Adesso pensiamo alla Povertà

Sono convinto che, alle prossime elezioni politiche, si parlerà soprattutto di tre cose: immigrazione, flat tax, reddito di cittadinanza.

I discorsi sull’immigrazione sono prevedibili. La destra chiederà di fermare il caos degli ingressi, la sinistra dirà che è difficile, e abbiamo il dovere dell’accoglienza. Il copione è quello di sempre, solo i numeri sono radicalmente diversi da quelli del passato.

I discorsi sulla flat tax (stessa aliquota per tutti i redditi), invece, sono meno prevedibili, perché estremamente tecnici. Quel che è prevedibile è che il grande pubblico non riuscirà a capire quali proposte stanno in piedi e quali no. La sinistra dirà che la flat tax è incostituzionale, la destra spiegherà perché non è vero che lo sia. Gli appassionati discuteranno se l’aliquota di equilibrio possa essere il 15%, il 20% o il 25%, ma alla fine, probabilmente, non se ne farà nulla.

Diverso il caso del terzo tema, quello del reddito di cittadinanza. Tutto fa pensare che di questo parleremo a lungo e appassionatamente, per due buoni motivi. Il primo è che qualsiasi proposta di sostegno del reddito suscita interesse e può essere spiegata in modo comprensibile. Il secondo è che il tema è decisamente attuale, se non altro perché diversi partiti (fra cui il Movimento Cinque Stelle) hanno depositato proposte di legge.

Ecco perché è importante capire esattamente di che cosa parleremo, senza farsi ingannare dalle parole. Naturalmente ciascuno è libero di chiamare le cose come vuole, ma – se ci si vuole capire – non è mai una buona idea quella di chiamare in modo eguale cose diverse, o chiamare in modo diverso cose eguali. Meglio attenersi al significato ordinario, e quindi più condiviso, delle parole. Ecco dunque un piccolo glossario.

Per reddito di cittadinanza, o reddito di base, si intende un reddito che è fornito a tutti i cittadini, senza condizioni, e permanentemente. Il reddito di cittadinanza è erogato agli individui, ed è del tutto indipendente dalle condizioni economiche o di lavoro del singolo o della sua famiglia. Lo prende Berlusconi e lo prende il clochard, lo prende il politico e lo prende l’operaio.

Le definizioni più dettagliate di che cosa si debba intendere per reddito di cittadinanza possono differire solo su due punti importanti: da che età lo si percepisce (nascita, maggiore età) e che cosa succede quando si raggiunge l’età della pensione.

La proposta di Grillo di un “reddito di cittadinanza”, come vedremo fra poco, non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza vero e proprio.

Per reddito minimo, o reddito minimo garantito, si intende invece un reddito riservato a quanti si trovano sul mercato del lavoro e non raggiungono un livello di reddito sufficiente per vivere. La differenza principale con il reddito di cittadinanza è che per usufruire del reddito minimo occorre essere poveri (a livello individuale o familiare) e disponibili ad accettare proposte di lavoro o di formazione. A qualche forma di reddito minimo possono accedere i disoccupati e i sottoccupati, ma non casalinghe, studenti, e più in generale quanti, pur abili al lavoro e in condizione di povertà, non sono disposti ad accettare offerte di lavoro.

La proposta di Grillo di reddito di cittadinanza è, in buona sostanza, una proposta di reddito minimo garantito, anche se con alcune peculiarità.

Il reddito di cittadinanza non esiste in alcun paese del mondo, salvo l’Alaska in cui tuttavia quel che c’è non è un vero reddito di cittadinanza ma un bonus dell’ordine di 150 dollari al mese, largamente al di sotto della soglia di povertà.

Forme di reddito minimo esistono invece in tutti i paesi dell’Unione Europea, salvo la Grecia e l’Italia.

Quel che esiste nel nostro paese è una miriade di forme di sostegno del reddito, che tuttavia sono del tutto prive del requisito dell’universalità, in quanto riservate a specifiche categorie di persone individuate su base lavorativa, settoriale, residenziale, sanitaria. Nel loro insieme queste misure, a differenza di quelle previste dal reddito minimo, non sono sufficienti a proteggere gli individui e le famiglie dal rischio di cadere al di sotto della soglia di povertà. Possiamo chiamare reddito sub-minimo il sistema di sussidi previsto in paesi come l’Italia e la Grecia.

Le differenze fra reddito di cittadinanza e reddito minimo sono almeno tre. La prima è il costo dell’erogazione: in un paese come l’Italia qualsiasi forma di vero reddito di cittadinanza costerebbe circa 300 miliardi e sfascerebbe i conti dello Stato, mentre l’introduzione di qualche tipo di reddito minimo costerebbe fra i 10 e i 20 miliardi (la versione del Movimento Cinque Stelle ne costa 16). La seconda differenza è il costo di gestione: il reddito di cittadinanza, non essendo soggetto a verifiche di alcun tipo, ha un costo di gestione irrisorio, il reddito minimo ha un costo di gestione molto alto, perché inevitabilmente fa crescere un apparato di controlli, funzionari pubblici, scuole di formazione, centri per l’impiego che, rischi di corruzione e abusi di potere a parte, assorbe una frazione notevole delle risorse destinate al reddito minimo. Chi vuol farsi un’idea di quel che può succedere quando un apparato pubblico si occupa del nostro (presunto) benessere può vedere il film di Ken Loach, Io, David Blake, che puntualmente descrive le storture e le aberrazioni dei centri per l’impiego inglesi.

La differenza più importante, tuttavia, è la terza, ed è di natura filosofica. L’idea implicita nel reddito di cittadinanza, ossia di introiti fissi, permanenti e intoccabili, è di sottrarre la scelta di lavorare o meno a calcoli sui sussidi che si potrebbero acquisire o perdere a seconda delle proprie scelte lavorative. Il problema è che il reddito di cittadinanza costa troppo, mentre quello minimo porta inevitabilmente a extra-costi burocratici, nonché a innumerevoli storture e inefficienze.

La sfida è trovare un meccanismo che costi come il reddito minimo, ma funzioni in modo automatico come il reddito di cittadinanza. Sfortunatamente né la proposta Cinque Stelle, che è una proposta di reddito minimo iper-burocratica, né le misure varate dal Governo Renzi, che sono semplici misure di reddito sub-minimo, rispondono all’obiettivo che le politiche contro la povertà dovrebbero porsi: sradicare la povertà, farlo senza alimentare sprechi e comportamenti opportunistici.

Pubblicato su Panorama il 19 gennaio 2017



Troppi soldi spesi male: tutto da rifare

Puntuale come un orologio svizzero, la manovra correttiva è arrivata. Non ci voleva molto a prevederlo, e infatti in molti l’avevano prevista, beccandosi puntualmente l’accusa di essere dei “gufi”.

Ma vediamo in che cosa consisterà e perché ci siamo arrivati. Di per sé non si tratta di grandi cifre: circa 3 miliardi e mezzo, pari allo 0.2% del Pil, più o meno un decimo di una vera manovra finznaziaria “lacrime e sangue”, tipo la manovra da 90 mila miliardi (di lire) del governo Amato nel 1992.

Secondo le cifre circolate nei giorni scorsi la manovra, che il governo – per ora – si è ben guardato dal tradurre in precisi provvedimenti di legge, consisterà di cinque provvedimenti.

Primo. Un aumento del prezzo dei tabacchi, che potrebbe valere 100 o 200 milioni.

Secondo. Aumento delle accise sui carburanti, con un incasso di circa 1.4 miliardi.

Terzo. Eliminazione di benefici fiscali (per meno di 100 milioni).

Quarto. Le solite, immancabili, “misure anti-evasione”, per un incasso previsto di 1 miliardo.

Quinto. Tagli ai consumi intermedi della Pubblica Amministrazione (quasi 800 milioni).

Come si vede, quasi l’80% sono aumenti di tasse, e solo una piccola parte (poco più del 20%) sono riduzioni di spese.  E’ un classico, specie con i governi di centro-sinistra: le spese non si possono ridurre, perché sono il cuore della macchina del consenso, e allora si aumentano le tasse, in modo più o meno mascherato. Né deve trarre in inganno la retorica della “lotta all’evasione”. Di per sé la lotta all’evasione, se riscuote quel che si prefigge di riscuotere (1 miliardo, in questa circostanza), costituisce un aumento della pressione fiscale, che resta invariata solo se i proventi della lotta all’evasione vengono usati per ridurre le aliquote che gravano sui contribuenti onesti e non per rimpinguare le casse dello Stato.

Ma perché siamo arrivati a questo punto? Perché il governo si è trovato, o meglio si è ritrovato ancora una volta, a dover spegnere precipitosamente l’incendio dello spread, tornato ad avvicinarsi perigliosamente ai 200 punti base?

La storia di come ci siamo arrivati è lunga, perché inizia fin dalla primavera del 2014. Allora Renzi stacca il primo grosso assegno cattura-consenso, quei 10 miliardi (all’anno) di riduzione Irpef con cui può erogare il bonus da 80 euro ai lavoratori dipendenti che guadagnano abbastanza da poter avvertire lo sgravio. Lì i conti pubblici subiscono il primo shock. La crescita ne beneficia pochissimo, come farà intendere (inascoltato) il vice-ministro Enrico Morando, che avrebbe preferito uno sgravio Irap, ben più incisivo sui conti delle imprese e quindi sugli investimenti. Così come ne beneficiano pochissimo (anzi niente) i veri poveri, esclusi dal provvedimento in quanto incapienti (per usufruire di uno sgravio fiscale bisogna pagare le tasse, e chi guadagna meno di 8000 euro l’anno non paga tasse, quindi non può beneficiare di alcuno sgravio).

Ma è solo il primo colpo. Dal 1° gennaio 2015 parte la decontribuzione per i neo- assunti a tempo indeterminato. Un provvedimento che costerà quasi altri 10 miliardi l’anno per 3 anni, e creerà pochissimi posti di lavoro aggiuntivi rispetto a quelli che si sarebbero creati comunque. La ragione è semplice: Renzi, che vuole (e avrà) il consenso convinto di Confindustria, intende alleggerire i costi salariali di tutte le imprese, anziché concentrare le risorse su quelle che aumentano l’occupazione, come gli suggeriscono, inascoltate, Susanna Camusso (Cgil) e Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), che a loro volta raccolgono una proposta della Fondazione David Hume (il “job Italia”, un contratto a costo zero per lo Stato, ancora più conveniente per le imprese, ma riservato a chi aumenta il livello di occupazione).

Accanto a questi provvedimenti, molto costosi per le finanze dello Stato, ne partono diversi altri di impatto minore ma, proprio perché numerosi, complessivamente piuttosto onerosi. Ad esempio il bonus bebé, il bonus giovani per la cultura (da molti speso in ben altro), le assunzioni nella scuola (nonostante i confronti internazionali da anni segnalino, per l’Italia, un rapporto insegnanti/allievi troppo alto).

Tutto ciò nei primi due anni del governo Renzi. C’è poi la fase due, quella che va dalla primavera del 2016 alla data del referendum. Qui la compulsione a spendere entra in una nuova fase: si tratta di mettere sul piatto tutte le risorse possibili per conquistare voti alla causa del “sì” (promesse di fondi a Regioni e Comuni, promesse di aumenti ai pensionati, piani di messa in sicurezza del territorio, delle scuole, delle zone terremotate, ecc.). Ma non si tratta solo di promettere, si tratta anche di nascondere. Nonostante i dissesti bancari siano noti da anni, e i nodi stiano venendo tragicamente al pettine, il governo preferisce temporeggiare, rimandando tutto a dopo il 4 dicembre. Mentre le reti televisive vengono inondate dalle esternazioni del duo Renzi-Boschi e dalle rassicurazioni del ministro dell’Economia, decine e decine di provvedimenti giacciono in Parlamento, e l’inerzia sul nodo bancario alza i costi delle operazioni di salvataggio future (come, sia pure a cose fatte, non mancherà di rimarcare Bini Smaghi in un’intervista alla Stampa).

Nel frattempo la verità sui conti pubblici comincia a farsi strada anche fra gli osservatori meno desiderosi di prenderne atto. Quel che si vedeva ad occhio nudo fin dall’inizio del 2016, e cioè che l’Italia non avrebbe mantenuto la solenne promessa renziana di ridurre il rapporto debito-pil nel 2016, ora lo vedono tutti. Il debito continua  a salire, non solo in assoluto, ma anche in rapporto al Pil, la pressione fiscale e la spesa pubblica corrente – decimale più, decimale meno – sono al livello cui Renzi le aveva ereditate da Letta, lo spread è ai massimi da tre anni. Le previsioni di crescita dell’Italia nel 2017 sono le peggiori dell’intera Unione Europea. E, come se non bastasse, il nostro governo non trova di meglio che addossare alla rigidità delle regole europee la propria incapacità di far ripartire la crescita. Come se le regole europee valessero solo per l’Italia, e i paesi europei che sono tornati a crescere (la maggior parte) ne fossero invece esentati.

C’è da stupirsi se i mercati sono tornati a non fidarsi dell’Italia?




Tre bugie “politiche” (e tre amare verità)

“Le bugie hanno le gambe corte”. Si potrebbe pensare che il detto popolare riguardi solo la vita quotidiana di noi comuni mortali, ma non quella dei politici, che paiono godere di una sorta di “licenza di mentire”.

In parte è così. E tuttavia, quando si esagera, la realtà presenta il conto anche ai politici. E’ quel che in questi mesi sta succedendo all’ex presidente del consiglio Matteo Renzi. Una dopo l’altra le sue sparate di questi tre anni si trovano a dover fare i conti con la dura, pietrosa realtà delle cose, o con la “verità effettuale”, come avrebbe detto Niccolò Machiavelli.

Tre, in particolare, sono le verità che stanno venendo inesorabilmente a galla. La prima è quella dello stato di salute del nostro sistema bancario. Dopo essere stati rassicurati innumerevoli volte sulla sua solidità, dopo essere stati avvertiti che il nostro sistema è più forte e più sano di quello tedesco, dopo aver assistito a ripetuti rinvii degli interventi sulle banche in dissesto in attesa di momenti politici più opportuni (dopo il referendum, dopo le amministrative, …), ecco che, alla fine, la soluzione trovata è stata quella di appesantire i bilanci delle banche sane (fondo di risoluzione Atlante), penalizzare gli azionisti, fare altro debito pubblico, come se quello che abbiamo non bastasse. Qualcuno ha provato a fare i conti, e la cifra totale viaggia sui 30 miliardi di euro, una parte dei quali peseranno sulle nuove generazioni, che vedono aumentare il fardello del debito pubblico. E il grave è che, secondo tutti gli osservatori, il conto sarebbe stato molto meno salato se si fosse agito prima, anziché rispolverare l’antica arte democristiana di spostare i problemi avanti nel tempo.

C’è poi una seconda verità. Ci è stato detto che le tasse sono state ridotte, e così la spesa pubblica. Il commissario alla spending review, Yoram Gutgeld, è arrivato a parlare di 29.9 miliardi di “capitoli di spesa eliminati e/o ridotti” nel 2014-2017. Un esempio da manuale di mezza verità che, a ben guardare, si rivela una bugia. Quel che si dimentica, infatti, è un particolare essenziale, e cioè che le nuove spese superano ampiamente le vecchie spese cancellate o ridotte, sicché la spesa pubblica complessiva è aumentata, non diminuita.

Di quanto? Difficile dirlo, perché ovviamente mancano ancora i dati del 2017, però qualcosa di abbastanza preciso si può desumere dal Conto Economico delle Amministrazioni Pubbliche (dati 2013-2016). Nel 2016 le spese correnti sono aumentate di 14.7 miliardi rispetto al 2014 e di 22 miliardi rispetto al 2013, il che vuol dire che, se i conti di Gutgeld sono corretti, il governo guidato da Renzi ha fatto circa 50 miliardi di spesa pubblica corrente addizionale. Quanto alle entrate totali della Pubblica Amministrazione, i dati più recenti (primo trimestre del 2017) mostrano che la pressione fiscale è leggermente più alta di quanto fosse tre anni prima (primo trimestre del 2014). Della più volte sbandierata promessa di abbattere le tasse non v’è traccia nei conti ufficiali dell’Istat.

Ci sarebbe, poi, una terza verità, che seppellisce anni di bugie sulla sostenibilità dei nostri flussi migratori. Dopo aver predicato ai quattro venti l’ impossibilità di fermare gli sbarchi, dopo aver deriso e disprezzato le tesi di quanti ritenevano eccessiva ed autolesionistica la nostra politica di accoglienza, tanto generosa nelle intenzioni quanto stracciona e disorganizzata nei fatti, ora è addirittura il ministro dell’Interno, Marco Minniti, a ipotizzare l’eventualità di un blocco navale, che fermi l’ingresso nei nostri porti delle navi straniere che raccolgono migranti in prossimità delle coste africane e li riversano in Italia. Quel che era giuridicamente impossibile (“il diritto internazionale non ce lo permette”) quando a proporlo erano gli altri, diventa improvvisamente un’opzione sul tavolo del Governo quando a ipotizzarlo è un ministro del Pd.

Strano modo di ragionare. Il numero di sbarchi ha raggiunto livelli insostenibili fin dal biennio 2013-2014, giusto ai tempi in cui Renzi disarcionava Enrico Letta ingiungendogli di star sereno. Da allora le cose non sono mai cambiate, anzi sono peggiorate un po’. Il numero di sbarchi del 2014-2017 è 10 volte quello degli anni precedenti. Ci sono persino stati, in questo triennio, momenti in cui gli sbarchi di un solo giorno hanno superato quelli di un intero anno del passato. Eppure, il problema viene scoperto solo ora. Solo ora si comincia a notare che la maggior parte dei migranti non ha diritto allo status di rifugiato. Solo ora ci si accorge che le strutture di accoglienza sono al collasso. Solo ora ci si accorge dell’enorme costo che la gestione dei migranti comporta per il bilancio pubblico. Solo ora ci si rende conto che i ceti popolari non vedono affatto bene l’ingresso continuo di migranti irregolari.

E non hanno torto. E’ strano che nessuno l’abbia ancora fatto notare, ma il bilancio economico dei flussi migratori è imbarazzante. Oggi lo Stato spende, per combattere la povertà assoluta, meno della metà di quello che spende per l’accoglienza, e circa un decimo di quel che sarebbe necessario per debellare la povertà. E, paradosso nel paradosso, più di un terzo degli stranieri residenti in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta.

Questo significa che uno degli esiti dell’immigrazione è di aumentare l’esercito dei poveri. Ma l’altro esito è di rendere impossibile una vera lotta contro la povertà, perché le politiche di accoglienza bruciano più risorse di quante i governi siano disposti a spendere per combattere la povertà.

Pubblicato su Panorama il 06 luglio 2017



Non illudiamoci: il bipolarismo non ritornerà

I risultati delle elezioni amministrative dell’11 giugno (ancora parziali, in attesa degli esiti dei ballottaggi di domenica 25 giugno) hanno suscitato non poche sorprese.

Non tutti, ad esempio, si aspettavano il notevole recupero del centro destra, anche se alcuni sondaggi avevano già registrato una certa ripresa dei partiti che ne fanno parte (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia). Né era facile immaginare che il centro destra potesse risultasse nettamente in testa in due province liguri importanti come Genova e La Spezia.

Ma la vera sorpresa, credo un po’ per tutti, è stato il flop del Movimento Cinque Stelle. Dopo i grandi successi delle precedenti amministrative, con la conquista di Roma (Virginia Raggi) e Torino (Chiara Appendino), era difficile attendersi una piena conferma della forza del Movimento Cinque Stelle, se non altro per la manifesta inadeguatezza della sindaca della Capitale; ma altrettanto arduo era immaginare un tracollo di proporzioni così ampie come quelle fatte registrare domenica 11 giugno.

Perché?

Una ragione, tutto sommato la meno preoccupante per i Cinque Stelle, è che il radicamento del partito di Grillo è quello che è, ovvero quasi inesistente. La fede cieca nelle virtù (e nell’autosufficienza) del circuito chiuso della rete non ha certo favorito la presenza – presenza fisica, non virtuale – degli esponenti del movimento fra la gente. C’è poi la autolesionistica norma che limita il numero di mandati, e induce vari politici Cinque Stelle a cercare innanzitutto di arraffare un posto in Parlamento, prima che scada il tempo concesso a ciascuno di essi.

Però il fattore che dovrebbe preoccupare Grillo e i suoi è un altro. Le elezioni amministrative hanno dimostrato che l’elettorato italiano è fluido, fluidissimo. E l’elettorato Cinque Stelle lo è in sommo grado. Guardate che cosa è successo a Genova, dove il candidato del centro destra unito (dagli “estremisti” della Lega ai “moderati” di Alleanza Popolare) Marco Bucci è in testa. I flussi ricostruiti dall’Istituto Cattaneo con il cosiddetto modello di Goodman, un dispositivo matematico-statistico che permette di calcolare “chi ha votato chi”, ovvero quali sono stati gli spostamenti di voto fra due elezioni, mostrano che il candidato Cinque Stelle non è riuscito a intercettare nemmeno metà dei voti che avevano attirato i suoi predecessori, né in occasione delle precedenti comunali (2012), né in occasione delle precedenti politiche (2013). Molti voti Cinque Stelle delle comunali 2012 sono finiti al candidato del centro-destra, molti voti dei Cinque Stelle alle politiche 2013 sono finiti nell’astensione.

E’ questo, forse, il vero tallone d’Achille dei Cinque Stelle. Il voto al partito di Grillo è un voto che può espandersi in qualsiasi momento, complice il discredito degli altri partiti. Ma è anche un voto che in qualsiasi momento può contrarsi, sgonfiarsi, implodere. Come dimostrano gli insuccessi delle ultime amministrative, che hanno coinvolto anche il Sud, da qualche anno roccaforte elettorale dei grillini.

Questo, per i Cinque Stelle, è il vero rischio delle prossime elezioni politiche. E’ vero che, a livello nazionale, conterà di meno il radicamento nei territori, e conteranno di più le idee generali, che ai Cinque Stelle non mancano, e che sono in perfetta sintonia con l’umore del Paese: controllo dei flussi migratori, reddito garantito per chi non ha un lavoro. E’ anche vero, però, che per conferire a una forza politica o a una coalizione un mandato di governo nazionale i cittadini pretendono qualcosa di più di quanto i Cinque Stelle attualmente offrono.

E’ probabile che i prossimi mesi vedano un ritorno delle tensioni sui tassi di interesse dei titoli di Stato e sullo spread, innescato dalla cattiva gestione dei nostri conti pubblici (è di questi giorni la notizia di un ulteriore incremento del debito pubblico). Rispetto a questa spada di Damocle i Cinque Stelle sono scoperti, perché l’uscita dall’Euro non è certo la soluzione del problema del debito, e i leader che il Movimento sembra intenzionato a candidare alla guida del paese tutto sono tranne che figure di timonieri navigati e rassicuranti.

Forse, se qualcosa suggeriscono gli esiti delle amministrative, è che in una situazione in cui tutte le forze politiche hanno stancato l’elettore, la differenza la possono fare le persone. E’, in fondo, la lezione di Genova, dove i cittadini hanno conferito fiducia a un manager di successo. Ma è anche, forse, la lezione del voto francese, dove, quale che sia il nostro giudizio su Macron (il mio non è certo entusiasta), sta di fatto che il successo è dipeso dal singolo, non certo dal contorno di forze che l’hanno appoggiato.

Da questo punto di vista non solo i Cinque Stelle, ma tutti e tre i poli che si contendono il governo dell’Italia, non sono messi bene. La sinistra è guidata da un ex ragazzo, innamorato di sé stesso e del tutto incapace di vedersi dall’esterno (se lo fosse, farebbe meno battute, e non prevaricherebbe sistematicamente l’interlocutore). La destra è ostaggio dei conflitti fra Forza Italia e Lega, con due leader che si elidono a vicenda, e a quanto pare non intendono comprendere che solo una figura nuova, che si collochi al di fuori delle vecchie contrapposizioni, può ridare slancio al centro destra.

In questa situazione lo scenario più probabile mi pare questo: dopo i ballottaggi penseremo per un attimo che sia tornato il bipolarismo destra-sinistra, salvo risvegliarci fra un anno, dopo le elezioni politiche (marzo 2018?), con l’amara realtà di un parlamento tripolare, in cui non c’è alcuna maggioranza in grado di dare un governo al Paese.

Pubblicato su Panorama il 22 giugno 2017



Tempesta perfetta sull’Italia

Messa a punto la “manovrina” da 3.4 miliardi che ci è stata imposta dall’Europa, una operazione che ha portato con sé nuove tasse e nuovi adempimenti, nei giorni scorsi il nostro governo ha preso atto, come ogni anno, delle “raccomandazioni” della Commissione europea e, sempre come ogni anno, si appresta a fingere di volerle seguire, salvo poi chiedere clemenza, saggezza e flessibilità al momento di passare dalla parole ai fatti.

Se ci si prende la briga di confrontare le raccomandazioni puntualmente rivolte all’Italia ogni anno dell’ultimo decennio, è difficile sfuggire all’impressione di uno stanco e noiosissimo “copia e incolla”. Riformare la pubblica amministrazione, ridurre i tempi della giustizia, accelerare i pagamenti dello Stato alle imprese, deburocratizzare, ammodernare il mercato del lavoro, spostare il carico fiscale verso gli immobili e il consumo, riqualificare la spesa pubblica, risanare il sistema bancario, privatizzare, combattere la corruzione, ma soprattutto, e prima di tutto: ridurre il deficit e il debito pubblico. La litania si ripete eguale a sé stessa da almeno vent’anni, ovvero da quando Prodi e Ciampi ottenero l’ingresso dell’Italia nell’euro.

C’è un punto, tuttavia, che rende le raccomandazioni di maggio 2017 più rilevanti diquelle formulate in altre occasioni: oggi stiamo per entrare nel tritacarne delle elezioni, anticipate o meno poco cambia. O meglio: qualcosa sarebbe cambiato (in meglio, suppongo) se avessimo votato subito dopo il referendum del 4 dicembre ma, arrivati a questo punto,che si voti a settembre 2017, a ottobre, a dicembre, o a febbraio del 2018, la frittata ormai è fatta. Comunque venga scelta la data delle elezioni, un periodo di demagogia, spese allegre e promesse da marinaio non ce lo leva nessuno.

Di per sé non sarebbe né una novità né un disastro peggiore di quelli del passato. Dopotutto ci siamo abituati. Il problema è che, questa volta, la campagna elettorale coinciderà con un periodo di gravissimi rischi economici e finanziari, e non vi è alcuno scenario verosimile in cui tali rischi possano essere neutralizzati.

Vediamo perché. Occorre considerare, innanzitutto, che la politica accomodante della Banca Centrale Europea, il cosiddetto Quantitative Easing, si sta esaurendo, e il venir meno dell’ombrello-Draghi non potrà non aggravare i nostri problemi, sia sul versante bancario (problema degli NPL, o crediti deteriorati) sia, soprattutto, sul versante dei rendimenti dei titoli di Stato: il famigerato spread è già oggi vicino ai 200 punti base, un livello mai toccato negli ultimi 3 anni.

C’è poi il capitolo della manovra di fine anno. Per ora abbiamo incassato l’ennesimo gesto di benevolenza da parte della Commissione Europea che, pur rilevando i ritardi e le inadempienze dell’Italia in innumerevoli ambiti, ci ha concesso qualche mese di respiro, rimandando a ottobre la verifica sui nostri conti pubblici. Ma questo gesto, apparentemente a noi favorevole, rischia di essere più dannoso che salutare. Il vero problema dell’Italia, infatti, non è ottenere qualche bel voto in pagella da Bruxelles, ma convincere i mercati che siamo in grado di restituire i nostri debiti. E tutto fa pensare che l’ennesima dilazione che abbiamo ottenuto finirà per moltiplicare i nostri rischi quando, in autunno, verrà il momento della manovra, proprio nel cuore della campagna elettorale se di voterà dopo ottobre, proprio nel cuore delle trattative per la formazione del nuovo governo se si voterà subito dopo l’estate.

Perché il cocktail fra elezioni e manovra è così pericoloso?

La ragione di base è che, dopo due anni di promesse mancate sulla riduzione del debito pubblico, la manovra di quest’anno sconta una doppia zavorra: da un lato le richieste dell’Europa di ridurre deficit e debito, dall’altro le clausole di salvaguardia del 2018 (in particolare sull’Iva), che per essere disinnescate richiedono di “reperire risorse” per circa 15 miliardi. La somma di questi due macigni è elettoralmente insostenibile, e fa prevedere che assisteremo a un aumento più o meno mascherato dell’Iva, nonché alla solita promessa di fare domani quel che ci viene richiesto per oggi, e che avremmo dovuto fare ieri. Ma è proprio questo il punto: proprio perché, con il voto alle porte, non potremo fare quel che dovremmo per rimettere in carreggiata i nostri conti, è molto probabile che i mercati e la speculazione ci azzannino. Quando sarà chiaro che il nostro debito pubblico crescerà anche nel 2018, è difficile che l’Italia non sia chiamata a pagare un prezzo in termini di aumento dello spread e tensioni varie, dai prezzi delle obbligazioni all’andamento della borsa.

C’è solo da augurarsi che tale prezzo non sia alto come quello del 2011-2012, quando l’Italia fu a un passo dal baratro. E che, chiunque vinca le elezioni, non debbano passare mesi prima che lorsignori si decidano a darci un governo. Perché l’esperienza, anche recente, insegna che, fra i fattori che fanno levitare lo spread non ci sono solo il deficit, il debito, la mancata crescita, le cattive istituzioni economiche, ma c’è anche l’incertezza politica.

Pubblicato su Panora1ma il 1 giugno 2017