Le parole e le cose

Sigmund Freud, padre della psicanalisi, sosteneva che le parole, in quanto suscitano effetti, sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente. Credo non siano molti i politici ad aver letto Freud, specie fra le nuove generazioni finalmente libere dalla zavorra della cultura, ma in compenso si comportano tutti quanti come se lo avessero letto. È questa la ragione fondamentale per cui le parole, nel discorso pubblico, sono usate in modo sistematicamente improprio. Lo scopo non è aiutarci a capire, ma guidare i nostri sentimenti e le nostre percezioni, per poter pilotare i nostri comportamenti. È questa la ragione fondamentale per cui la politica è inflazionata di due particolari figure retoriche, l’iperbole e l’eufemismo. La funzione della prima è drammatizzare, quella della seconda sdrammatizzare.

L’eufemismo, ad esempio, domina il campo della politica economica, specie quando si tratta di chiedere sacrifici ai cittadini. I tagli a pensioni, stipendi, servizi pubblici, vengono quasi sempre definiti con termini neutri, spesso incomprensibili: razionalizzare la spesa, consolidare il debito, rimodulare le imposte.

Alle volte la ridenominazione assume aspetti curiosi, al limite della comicità: ricordo che molti anni fa, a chi chiedeva a Bertinotti come poteva digerire che nel programma dell’Ulivo ci fossero le liberalizzazioni, venne risposto: ma che problema c’è? basta chiamarle “lotta ai monopoli”. Altre volte, invece, la ridenominazione assume tratti aberranti (e anche un po’ odiosi), come quando pensioni di 4 mila euro vengono qualificate come “pensioni d’oro”. Una sorta di eufemismo al contrario, che anziché cercare un termine per mascherare qualcosa di brutto (i tagli di spesa), cerca un termine per dipingere come brutto qualcosa di normale (le pensioni alte).

L’iperbole, non assente nei discorsi sulla politica economica (ricordate i tagli di spesa denominati “macelleria sociale”?), domina invece i discorsi sui migranti e sulla sicurezza. Può accadere così che la destra presenti come una “invasione” l’afflusso disordinato di migranti sulle nostre coste, e che da sinistra, per meglio far capire che orribile persona sia Salvini, lo si associ al criminale nazista Adolf Eichmann (copyright Furio Colombo).

Ma l’uso fuori luogo delle parole non è un’esclusiva della politica. Giornalisti e conduttori, ad esempio, non resistono mai, di fronte a un fenomeno che secondo loro sta aumentando molto, alla tentazione di parlare di crescita “esponenziale”, mostrando di ignorare che cosa l’aggettivo significhi (una crescita è “esponenziale” se avviene ad un tasso composto costante, e può quindi benissimo essere lentissima, come quella di un conto corrente che dà un interesse dello 0.1% all’anno).

Studiosi, professori universitari, autorità accademiche non sono da meno. Uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi anni è l’abuso delle parole “violenza” e “violento”, con la conseguente perdita della distinzione fra aggressioni fisiche e aggressioni verbali, e persino della distinzione fra comportamenti intenzionali e non intenzionali. Accade così che, persino nelle statistiche, la categoria delle violenze sessuali si estenda progressivamente a coprire qualsiasi approccio non gradito o fastidioso, specie se la vittima è donna. La psicologa americana Jean Twenge, autrice di un bellissimo studio sulla generazione Internet (Iperconnessi, Einaudi 2018), racconta con preoccupazione che il concetto di “aggressione” si sia esteso fino al punto di includere, sotto la categoria delle “micro-aggressioni”, qualsiasi comportamento che possa offendere la sensibilità di qualcuno, anche involontariamente (come se dentro la parola “aggredire” non fosse implicita la volontarietà). Può accadere così che un professore perda la cattedra perché i suoi studenti dichiarano di essersi sentiti offesi dai materiali di studio proposti, anche se gli autori di quei materiali erano Mark Twain o Edward Said.

Mi si potrebbe obiettare, naturalmente: “è il linguaggio, bellezza!”. Dopotutto la capacità di evolvere, e di adattarsi a situazioni sempre nuove e diverse, è uno dei pregi fondamentali del linguaggio naturale. È vero, ma ci sono usi appropriati della flessibilità, e ci sono usi fuorvianti, distorsivi, manipolatori.

L’uso sconsiderato delle parole può avere due effetti negativi. Il primo è di fornirci descrizioni errate, spesso antitetiche, della situazione in cui ci troviamo, quando invece quello che serve, quali che siano le nostre idee e i nostri propositi, è innanzitutto una descrizione accurata della situazione com’è. Questa è una differenza cruciale fra le licenze della letteratura e quelle della politica, specie nel ricorso alle metafore. Se un romanziere scrive “il cuore di Pamela sanguinava”, di norma sei in grado di capire se Pamela usciva da uno scontro a fuoco, o se era stata mollata dal fidanzato. Ma se un politico dice “c’è un’invasione dall’Africa”, può esserci qualcuno che la prende come una descrizione sostanzialmente esatta della situazione. Simmetricamente, se un giornalista dice che Salvini è come Eichmann, ossia come un nazista, qualcuno può essere indotto a pensare che dobbiamo reagire come al pericolo nazista. E non sto riferendomi all’eventualità, fortunatamente remotissima, che un neo-partigiano si senta in dovere di organizzare un attentato a Salvini, ma all’eventualità che la lotta politica in Italia precipiti in un baratro di incomprensioni e sopraffazioni reciproche.

Ma forse l’effetto più negativo dell’uso sconsiderato delle parole è ancora un altro, assai più sottile: la banalizzazione delle tragedie. Riservare il medesimo termine, violenza sessuale, a uno stupro e a un complimento sgradito, è profondamente offensivo per le vere vittime, le donne che hanno vissuto la tragedia della violenza sessuale. Così, etichettare come nazista la proposta di censire i rom, è anche un’offesa alla memoria dei rom eliminati da Hitler nelle camere a gas.

Voglio dire che, portata al di là di ogni ragionevolezza, l’equiparazione di fenomeni di natura e gravità del tutto diverse, non solo offende la verità, ma offende le vere vittime. Perché la lodevole intenzione di stigmatizzare anche i peccati veniali finisce per attutire la distinzione fra peccati veniali e peccati mortali. Il linguaggio funziona anche così: a forza di ampliare il territorio di una parola, finiamo per far cadere ogni confine. A forza di dire che anche un insulto è violenza, rischiamo di trattare le vere violenze come semplici insulti. Come fece Pietro Maso che, dopo aver massacrato i genitori per appropriarsi dell’eredità, ebbe a definire il suo gesto “una cazzata”, come se una categoria unica potesse includere bravate e crimini.

Ecco perché il linguaggio conta, e abusarne è pericoloso. Nominando le cose con le parole sbagliate, quel che rischiamo non è solo di non capire la realtà, ma di smarrire la capacità di giudicarla.




La sinistra e l’immigrazione. Intervista a Luca Ricolfi

Il Pd esce moribondo dalle amministrative. Un tracollo annunciato?

Sì e no. Si poteva anche supporre che, visto il tradimento” dei Cinque Stelle, molti elettori di sinistra potessero tornare all’ovile. Così non è stato, probabilmente perché l’atteggiamento dei cittadini italiani verso il governo, in questo momento, è di tipo sperimentale: prima di bocciarli, vediamo quel che combinano.

Lei ha spesso insistito sui limiti della sinistra che non ha capito l’importanza del tema della sicurezza. Ma nello sprofondare dei dem c’è solo o soprattutto questo? Quanto pesano temi come le banche o il Jobs Act?

Secondo me poco. Se gli italiani fossero imbufaliti con il Pd per il Jobs Act avremmo assistito a un trionfo di LEU.

Renzi si è dimesso da segretario ma è ancora in prima fila. Quanto ha inciso?

Renzi (e Boschi) hanno fatto molto per rendere antipatica tutta questa nuova classe dirigente del Pd, ma la sconfitta è innanzitutto politica. E secondo me, in ultima analisi, è dovuta a un’unica causa gli italiani si sono sentiti presi in giro, per non dire derisi. Presi in giro quando, con 3 milioni di disoccupati e 5 milioni di poveri, veniva loro raccontato che la situazione era molto migliorata, per merito del governo. Derisi quando veniva loro spiegato che non dovevano preoccuparsi della criminalità e degli sbarchi, perché e entrambi erano diminuiti.

Ora nel Pd si potrebbe anticipare il congresso all’autunno, così da scegliere un nuovo segretario. Ma è quello che serve? E soprattutto, va svolto con le primarie o è un rito svuotato?

Le primarie sono un ottimo strumento per proclamare un leader, coinvolgendo non solo gli iscritti. Per cambiare linea, invece, ci vorrebbe un vero congresso, preparato nei circoli (una volta si chiamavano sezioni), con relazioni dure e contrapposte. Se fossi del Pd, mi ispirerei al vecchio PCI, non al modello del “partito leggero” emerso in era veltroniana.

Nel crollo generale sembra profilarsi la candidatura a segretario del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, fautore di un centrosinistra largo. È un profilo adeguato, a suo avviso? E bisogna comunque ripartire da un campo di centrosinistra?

Preferisco il fratello. Scherzi a parte, la risposta è un doppio no: se qualcosa di nuovo deve nascere, non può essere guidato da un vecchio professionista della politica, né è realistico pensare che possa aver successo riverniciando il centro-sinistra.

Calenda, arrivato tre mesi fa nel Pd, propone già di superarlo e di creare un “fronte repubblicano”. Che ne pensa? Il Pd è davvero un paziente che non si può più salvare?

Probabilmente Calenda ha ragione nel diagnosticare l’inguaribilità del Pd. Però non credo che la soluzione sia il “fronte repubblicano”, almeno se per fronte repubblicano si intende una santa alleanza contro i barbari, nello stile delle mobilitazioni francesi contro i Le Pen, padre e figlia. Il fronte può funzionare se i cittadini percepiscono l’incombere di un pericolo mortale, come il fascismo, il nazismo, l’odio razziale. Non mi sembra questo il caso, oggi in Italia. Pochi pensano che Salvini e Di Maio costituiscano un simile pericolo.

Se proprio dobbiamo immaginare una mobilitazione da fronte, penso che l’unica eventualità che potrebbe attivare una formula del genere sia il rischio di uscita dalla zona euro, uno scenario che sì, effettivamente potrebbe mobilitare un fronte impaurito dal salto nel buio.

Nelle amministrative gli unici che si sono salvati dalla tempesta sembrano i candidati più “rossi”, come quello che ha vinto a Brindisi. È un segnale del fatto che la gente chiede un partito di sinistra radicale al posto di un partito moderato?

Non credo, penso che nelle elezioni amministrative si scelga soprattutto la persona che ci appare più seria o, nelle situazioni in cui prospera il voto di scambio, la persona che ha più possibilità di garantire favori.

Come si risponde da sinistra sul tema immigrazione? Come si può contrastare il Salvini che vuole chiudere i porti?

A me l’unica risposta di sinistra pare questa: accogliere tutti quelli che possiamo (ovvero molti meno di oggi), ma poi smetterla di abbandonarli come facciamo da anni: la sinistra deve integrare gli immigrati, non aprire le porte e poi infischiarsene. Chiudere i porti non è la soluzione, ma riaprirli solo quando gli altri paesi mediterranei (Spagna e Francia, innanzitutto) avranno accettato di fare la stessa cosa, è più che ragionevole.

Intervista a cura di Luca De Carolis pubblicata su Il Fatto Quotidiano del 27 giugno 2018



Gli errori della sinistra. Intervista a Luca Ricolfi

Questa ennesima tornata elettorale del 2018 ha come risultato il titolo del suo ultimo libro: “Sinistra e popolo“. Era una profezia?

In un certo senso sì, tuttavia è dal 2000, ossia da quasi vent’anni, che denuncio che “la sinistra non è più di sinistra”.

Dove ha sbagliato e continua a sbagliare il Pd, che ha perso anche santuari come Pisa e Siena?

Il Pd sbaglia sui due punti fondamentali, ossia sulla questione della sicurezza e su quella dell’eguaglianza, perché di fatto sottovaluta entrambe. Ma sbaglia anche in ciò con cui le sostituisce: puntare quasi tutte le carte su diritti umani e diritti civili significa trasformare il Pd in una specie di partito radicale, libertario e individualista.

Però ormai la frittata è fatta. È prima che doveva correggere la rotta, non ora che il vento soffia nelle vene dei populisti. Se domani cambiassero completamente linea, nessuno gli crederebbe…

È più dannoso un segretario che non si dimette mai (Renzi) o un partito Ztl che rappresenta l’alta borghesia dei centri storici?

La seconda che ha detto: il partito Ztl è più dannoso del suo segretario. Le colpe di Renzi sono ampiamente sopravvalutate: se il problema del Pd fosse Renzi, una valanga di voti sarebbe piovuta su LEU.

Un Pd così in difficoltà avrebbe potuto rimanere un partito rifugio (parole sue) contro la strana alleanza 5stelle-Lega. Perché non è così?

Perché la gente è stufa di chiacchiere, e detesta i racconti trionfalistici. Chi vota i populisti non lo fa in base a una scelta di fondo, o a convinzioni ferme. Semplicemente pensa: Renzi è un bullo chiacchierone e inconcludente, vediamo se questi qui riescono a combinare qualcosa.

Tenete presente che, qualsiasi indicatore serio si prenda (Pil, occupazione, disoccupazione, povertà), siamo agli ultimissimi posti in Europa, e su molti indicatori le cose sono peggiorate con Renzi e Gentiloni. Per cui chi si sente ripetere fino alla noia “siamo stati bravi, abbiamo portato la barca in salvo, con noi le cose vanno meglio”, tutt’al più pensa ai barconi dei migranti, non certo alla barca-Italia.

C’è un altro partito che soffre in silenzio dentro la coalizione di centrodestra: Forza Italia. È un declino passeggero o un tramonto?

Tramonto, direi. A meno di un cambio completo di persone, idee, organizzazione, che però è del tutto improbabile: i vecchi tendono a conservare sé stessi, e Forza Italia è un partito culturalmente vecchio, senza guizzi e senza ricambio. Vi sembra possibile che sia ancora Gasparri a dire la sua frasetta preconfezionata ogni giorno nei Tg di Stato?

Cosa pensa di questa prima fase governativa di Salvini e Di Maio? La grinta piace agli italiani? Dalle risposte nell’urano si direbbe di sì.

Penso quel che pensano le persone normali: sull’immigrazione almeno questi ci provano a cambiare le regole, stiamo a vedere se ottengono qualcosa.

Sull’economia resto della mia idea: o ridimensionano molto il programma, o ci portano al disastro. Teniamo presente che lo spread è 120 punti sopra il livello ante-elezioni, e che altrettanti punti sono destinati ad aggiungersi quando finirà il Quantitative Easing. Ma i politici italiani fanno il solito errore: credono che il problema sia Bruxelles, mentre il problema sono i mercati. Quando lo spread tornerà vicino a 400 punti base sarà del tutto inutile ottenere più flessibilità sui conti pubblici.

Wolfgang Munchau, condirettore del Financial Times e mai tenero con l’Italia, ha scritto che finalmente il nostro è un Paese che non ha paura. E l’Europa dovrà tenerne conto. Sensazione reale o passeggera?

Sensazione reale, speriamo non passeggera.

L’Europa, soprattutto quella di Emmanuel Macron, è molto infastidita dal nuovo governo italiano. Perché?

Un po’ è un fatto di classe. L’Europa di Bruxelles è fatta di persone istruite, estremamente educate, diplomatiche (talora anche un po’ ipocrite), che reagiscono a Salvini come nei salotti si reagisce se entra un barbone, o come i nobili del’800 reagivano ai borghesi. Macron è un esemplare perfetto di questa specie di élite.

Poi naturalmente ci sono i conflitti di interesse reali fra Francia e Italia, che i media italiani si ostinano a non vedere. Su questo una delle poche voci coraggiose è stata quella di Roberto Napoletano, che con “Il cigno nero e il Cavaliere bianco” (La Nave di Teseo, 2017) ha provato a spiegare un po’ di cose sul nazionalismo francese.

La sinistra vincente sembra rimasta solo nelle redazioni, da dove partono anatemi nei confronti degli italiani ignoranti. È una strategia o un dirotto della Valtellina?

Solo nelle redazioni? Non direi, la sinistra è tuttora egemone nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo, in una parte della magistratura, nel terzo settore, e ovunque controlla il potere locale. La non-sinistra, invece, è tuttora in difficoltà, perché non possiede un contro-racconto dell’Italia. E’ questa la forza della sinistra: finché la non-sinistra sarà impersonata da figure come Salvini, Di Maio o Berlusconi, la sinistra purosangue continuerà ad esercitare un’influenza rilevante, se non a dettar legge come in passato.

Quali caratteristiche dovrà avere la sinistra del futuro per tornare a vincere in Italia?

La sinistra italiana è così impermeabile agli input esterni che non credo proprio possa tornare a vincere cambiando sé stessa. Tendo a pensare che, se tornerà a vincere, sarà soprattutto perché gli italiani sono volubili: se neanche questi due (Salvini e Di Maio) funzionano, e Forza Italia dovesse restare appisolata come oggi, prima o poi riproveremo quelli di prima.

Intervista a cura di Giorgio Gandola pubblicata su La Verità del 27 giugno 2018



PD: stupefacente è quanti lo votano ancora

Per molti versi i risultati dei ballottaggi non fanno che confermare quelli del primo turno. L’elettorato si è spostato decisamente a destra, il movimento Cinque Stelle non riesce a replicare il successo delle politiche, la sinistra arranca. Se però si osservano le cose più da vicino, si possono notare anche altri elementi.

Il primo è che in diversi comuni i risultati hanno ribaltato le previsioni della vigilia, o hanno contraddetto i trend nazionali. In Sicilia, il Movimento di Grillo ha perso Ragusa, che governava da cinque anni; ma in Puglia il centro-sinistra, sconfitto alle Politiche del 4 marzo, ha vinto 10 ballottaggi su 11. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Si potrebbe osservare che la mobilità dell’elettorato italiano non è una novità, perché risale almeno ai primi anni ’90. Ma l’impressione è che ora si sia davanti a un salto di qualità. Con l’affermazione del tripolarismo, e la formazione di un’alleanza di governo del tutto inedita, gli elettori sono diventati pronti a capovolgere le proprie scelte ad ogni appuntamento elettorale, non di rado in una logica essenzialmente punitiva. Al modello della “fedeltà leggera” (cambiamenti di partito all’interno del medesimo schieramento), descritto da Paolo Natale ormai molti anni fa, sembra essere subentrato un modello che si potrebbe chiamare di “infedeltà repentina”, per cui l’elettore non si sente minimamente vincolato ad alcuna appartenenza, sia pur definita in senso lato.

E qui incontriamo il secondo elemento saliente di queste ultime tornate elettorali: la perdita, da parte del principale partito della sinistra, di molte sue roccaforti delle regioni rosse, in particolare in Toscana (emblematico il caso di Siena).

Ora il gruppo dirigente del Pd si interroga sul perché dell’ennesima sconfitta, tanto più sorprendente se si pensa che, dopo l’alleanza dei Cinque Stelle con la Lega, per i delusi di sinistra è diventato molto più difficile di prima punire il partito di Renzi votando quello di Grillo. Quel che stupisce, tuttavia, non è la sconfitta della sinistra, ma che essa sia arrivata così tardi. Personalmente trovo miracoloso che, nonostante il carattere elitario della cultura di sinistra, i ceti popolari abbiano pazientato così a lungo prima di abbandonare il partitone in cui quella cultura si incarnava. Anzi, in un certo senso, trovo che – per quel che è diventato – il Pd abbia ancora troppi voti.

Provo a spiegare queste due affermazioni, volutamente provocatorie (ho ancora un lumicino di speranza che qualcuno le provocazioni le raccolga).

La ragione per cui trovo stupefacente che la sinistra abbia mantenuto i suoi consensi fino a poco fa ha un nome e un cognome: Giorgio Guazzaloca. Ve lo ricordate? Il 27 giugno 1999 (esattamente 19 anni fa) veniva eletto sindaco di Bologna, primo sindaco non comunista della città rossa. Nella vittoria di Guazzaloca un posto centrale occupava il tema della sicurezza, che giusto in quegli anni emergeva anche in altre città del Nord (ad esempio a Torino, a Padova), e nel 2001 avrebbe contribuito non poco al trionfo elettorale del centro destra (2° punto del “Contratto con gli italiani”). Ebbene quella vittoria, avvenuta nel cuore dell’Emilia rossa, era un campanello d’allarme chiarissimo, e perciò difficilissimo da ignorare. E invece la classe dirigente del maggior partito di sinistra, con pochissime eccezioni, ci riuscì benissimo. Allora come oggi, di fronte ai timori della gente, la parola d’ordine della cultura di sinistra è sempre rimasta la stessa: dimostrare alla gente che le sue paure sono infondate. L’ho sentito ripetere ancora pochi giorni fa, in una trasmissione radiofonica, da uno dei più autorevoli giornalisti progressisti: il dovere della sinistra è “smontarle”, le paure della gente. Perciò la mia domanda non è: perché il Pd perde? Ma semmai: perché i suoi elettori hanno resistito così a lungo?

La ragione per cui trovo che il Pd abbia ancora troppi voti ha anch’essa un nome e un cognome: Emma Bonino. Così come Berlusconi non è mai riuscito a costruire un partito liberale di massa (Forza Italia è stato di massa, ma non è mai stato liberale), così Emma Bonino (con e senza Marco Pannella) non è mai riuscita a costruire un partito radicale di massa (le liste Bonino-Pannella sono state radicali, ma non di massa). Quel che non è riuscito ai radicali, tuttavia, è riuscito perfettamente al Pd: oggi il Pd è un perfetto partito radicale di massa. Se pensate ai temi su cui, specie in questa legislatura, il Pd ha puntato per definire la sua identità, trovate: unioni civili, testamento biologico, riforma carceraria, reato di tortura, ius soli, accoglienza dei migranti, Europa (ricordate lo slogan? ci vuole “più Europa”). E che cosa sono questi temi? Sono i temi tipici di un partito radicale di massa, assai più attento ai diritti civili che a quelli sociali. Ecco perché dico che il bicchiere del Pd può essere visto come mezzo vuoto ma anche come mezzo pieno. Il Pd è un partito ormai piccolo, se continuiamo a pensarlo come l’erede unico del Pci, ma è un grande partito se lo pensiamo come la realizzazione del sogno radicale.

Che queste, al di là della provocazione, possano essere in realtà due facce della medesima medaglia lo aveva perfettamente capito il grande filosofo Augusto del Noce, che nel 1978, giusto 40 anni fa, in un libro significativamente intitolato “Il suicidio della rivoluzione“, aveva coniato quella definizione, intuendo quel che il Pci sarebbe diventato: non il partito della rivoluzione (e del popolo) ma il partito della borghesia, attento alle aspirazioni individualiste e libertarie dei ceti medi.

Non c’è niente di male nell’essere un partito radicale (quasi) di massa, paladino dei diritti individuali, aperto alla globalizzazione e ai flussi migratori. Quel che stride è credersi quel che più non si è, ovvero un partito popolare, paladino dell’eguaglianza, attento ai poveri e ai diritti sociali (nel marxismo si chiama falsa coscienza, in filosofia autoinganno). Perché gli elettori possono metterci più tempo dei filosofi a cogliere i grandi cambiamenti, ma prima o poi li riconoscono.




Fine del sogno europeo?

I rappresentanti di una decina di paesi, fra cui (forse) anche l’Italia, si incontreranno a Bruxelles per preparare il Consiglio europeo del 28 giugno. Immersi fino al collo nelle miserie della politica nostrana, rischiamo di non renderci conto che, da come andranno questi due incontri, dipenderà il futuro dei cittadini europei, e non solo di essi. Quanto disperata sia la situazione europea lo ha invece visto lucidamente Niall Ferguson, editorialista e professore di storia, in un articolo pubblicato pochi giorni fa su “The Sunday Times”. Scettico fino a qualche tempo fa sulle ragioni della Brexit, ora si sta convincendo che non avevano tutti i torti i fautori dell’uscita dall’Unione Europea quando osservavano che uscire altro non era che scendere da una barca che affonda.

Ora quella barca potrebbe cominciare ad affondare davvero, non per l’austerità, non per le regole sul deficit e sul debito, non per i problemi della povertà e della diseguaglianza, non per disaccordi sull’unione bancaria, o sul bilancio comune, o sul costituendo Fondo Monetario Europeo. No, l’Europa rischia di affondare, più o meno lentamente, su un unico problema: la gestione dei migranti. Un problema che Ferguson descrive con un aggettivo, “intrattabile” (intractable), che i matematici riservano ai problemi per i quali non esistono strumenti, non dico per risolverli, ma nemmeno per provare ad attaccarli.

Da dove viene tanto pessimismo?

Per Ferguson l’intrattabilità del problema migratorio ha due radici. La prima è la difficoltà di far coesistere i valori culturali dell’Occidente con quelli dell’Islam. La seconda è che milioni di africani intendono raggiungere l’Europa, ma “la frontiera meridionale dell’Europa è quasi impossibile da difendere da flottiglie di migranti, a meno che i leader europei siano preparati a lasciarli annegare”. La differenza fra Europa e Stati Uniti sarebbe che all’America per evitare la guerra civile basta chiudere la frontiera con il Messico (è impensabile un’invasione dal mare), mentre questa strada è quasi impossibile da percorrere in Europa, perché il Mediterraneo è una frontiera indifendibile: uno dei tanti casi in cui è la geografia che fa la storia.

È convincente una simile diagnosi?

Per certi versi no. Se il problema è evitare la guerra civile, si potrebbe osservare che forme di guerra civile possono prender piede non solo perché si lasciano aperte le frontiere, ma anche perché le si chiude. Non so se, dopo la guerra civile per l’abolizione della schiavitù (1861-1865), vi sia mai stato nella storia americana un periodo in cui i cittadini statunitensi siano stati divisi come lo sono oggi, grazie a un presidente divisivo come Trump.

Per l’Europa, però, forse la diagnosi di Ferguson è solo incompleta, più che sbagliata. Quel che manca, a mio parere, è la risposta alla domanda: perché la classe dirigente europea è arrivata a questo punto? Perché ha dovuto attendere che in Italia andassero al potere i cosiddetti populisti per scoprire il problema migratorio? Che cosa ha fatto sì che quasi tutti i governi occidentali più illuminati (o presunti tali) abbiano sonnecchiato in questi anni?

Temo che, in ultima analisi, la risposta sia quella che, se fosse vivo, oggi darebbe Max Weber: hanno sostituito l’etica della responsabilità con l’etica dei principi (o etica della convinzione).

La classe dirigente europea si è mossa come se i valori della cultura occidentale, a partire dalla filosofia dei diritti umani, avessero validità universale, e come se il sogno cosmopolita di un’unica comunità mondiale, con le relative istituzioni e la relativa polizia internazionale, fosse già realizzato. I politici che ora faticosamente cercano di non far deflagrare l’Europa, per decenni si sono dimenticati che gli Stati esistono ancora, e che è ai cittadini degli Stati che devono rispondere, se non altro perché è dagli elettori che dipende la loro permanenza al potere. Da questa dimenticanza è scaturita la retorica con cui, in tutti questi anni, si è parlato dei migranti, trattando l’accoglienza come un dovere inderogabile, e assimilando di fatto ogni legittima aspirazione a cambiare paese come un diritto inalienabile della persona umana, valido verso qualsiasi paese e in qualsiasi circostanza.

La cosa ha funzionato finché i migranti erano veri rifugiati (come nei primi decenni del dopoguerra), o erano poco numerosi, o erano tanti ma utili alle nostre imprese e alle nostre famiglie. Ma non ha funzionato più quando l’imperativo di salvare i naufraghi si è scontrato con l’indisponibilità di vasti settori dell’opinione pubblica europea ad accogliere i migranti nel modo massiccio, disordinato e irregolare degli ultimi anni. Quel che gli elettori europei hanno cominciato a fare, in altre parole, è di richiamare i propri governanti all’etica della responsabilità: che non significa semplicemente valutare le conseguenze delle proprie azioni (in questo caso le conseguenze dell’accoglienza “senza se e senza ma”), ma valutarle innanzitutto in relazione ai cittadini da cui traggono la loro legittimazione, che non sono i cittadini del mondo ma i cittadini di uno specifico territorio, con le sue tradizioni, i suoi valori, i suoi bisogni e interessi.

È questo che, a mio parere, ha spiazzato molti governanti europei. È come se, a un certo punto, l’opinione pubblica europea avesse voluto ricordare ad ogni Capo di Stato di essere, per l’appunto, “solo” un capo di stato, non il Papa di Roma. Il quale Papa può permettersi di invitare all’accoglienza universale, ignorando le conseguenze delle sue parole sui cittadini europei, per un ottimo motivo: come ogni autorità spirituale, ogni predicatore, ogni rivoluzionario, ogni convinto sostenitore di una causa, il Papa agisce secondo l’etica dei principi, non secondo l’etica della responsabilità. La sua constituency, il suo “bacino elettorale”, è l’umanità intera, non certo quella minuscola porzione che è l’Italia o l’Europa.

La paralisi dell’Europa è anche la conseguenza di questo lungo sonno della rappresentanza. Orgogliosa di indicare la via al mondo intero, la classe dirigente occidentale (non solo europea) si è mossa come se essa fosse la guida morale del mondo, e al tempo stesso la paladina dei diritti di tutti. Ma era un film, un film girato essenzialmente per sé medesima. Gli stessi che si autoproclamavano paladini dei diritti di tutti, non esitavano a calpestare quei medesimi diritti quando interessi economici, strategici, geopolitici suggerivano l’intervento (a quante guerre umanitarie o di liberazione abbiamo dovuto assistere?) o, ancora più tragicamente, consigliavano l’astensione (ricordate i massacri del Ruanda?).

L’origine dell’ondata populista forse è anche qui. Di fronte a una classe dirigente che si autopercepisce come un’autorità spirituale, ma agisce come il più temporale dei poteri, i cittadini europei hanno cominciato a presentare il conto. La “lebbra” populista che sale in Europa, contrariamente a quanto pensa Macron, non è un morbo di origini misteriose. Quel morbo (ammesso che sia tale) è stato accuratamente coltivato nelle cancellerie europee, là dove, lentamente e quasi inavvertitamente, l’etica della responsabilità, che dovrebbe essere il faro di una vera classe dirigente, ha ceduto il passo all’etica della convinzione, che si addice ai profeti, non a chi vuole governare un continente.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 giugno 2018