Attenti alla rabbia secessionista: intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, riprendendo la mappa giallo-blu (grillini e centrodestra) dell’Italia uscita dalle elezioni del 4 marzo, balza agli occhi che se andasse in porto l’ipotesi di un governo giallo-rosso (M5S-Pd) un pezzo del Paese rischierebbe di essere tagliato fuori, è così?

Sì, il Nord si sentirebbe ulteriormente tosato, e prenderebbe assai male qualsiasi cosa che venisse battezzata “reddito di cittadinanza”. Anche perché i calcoli statistici mostrano che circa l’80% dei sussidi ai poveri finirebbero a due soli gruppi sociali: i cittadini meridionali e gli immigrati.

Secondo la Lega non solo sarebbe esclusa la coalizione che ha preso più voti, un centrodestra che per la verità ora appare diviso, ma il Nord Italia ribollirebbe. E’ una minaccia concreta?

Sì, un governo Pd-Cinque Stelle farebbe resuscitare istanze anti-fiscali e separatiste.

Quale governo potrebbe dare risposte più consone a quelle che lei giudica le priorità politico-economiche del Paese?

Il governo meno dannoso per l’Italia sarebbe un governo che promuovesse una rivoluzione liberale, soprattutto in campo fiscale, e al tempo stesso non spaventasse l’Europa e i mercati finanziari. In termini politici: un governo di grande coalizione destra-sinistra, come in Germania, con la destra che guida la politica economica e la sinistra che le impedisce di esagerare.
Peccato che una simile alternativa, pur avendo più numeri di tutte le altre (a parte ovviamente il governo di tutti senza il Pd), sia l’unica che il nostro Presidente della Repubblica non pare avere alcuna intenzione di esplorare.

Andando con ordine, dal punto di vista fiscale se venisse archiviata l’ipotesi Flat tax e, al contrario, si procedesse nella direzione del reddito di cittadinanza che ripercussioni ci sarebbero per il Settentrione?

Un po’ più di tasse, e tanta rabbia di chi il reddito se lo guadagna lavorando duramente.

Il reddito di cittadinanza è destinato al fallimento come per esempio è successo in Finlandia?

No, può benissimo essere varato, purché l’Italia accetti di continuare sul sentiero di declino su cui è avviata da 25 anni: “dimagrire insieme, dimagrire tutti” potrebbe essere la nuova frontiera. Ci piace una prospettiva del genere?

Salvini, che nelle regioni locomotiva del Paese, tocca punte percentuali tra il 30 e il 40%, ha sbagliato secondo lei a smorzare le ragioni autonomistiche a vantaggio di una politica nazionale?

No, egoisticamente ha fatto benissimo, era l’unico modo per non restare un partito territoriale. Il problema è che, con un governo Pd-Cinque Stelle, le ragioni autonomistiche del Nord sono destinate a risorgere da sé, senza bisogno di una Lega che le promuova.

Le regioni del Nord registrano un Pil pro capite medio superiore alla media europea. Moody’s ha appena confermato il rating della Lombardia su un gradino superiore a quello dell’Italia. Perché siamo ancora alla Questione meridionale, mentre anche la Spagna ci supera?

Perché la Questione meridionale abbiamo sempre preteso di affrontarla con poco Stato dove serviva (mafia, criminalità, evasione fiscale, assenteismo, inefficienza della sanità e della scuola), e con troppo Stato dove era meglio farne a meno (sussidi, clientele, finti posti di lavoro).

Popolo delle partite Iva e piccole imprese contro dipendenti pubblici. E’ ancora corretto pensare all’Italia spaccata a metà sulla base di queste categorie produttive?

No, non è corretto. Adesso la frattura sanguinosa sarà fra chi lavora e chi vive del lavoro altrui.

Un patto di governo grillino-leghista potrebbe mettere assieme le esigenze del Nord e del Sud o non è realistico?

Non lo si può escludere a priori, perché comunque il Sud ha le sue ragioni e il Nord pure, però ci vorrebbero De Gasperi e Di Vittorio, non Di Maio e Salvini.

Il Pd, che da Roma in giù il 4 marzo non ha vinto nemmeno una sfida diretta, sarebbe secondo lei malvisto dagli elettori del Sud nell’ipotesi di governo giallo-rosso?

No, credo che in tal caso il Pd sarebbe visto meglio di oggi, ma solo perché accodato ai Cinque Stelle, ossia all’unico partito che ha mostrato di prendere sul serio le rivendicazioni dei cittadini meridionali. In compenso verrebbe cancellato dalla geografia politica del Centro-Nord.

Intervista a cura di Marcella Cocchi pubblicata su QN Quotidiano Nazionale il 26 aprile 2018



Pd e Forza Italia, verso l’estinzione?

Secondo gli ultimi sondaggi, Cinque Stelle e Lega, ossia i vincitori di queste elezioni, stanno accrescendo ancora i loro consensi. Simmetricamente, Pd e Forza Italia li stanno riducendo. Il Pd sta scendendo pericolosamente verso la soglia del 15%, mentre Forza Italia sta scivolando addirittura verso quella del 10%, oltre la quale si entra inesorabilmente nel regno dei partitini.

È vero che, dopo un successo elettorale, c’è sempre un po’ di effetto band-wagon, ovvero “salita sul carro del vincitore”, ma è anche vero che, da qualche tempo, in Europa, i cambiamenti di umore degli elettorati sono diventati repentini e molto ampi. Un partito o un leader possono affermarsi in un baleno, come Macron in Francia, ma pure, altrettanto rapidamente, sparire dalla scena, come Hollande e il partito socialista (sempre in Francia). Non siamo, in altre parole, in tempi di lenti declini o graduali ascese, bensì in tempi di improvvisi e drammatici uragani politici. Ecco perché, forse, non è fuori luogo porci la domanda: la crisi del Pd e di Forza Italia è una parentesi passeggera, o è l’inizio di un processo irreversibile, che li condannerà presto all’irrilevanza?

Credo che questa domanda sia importante non solo in sé (dopotutto stiamo parlando delle due forze politiche che hanno dominato la vita politica nella seconda Repubblica), ma perché, se non ce la poniamo, diventa difficile capire tutte le mosse che i partiti stanno mettendo in atto in questa tormentata fase di ricerca di una maggioranza e di un accordo di governo. Le mosse dei vincitori (Cinque Stelle e Lega) sono dettate dall’ovvio desiderio di accrescere il proprio potere, ma quelle dei perdenti (Pd e Forza Italia) non possono non essere dettate anche da un istinto ben più basico, quello della pura e semplice sopravvivenza. Perché, che lo riconoscano o lo neghino più o meno sdegnosamente, questo l’hanno capito sia i dirigenti del Pd che quelli di Forza Italia: fra qualche anno i loro partiti potrebbero scomparire (è appena successo a Ncd e a Scelta civica), o precipitare nel limbo dei partiti piccoli e marginali.

Ma veniamo al nocciolo della questione: ce la possono fare a sopravvivere, o addirittura a tornare sopra il 20% dei consensi?

La mia impressione è che, se nulla cambia, la risposta sia negativa. Con queste classi dirigenti, con questo immobilismo culturale, con questa mancanza di idee nuove, non ce la possono fare. Per salvarsi, entrambi dovrebbero attuare una sorta di rivoluzione nei rispettivi mondi, rivoluzione che, per definizione, l’establishment di un partito non può essere portato a fare.

Non è solo questo, però. Sia Forza Italia, sia il Pd, scontano anche altri due fattori di debolezza. Il primo è il rischio di frammentazione legato alla nascita di un nuovo governo. Se ci sarà un accordo Di Maio-Salvini, è possibile che una parte di Forza Italia non ci stia (Brunetta lo ha già annunciato esplicitamente, parlando di sé). Se ci sarà un governo Cinque Stelle – Pd, è praticamente certo che una parte del Pd non ci starà (il che creerà degli enormi problemi di governabilità, visti i numeri in Senato). Per non parlare della ferita che si aprirebbe nel Pd ove, grazie ai suoi voti, si dovesse formare un governo di centro-destra.

Ma il fattore di debolezza maggiore, e il rischio di estinzione più serio, viene da un altro fronte ancora, e cioè quello dell’elettorato. Può piacerci o no (a me non piace), ma sta di fatto che, in una parte molto rilevante dell’elettorato, Movimento Cinque Stelle e Lega sono visti come declinazioni più pure, più chiare, più comprensibili di quel che partiti come Pd e Forza Italia dovrebbero rappresentare. Per molti elettori il Movimento Cinque Stelle, con il suo impegno contro la povertà, il suo giustizialismo, il suo moralismo anti-casta, il suo anti-berlusconiano, è una sorta di sinistra più sana, più genuina, meno innamorata del potere. E, specularmente, per molti elettori la Lega, con il suo programma radicale contro l’immigrazione irregolare, contro la legge Fornero, per una flat tax ultra-piatta (aliquota unica al 15%), è una sorta destra più netta, più chiara, meno disposta al compromesso.

Se Pd e Forza Italia saranno fagocitati da Cinque Stelle e Lega sarà per tanti motivi, compresi gli incredibili errori e le sorprendenti inadeguatezze delle rispettive classi dirigenti, ma verosimilmente sarà innanzitutto per l’ultima ragione di cui abbiamo parlato: l’incapacità di essere, ma forse sarebbe meglio dire di apparire, una vera sinistra e una vera destra.




La spada di Damocle

Apparentemente, è calma piatta. Il 4 marzo si è votato, poi è cominciato il balletto. Un mese per non decidere nulla. Un giro di consultazioni al Quirinale in cui tutti i partiti hanno “ribadito” le rispettive posizioni. Una richiesta di ulteriore tempo al Capo dello Stato, come se di tempo non ne avessero avuto abbastanza, o come se fino a questo punto avessero dimostrato di saperlo usare proficuamente.

Però mentre la politica dorme, le autorità europee, l’economia, i mercati fingono di sonnecchiare, ma sono più vigili che mai. La autorità europee attendono al varco il nuovo governo. Entro la fine di aprile l’Italia dovrebbe comunicare a Bruxelles le sue linee programmatiche sui conti pubblici. Ma è molto improbabile che entro quella data “Lor signori” (i parlamentari neo-eletti) si siano degnati di trovare un accordo che permetta la nascita di un esecutivo. Quindi la Commissione Europea, che già l’anno scorso aveva segnalato all’Italia il mancato rispetto degli impegni presi, dovrà sì attendere che in Italia ci sia un governo, ma poi difficilmente potrà evitare di intervenire. Proprio negli ultimi giorni l’Istat non solo ha confermato gli scostamenti, ma ha dovuto correggere (in peggio) le stime del deficit e del debito pubblico, che a causa dei soldi spesi per i salvataggi bancari sono oggi ancora più preoccupanti di quel che si pensava. Il minimo che si può prevedere è che, una volta insediato il nuovo governo e rese note tutte le cifre, Bruxelles ci chieda una manovra correttiva. Fino a ieri si parlava di 3-4 miliardi, oggi non si esclude che la cifra possa essere maggiore. Una cifra cui, comunque, si dovrà aggiungere qualcosa come 12-13 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, che altrimenti scatterà inesorabilmente dal 1° gennaio 2019.

Questi probabili aumenti delle tasse, peraltro, si inseriscono in un quadro di rallentamento e soffocamento dell’economia. La stima della pressione fiscale del 2017 è stata rivista al rialzo. Fra il 2017 e il 2016 sono saliti sia l’ammontare delle imposte dirette sia, ancor più, quello delle imposte indirette. Nell’anno appena trascorso il potere di acquisto è aumentato leggermente, ma molto meno che l’anno precedente. Il numero di disoccupati resta in prossimità dei 3 milioni di unità, mentre la formazione di posti di lavoro continua a riguardare i contratti a termine assai più che i contratti a tempo indeterminato. Quanto al debito, le ultime correzioni dell’Istat non lasciano dubbi sul fatto che, nonostante gli impegni solennemente e puntualmente assunti ogni anno dal Ministro dell’Economia, il promesso percorso di riduzione del rapporto debito-Pil non sia ancora iniziato.

A fronte di questi numerosi e concordi segnali negativi, si potrebbero mettere in luce alcuni elementi relativamente rassicuranti. Ad esempio, a fine ottobre 2017 Standard & Poor’s, per la prima volta da 29 anni, ha leggermente alzato il rating dell’Italia. Ed era dal 2002, ossia da 15 anni, che nessuna agenzia di rating faceva un passo del genere. Soprattutto, sembra fornire qualche conforto la circostanza che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto il successo delle forze più anti-europee e più disinvolte sui conti pubblici (Cinque Stelle e Lega), nulla si sia mosso. Ferme le altre agenzie di rating, fermi i mercati finanziari, che hanno lasciato sostanzialmente invariato (intorno a 130 punti) lo spread fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.

Ma è una lettura ingannevole, per diverse ragioni.

Le Agenzie di rating, come la Commissione europea, semplicemente hanno deciso di aspettare le elezioni e la nascita del nuovo governo prima di esprimersi. Una delle tre agenzie principali, Moody’s, lo ha affermato esplicitamente. Il 9 febbraio una sua esponente, l’analista senior per i rating sovrani Kathrin Muehlbronner, ha dichiarato: «Moody’s risolverà l’outlook sul rating dell’Italia dopo le elezioni ma è improbabile che questo avvenga già il 16 marzo» (il 16 marzo è una delle date previste dall’Agenzia per emettere giudizi sull’Italia). E’ verosimile che la medesima linea di condotta sia adottata dalle altre Agenzie.

Una seconda ragione che dovrebbe indurre a una certa cautela è che, per ora, al governo non ci sono i barbari anti-euro e anti-Europa ma il super-rassicurante premier Gentiloni, e l’ultra-europeo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. È presumibile che anche i mercati, come i governi e le Agenzie di rating, attendano la nascita del nuovo esecutivo prima di emettere i propri giudizi.

Ma l’elemento che più dovrebbe farci riflettere è l’andamento dell’indice VS, uno strumento messo a punto dalla Fondazione David Hume per misurare la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici delle economie avanzate. Ebbene, i calcoli effettuati per il primo trimestre del 2018 (a breve disponibili su questo sito) mostrano che la vulnerabilità dei nostri conti, che era stata in leggera in diminuzione dall’inizio del 2014 all’inizio del 2017, da circa un anno mostra una pericolosa tendenza all’aumento. C’è solo da augurarsi che di tale vulnerabilità non si sia presto costretti ad accorgerci tutti quanti, quando i mercati dovessero rialzare la testa.

Articolo pubblicato su Panorama del 12 aprile 2018



La quiete prima della tempesta?

Mentre i politici italiani, fra una consultazione quirinalizia e l’altra, non smettono di offrire ai cittadini lo spettacolo della loro inconcludenza, la realtà esterna al Palazzo è tutt’altro che immobile. I segnali che vengono dal mondo reale, tuttavia, non sono certo univoci. Sul versante dei consumi, nonostante la crisi e i suoi strascichi, il numero di famiglie che “non riescono ad arrivare alla fine del mese”, e quindi sono costrette a ricorrere ai risparmi o all’indebitamento, continua a diminuire. Sfioravano il 30% nel 2012-2013, al culmine della crisi dello spread, ora sono meno del 15%, il livello più basso da dieci anni. Sul versante della produzione, invece, si sente qualche scricchiolio. Giusto nei giorni scorsi l’Eurostat ha diffuso i dati della produzione industriale nell’eurozona, che per il terzo mese consecutivo segnalano un calo sia nell’eurozona stessa sia nell’Europa a 28. Anche in Italia la produzione è in calo (da 2 mesi), mentre le previsioni dei centri studi sulla dinamica del Pil nel 2018 diventano via via più caute.

Dove le cose si fanno più inquietanti, però, è sul versante finanziario. A livello europeo i timori sono legati a tre fattori fondamentali. Primo, l’inizio di guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, ma anche, se non soprattutto, fra l’Europa e gli stati con cui commerciamo. Secondo, l’attesa di un aumento dei tassi di interesse non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Terzo l’esaurimento del Quantitative Easing (già alla fine di quest’anno) e la fine del mandato di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea (alla fine del 2019).

Ai timori per le sorti dell’economia europea si aggiungono, in Italia, le incertezze e le preoccupazioni legate alla nascita del nuovo governo. Quel che inquieta non è tanto l’eventualità che il Paese stia per qualche mese senza un governo, o la facile previsione secondo cui il governo che verrà sarà debole e paralizzato dai dissensi interni, quanto il rischio che, a prescindere da quel che il nuovo governo effettivamente farà, e anche a prescindere da quel che la Commissione europea gli permetterà di fare, si riapra una fase in cui sono i mercati finanziari a dettare l’agenda politica al Paese.

Il fatto curioso è che i più acerrimi difensori della nostra sovranità, i più risoluti nemici della finanza internazionale e delle sue interferenze nella vita degli stati nazionali, sono i Cinque Stelle e la Lega, che però sono anche le forze che, con i loro programmi economici, hanno le maggiori probabilità di riconsegnare l’Italia all’arbitrio dei mercati e alla tutela delle autorità sovranazionali (la famigerata Troika, ossia Fondo Monetario, Bce e Commissione europea). Mentre i più preoccupati di una perdita di autonomia dell’Italia, se non di un vero commissariamento, paiono il Pd e Forza Italia, cioè precisamente le due forze che vengono accusate di subalternità verso i diktat dell’Europa.

Ma è reale il rischio di una nuova offensiva della speculazione verso l’Italia? Più precisamente: è realistico pensare che, di fronte a un esecutivo populista e anti-europeo, scatti una reazione a catena che, come nel 2011, possa distruggere la reputazione economica del Paese e mettere a repentaglio i suoi risparmi?

Per certi versi penso di no, soprattutto per un motivo: l’eventualità di un collasso dell’euro, profetizzata nel 2011-2012 da tanti luminari dell’economia, dopo il “whatever it takes” di Draghi (luglio 2012) sembra divenuta estremamente improbabile.

Ma per altri versi quella preoccupazione non andrebbe presa troppo sottogamba. Magari non si ripeterà il 2011, ma anche una crisi la cui entità fosse la metà di quella di allora sarebbe estremamente pericolosa. Finora abbiamo contenuto i nostri timori soprattutto sulla base di una circostanza: dopo il voto del 4 marzo lo spread dei titoli di Stato decennali dell’Italia con quelli della Germania è rimasto sostanzialmente invariato, intorno ai 130 punti base. Ma questa rassicurante staticità è altamente fuorviante. Se come termine di riferimento, anziché i titoli tedeschi, prendiamo quelli spagnoli e portoghesi (cioè quelli dei due Piigs a noi più comparabili), scopriamo che lo spread fra i nostri titoli e i loro era in miglioramento (diminuzione) fino al 2 marzo, il venerdì prima del voto, ed è in costante peggioramento (aumento) dal 5 marzo a oggi: il punto di svolta è esattamente il 4 marzo, giorno del voto. Apparentemente in sonno, i mercati di fatto hanno già reagito alla potenziale instabilità italiana.

Fonte: Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg

Né le cose appaiono più rassicuranti se, anziché al comportamento dei mercati, guardiamo alla salute dei conti pubblici e ai fondamentali dell’economia. L’indice VS (elaborato dalla Fondazione Hume), che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese, segnala che, dopo un biennio di miglioramento, da circa 12 mesi la tendenza dei nostri fondamentali è di nuovo al peggioramento.

È vero dunque, come ha scritto qualche giorno fa Romano Prodi su questo giornale, che “ci troviamo ancora in una fase di quiete”, ma è ancora più vero (cito ancora Prodi) che “si tratta solo di un intervallo che, in quanto tale non sarà troppo lungo”. Il rischio è che, quella di oggi, sia la quiete che precede la tempesta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2018



Quel che i mercati finanziari pensano davvero dell’Italia

Ha suscitato una certa sorpresa il fatto che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto la netta affermazione dei partiti populisti, lo spread dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi sia rimasto sostanzialmente immutato, intorno ai 130 punti base.

Fonte Bloomberg

L’andamento dello spread con la Germania, tuttavia, è uno strumento di valutazione molto imperfetto, e potenzialmente fuorviante. Esso non tiene conto, infatti, dell’evoluzione degli spread degli altri paesi, in particolare quelli a noi più comparabili, che possono muoversi in modo più o meno favorevole di quelli italiani.

Un indice alternativo può essere costruito facendo la differenza fra i rendimenti dell’Italia e la media dei rendimenti di Spagna e Portogallo, ovvero dei due Piigs a noi più comparabili (Irlanda e Grecia lo sono assai meno, anche se per ragioni opposte).

Fonte Bloomberg

In questo caso la traiettoria dello spread appare molto diversa: prima nettamente discendente (miglioramento dell’Italia), poi nettamente ascendente (peggioramento).

L’elemento più sorprendente, tuttavia, è il punto di svolta fra i due andamenti. Sia un’ispezione visiva sia l’analisi statistica mostrano che il punto di svolta fra le due traiettorie si colloca fra venerdì 2 marzo e lunedì 5 marzo, ovvero esattamente nel momento del voto. E ciò vale sia nel caso dello spread Italia-Spagna, sia nel caso di quello Italia-Portogallo.

Fonte Bloomberg
Fonte Bloomberg

In entrambi i casi lo spread raggiunge un minimo venerdì 2 marzo, alla vigilia del voto, e inverte la rotta, cominciando a salire, lunedì 5 marzo, primo giorno dopo il voto. Ormai il rendimento dei titoli italiani supera non solo quello dei titoli spagnoli, ma anche di quelli portoghesi.

Questo andamento non sarebbe preoccupante se, dal punto di vista obiettivo, i conti pubblici dell’Italia fossero in miglioramento. Ma non è così, sfortunatamente.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

L’indice VS, di Vulnerabilità Strutturale dei conti pubblici, messo a punto dalla Fondazione David Hume, mostra che, dopo un periodo favorevole durato circa due anni (dalla primavera del 2015 alla primavera del 2017), ora la tendenza dominante è tornata di nuovo negativa: la vulnerabilità dei nostri conti è in aumento.

[Per maggior dettagli vedi, sul sito della Fondazione David Hume

a)     il report “Conti pubblici & voto di marzo”;

b)    il saggio “La mente dei mercati: l’indice VS, una misura di vulnerabilità dei conti pubblici”.