La solitudine dei numeri di serie A

Di mestiere mi occupo di numeri (insegno Analisi dei dati all’Università di Torino). E di numeri mi capita spessissimo di parlare, in un libro, in un saggio, in un articolo di giornale. E anche qui su “Panorama”, naturalmente. Perciò non ho potuto restare indifferente quando, negli ultimi giorni, è scoppiato il caso Boeri, con quella sua stima di 8.000 posti di lavoro perduti se passerà il “decreto dignità”. Ma lo stesso mi era accaduto quando, durante l’ultima campagna elettorale, Roberto Perotti, dalle colonne di Repubblica, ha cominciato a valutare, uno per uno, i costi dei programmi politici dei principali partiti italiani, giungendo alla conclusione che erano quasi tutti insostenibili.

Oggi come allora la reazione della politica di fronte ai numeri è la squalifica. Se i numeri sono sgraditi, il “produttore di numeri” viene istantaneamente portato sul banco degli accusati, con l’infamante accusa di “fare politica”, ovvero di manipolare le cifre a sostegno di una parte e a danno di un’altra. Un’accusa che, prima o poi, colpisce tutti coloro che maneggiano numeri delicati, o “politicamente sensibili”.

Se butti lì un stima, azzardatissima e priva di qualsiasi serio riscontro scientifico, di quante tonnellate di piselli si producono in Italia, puoi stare certo che nessuno metterà in discussione la tua stima. Ma se ti azzardi a dire quanto costerebbe l’abolizione della legge Fornero e il ritorno al sistema precedente, anche se lo fai nel modo più accurato possibile, calcolando (e dichiarando) i margini di errore delle tue stime, puoi stare certo che ci saranno un bel po’ di politici che ti azzanneranno, accusandoti di non essere super partes.

Eppure ci sono numeri che sono quelli che sono. Non nel senso che sono esatti (quasi tutti i numeri di cui si parla sono il risultato di stime, e quindi sono soggetti a margini di errore) ma nel senso che nessuno li metterebbe in discussione in un consesso di osservatori competenti e intellettualmente onesti. Detto altrimenti, ci sono numeri di serie A, difficilmente controvertibili, e numeri di serie B, e persino C, che è bene guardare con grande circospezione.

Le stime Istat dell’occupazione, ad esempio, sono di serie A, le stime dell’evasione fiscale sono di serie B, le stime dell’economia illegale sono di serie C. E, sia chiaro, quel che determina in che serie gioca un determinato numero non è solo l’autorevolezza scientifica di chi lo produce, ma anche la difficoltà del compito. Un numero può giocare in serie C, nonostante lo produca l’Istat, il Fondo Monetario o l’Ocse, semplicemente perché non ci sono strumenti affidabili per calcolarlo: è il caso delle previsioni della crescita del Pil a 1 o 2 anni, che si rivelano quasi sempre estremamente inaccurate, quando non decisamente sballate. Così un numero può giocare in serie A per il solo fatto che è meccanicamente generato da una fonte amministrativa, come accade con le quantità di auto circolanti in Italia o con il numero di unità vendute di un certo prodotto.

I politici fanno due errori logici. Il primo è di trattare numeri di serie A come se fossero numeri di serie B o C. Il secondo è di confondere impegno politico e manipolazione numerica: il fatto che un produttore di numeri faccia politica non implica che tutti i numeri che produce giochino in serie C. Questo è esattamente il caso di molte delle cifre fornite da Perotti o da Boeri, che la stragrande maggioranza degli studiosi imparziali considererebbe plausibili, senza preoccuparsi del fatto che i loro produttori siano politicamente schierati con una parte politica.

Tutta colpa dei politici, che non sanno e non vogliono riconoscere i numeri di serie A, ovvero quelle cifre che uno studioso onesto e ben informato dovrebbe accettare come sostanzialmente corrette?

No, non è tutta colpa dei politici. Anzi io li assolvo, perché in fondo fanno il loro gioco. La politica, con poche eccezioni, è manipolazione in vista del consenso. E lo è in modo così naturale e sistematico che spesso i manipolatori non se ne rendono conto. Quante volte mi è capitato di discutere, in pubblico, con dei politici sinceramente convinti che le assurde cifre che davano fossero corrette! Il fatto è che, quando si è schierati da una parte, e si è perduta ogni curiosità del mondo, si diventa macchine che immagazzinano esclusivamente le informazioni coerenti con le proprie credenze. Lo aveva scoperto negli anni ’50 il grande psicologo sociale Leon Festinger studiando le sette, ma vale perfettamente per il ceto politico di oggi (nonché per molti miei amici…).

Quel che può fare la differenza non è la qualità dei politici, ma l’ambiente in cui si trovano a operare; l’ambiente in cui sono “costretti” ad operare, mi vien da dire. Se i numeri di serie A non riescono ad imporsi, buona parte della responsabilità è di giornalisti e studiosi. In Italia la maggior parte dei giornalisti e conduttori televisivi semplicemente non sono in grado di contestare ai politici i numeri che questi ultimi enunciano con sicurezza o respingono con sdegno, neppure nei casi più clamorosi e ovvi; né vale obiettare che conoscere i numeri non è compito dell’informazione, visto che ci sono paesi (Regno Unito e USA, ad esempio) in cui i giornalisti lo sanno fare.

Ma la colpa più grande è di noi studiosi. Non solo in Italia, le discipline che si occupano di numeri (economia, sociologia, scienza politica, psicologia) hanno tuttora una fortissima componente ideologica, o di impegno sociale. E chi è fortemente identificato con una causa, specie se universalmente riconosciuta come una buona causa, per lo più non esita a piegare i dati alla causa stessa, negli infiniti modi che il nostro mestiere ci consente. Ecco perché, quando un politico si trova di fronte numeri per lui imbarazzanti, trova sempre uno studioso che gli presta la propria scienza, la propria autorevolezza, o semplicemente il suo biglietto da visita (“docente di X presso l’Università Y) per demolire quei numeri, anche se sono numeri di serie A, che in un contesto neutrale nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio.

Articolo pubblicato su Panorama il 26 luglio 2018



Gli sbarchi e l’inferno libico

Se dovessimo basarci solo sui freddi numeri, dovremmo concludere che il problema degli sbarchi è stato quasi completamente risolto. Fatto 100 il numero medio di arrivi nel periodo anteriore alle “primavere arabe” (dal 1997 al 2010), siamo passati a 780 nel 2016, per poi ripiegare a 214 alla fine dell’era Minniti (gennaio-maggio 2018), e infine sotto quota 100 nell’era Salvini-Di Maio (giugno luglio 2018).

Fu vera gloria?

Per certi versi sì. Checché ne dicano i dirigenti del Pd, che nei giorni scorsi hanno affermato che i morti in mare sono aumentati, è vero il contrario: fra il 2107 e il 2018 i morti in mare nella rotta centrale del Mediterraneo (quella più pericolosa, che porta in Italia) si sono pressappoco dimezzati (la fonte è OIM, Organizzazione Internazionale per le migrazioni).

Ma per altri versi no, non fu vera gloria. Proprio per niente. Intanto bisogna dire che la riduzione del numero dei morti è dovuta solo alla diminuzione del numero delle partenze. La pericolosità dei viaggi, invece, è aumentata: nel 2017 il rischio di perire nella traversata verso l’Italia era già alto, oggi è ancora più alto. Ma il punto centrale è che la frenata agli arrivi, pur avendo ottenuto risultati politici non disprezzabili (sostanzialmente: l’Europa si è scossa dal proprio torpore pluriennale), non ha minimamente scalfito i due problemi fondamentali che abbiano di fronte, come italiani e come europei.

Come italiani il nostro problema fondamentale ormai non sono più gli sbarchi attuali, bensì la somma degli sbarchi passati. Detto crudamente: la massa di centinaia di migliaia di migranti che si aggirano sul nostro territorio senza averne diritto, una massa cui in futuro rischiano di aggiungersi i migranti che noi abbiamo salvato e registrato, che sono passati in altro paese europeo, e che i paesi “fratelli” (specie Austria, Francia e Germania) hanno ogni intenzione di restituirci: una minaccia che nel legnoso linguaggio dell’Unione viene dissimulata sotto l’etichetta “problema dei movimenti secondari”.

Come europei siamo messi ancora peggio. Il problema di fondo dell’Europa è che l’Africa vorrebbe trasferirsi nel Vecchio continente. E lo vuole per un sacco di motivi, alcuni ottimi, altri discutibili, ma tutti reali. Il più importante è che molti paesi africani sono semplicemente invivibili, fra guerre, dittature, corruzione, fame, siccità, carestie, traffico di esseri umani. La complicazione è che “noi” siamo 500 milioni (in calo), “loro” 1 miliardo e 200 milioni, destinati a diventare 2 miliardi e più nel giro di due o tre decenni: giusto il tempo di vedere i nostri neonati di oggi prendere una laurea domani.

Come si risolve questo problemuccio?

Una soluzione, abbastanza gettonata nel mondo progressista, è la rassegnazione entusiasta, se mi si consente questo ossimoro. L’idea è che le migrazioni siano un fenomeno “epocale”, che la mescolanza fra popoli e culture sia più un bene che un male, e che si tratti solo di gestire (con politiche di accoglienza e integrazione) le legittime aspirazioni di diverse centinaia di milioni di persone di trasferirsi in Europa.

A questa soluzione, per ora, si contrappone solo un’idea, tanto rozza quanto confusa, di limitare gli sbarchi e “aiutarli a casa loro”, come è diventato di moda dire oggi. In Italia questa linea prende le vesti di un crescente trasferimento di risorse verso il governo libico (o meglio: verso uno dei tre poteri in lotta fra loro in Libia, quello di Sarraj a Tripoli). Noi regaliamo motovedette, istruttori, soldi, e speriamo che così non facciano partire nessuno, e poco per volta escano dal caos e dalla miseria.

Ma è una soluzione?

A me pare di no. La maggior parte delle testimonianze dirette che giungono dalla Libia ci rivelano che i legami tra governo, milizie e trafficanti sono piuttosto stretti. L’Italia fornisce soldi e mezzi, ma non esercita alcun reale controllo sull’uso che ne vien fatto. Nonostante gli accordi e i protocolli negoziati dal precedente governo, dall’Onu e dagli organismi internazionali con i governi libici, nonostante il successo di alcuni esperimenti (come i rimpatri e i centri sotto l’egida dell’ONU), la situazione nel paese africano resta drammatica, e negli ultimi mesi sta peggiorando rapidamente. In una recente conferenza stampa i rappresentanti dell’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) hanno dovuto riconoscere che il sovraffollamento dei campi di detenzione si sta aggravando, e che i numeri sono scoraggianti: a fronte di decine di migliaia di rifugiati, l’Europa si è impegnata ad accoglierne appena 4000, e ne ha di fatto accolti poco più di 200.

Certo non tutti i campi in cui vengono ammassati i migranti sono eguali (alcuni sono illegali e gestiti direttamente dai trafficanti, altri sono governativi, altri vedono la presenza delle Ong), ma le testimonianze di trattamenti inumani, stupri, violenze, estorsioni, ricatti, persino di vendite come schiavi, sono difficilmente confutabili, o derubricabili a eccezioni. Vale per oggi, nell’era Salvini, ma valeva anche ieri, nell’era Minniti, con l’unica mortificante differenza che prima la stampa progressista si barcamenava o chiudeva un occhio, mentre ora si indigna 24 ore su 24: sublime ipocrisia dell’umanitarismo a senso unico.

È strano, molto strano, che a chi proclama di voler limitare gli arrivi, sia esso un “sincero democratico” o un bieco politico “populista”, non venga mai in mente che impedirli con l’intimidazione e la sopraffazione fisica, delegando ai libici il lavoro sporco, non può che moltiplicare la disperazione, e rafforzare la volontà di sbarcare in Europa, costi quel che costi.

Insomma, quel che non capisco, pur condividendo l’idea che in Europa si debba entrare esclusivamente in modo legale, è come mai, oggi come ieri, siamo così timidi quando ci rapportiamo a paesi come la Libia: un paese che, a differenza di altri paesi africani, non ha ancora firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951), e pone non pochi ostacoli alla presenza di osservatori internazionali e all’azione delle organizzazioni umanitarie. Forse siamo timidi perché siamo politicamente deboli e isolati, o semplicemente perché siamo ricattabili a causa dei nostri interessi economici (l’Eni è presente in Libia). Eppure dovremmo riflettere. Se davvero vogliamo “aiutarli a casa loro”, non possiamo non porci il problema, sollevato quasi dieci anni fa da Dambisa Moyo (africana trapiantata negli Stati Uniti), dell’uso dei fondi che affluiscono in Africa, troppo spesso finiti nel circuito della corruzione anziché alle popolazioni cui erano destinati (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli 2010). Soprattutto dovremmo condizionare i nostri aiuti e il nostro supporto a un minimo di garanzie sui migranti, nonché alla possibilità di aprire in territorio africano canali legali e funzionanti di ingresso in Europa (sempre che l’Europa riesca ad essere meno avara di quanto si sta rivelando oggi).

Perché i numeri e i tempi contano. Un flusso ragionevole e ordinato di ingressi in Europa può solo arricchire il Vecchio Continente, ma la finzione che tutto vada bene nell’inferno libico rischia solo di alimentare una bomba che, prima o poi, non potrà che esplodere, travolgendo tutto e tutti.




Immigrazione e decreto dignità, intervista a Luca Ricolfi

Domanda. Il governo giallo-verde ha mosso i primi passi. Tra proclami fatti e provvedimenti adottati, si connota come governo di destra o di sinistra?

Risposta. Entrambe le cose, con una specificazione però: della destra e della sinistra prende le componenti più populiste e anti-moderne. A Salvini il respingimento degli immigrati pare interessare più della flat tax, a Di Maio l’irrigidimento del mercato del lavoro pare interessare di più che la riforma dei centri per l’impiego. Non a caso il Decreto Dignità piace a LeU, e viene criticato solo perché non è ancora abbastanza di sinistra: ma è la sinistra nostalgica, che crede che rimettendo l’articolo 18 il mondo si raddrizzi.

D. Lei sostiene che alle origini dell’accresciuto senso di insicurezza degli italiani non c’è solo la campagna della Lega contro lo straniero. Può spiegarsi meglio?

R. Prima di accusare il popolo di non conoscere “le vere cifre” dell’immigrazione in Italia invito a riflettere sulle cifre degli sbarchi.

D. Quali sono?

R. Sotto i governi di centro-sinistra gli sbarchi sono circa quintuplicati: fatto 100 il flusso prima delle cosiddette primavere arabe (periodo 1997-2010), nel periodo 2011-2016 il flusso era salito a 450 circa. Poi è arrivato Marco Minniti, ministro dell’interno con Gentiloni, che i flussi li ha più che dimezzati, portandoli a 214. Ma si trattava pur sempre di un livello più che doppio rispetto a quello storico, che già suscitava inquietudini nei cittadini italiani.

D. E il governo Conte?

R. L’attuale governo a giugno ha ulteriormente dimezzati gli sbarchi, portandoli a quota 100, esattamente il livello anteriore al 2011. E nei primi 17 giorni di luglio il flusso è sceso più o meno a livello 75, ossia più in basso del livello storico.

D. Lei sta dicendo che il senso di paura non è più motivato?

R. All’origine delle paure ci sono elementi oggettivi: l’aumento degli sbarchi, l’impossibilità di rimpatriare chi non ha diritto, la conseguente crescita di un esercito di immigrati irregolari, di cui solo una parte si sposta in altri paesi europei. C’è poi da considerare un altro fattore: la domanda di sicurezza, che non è alimentata solo dagli imprenditori della paura, ma – molto banalmente – dalla pubblicità, sia quella commerciale, sia quella “progresso”.

D. In che modo la comunicazione incide sulle paure?

R. Da almeno vent’anni siamo ossessionati dai pericoli che correremmo negli ambiti più diversi, da quando ci laviamo i denti a quando saliamo su un’automobile. Le parole «sicuro», «sicurezza», «protezione», «rischio», «pericolo» e i loro sinonimi spadroneggiano sugli schermi dei nostri televisori, e non solo negli intervalli pubblicitari.

D. Insomma, la sicurezza è un must, al di là della Lega e di Salvini…

R. Quello che voglio dire è che nessuno si stupisce che la gente pretenda più sicurezza sul lavoro o in strada, ma molti si stupiscono che voglia più sicurezza in materia di immigrazione. Eppure la logica è la stessa: gli standard di sicurezza dei cittadini occidentali si sono enormemente alzati negli ultimi decenni, ma lo hanno fatto un po’ in tutti gli ambiti, al punto che l’ultima generazione – cresciuta a pane, internet e genitori iperprotettivi – è considerata patologicamente insicura da molti psicologi. Sul punto consiglierei di leggere Iperconnessi di Jean Twenge, edito da Einaudi.

D. E qual è la differenza allora?

R. La differenza è questa: se la domanda di protezione riguarda criminalità e immigrazione si accusano gli «imprenditori della paura», ma se la domanda di protezione riguarda le donne (stalking) o gli incidenti in fabbrica, a nessuno viene in mente di accusare la Boldrini o la Camusso di essere «imprenditrici della paura». C’è qualcosa che non va, sul piano logico.

D. Quali sono gli errori compiuti dalla sinistra e dagli ultimi governi su immigrazione e legalità?

R. Aver continuato, con i suoi uomini più lucidi, a proclamare che il tema della sicurezza è anche di sinistra, salvo comportarsi come se fosse solo di destra. Sull’immigrazione e gli sbarchi la sinistra, con pochissime eccezioni, è stata sempre e semplicemente negazionista. Un atteggiamento di una miopia incredibile, che mostra quanto nel mondo progressista l’ideologia prevalga ancora sul senso comune.

D. Intanto la cronaca racconta di una migrante salvata da una Ong dopo che da 48 ore era aggrappata a un barcone alla deriva, un’altra donna e un bambino sono stati ritrovati morti. Ed è polemica contro il Viminale e gli accordi presi con i libici. Il pugno duro di Salvini sugli sbarchi potrebbe diventare un boomerang in termini di consenso per la Lega?

R. Non credo, la gente accetta qualsiasi cosa purché gli sbarchi finiscano. Ma questo dovrebbe preoccuparci, perché fermare gli sbarchi non può essere la soluzione di tutto.

D. Perché non potrebbe essere la soluzione?

R. Per almeno tre motivi. Il primo è che non possiamo chiudere gli occhi sulle condizioni di detenzione e di rimpatrio di chi prova a lasciare le coste della Libia. E questo non tanto perché i governi libici sono corrotti e si macchiano di crimini orrendi, decine di altri governi fanno la stessa cosa, ma perché finché noi supportiamo i libici con soldi, mezzi e contratti (L’Eni è in Libia), non possiamo chiamarci fuori. Trovo stupefacente che nessun governo italiano, di qualsiasi colore esso fosse, abbia mai condizionato gli aiuti alla Libia a rigorose condizioni sul rispetto dei diritti umani nei campi profughi, nonché a controlli severi sull’uso degli aiuti stessi.

D. Il secondo motivo?

R. Il problema più grande non sono i flussi annui di 10, 100 o 200 mila sbarchi, ma i 500, 600 o 700 mila immigrati irregolari che circolano in Italia, e che nessuno sa come gestire. Infine, il terzo motivo per cui azzerare gli sbarchi non è la soluzione è che noi comunque di un flusso di migranti, regolare e regolato, abbiamo comunque bisogno. E non bastano certo i complicati meccanismi dei decreti flussi ad assicurarlo.

D. In questi giorni si è consumato uno scontro assai accesso tra il ministro del lavoro, Luigi Di Maio, e il presidente Inps Tito Boeri circa gli effetti del Decreto Dignità: 8 mila posti in meno l’anno, stima l’Inps. Per Di Maio, Boeri così fa politica e dovrebbe dimettersi. Che ne pensa?

R. Indubbiamente Boeri fa politica, le sue posizioni su vitalizi, pensioni e ruolo economico dei migranti non sono asettiche. In certe circostanze, anzi, Boeri ha fatto sponda con Di Maio o viceversa. Ma sul punto degli effetti del decreto dignità Boeri ha pienamente ragione, e Di Maio ha torto marcio.

D. Perché?

R. Lo spiego subito, i numeri dell’Inps, sottoscritti dalla Ragioneria dello Stato, non hanno nulla di politico, sono un mero esercizio contabile, peraltro obbligatorio quando si vara un decreto che ha effetti sul gettito e sulla spesa. Non li si può contestare dicendo che non c’è base scientifica, ma solo proponendo altri numeri, argomentati in modo più convincente. Io li ho esaminati.

D. E che cosa emerge dalla sua analisi?

R. Mi sono formato l’opinione che sì, i numeri di Boeri, ovviamente, non sono indiscutibili, ma non perché i posti di lavoro perduti potrebbero essere meno di 8 mila, ma perché, molto più verosimilmente, potrebbero essere di più. Anche parecchi di più. Insomma, secondo me Boeri è stato fin troppo cauto o, se vogliamo a tutti i costi buttarla in politica, è stato fin troppo filo-governativo.

D. Sul decreto si stanno registrando anche le prime crepe tra Lega e M5s, tra le ragioni delle imprese e quelle del lavoro…la contrapposizione è destinata a sanarsi oppure ad esplodere a breve?

R. È probabile che l’alleanza si romperà, ma non per i contrasti interni. Se ambedue i partner avessero voglia di governare per 5 anni, un compromesso lo troverebbero senza difficoltà. Il problema è che uno dei due, Salvini presumibilmente, a un certo punto si convincerà che gli conviene tornare al voto, e che quello è il momento buono. A quel punto non ci sarà accordo, contratto o compromesso che possa evitare la crisi.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 luglio 2018



Parole di nebbia

Sul piano dei contenuti, questo governo non somiglia granché a nessun governo del passato. I governi del passato, infatti, o guardavano a sinistra, o guardavano a destra, o si barcamenavano fra destra e sinistra, alla ricerca di un compromesso, di un punto di equilibrio. Ora no: a giudicare dai programmi e dai primi atti questo governo cerca di essere, al tempo stesso, molto di destra e molto di sinistra, a settimane alterne. Ora un colpo inferto ai migranti (blocco dei porti alle Ong), ora un colpo inferto alle imprese (decreto dignità). In attesa del colpo definitivo, quello ai conti dello Stato (flat tax e reddito di cittadinanza).

Se sul piano dei contenuti tutto è cambiato, sul piano del metodo, dello stile di governo, dei modi di comunicazione, la continuità con il passato è perfetta. Come i governi che l’hanno preceduto, anche l’esecutivo Conte non esita ad abusare dello strumento del decreto legge, contando sul fatto che la prassi ormai è quella, e nessuno può impedire a un governo di fare ciò che è sempre stato concesso ai governi precedenti. Il cosiddetto “decreto dignità”, ad esempio, viola due principi fondamentali, l’uno stabilito dalla Costituzione, l’altro dalla legge 400 del 1988. Secondo il primo lo strumento del decreto può essere utilizzato solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Quanto al secondo, la legge stabilisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. Basta dare una scorsa all’accozzaglia di materie di cui si occupano i 15 articoli del cosiddetto decreto dignità per rendersi conto che il loro contenuto non è omogeneo, e che per nessuna di esse sussistono condizioni di necessità e urgenza, tantomeno di “straordinaria” necessità e urgenza (a meno di considerare straordinariamente necessaria e urgente l’esigenza di Di Maio di recuperare consenso e togliere spazio a Salvini).

Quel che più mi colpisce, però, non è la somiglianza con il passato nell’abuso dei decreti legge; quel che mi colpisce è l’abuso manipolatorio delle parole, accuratamente scelte per indorare la pillola che viene somministrata ai cittadini, nascondendo la sostanza di cui è fatta. Faccio tre esempi.

Pensioni d’oro. Nell’immaginario collettivo una pensione d’oro è una pensione di importo altissimo, non giustificata dal lavoro e dai meriti del beneficiario, tipicamente percepita da un membro della “casta”. Nelle dichiarazioni dei Cinque Stelle, e nel discorso di insediamento del presidente Conte, il concetto è stato esteso a chiunque percepisca una pensione alta con una componente retributiva. Ma alta quanto? Ancora a giugno Di Maio e Conte assicuravano che il taglio dei compensi avrebbe riguardato solo le pensioni sopra i 5000 euro netti. Poi, qualche settimana fa si è cominciato a parlare di 4-5000 euro, senza specificare se netti o lordi. Negli ultimi giorni la soglia è scesa a 4000 euro. Così un provvedimento, più o meno condivisibile, che colpisce (retroattivamente) i ceti medio-alti, viene presentato come sacrosanto intervento contro gli ingiustificati e intollerabili privilegi della “casta”.

Decreto dignità. Se si vara un decreto “a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese” ci si aspetta che esso intervenga con urgenza per impedire violazioni della dignità di questi due soggetti. Ma se mi si parla di “dignità”, e per di più si aggiunge che l’intervento ha carattere di “straordinaria necessità e urgenza”, a me vengono in mente fenomeni come la richiesta del pizzo (che offende la dignità delle imprese), e il caporalato nelle campagne (che offende la dignità dei lavoratori). In questo secondo caso, data la stagione estiva, sussisterebbe anche il requisito di urgenza. Pensate che bello: dopo anni in cui tutti i governi hanno preferito chiudere un occhio, il governo giallo-verde decide di stroncare il caporalato, ispezionare i campi e le baraccopoli, garantire ai lavoratori (spesso immigrati dall’Africa, quasi sempre privi di contratto) condizioni di lavoro e di salario umane. E invece no: se andate a leggere il decreto dignità, in mezzo a un guazzabuglio di norme che con il lavoro nulla hanno a che fare, quel che trovate sono soprattutto norme che rendono un po’ più difficile e costoso per le imprese attivare alcuni tipi di contratto perfettamente regolari, e che certo non offendono la dignità del lavoratore.

Reddito di cittadinanza. Non sappiamo ancora che forma prenderà il reddito di cittadinanza, se e quando verrà varato. Ma già sappiamo, perché esistono progetti e disegni di legge, che non sarà un reddito di cittadinanza, ma una normalissima misura di reddito minimo per le famiglie povere. Per reddito di cittadinanza si intende un reddito dato a ogni individuo (anche ai ricchi) senza alcuna condizione. Per reddito minimo si intende un reddito dato esclusivamente alle famiglie povere, sotto condizioni stringenti: ricerca attiva di un lavoro, corsi di formazione, prestazioni di lavoro gratuite, disponibilità ad accettare offerte di lavoro. Le proposte dei Cinque stelle sono proposte di reddito minimo, camuffate da reddito di cittadinanza. La loro filosofia è molto simile a quella del reddito di inclusione varato dal Pd, con due sole differenze: tante nuove assunzioni nei centri per l’impiego, molti più soldi (se troveranno le coperture) ai beneficiari. Ed è curioso che il Pd continui a dire che reddito di cittadinanza significa “dare i soldi alla gente perché non lavori”, anziché andare a vedere che cosa effettivamente c’è scritto nei progetti del Movimento Cinque Stelle.

A che serve chiamare reddito di cittadinanza quello che ovunque, in Europa e nella letteratura scientifica, si chiama reddito minimo?

Dal punto di vista del Pd serve a differenziare il Pd stesso dai Cinque Stelle (noi vogliamo creare posti di lavoro, voi volete tenere la gente a casa). Dal punto di vista dei Cinque stelle serve a nascondere la sostanza economica della loro proposta, che peraltro è la medesima del reddito di inclusione del Pd: sussidiare il Mezzogiorno. Chiamandolo “reddito di cittadinanza” se ne sottolinea il carattere universalistico, di provvedimento equo in quanto rivolto a tutti i cittadini. Eppure i dati dicono chiaramente che, a parità di condizione economica, la possibilità di beneficiare di misure come il reddito di inclusione o il cosiddetto reddito di cittadinanza, sarà sensibilmente maggiore per un cittadino del Sud che per uno del Nord e, a parità di zona geografica, per un abitante di un piccolo comune che per uno di una grande città.

La ragione è assai semplice: nonostante il livello dei prezzi sia diversissimo da Nord a Sud, nonché fra grandi e piccoli centri, la soglia di accesso è definita in termini nominali anziché in termini reali. Così può accadere che, a parità di potere di acquisto, due famiglie siano l’una inclusa e l’altra esclusa solo a causa del luogo in cui risiedono (zona del paese, ma anche comune grande o piccolo). E infatti, secondo gli ultimi dati disponibili, il Nord ha il 37% dei poveri assoluti ma solo il 18% dei beneficiari (in gran parte immigrati). Il Centro ha il 15% dei poveri, ma solo il 12% dei beneficiari. Il Sud ha il 48% dei poveri ma il 70% dei beneficiari. Questo tipo di iniquità territoriale è il difetto comune di tutte le misure di sostegno delle famiglie povere, dalla social card di Tremonti al Sia di Letta, dal Rei di Renzi al cosiddetto reddito di cittadinanza di Di Maio (l’unica proposta che non ha questo difetto è il minimo vitale dell’Istituto Bruno Leoni, ovviamente ignorato dalla politica). Ed è anche uno dei più grandi errori delle politiche di sostegno alle zone svantaggiate del passato, che troppo spesso hanno preferito elargire sussidi impropri e dunque iniqui (qualcuno ricorda le false pensioni di invalidità?) piuttosto che fare investimenti e creare posti di lavoro.

Dunque: si parla di pensioni d’oro per non riconoscere che si tagliano le pensioni alte, si parla di dignità per non dire che si irrigidisce (un pochino) il mercato del lavoro, si parla di cittadinanza per nascondere i clamorosi squilibri nell’accesso al sussidio. Non è una novità: già nel 1981, parlando della comunicazione pubblica, Natalia Ginzburg denunciava con sgomento: “il fine è dare della nebbia, e ottenere, con la nebbia, rispetto e venerazione”. Sono passati quasi 40 anni, ma siamo sempre lì: le parole della politica sono solo nebbia che circonda le cose, le indora, o semplicemente le traveste, le maschera, le camuffa. Parole che, in ogni caso, non dicono la verità.




Non solo Salvini. Le origini dell’insicurezza

Fra le convinzioni più granitiche del mondo progressista vi è quella che la domanda di sicurezza, e la connessa paura dello straniero, siano l’amaro frutto della propaganda di destra, e in particolare della spregiudicatezza comunicativa di Matteo Salvini, sempre pronto ad amplificare qualsiasi episodio di violenza che veda come vittima un italiano e come autore uno straniero, specie se migrante, richiedente asilo o rifugiato.
A sostegno di questa tesi vengono citati, quasi sempre, i dati sull’andamento dei delitti, un po’ vecchiotti (fermi al 2016) ma piuttosto univoci: in era renziana i delitti totali, compresi quelli di maggiore allarme sociale come omicidi, furti, violenze sessuali, mostrano una netta tendenza alla diminuzione. Se i delitti calano, come spiegare il crescente senso di insicurezza degli italiani, nonché la conseguente impetuosa crescita della domanda di sicurezza, se non come il risultato di una manipolazione dell’opinione pubblica, scientemente aizzata ad avere paura?
Questa lettura di quel che è successo non è insensata, o puramente autoconsolatoria. Penso anch’io che, senza l’azione combinata della politica e dei media, il senso di insicurezza degli italiani non sarebbe aumentato tanto quanto è aumentato in questi ultimi anni. E tuttavia credo che, da sola, quella spiegazione non funzioni. Quando si parla di insicurezza, e si imputa la sua crescita essenzialmente agli “imprenditori della paura”, a mio parere si dimenticano due importantissimi fattori che, in questi anni, hanno contribuito non poco ad alimentare insicurezza e domanda di protezione.
Per illustrare il primo fattore riporto qualche passaggio di una mail, alquanto cruda, che ho ricevuto qualche tempo fa da un giovane studioso italiano che ha avuto la ventura di entrare per la prima volta negli Stati Uniti per un convegno. Parlando degli “sbarchi via aereo”, comincia con il farmi notare la ingombrante burocrazia dei visti d’ingresso, le domande cui tutti – bianchi e non bianchi – devono rispondere (tipo: cosa vieni a fare? quando te ne vai? a che indirizzo pernotti? quanti soldi hai?). Per poi concludere: “la mera esistenza di questa procedura di selezione degli ingressi (che fa anche un po’ paura, ci sono stemmi della polizia intimidatori ecc.) dà l’impressione che per lo meno gli USA cercano di proteggere i loro cittadini, mentre in Italia questo è l’ultimo dei problemi. C’è anche questo modo di vederla: se gli accessi fossero regolati e avessero un aspetto meno selvaggio di un barcone pieno di africani, i cittadini italiani avrebbero forse più l’impressione che allo Stato importa qualcosa di loro, cosa di cui l’americano medio non dubita”.
Naturalmente so bene che le situazioni dell’Italia e degli Stati Uniti sono molto diverse, anzi speculari (là il problema è la frontiera con il Messico, qui è il Mediterraneo), però la domanda fondamentale resta la stessa: in questi anni i nostri governi hanno dato l’impressione che allo Stato interessasse proteggere i propri cittadini filtrando rigorosamente gli ingressi?
La risposta è: assolutamente no. Per anni il messaggio è stato esattamente quello contrario: non dovete preoccuparvi, e se lo fate è perché siete preda di paure irrazionali; la nostra missione, e quindi la nostra priorità, è salvare vite umane. C’è voluto l’approssimarsi delle elezioni, e l’avvento di Minniti, per cambiare registro, ma era troppo tardi, e comunque non poteva bastare. Perché la gente non si basa sulle statistiche, ma su quel che vede: 100 mila ingressi regolari e controllati creano meno inquietudine di un solo barcone con 100 migranti che non si potranno mai respingere, anche quando risultasse che non hanno diritto ad alcuna forma di protezione. E dire che, anche a sinistra, qualcuno aveva provato a dirlo, che non c’è dialogo senza sicurezza: “la sensazione di sicurezza da entrambi i lati della barricata è una condizione essenziale per il dialogo fra le culture” scriveva Zygmunt Bauman nel 2011, giusto prima dell’inizio delle primavere arabe (Per tutti i gusti, Laterza 2011).
La rinuncia di chi ha il dovere di proteggere a prendere sul serio il proprio ruolo non è però l’unico fattore che ha fatto lievitare il senso di insicurezza. Ce n’ è anche un altro, molto più subdolo e sottile. Anche in questo caso preferisco spiegarmi con un esempio: qualche giorno fa, guardando un telegiornale, apprendo che, in vista di qualche giornata un po’ calda, le autorità stanno predisponendo una gigantesca campagna di sorveglianza e protezione denominata “estate sicura”, come se un gravissimo pericolo incombesse sulle nostre vite. Lungi da me criticare una simile lodevole iniziativa, ma non posso non notare che una campagna simile era inconcepibile anche solo un paio di decenni fa, e che sono ormai centinaia le iniziative, le pubblicità, gli eventi nei quali siamo implacabilmente avvertiti dei pericoli che corriamo, nonché dei rimedi che, per lo più a pagamento, sono a nostra disposizione purché prendiamo atto della nostra vulnerabilità. Non so se lo avete notato, ma è da anni e anni che sia la pubblicità commerciale, sia la pubblicità progresso, ci terrorizzano con quello che ci potrebbe succedere se non stiamo attenti alla placca dentaria, se non stipuliamo un’assicurazione, se non installiamo impianti di allarme nella nostra casa, se non disinfettiamo la stanza in cui gioca il bambino, se non ci sottoponiamo a controlli medici periodici, se non ci vacciniamo contro l’influenza, se non portiamo il cane e il gatto dal veterinario, se non mettiamo la mascherina anti-smog, se non scegliamo un’auto con 9 airbag (salvo aggiungere: “ma gli airbag non bastano più”, e giù dispositivi elettronici che ci avvertono di tutto e ci proteggono in ogni situazione). E questo martellamento, come stanno documentando molti studi di psicologia (specie negli Stati Uniti), non sta solo impaurendo le generazioni più anziane, ma sta forgiando una generazione di ragazzi sempre più insicura, intimorita, iperprotetta, e proprio per questo non attrezzata ad affrontare le difficoltà della vita adulta. Già una quindicina di anni fa, parlando dell’evoluzione della società americana, Hara Estroff Marano ebbe a coniare l’espressione Nation of Wimps (una “nazione di schiappe”), mentre un’altra psicologa, Jean Twenge, da poco ha pubblicato un libro (iGen, in italiano Iperconnessi, Einaudi 2018) nel cui sottotitolo i ragazzi della generazione internet sono descritti come “del tutto impreparati a diventare adulti”, proprio per l’eccesso di attenzioni protettive da parte di genitori e docenti.
E’ il progresso, ovviamente. Come si fa a non compiacersi degli standard sempre più elevati di sicurezza? Tuttavia forse sfugge l’altra faccia della medaglia: una società bombardata dall’imperativo della sicurezza, ossessivamente invitata a proteggersi da ogni sorta di minaccia, non diventa soggettivamente sempre più sicura, bensì sempre più vigile, e inevitabilmente sempre più sensibile ai problemi della sicurezza. Avete notato quanto è aumentato l’uso, soprattutto nei media, di espressioni come “sicuro”, “sicurezza”? e l’uso ossessivo, nelle situazioni più disparate, dell’espressione “mettere in sicurezza”?
Il paradosso delle campagne per la sicurezza è che il loro effetto collaterale è di aumentare il sentimento di insicurezza. Ma tutto questo non può non avere effetti anche sul modo in cui viene percepito il problema dei migranti. Più una società è impegnata in una ricerca ossessiva della sicurezza, più è destinata a mal digerire qualsiasi evento che appaia fuori controllo.
E’ la dialettica della protezione. Nella società italiana la paura dello straniero è stata certamente alimentata dalle campagne politiche anti-sbarchi e anti-Ong, ma non possiamo dimenticare che il terreno della paura era stato scrupolosamente concimato da due meccanismi, per certi versi opposti, che con Salvini nulla hanno a che fare. Il primo si ha quando chi deve proteggerti (governo) cerca di convincerti che le tue preoccupazioni sono infondate. Il secondo si ha quando chi vuole offrirti un prodotto o un servizio (pubblicità) cerca di convincerti che ti devi preoccupare. Il cocktail fra questi due grandi meccanismi della psicologia sociale, entrambi assai rigogliosi negli anni della crisi, ha reso altamente infiammabili le anime dei cittadini: è forse per questo che è bastato Salvini a farle prendere fuoco.