo di psicologi evoluzionisti e uno di “neurofemministe”, che tocca molti dei temi discussi in questo articolo:

https://sfonline.barnard.edu/neurogenderings/eight-things-you-need-to-know-about-sex-gender-brains-and-behavior-a-guide-for-academics-journalists-parents-gender-diversity-advocates-social-justice-warriors-tweeters-facebookers-and-ever/

https://www.psychologytoday.com/us/blog/sexual-personalities/201904/sex-differences-in-brain-and-behavior-eight-counterpoints

https://www.psychologytoday.com/us/blog/sexual-personalities/201907/responding-ideas-sex-differences-in-brain-and-behavior

  1. Distinguere tra natura e cultura: mission impossible?

Selezione sessuale:

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  1. L’ipotesi di Barbero: realtà o fantasia?

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Una sintesi molto leggibile di alcuni risultati importanti riguardo alle differenze di personalità:

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  1. I cervelli di uomini e donne: uguali o diversi?

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Un articolo recente di Lise Eliot e colleghi sulla natura (secondo loro trascurabile) delle differenze cerebrali, e alcune risposte critiche:

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Flore, P. C., & Wicherts, J. M. (2015). Does stereotype threat influence performance of girls in stereotyped domains? A meta-analysis. Journal of school psychology, 53(1), 25-44. Link

Flore, P. C., Mulder, J., & Wicherts, J. M. (2018). The influence of gender stereotype threat on mathematics test scores of Dutch high school students: a registered report. Comprehensive Results in Social Psychology, 3(2), 140-174. Link

Ganley, C. M., Mingle, L. A., Ryan, A. M., Ryan, K., Vasilyeva, M., & Perry, M. (2013). An examination of stereotype threat effects on girls’ mathematics performance. Developmental psychology, 49(10), 1886. Link

Shewach, O. R., Sackett, P. R., & Quint, S. (2019). Stereotype threat effects in settings with features likely versus unlikely in operational test settings: A meta-analysis. Journal of Applied Psychology, 104(12), 1514. Link

Parità di genere, profili cognitivi e STEM:

Stoet, G., & Geary, D. C. (2018). The gender-equality paradox in science, technology, engineering, and mathematics education. Psychological science, 29(4), 581-593. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2020). Sex-specific academic ability and attitude patterns in students across developed countries. Intelligence, 81, 101453. Link

  1. Per concludere

Ceci, S. J., Ginther, D. K., Kahn, S., & Williams, W. M. (2014). Women in academic science: A changing landscape. Psychological science in the public interest, 15(3), 75-141. Link

Ceci, S. J., Kahn, S., & Williams, W. M. (2021). Stewart-Williams and Halsey argue persuasively that gender bias is just one of many causes of women’s underrepresentation in science. European Journal of Personality, 35(1), 40-44. Link

Ceci, S. J., & Williams, W. M. (2011). Understanding current causes of women’s underrepresentation in science. Proceedings of the National Academy of Sciences, 108(8), 3157-3162. Link

Stewart-Williams, S., & Halsey, L. G. (2021). Men, women and STEM: Why the differences and what should be done? European Journal of Personality, 35(1), 3-39. Link

Sito di Marco Del Giudice: https://marcodg.net




Dove va il politicamente corretto? Uno sguardo dagli USA

Intervista di Luca Ricolfi al prof. Marco Del Giudice, docente di psicologia evoluzionistica e metodi quantitativi, che da 8 anni insegna e fa ricerca negli USA”

Sito di Marco Del Giudice: https://marcodg.net

Del Giudice, lei ha lasciato l’Università italiana nel 2013 e sta facendo una brillante carriera negli Stati Uniti. Come sa, il 2013 (secondo alcuni) è anche l’anno del “Great Awokening”, ossia del processo di radicalizzazione del mondo progressista. Lei come ha vissuto quel processo? Quando ha avvertito il cambiamento? Fin dal suo arrivo in America, o solo a un certo punto?
Ho cominciato a vivere per dei periodi negli USA nel 2009, ma il fatidico 2013 l’ho passato in Italia a fare preparativi per il trasferimento. Quando ho preso servizio nel 2014 all’Università del New Mexico insieme a mia moglie Romina (che è stata assunta nello stesso dipartimento), il cambiamento di atmosfera già si sentiva. C’erano stati i primi incidenti tra docenti e studenti legati alla libertà di espressione, e si iniziava a sentire una tensione insolita rispetto a temi come le differenze di genere, che sono uno dei miei argomenti di ricerca come psicologo evoluzionista. Nel giro di un paio d’anni l’atmosfera nelle università si è scaldata con le sempre più frequenti “cancellazioni” degli speaker politicamente controversi, ed è diventata incandescente dopo l’elezione di Trump, che ha letteralmente traumatizzato la sinistra americana. Per dire, subito dopo le elezioni del 2016, molte università e dipartimenti (incluso il nostro) hanno iniziato a mandare mail di conforto a studenti e professori, e tenere gruppi di auto-aiuto per chi era rimasto sconvolto dal risultato elettorale.
La tensione accumulata, amplificata dai lockdown e dalle elezioni imminenti, è esplosa tutta insieme nella primavera del 2020, quando le proteste per l’uccisione di George Floyd hanno innescato una rapidissima auto-radicalizzazione nelle università, nelle scuole, nei media, nelle piattaforme online, e così via. Nel giro di pochi mesi si è arrivati a quello che mi sento di chiamare un clima da rivoluzione culturale, centrato soprattutto sulle questioni etniche e razziali, ma esteso anche a quelle di genere e agli altri temi del movimento che va sotto le etichette di “wokeness”, “social justice”, “intersectionality”, eccetera. Nessuna istituzione o ambito della vita sociale è rimasto fuori da questa ondata di piena, dall’esercito alle congregazioni religiose alle associazioni mediche e scientifiche, dai libri per bambini ai cartoni animati e alle etichette dei prodotti al supermercato. L’elezione di Biden non ha fermato questo processo ma anzi lo ha accelerato, almeno per ora. Mi ha colpito quanto poco di questi avvenimenti sia filtrato nei media italiani… i miei amici in Italia mi ascoltavano raccontare queste cose come se venissi da una specie di realtà parallela. Mi pare che negli ultimi mesi ci sia stato qualche passaggio di informazioni in più, ma soprattutto attraverso canali “non ufficiali” come social e blog.

Parliamo del politicamente corretto negli Stati Uniti oggi. Come definirebbe il politicamente corretto?
Non voglio provare a dare una definizione ma una prospettiva d’insieme. Il politicamente corretto di solito si riferisce al controllo del linguaggio, per esempio tramite la creazione di tabù, la sostituzione di parole e frasi con altre, la ridefinizione di parole comuni all’introduzione di neologismi e nuove forme di etichetta (per esempio indicare i propri pronomi). Se si rimane a questo livello è facile coglierne gli aspetti più assurdi, perfino al limite della comicità. Ma fermarsi qui sarebbe un errore, perché lo scopo del politicamente corretto è modificare la realtà, e il controllo del linguaggio serve solo e unicamente in quanto strumento per incidere sulla realtà. La manifestazione più ingenua di questo atteggiamento è l’idea che si possa modificare la natura delle cose semplicemente cambiando il modo in cui se ne parla; questo può sembrare una specie di pensiero magico, anche se riflette certe idee postmoderne sulla costruzione sociale della realtà. Però ci sono molti altri effetti sul mondo reale, ben più importanti anche se indiretti. Imporre con successo dei cambiamenti linguistici ha l’effetto di legittimare implicitamente le teorie che hanno motivato quei cambiamenti, giuste o sbagliate che siano (per esempio, la teoria che l’uso generico del genere maschile in italiano serva a rinforzare e perpetuare forme di discriminazione femminile). Bollare certe parole e idee come tabù o introdurre significati alternativi di parole comuni restringe lo spazio della discussione, rende impossibile esprimere critiche e dissenso, e in questo modo apre la strada a riforme istituzionali e legislative via via più radicali, in cui ogni passo giustifica quello successivo. Tutto questo viene fatto in nome di ideali nobili come “rispetto”, “dignità” e “uguaglianza”. Il politicamente corretto è difficile da contrastare proprio perché sfrutta l’empatia e l’altruismo delle persone (facendole sentire allo stesso tempo “dalla parte giusta della storia”) e mette i critici nella posizione di sembrare insensibili, irrispettosi e intolleranti.
È anche importante notare che i termini e pensieri “corretti” cambiano velocemente e in modo imprevedibile; quello che oggi è un discorso avanzato e progressista può diventare problematico e bigotto nel giro di pochi anni, o addirittura pochi mesi (come è successo alle femministe radicali, che oggi vengono bollate come reazionarie dagli attivisti transgender perché considerano il sesso come un fatto biologico inalterabile). Questo induce un senso di ansia strisciante e porta le persone ad evitare certi argomenti o autocensurarsi in via preventiva, fa sì che dibattiti cruciali restino impantanati in questioni semantiche senza uscita, e offre pretesti di ogni tipo per “cancellare” retroattivamente gli avversari e distruggerne la reputazione. C’è di più: il politicamente corretto inietta nella cultura l’idea che le parole siano letteralmente forme di violenza e oppressione, e quindi che le idee “pericolose” giustifichino il ricorso alla censura e alla violenza. Le persone spesso intuiscono tutto questo, e reagiscono alle manifestazioni del politicamente corretto in modi che sembrano sproporzionati o allarmisti se ci si ferma al livello della superficie linguistica. Ma la posta in gioco è molto più alta e molto più seria.
La cosa più importante è riuscire a vedere il politicamente corretto non come un fenomeno a sé stante relativo all’uso del linguaggio, ma come la parte più visibile di una “creatura” ideologica molto più complessa e articolata. La chiamo wokeness perché è il termine colloquiale più comune nel mondo anglosassone, ma anche perché coglie bene lo spirito semi-religioso che la anima (essere woke vuol dire letteralmente essersi “svegliati”, aver aperto gli occhi sui sistemi di potere e oppressione che controllano la vita delle persone). L’idea centrale è che la società sia organizzata secondo una matrice più o meno invisibile di pregiudizi e privilegi (lungo molteplici assi di razza, sesso, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità…) che si intersecano e rinforzano tra loro: la famosa “intersezionalità”. Questo crea dei sistemi di oppressione che si auto-perpetuano, operando per lo più a livello implicito e inconscio, e producono disparità tra gruppi e categorie sociali. La possibilità che esistano reali differenze culturali o biologiche (per esempio tra maschi e femmine), e che certe disparità non derivino da ingiustizie sociali ma da caratteristiche e scelte delle persone viene esclusa a priori e considerata moralmente inaccettabile, perfino violenta; anche solo suggerirlo come ipotesi è visto come una forma di oppressione e una manifestazione di sessismo, razzismo, ecc.
La wokeness vede la democrazia liberale come un’illusione che perpetua l’oppressione di donne, minoranze etniche e sessuali, e così via dietro una facciata di principi solo apparentemente giusti e imparziali. Qualunque opzione di neutralità politica (per esempio l’idea di tenere il più possibile separata la ricerca scientifica dall’attivismo, o di non usare le scuole per indottrinare politicamente i bambini) viene interpretata come una maniera subdola di perpetuare lo status quo e mantenere i privilegi delle categorie dominanti. Per questo la wokeness è sospettosa (se non ostile) verso principi liberali come la libertà di espressione o l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abbraccia tutti gli aspetti della società e della cultura con la convinzione di essere dalla parte giusta della storia, e si concentra su come i sistemi di oppressione vengono interiorizzati (spesso in modo inconsapevole) ed espressi nella percezione, nelle emozioni, nel pensiero e nel linguaggio delle persone. In altre parole, ha una visione del mondo profondamente totalitaria, e si esprime in forme totalitarie (censura, processi sommari, delazione, “struggle sessions” e rieducazione, autodenunce e auto da fé…) ogni volta che prende il controllo di un gruppo o di un’istituzione. Il caso sconcertante dell’Evergreen College (documentato in dettaglio da Benjamin Boyce e Mike Nayna) è un esempio emblematico di cosa può succedere quando questi principi vengono messi in pratica a livello istituzionale.
Questa corrente ideologica ha iniziato a prendere forma nella sinistra accademica a partire dagli anni ’70, virando dalle questioni di classe a quelle di identità e incorporando alcuni concetti chiave della filosofia postmoderna. È cresciuta e si è sviluppata nelle università, in particolare nelle discipline umanistiche, in alcune scienze sociali come la sociologia e l’antropologia, e soprattutto nei dipartimenti di educazione (education schools) e nella galassia in continua espansione degli “studies” identitari (tra cui women’s studies, gender studies, queer studies, Black studies, Latino studies e così via). Dalle università ha continuato a diffondersi nelle scuole (ritornando poi alle università via via che i ragazzi crescevano e si iscrivevano al college), ai media, ai dipartimenti di risorse umane delle grandi aziende. Ha iniziato a farsi sentire negli anni ’90, ma non aveva ancora la massa critica per diventare una forza dominante nella sinistra, che pure stava diventando sempre più elitaria e sganciata dagli interessi della working class. Probabilmente anche grazie all’effetto accelerante dei social media, la massa critica è arrivata intorno al 2010, ed eccoci qua. Tra i critici e/o cronisti più interessanti di questo periodo convulso metterei Douglas Murray, Jordan Peterson, James Linsday, Bari Weiss, Wesley Yang, Zachary Goldberg, Richard Hanania, e altri collegati a riviste online come Quillette. Poi ci sono trent’anni di letteratura accademica e non; alla fine dell’intervista posso mettere qualche libro consigliato tra quwlli più recenti. Raccomando anche un’interessante video intervista sul politicamente corretto e identity politics fatta da Dario Maestripieri, mio caro amico e biologo all’università di Chicago.

Può farci qualche esempio concreto, per far capire al lettore italiano come si manifesta il politicamente corretto nella sua università e, se vuole, anche nella vita quotidiana.
Gli Stati Uniti sono un Paese incredibilmente vario dal punto di vista sociale e politico, per cui le esperienze di vita quotidiana dipendono molto dal posto in cui si vive. Più che un aneddoto specifico, mi sento di condividere un’esperienza che sta diventando sempre più comune: se non si è tra persone di fiducia o che si sa per certo essere “dalla stessa parte”, la reazione immediata è smettere di dire quello che si pensa, iniziare a pesare ogni parola, e usare frasi fatte e generiche, evitando accuratamente qualsiasi argomento che possa essere vissuto come problematico o offensivo (la lista si allunga ogni giorno di più). Prevedibilmente, il politicamente corretto ha tolto spontaneità alle relazioni sociali e le ha rese molto più caute, superficiali e legnose. Mi rendo conto che è difficile da spiegare se non si è provato. Quest’anno mia moglie ed io siamo tornati in Italia per qualche mese; la prima sensazione che ci ha sorpreso è stata che le persone si parlassero normalmente, tranquillamente, in un modo a cui non eravamo più abituati; come se all’improvviso si fosse sollevato un velo. Un’altra esperienza rivelatrice è quella di guardare film o serie TV girate negli anni ’90, nei primi anni 2000, o perfino intorno al 2010, e restare sorpresi per come fosse possibile dire o mostrare cose che ora sarebbero verboten. Lo spazio pubblico del discorso e delle rappresentazioni si sta restringendo velocemente, a fronte di una concentrazione sempre più ossessiva su pochi temi (questioni di razza, genere, orientamento sessuale, eccetera); è incredibile quanto in fretta ci si abitua, l’unico modo per rendersene conto è confrontare la produzione di oggi con quella del passato, anche molto recente.
Per quanto riguarda l’accademia USA, si tratta di una specie di Stato a sé, con una cultura molto uniforme e pochissimo radicamento nelle realtà locali (gli accademici americani si spostano molto di più tra università e Stati di quanto non succede in Italia o in Europa). Dentro le università, secondo me siamo già oltre la fase del politicamente corretto: con poche eccezioni, il conformismo ideologico è talmente capillare da essere diventato quasi un fatto naturale, come l’aria che si respira. Gli speech code che regolamentano il linguaggio e puniscono frasi e atteggiamenti “offensivi”; i training obbligatori su cosa si può e non si può dire quando si presentano situazioni problematiche con studenti e colleghi; il fatto che i candidati vengono valutati in modo diverso a seconda della razza, del sesso e dell’orientamento ideologico; i libri di testo depurati per non offendere nessuna categoria sensibile e celebrare “equità, diversità e inclusione”; i messaggi dall’amministrazione universitaria, sempre allineati con i progressisti sui temi politici del momento; potrei andare avanti per un bel po’.
Decenni di compromessi, silenzi e quieto vivere da parte degli accademici non attivisti hanno portato (lentamente, passo dopo passo) ad un sistema paternalistico e soffocante, dove limitazioni alla libertà individuale che hanno dell’incredibile (come i codici che disciplinano lo humor e, in qualche caso, le espressioni facciali) vengono vissute come normali, quasi ovvie. È una vera tragedia, perché le università americane sono piene di qualità e competenze a livelli altissimi; ma schierandosi politicamente, dando la priorità a obiettivi ideologici come “equità” e “giustizia sociale” a scapito del rigore accademico, e definendosi sempre più come fabbriche di attivisti stanno bruciando ad una velocità allarmante il capitale di fiducia che hanno accumulato nel tempo. Alla lunga non saranno in grado di mantenere gli standard su cui si basano il loro successo e il loro prestigio; peggio ancora, visto il loro ruolo di leadership rischiano di trascinare con sé una buona parte del sistema accademico internazionale.
A chi volesse farsi un’idea più precisa della situazione, raccomando il sito della Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), un’associazione apolitica che lotta da vent’anni per ripristinare i diritti costituzionali del Primo Emendamento nelle università. La National Association of Scholars (NAS) ha un taglio politico più conservatore, e sta portando avanti battaglie e campagne di informazione importantissime, spesso come unica voce critica nel panorama accademico americano.

Ma secondo lei qui in Italia abbiamo idea di che cosa sta accadendo negli Stati Uniti? O viviamo felicemente all’oscuro perché da noi il great awokening è appena all’inizio, e magari non potrà mai veramente esplodere, perché manca l’ingrediente razziale?
Come accennavo all’inizio, mi pare che la consapevolezza di quello cha sta succedendo negli USA (e in altri Paesi anglosassoni come Canada, UK, Australia) a livello sociale e politico sia piuttosto scarsa, e questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a fare questa intervista. Parlo di quello che ho potuto vedere nei principali media italiani e sentire parlando con amici e colleghi; naturalmente, molto dipende da quali canali online si seguono e di quali “bolle” politiche e informative si fa parte.
Per quanto riguarda la wokeness, si tratta di un fenomeno globale e globalizzato, anche se è maturato negli USA e in altri Paesi anglosassoni. Esploderà anche in Italia? Fare previsioni è molto difficile, ma provo a fare una lista di differenze sociali e culturali che potrebbero influenzare il corso degli eventi. Per esempio, l’Italia ha una società che si muove e cambia più lentamente, con più inerzia e stacchi meno netti tra le generazioni. I legami familiari e locali sono più forti e contrastano la tendenza all’atomizzazione e all’isolamento, che rendono le persone più fragili ed esposte alla manipolazione emotiva (penso soprattutto agli studenti universitari). Poi c’è una differenza culturale indefinibile, una specie di disincanto “all’italiana” per cui si tende a non prendere le cose troppo sul serio; manca quel fondo idealistico e puritano che negli Stati Uniti si sente, eccome. Naturalmente tutti questi aspetti della società italiana possono essere sia dei vantaggi che dei limiti. Per esempio l’inerzia generazionale e la dimensione locale possono frenare l’innovazione e sprecare occasioni e potenzialità; però possono anche rallentare i cambiamenti impulsivi e smorzare certi eccessi prima di fare troppi danni. Poi in Italia esiste la memoria del fascismo, che da un lato può essere invocata “a sinistra” per sopprimere il dissenso, ma dall’altro può funzionare da anticorpo e rendere più facile riconoscere i sintomi di una deriva totalitaria. Forse non è un caso che i Paesi dove la wokeness ha attecchito più profondamente siano quelli che non hanno fatto l’esperienza di dittature e regimi totalitari nel passato recente.
Un’altra differenza importante è che gli USA hanno avuto più di 50 anni di legislazione espansiva sui diritti civili che, al di là dei suoi risultati positivi, ha portato alla creazione di un’enorme e potente burocrazia a tutela di “equità, diversità e inclusione” nelle aziende e nelle istituzioni. Questa burocrazia tentacolare è stata terreno fertile per la crescita e diffusione della wokeness, ed è uno dei motivi per cui una manciata di attivisti può condizionare o mettere in ginocchio università, aziende, e così via. Christopher Caldwell ha scritto The age of entitlement, un libro importantissimo dove argomenta che la legislazione sui diritti civili a partire dagli anni ‘60 ha di fatto creato una “costituzione parallela” che si pone in conflitto sempre più aperto con quella formale del 1789. Richard Hanania ha fatto un’analisi molto lucida di questo fenomeno in un articolo intitolato Woke institutions is just civil rights law.
Detto tutto questo, sarebbe un errore illudersi che l’Italia sia al riparo. È vero, la questione razziale è molto meno profonda e centrale che negli USA, ma non bisogna dimenticare che la wokeness è un’ideologia totalizzante basata sul principio dell’intersezionalità. Il punto di partenza preciso importa poco: qualsiasi aspetto della storia o della società che possa essere inquadrato nella dinamica privilegio/oppressione può servire come innesco per iniziare il processo di radicalizzazione. Se non è la razza, può essere benissimo il sesso o l’identità di genere. Per fare un altro esempio, l’Italia non ha conosciuto lo schiavismo e la segregazione razziale come gli Stati Uniti; però ha avuto un periodo coloniale che, in linea di principio, potrebbe svolgere la stessa funzione di “peccato originale” da espiare. Ancora: i social media non conoscono frontiere e tendono a creare una monocultura globale molto permeabile, soprattutto per i più giovani. Per via dei miei interessi di ricerca sulle differenze di genere, seguo abbastanza da vicino le evoluzioni del femminismo e dell’attivismo transgender; è molto facile notare che gli attivisti italiani (e i media che ne amplificano la voce) usano le stesse parole, immagini e strategie retoriche delle loro controparti americane. Sono sistemi di idee adattabili e “contagiosi”, capaci di attraversare facilmente le barriere culturali.

Parliamo ancora dell’Università. Immagino che ci siano anche studenti e colleghi che non amano il politicamente corretto, o addirittura lo contestano apertamente. Che cosa succede a chi non si allinea?
Per cominciare, chi non si allinea paga il prezzo dell’ostracismo di colleghi e studenti, e sa di mettere a rischio la propria reputazione (con ricadute sulle possibilità di ricevere finanziamenti, promozioni, offerte lavorative, riconoscimenti, incarichi prestigiosi…). I professori dissidenti vengono bollati come sessisti, razzisti, transfobici e via dicendo, e rischiano di diventare bersagli di boicottaggi o denunce agli uffici per la diversità. Nel regime degli speech code, può bastare una denuncia anonima da parte di uno studente o un collega per far partire lunghi processi interni, sospensioni dall’insegnamento, e altri tipi di sanzioni amministrative. E chi non ha la tenure (il posto a tempo indeterminato) oppure lavora in un’università privata rischia seriamente di perdere il lavoro e la carriera. Sia NAS che FIRE mantengono dei database di professori “cancellati” o finiti nei guai per aver espresso opinioni scomode (o anche solo per aver infastidito qualche attivista con trasgressioni reali o immaginarie). Naturalmente, questo clima incoraggia l’autocensura, specialmente da parte dei più moderati e di chi ha molto da perdere in termini professionali; il silenzio dei moderati lascia campo libero agli attivisti, e così il circolo vizioso continua.
Nel nostro dipartimento, io e mia moglie siamo stati tra i pochi a schierarci apertamente per la libertà di espressione, per la neutralità politica dell’accademia, e contro la subordinazione dell’insegnamento e della ricerca a obiettivi ideologici di “giustizia sociale” e simili. Ovviamente i rapporti all’interno del dipartimento ne hanno risentito, ci siamo presi insulti da alcuni colleghi, e mi è giunta voce che i dottorandi più politicizzati hanno iniziato a boicottare i miei corsi. Devo dire che siamo stati comunque fortunati, perché lavoriamo in un dipartimento dove altri colleghi hanno espresso il loro dissenso, e sebbene si tratti di un gruppetto molto piccolo non ci sentiamo completamente soli. Siamo riusciti anche a ottenere qualche vittoria, e il nostro dipartimento non ha capitolato immediatamente quando l’estate scorsa gli studenti attivisti hanno scritto una lettera di denuncia con richieste di “decolonizzare il curriculum”, introdurre training sulle “microaggressioni” e sulla giustizia razziale, ridurre l’uso di test standardizzati nella valutazione dei candidati, e così via. Molti amici e colleghi in altri dipartimenti e università si trovano isolati, e spesso troppo spaventati per parlare o protestare. Alcuni hanno perso il lavoro o sono diventati “intoccabili” per aver pubblicato articoli e studi politicamente scorretti. Da studente, mi aveva stupito e turbato il fatto che, in tutta l’accademia italiana, solo dodici professori (più o meno uno su cento) avessero rifiutato di giurare fedeltà al fascismo nel 1931. Adesso mi sembra del tutto ovvio, purtroppo.

Esistono oggi negli Stati Uniti gruppi o forze che si oppongono al politicamente corretto? O la resistenza è puramente individuale, e magari anche un po’ criptica?
Gli USA sono un Paese grande, complesso e pieno di energia. Da qui arrivano le manifestazioni più estreme del politicamente corretto, ma anche le voci più forti e interessanti dell’opposizione. Oltre ad organizzazioni avviate come NAS e FIRE, negli ultimi anni stanno nascendo altre realtà come Counterweight, Academic Freedom Alliance (AFA), e Foundation Against Intolerance and Racism (FAIR). Heterodox Academy è un’altra associazione nata qualche anno fa per contrastare il pensiero unico nelle università, ma secondo me si è rivelata troppo debole e timida quando i nodi sono venuti al pettine. In questo momento, le forze in campo sono estremamente sbilanciate a favore della wokeness, ma è difficile prevedere come la situazione si evolverà nei prossimi cinque-dieci anni.
In modo sempre più esplicito, questa nuovo capitolo delle culture wars sta diventando una questione centrale nella politica dei partiti e degli Stati. Per esempio, in questi mesi si stanno combattendo delle importanti battaglie mediatiche e legislative riguardo all’uso nelle scuole pubbliche della critical race theory, che è una componente fondamentale della wokeness a livello teorico/accademico ed è stata adottata in varie forme da una larga fetta di educatori e amministratori scolastici. In parte, la stessa elezione di Trump è stata una reazione all’awokening delle élite progressiste iniziato qualche anno prima. Mi aspetto che negli anni a venire la wokeness e il politicamente corretto (che ne è una manifestazione) monopolizzeranno sempre di più il dibattito politico, non solo negli USA ma anche in Italia e in Europa.

E in Italia? Secondo lei la resistenza al ddl Zan sull’omotransfobia è anche alimentata dalla diffidenza per il politicamente corretto?
Ovviamente sì. Entrambe le parti (pro e contro) si comportano come se la posta in gioco fosse molto più alta rispetto al contenuto specifico del decreto, e hanno assolutamente ragione! Come dicevo, la questione dell’identità di genere è un possibile punto di innesco della wokeness (come lo è stato per certi versi anche negli USA, soprattutto intorno al 2014), e si presta molto bene ad iniettare i principi del politicamente corretto nelle istituzioni e nella cultura usando la forza della legge.

Per finire, una domanda sulle sue scelte di vita, anche familiare. Come è oggi l’America (o meglio il New Mexico, dove lei vive) per uno studioso che ha dei bambini? Potesse tornare al 2013 sceglierebbe sempre di trasferirsi in America? E, per il futuro, pensa di restarvi o non esclude di tornare in Italia?
Non rimpiango la decisione di essermi trasferito e lo rifarei se tornassi indietro. Ho avuto la possibilità di lavorare con colleghi eccezionali, conoscere persone e realtà di ogni tipo, e godere di un ambiente accademico produttivo e amichevole, soprattutto nei primi tempi. I nostri bambini sono nati in America e qui abbiamo costruito la nostra famiglia. Però ci troviamo in un momento molto strano: la sensazione è che la sinistra woke abbia deciso fermamente di smantellare proprio gli aspetti di questo Paese che più ci hanno attirato qui, come la libertà personale e di ricerca, la varietà dei pensieri e delle opinioni, la meritocrazia e lo spirito competitivo. Non credo sia un caso che molti tra i critici più agguerriti della wokeness siano immigrati come noi o vengano da famiglie di immigrati.
Per quanto riguarda il futuro, abbiamo cominciato a considerare seriamente la possibilità di tornare in Italia, soprattutto per i bambini che tra poco inizieranno ad andare a scuola. Sta diventando sempre più difficile trovare scuole (pubbliche o private) che non siano dedicate anima e corpo all’indottrinamento ideologico degli studenti. E la nostra situazione non è neanche così estrema: il New Mexico è uno stato Democratico ma abbastanza periferico, senza il fervore ideologico del Midwest o degli Stati costieri come la California, Washington o New York. Ci stiamo chiedendo se sia giusto far crescere i nostri figli in un contesto dove l’autocensura, il conformismo e la “cancel culture” stanno diventando la norma, dove sta diventando impossibile parlare apertamente della realtà (anche di cose banali come il fatto che esistono due sessi biologici), dove bambini e ragazzi vengono educati a vivere la società come un gigantesco teatro di oppressione e guardare il mondo solo attraverso le lenti deformanti dell’identità razziale e di genere. Non siamo gli unici: attraverso il passaparola, negli ultimi tempi sono stato contattato da altri accademici italiani che lavorano negli USA e stanno facendo le nostre stesse riflessioni. Nel mio piccolo, sto cercando di prendermi le mie responsabilità, facendo quello che posso nell’ambiente accademico qui negli Stati Uniti e cercando di avvertire i miei colleghi italiani di quello che sta succedendo e che potrebbe succedere in futuro. Quando ho letto il Manifesto della libera parola sul sito della Fondazione Hume, l’ho subito voluto sottoscrivere come spero faranno molti altri. Grazie di cuore per avermi dato la possibilità di fare questa intervista e lanciare il mio sasso nello stagno!


 

Letture consigliate:

Bawer, B. (2012). The victims’ revolution: The rise of identity studies and the closing of the liberal mind. Broadside.

Caldwell, C. (2020). The age of entitlement: America since the Sixties. Simon & Schuster.

Campbell, B. (2018). The rise of victimhood culture: Microaggressions, safe spaces, and the new culture wars. Palgrave.

Flynn, J. R. (2019). A book too risky to publish: Free speech and universities. Academica Press.

Lukianoff, G., & Haidt, J. (2019). The coddling of the American mind: How good intentions and bad ideas are setting up a generation for failure. Penguin.

Mac Donald, H. (2018). The diversity delusion: How race and gender pandering corrupt the university and undermine our culture. St. Martin’s Press.

Pluckrose, H., & Lindsay, J. (2020). Cynical theories: How activist scholarship made everything about race, gender, and identity―and why this harms everybody. Pitchstone.

Rauch, J. (1995). Kindly inquisitors: The new attacks on free thought. University of Chicago Press.