La gestione dell’immigrazione. Intervista a Luca Ricolfi

Perché Salvini cavalcando la battaglia contro gli sbarchi ha conquistato gli italiani?

Perché gli sbarchi, anche quando sono pochi (come oggi, e come prima di Mare Nostrum) vengono percepiti come una sorta di prepotenza, aggravata dal ricatto umanitario, come se i migranti dicessero: “voi siete così civili che ci dovete salvare in mare e accogliere una volta a terra”.

La chiusura a riccio dei confini (soprattutto dei porti) operata dal Viminale è stata applaudita dagli italiani. Perché questa paura verso l’integrazione dei migranti?

La maggior parte degli italiani non ha paura dell’integrazione, ma che l’integrazione fallisca, come in effetti è successo.

Quale è la portata di responsabilità della crisi economica e del dilagare dei social, rispetto alla crescente rabbia razzista?

Lei è sicuro che ci sia una “crescente rabbia razzista”? Penso che, ammesso che vi sia una crescita dei sentimenti razzisti, qualche responsabilità vada cercata anche nei media “seri”, che amplificano episodi marginali che ci sono sempre stati.

Un annuncio di Trenord dagli altoparlanti dei vagoni contro “gli zingari sui treni che hanno rotto i c…” ha fatto il pieno di commenti positivi su Facebook. Perché il popolo del web è unanime contro i rom e sinti?

Non esiste un popolo del web sostanzialmente diverso dal popolo non-web, semplicemente il popolo non web è invisibile, mentre il popolo-web è iper-visibile per definizione. Ma entrambi condividono l’ostilità verso i rom e i sinti, un sentimento che non è nuovo e non è solo italiano.

 “La ruspa” di Salvini e gli sgomberi dei campi rom sono sempre accolti con grande favore da destra e da sinistra.

Da dove nasce la diffidenza collettiva verso questi popoli?

Dall’esperienza. Anche se non mancano le persone di origine rom/sinti che lavorano e vivono normalmente, il fatto che una percentuale elevata (nessuno sa esattamente quale) dei membri di queste comunità viva di accattonaggio e di furti non può che suscitare diffidenza in chi vive del proprio lavoro, e magari fatica a sbarcare il lunario.

Dai sondaggi pochi italiani si dicono razzisti, ma la percezione di un ritorno dell’odio contro gli stranieri è molto forte. Qual è il reale sentimento sociale?

Più o meno quello degli ultimi decenni, con la differenza cruciale per cui oggi chi ha sentimenti razzisti, o meglio sentimenti che i media e gli intellettuali etichettano come razzisti, si sente più legittimato ad esprimerli. Ma nella maggior parte dei casi il razzismo non c’entra, semmai quel che interviene è un meccanismo di generalizzazione, che tocca un po’ tutti, anche i più illuminati difensori dei rom. Se non ci crede prenda 1000 Vip progressisti, e controlli quanti di loro hanno assunto, o assumerebbero, una colf di etnia rom/sinti…

La sinistra italiana è stata spazzata via dai populisti perché ha fallito sulla questione migranti?

Sì e no. Il problema degli sbarchi è stato sostanzialmente risolto da Minniti, ma la sinistra anziché rivendicare il risultato ha cercato di nasconderlo, continuando con la retorica del “noi siamo quelli che salvano vite umane in mare”.

Passare da “accogliamo tutti” a “non accogliamo nessuno” da un giorno all’altro che conseguenze può avere sulla società italiana?

Non accogliere nessuno lascia irrisolti i due problemi principali: gli irregolari presenti (almeno mezzo milione), e le esigenze delle imprese, che di migranti economici hanno tuttora bisogno.

Intervista pubblicata su Quotidiano Nazionale il 9 agosto 2018




Quando il “fact checking” è farlocco

Chi ama informarsi su internet, girovagando fra un sito e l’altro, si sarà sicuramente accorto della recente nascita di un nuovo genere letterario: il “fact checking”, o controllo dei fatti. Sotto questa etichetta, vagamente pretenziosa, centinaia di analisti si autonominano giudici delle affermazioni di politici, giornalisti, studiosi, industriali, scrittori, figure pubbliche in genere.
Il fenomeno è interessante, e merita una riflessione. La prima cosa che colpisce è la mancanza di competenze specifiche, pertinenti e soprattutto riconosciute, di molti autori di spietate “verifiche” delle affermazioni altrui. In perfetto stile internet, per cui uno vale uno e tutti abbiamo diritto di dire la nostra, chiunque si sente autorizzato a improvvisare audaci operazioni di fact checking, quasi sempre volte a smontare quel che qualcun altro ha detto. Ma l’aspetto più interessante è che non di rado gli esperti, ovvero coloro che hanno una riconosciuta competenza o esperienza riguardo all’argomento di cui si parla, risultano ancora meno affidabili dei dilettanti. La faziosità è endemica fra coloro che si occupano di temi scottanti, specie se l’analista si sente impegnato nella difesa di una buona causa.
Per capire come tutto ciò sia possibile dovremmo, prima di tutto, renderci conto che il genere letterario fact checking non è un genere omogeneo. O meglio: l’espressione fact checking è usata per tre tipi molto diversi di operazioni critiche.
Il primo tipo di fact checking potremmo, con un piemontesismo, definirlo il fact checking dei “pistini”, o dei pignoli. Esso si applica ad affermazioni relativamente poco importanti, talora espresse in modo vago, ma che è (abbastanza) facile controllare se si ha un minimo di dimestichezza con le fonti statistiche. Questo tipo di fact checking, che non interesserebbe nessuno se non coinvolgesse figure pubbliche, viene per lo più usato per punzecchiare i politici sgraditi e assolvere i politici graditi. Di norma non è erroneo, ma solo tendenzioso nella scelta dei bersagli. Il politico dice che il Pil è aumentato dell’1.7 nell’anno x, il pistino gli obietta che in realtà è aumentato dell’1.4%. Il giornalista di fama afferma che il paese y ospita la metà dei richiedenti asilo dell’Italia, il pistino gli obietta che non è esatto, che dipende dal periodo di riferimento, e comunque bisogna capire che cosa intendesse quel giornalista. L’effetto che questo tipo di fact checking esercita sui politici è più o meno quello di una mosca sulla schiena di una mucca.
Il secondo tipo di fact checking si potrebbe chiamare il fact checking delle “sentinelle”, o dei guardiani dei fatti. L’unica vera differenza con il fact checking dei pistini è che le affermazioni sottoposte a controllo riguardano fatti “caldi”, che ciascuno di noi può giudicare più o meno interessanti, ma che pochi si azzarderebbero a considerare irrilevanti. L’idea delle sentinelle è che, su certi fatti, chi ha responsabilità pubbliche o è molto conosciuto non si possa permettere di dire il falso. Non puoi dire che il debito è diminuito se è aumentato (e viceversa), non puoi dire che i morti in mare sono aumentati se sono diminuiti (e viceversa), e così via. Un caso tipico è il recente fact checking cui, sul sito lavoceinfo, è stato sottoposto un clamoroso errore di Saviano, ingenuamente convinto che “i 5 miliardi che servono per i rifugiati (…) non pesano sul debito italiano, non sulle nostre tasche”.
L’effetto che le sentinelle producono su politici e figure pubbliche è spesso modesto, a meno che non sia sfruttato e amplificato dai media (cosa che, giustamente, non avviene mai con il fact checking dei pistini).
La caratteristica logica fondamentale di questi due tipi di fact checking è che, di norma, resistono al fact checking del fact checking. Salvo casi rari di malafede o di ignoranza, è difficile che sorga una controversia sui “veri” fatti, mentre è assai comune che i colpiti dal fact checking, non dovendo rendere conto a nessuno, semplicemente se ne facciano un baffo.
Fin qui il fact checking può essere utile o inutile, ma di norma non è dannoso, e tantomeno pericoloso. Dove invece può diventarlo è con il terzo tipo di fact checking, che io chiamerò semplicemente “fake checking”, cioè controllo fasullo, o farlocco. Quel che distingue il fake checking dal fact checking è che esso non verte su fatti ma su interpretazioni dei fatti. Il fake checking comincia quando si finge di credere che certe affermazioni, che riguardano i nessi fra fatti (tipicamente i nessi di causa-effetto) siano obiettivamente verificabili, e in più si ha la pretesa di attribuire a sé stessi il ruolo di giudice di ultima istanza. E infatti la caratteristica fondamentale del fake checking è che non resiste a sua volta al fact checking. Così può accadere che qualcuno (spesso un istituto di ricerca, o un presunto esperto) produca un fact checking, e qualcun altro lo sottoponga a sua volta a critica, magari chiamando la critica stessa fact checking. E’ successo qualche tempo fa con un pretenzioso “fact checking dell’euro”, prontamente smontato mediante un fact checking del fact checking. E lo stesso si potrebbe fare oggi con i numerosi tentativi, davvero molto maldestri, di demolire la tesi del “pull factor”, secondo cui la presenza di navi pronte al soccorso avrebbe aumentato le partenze dalla Libia. Tutti questi fact checking non sono controlli dei fatti, ma proposte (spesso zeppe di errori logici e tecnici) di prendere per mano i fatti per condurli in un porto ideologicamente sicuro. Con un’aggravante, rispetto alla normale critica: la critica ammette e anzi dà per scontata la controvertibilità delle tesi che essa argomenta, il fact checking pretende di dire l’ultima parola. La critica è per sua natura aperta, la critica che si presenta sotto le mentite spoglie del fact checking, invece, ambisce a chiudere il discorso.
So naturalmente che filosofi ed epistemologi, non avendo mai fatto ricerca empirica, a questo punto del discorso immancabilmente insorgono ricordando Nietzsche (“non esistono fatti ma solo interpretazioni”), o Kuhn e Feyerabend (per i quali ogni osservazione è “carica di teoria”). Ma è un punto di vista ingenuo: per chi si occupa della realtà con i normali strumenti delle scienze sociali, la distinzione fra fatti e nessi fra fatti è quasi sempre chiarissima. Se dico che nei 36 mesi successivi all’introduzione del Jobs Act l’occupazione è aumentata di circa 700 mila unità faccio un’affermazione controllabile (con i dati Istat), se affermo che ciò è avvenuto grazie al Jobs Act, o che l’intero incremento è ad esso attribuibile, stabilisco un nesso causale che nessuno può provare in modo inoppugnabile, ma solo argomentare in modo più o meno convincente, con modelli matematico-statistici più o meno solidi: le interpretazioni dei fatti non si distinguono fra vere e false, ma semmai fra plausibili e implausibili.
Sfortunatamente il fake checking è piuttosto di moda. Esso infatti permette, a chi è affezionato a una tesi, di travestire da fatti obiettivi quelle che sono semplici ricostruzioni delle concatenazioni fra i fatti, più o meno sostenute da indizi favorevoli. Ed è mortificante che, tanto spesso, questo travestimento sia attuato da esperti o presunti tali, un fenomeno che Giovanni Guzzetta ha di recente bollato come “disinformazione di qualità”.
Ma come si fa a riconoscere il fake checking?
Non è troppo difficile, perché il fake checking ha sempre due tratti distintivi, che finiscono per smascherarlo. Il primo, come abbiamo già visto, è di chiamare fact checking un’attività che non si occupa dei fatti puri e semplici, ma della loro interpretazione: che cosa ha determinato che cosa, come sarebbero andate le cose se si fosse fatta un’altra scelta, che cosa succederebbe se si adottasse una determinata politica, eccetera eccetera. Il secondo tratto che smaschera il fake checking è di selezionare arbitrariamente i fatti, che curiosamente risultano tutti coerenti con una sola interpretazione, che guarda caso è in sintonia con le credenze di fondo dell’autore: l’assenza di dubbi è il marchio inconfondibile del fake checking.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 5 agosto 2018



Migranti/Dilaga l’appellite, ultima moda salva-coscienze

A giudicare dalla crisi di “appellite” che da qualche tempo ha colto diversi personaggi pubblici, con particolare veemenza nel mondo degli scrittori (Veronesi, Saviano, finalisti Strega), sembrerebbe che in Italia siano possibili solo due posizioni. Da una parte i sinceri democratici, preoccupati dell’involuzione “autoritaria, xenofoba e razzista” degli italiani, nonché decisi a schierarsi dalla parte del Bene; dall’altra parte tutti gli altri, che ignorano gli appelli dei maestri di virtù per viltà, ignavia, opportunismo, o semplicemente in quanto popolo rozzo e insensibile, stregato dalla propaganda leghista.

Eppure, a quanti non hanno deciso di rinunciare completamente a usare la ragione, dovrebbe essere chiaro che, per chi deve governare l’Italia, non ci sono – in materia di immigrazione – due sole opzioni, di cui una feroce e l’altra umana. No, purtroppo per chi deve decidere, ieri come oggi, ci sono solo alternative tragiche. La scelta non è fra il bene e il male, ma fra due (e forse anche più di due) differenti specie di male. Ecco perché, a mio modo di vedere, il primo dovere di chi studia e di chi informa non è quello di schierarsi risolutamente a favore di uno dei due mali, ma quello di raccontare il lato oscuro di ogni scelta, quel lato che, proprio perché occulta una tragedia, i politici si ostinano a non vedere, ma soprattutto a non dire.

Oggi quel lato oscuro è innanzitutto l’inferno libico. I morti nella traversata nel deserto, di cui non si saprà mai il numero. Le decine di migliaia di persone detenute in campi legali (sotto l’autorità del governo libico), in condizioni disumane. Ma, ancora più terribile, le decine di migliaia di persone ammassate in campi illegali per ottenere un riscatto in denaro o per essere vendute e rivendute come schiavi. E poi c’è l’altro lato oscuro (ma forse è solo la punta dell’iceberg), le migliaia di morti in mare per raggiungere l’Europa, fra traversie e drammi di cui pochi sanno. Chi volesse avere un’idea vivida di tutto ciò può leggere Non lasciamoli soli, un bellissimo libro di testimonianze che Francesco Viviano e Alessandra Ziniti hanno da poco pubblicato con Chiarelettere.

E’ con questo lato oscuro che ogni politica migratoria, quale che sia il suo orientamento, si trova a fare i conti. Può cercare di occultarlo, e spesso ci riesce anche, ma non può cancellarlo. Vale per le politiche di chiusura, ma anche per quelle di apertura.

Prendiamo, ad esempio, la linea Minniti-Salvini. So benissimo che fra Minniti e Salvini ci sono differenze, che la visione del problema migratorio è radicalmente diversa ma, nel breve periodo e sul piano concreto, i capisaldi sono sostanzialmente i medesimi. Ostacolare le partenze, con l’aiuto della guardia costiera libica. Frenare il flusso dal Niger alla Libia meridionale, con l’aiuto delle tribù locali. Aumentare i controlli dei campi legali da parte dell’Onu. Aprire corridoi umanitari direttamente dall’Africa. Incentivare i rimpatri assistiti di chi non ha diritto alla protezione internazionale. Il prezzo è che migliaia di migranti che cercano di entrare in Europa via mare restano intrappolati nell’inferno libico, o vi vengono riportati dalle vedette libiche. Secondo le mie stime, negli ultimi mesi quasi metà dei partenti vengono intercettati e riportati indietro dalla guardia costiera libica. E, anche se è vero che ad attenderli c’è “personale internazionale con le pettorine azzurre”, resta il fatto che la destinazione sono i campi di detenzione governativi, controllati da militari non di rado corrotti e in combutta con i trafficanti di uomini. Questo è il lato imbarazzante della linea dura, inaugurata dal governo Gentiloni (con Minniti) e sostanzialmente confermata dal governo Conte (con Salvini).

Vediamo l’alternativa, ovvero la linea seguita dai governi di Letta e Renzi (ricordo che è stato Enrico Letta a lanciare l’operazione Mare nostrum). Questa linea non si preoccupava né di frenare gli ingressi dal Niger alla Libia, né di imporre la presenza delle organizzazioni internazionali in Libia, né di aprire canali umanitari in Africa, né di rafforzare la guardia costiera libica. Il nucleo era: lasciamoli partire, e aiutiamoli a non morire in mare. I benefici sono sempre stati chiari, e ampiamente sottolineati:  centinaia di migliaia di persone hanno avuto la possibilità di entrare in Europa, perlopiù sbarcando in Italia. Ma i costi?

Vediamoli. Il primo, il più evidente, è stato di moltiplicare i morti in mare. Nel biennio 2012-2013, ovvero subito prima di Mare nostrum, il numero di morti in mare era  relativamente basso, negli anni dell’apertura (2014-2016) è quasi decuplicato. Oggi torna a scendere, ma solo perché è crollato il numero delle partenze (la rischiosità dei viaggi sta invece aumentando). È il dramma della linea dell’apertura: riesce a portare più persone in Europa, ma moltiplica anche i morti. Ed è terribile che, in tutti gli anni del regno di Renzi, non una sola riflessione si sia sentita su questo prezzo dell’apertura.

C’è però anche un altro lato oscuro della linea dell’apertura, ed è il tributo che, senza volerlo, essa paga ai sequestri di persona e allo schiavismo: più persone si mettono in viaggio, più persone attraversano il confine meridionale della Libia. Lì la norma è essere catturati, rinchiusi in un campo illegale gestito da miliziani senza scrupoli, essere umiliati, torturati, stuprati, finché le famiglie (informate via telefono dalle urla strazianti dei prigionieri) non pagano il riscatto richiesto; altrimenti il destino è essere venduti come schiavi, o uccisi perché ormai invendibili come schiavi. Questo business, forse, è ancora più redditizio di quello dei trasferimenti via mare in Europa. La linea dell’apertura verosimilmente lo alimenta, perché il tam-tam corre veloce e, se si sa che ci sono buone possibilità di partire via mare, più persone tentano di raggiungere la Libia dall’Africa centrale, per la gioia dei trafficanti di uomini che controllano buona parte del territorio libico.

Ecco perché dicevo che, purtroppo, la scelta che sta di fronte alla politica non è fra il bene e il male, ma fra due mali diversi. Perché le azioni hanno conseguenze, e spesso le conseguenze sono diverse dalle finalità che si perseguono. Anche se volessimo ignorare del tutto il punto di vista dei ceti popolari, convinti da anni di accoglienza anarchica che in Italia non c’è più posto, e volessimo invece preoccuparci solo del bene dei migranti, il dilemma resterebbe. Non è evidente che il male che facciamo chiudendo sia più grande di quello che facciamo aprendo; così come non è evidente il contrario. Per questo le scelte della politica, almeno finché l’Europa resterà ignava come ha fatto fin qui, non possono che essere tragiche. Non c’è modo di perseguire il bene senza provocare il male. Per chi non vuole autoaccecarsi, come fece Edipo, non c’è “la cosa giusta” da fare, ma solo la scelta fra due corsi d’azione entrambi tragici nelle catene di conseguenze che mettono in moto.

E precisamente per questo gli appelli accorati al nostro “lato umano” mi sembrano quanto meno fuori bersaglio, un logoro esercizio di ostentazione etica, forse buono per rassicurare qualche coscienza, ma incapace di farci fare un solo passo nella comprensione del dramma dei migranti.

 




La solitudine dei numeri di serie A

Di mestiere mi occupo di numeri (insegno Analisi dei dati all’Università di Torino). E di numeri mi capita spessissimo di parlare, in un libro, in un saggio, in un articolo di giornale. E anche qui su “Panorama”, naturalmente. Perciò non ho potuto restare indifferente quando, negli ultimi giorni, è scoppiato il caso Boeri, con quella sua stima di 8.000 posti di lavoro perduti se passerà il “decreto dignità”. Ma lo stesso mi era accaduto quando, durante l’ultima campagna elettorale, Roberto Perotti, dalle colonne di Repubblica, ha cominciato a valutare, uno per uno, i costi dei programmi politici dei principali partiti italiani, giungendo alla conclusione che erano quasi tutti insostenibili.

Oggi come allora la reazione della politica di fronte ai numeri è la squalifica. Se i numeri sono sgraditi, il “produttore di numeri” viene istantaneamente portato sul banco degli accusati, con l’infamante accusa di “fare politica”, ovvero di manipolare le cifre a sostegno di una parte e a danno di un’altra. Un’accusa che, prima o poi, colpisce tutti coloro che maneggiano numeri delicati, o “politicamente sensibili”.

Se butti lì un stima, azzardatissima e priva di qualsiasi serio riscontro scientifico, di quante tonnellate di piselli si producono in Italia, puoi stare certo che nessuno metterà in discussione la tua stima. Ma se ti azzardi a dire quanto costerebbe l’abolizione della legge Fornero e il ritorno al sistema precedente, anche se lo fai nel modo più accurato possibile, calcolando (e dichiarando) i margini di errore delle tue stime, puoi stare certo che ci saranno un bel po’ di politici che ti azzanneranno, accusandoti di non essere super partes.

Eppure ci sono numeri che sono quelli che sono. Non nel senso che sono esatti (quasi tutti i numeri di cui si parla sono il risultato di stime, e quindi sono soggetti a margini di errore) ma nel senso che nessuno li metterebbe in discussione in un consesso di osservatori competenti e intellettualmente onesti. Detto altrimenti, ci sono numeri di serie A, difficilmente controvertibili, e numeri di serie B, e persino C, che è bene guardare con grande circospezione.

Le stime Istat dell’occupazione, ad esempio, sono di serie A, le stime dell’evasione fiscale sono di serie B, le stime dell’economia illegale sono di serie C. E, sia chiaro, quel che determina in che serie gioca un determinato numero non è solo l’autorevolezza scientifica di chi lo produce, ma anche la difficoltà del compito. Un numero può giocare in serie C, nonostante lo produca l’Istat, il Fondo Monetario o l’Ocse, semplicemente perché non ci sono strumenti affidabili per calcolarlo: è il caso delle previsioni della crescita del Pil a 1 o 2 anni, che si rivelano quasi sempre estremamente inaccurate, quando non decisamente sballate. Così un numero può giocare in serie A per il solo fatto che è meccanicamente generato da una fonte amministrativa, come accade con le quantità di auto circolanti in Italia o con il numero di unità vendute di un certo prodotto.

I politici fanno due errori logici. Il primo è di trattare numeri di serie A come se fossero numeri di serie B o C. Il secondo è di confondere impegno politico e manipolazione numerica: il fatto che un produttore di numeri faccia politica non implica che tutti i numeri che produce giochino in serie C. Questo è esattamente il caso di molte delle cifre fornite da Perotti o da Boeri, che la stragrande maggioranza degli studiosi imparziali considererebbe plausibili, senza preoccuparsi del fatto che i loro produttori siano politicamente schierati con una parte politica.

Tutta colpa dei politici, che non sanno e non vogliono riconoscere i numeri di serie A, ovvero quelle cifre che uno studioso onesto e ben informato dovrebbe accettare come sostanzialmente corrette?

No, non è tutta colpa dei politici. Anzi io li assolvo, perché in fondo fanno il loro gioco. La politica, con poche eccezioni, è manipolazione in vista del consenso. E lo è in modo così naturale e sistematico che spesso i manipolatori non se ne rendono conto. Quante volte mi è capitato di discutere, in pubblico, con dei politici sinceramente convinti che le assurde cifre che davano fossero corrette! Il fatto è che, quando si è schierati da una parte, e si è perduta ogni curiosità del mondo, si diventa macchine che immagazzinano esclusivamente le informazioni coerenti con le proprie credenze. Lo aveva scoperto negli anni ’50 il grande psicologo sociale Leon Festinger studiando le sette, ma vale perfettamente per il ceto politico di oggi (nonché per molti miei amici…).

Quel che può fare la differenza non è la qualità dei politici, ma l’ambiente in cui si trovano a operare; l’ambiente in cui sono “costretti” ad operare, mi vien da dire. Se i numeri di serie A non riescono ad imporsi, buona parte della responsabilità è di giornalisti e studiosi. In Italia la maggior parte dei giornalisti e conduttori televisivi semplicemente non sono in grado di contestare ai politici i numeri che questi ultimi enunciano con sicurezza o respingono con sdegno, neppure nei casi più clamorosi e ovvi; né vale obiettare che conoscere i numeri non è compito dell’informazione, visto che ci sono paesi (Regno Unito e USA, ad esempio) in cui i giornalisti lo sanno fare.

Ma la colpa più grande è di noi studiosi. Non solo in Italia, le discipline che si occupano di numeri (economia, sociologia, scienza politica, psicologia) hanno tuttora una fortissima componente ideologica, o di impegno sociale. E chi è fortemente identificato con una causa, specie se universalmente riconosciuta come una buona causa, per lo più non esita a piegare i dati alla causa stessa, negli infiniti modi che il nostro mestiere ci consente. Ecco perché, quando un politico si trova di fronte numeri per lui imbarazzanti, trova sempre uno studioso che gli presta la propria scienza, la propria autorevolezza, o semplicemente il suo biglietto da visita (“docente di X presso l’Università Y) per demolire quei numeri, anche se sono numeri di serie A, che in un contesto neutrale nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio.

Articolo pubblicato su Panorama il 26 luglio 2018



Gli sbarchi e l’inferno libico

Se dovessimo basarci solo sui freddi numeri, dovremmo concludere che il problema degli sbarchi è stato quasi completamente risolto. Fatto 100 il numero medio di arrivi nel periodo anteriore alle “primavere arabe” (dal 1997 al 2010), siamo passati a 780 nel 2016, per poi ripiegare a 214 alla fine dell’era Minniti (gennaio-maggio 2018), e infine sotto quota 100 nell’era Salvini-Di Maio (giugno luglio 2018).

Fu vera gloria?

Per certi versi sì. Checché ne dicano i dirigenti del Pd, che nei giorni scorsi hanno affermato che i morti in mare sono aumentati, è vero il contrario: fra il 2107 e il 2018 i morti in mare nella rotta centrale del Mediterraneo (quella più pericolosa, che porta in Italia) si sono pressappoco dimezzati (la fonte è OIM, Organizzazione Internazionale per le migrazioni).

Ma per altri versi no, non fu vera gloria. Proprio per niente. Intanto bisogna dire che la riduzione del numero dei morti è dovuta solo alla diminuzione del numero delle partenze. La pericolosità dei viaggi, invece, è aumentata: nel 2017 il rischio di perire nella traversata verso l’Italia era già alto, oggi è ancora più alto. Ma il punto centrale è che la frenata agli arrivi, pur avendo ottenuto risultati politici non disprezzabili (sostanzialmente: l’Europa si è scossa dal proprio torpore pluriennale), non ha minimamente scalfito i due problemi fondamentali che abbiano di fronte, come italiani e come europei.

Come italiani il nostro problema fondamentale ormai non sono più gli sbarchi attuali, bensì la somma degli sbarchi passati. Detto crudamente: la massa di centinaia di migliaia di migranti che si aggirano sul nostro territorio senza averne diritto, una massa cui in futuro rischiano di aggiungersi i migranti che noi abbiamo salvato e registrato, che sono passati in altro paese europeo, e che i paesi “fratelli” (specie Austria, Francia e Germania) hanno ogni intenzione di restituirci: una minaccia che nel legnoso linguaggio dell’Unione viene dissimulata sotto l’etichetta “problema dei movimenti secondari”.

Come europei siamo messi ancora peggio. Il problema di fondo dell’Europa è che l’Africa vorrebbe trasferirsi nel Vecchio continente. E lo vuole per un sacco di motivi, alcuni ottimi, altri discutibili, ma tutti reali. Il più importante è che molti paesi africani sono semplicemente invivibili, fra guerre, dittature, corruzione, fame, siccità, carestie, traffico di esseri umani. La complicazione è che “noi” siamo 500 milioni (in calo), “loro” 1 miliardo e 200 milioni, destinati a diventare 2 miliardi e più nel giro di due o tre decenni: giusto il tempo di vedere i nostri neonati di oggi prendere una laurea domani.

Come si risolve questo problemuccio?

Una soluzione, abbastanza gettonata nel mondo progressista, è la rassegnazione entusiasta, se mi si consente questo ossimoro. L’idea è che le migrazioni siano un fenomeno “epocale”, che la mescolanza fra popoli e culture sia più un bene che un male, e che si tratti solo di gestire (con politiche di accoglienza e integrazione) le legittime aspirazioni di diverse centinaia di milioni di persone di trasferirsi in Europa.

A questa soluzione, per ora, si contrappone solo un’idea, tanto rozza quanto confusa, di limitare gli sbarchi e “aiutarli a casa loro”, come è diventato di moda dire oggi. In Italia questa linea prende le vesti di un crescente trasferimento di risorse verso il governo libico (o meglio: verso uno dei tre poteri in lotta fra loro in Libia, quello di Sarraj a Tripoli). Noi regaliamo motovedette, istruttori, soldi, e speriamo che così non facciano partire nessuno, e poco per volta escano dal caos e dalla miseria.

Ma è una soluzione?

A me pare di no. La maggior parte delle testimonianze dirette che giungono dalla Libia ci rivelano che i legami tra governo, milizie e trafficanti sono piuttosto stretti. L’Italia fornisce soldi e mezzi, ma non esercita alcun reale controllo sull’uso che ne vien fatto. Nonostante gli accordi e i protocolli negoziati dal precedente governo, dall’Onu e dagli organismi internazionali con i governi libici, nonostante il successo di alcuni esperimenti (come i rimpatri e i centri sotto l’egida dell’ONU), la situazione nel paese africano resta drammatica, e negli ultimi mesi sta peggiorando rapidamente. In una recente conferenza stampa i rappresentanti dell’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) hanno dovuto riconoscere che il sovraffollamento dei campi di detenzione si sta aggravando, e che i numeri sono scoraggianti: a fronte di decine di migliaia di rifugiati, l’Europa si è impegnata ad accoglierne appena 4000, e ne ha di fatto accolti poco più di 200.

Certo non tutti i campi in cui vengono ammassati i migranti sono eguali (alcuni sono illegali e gestiti direttamente dai trafficanti, altri sono governativi, altri vedono la presenza delle Ong), ma le testimonianze di trattamenti inumani, stupri, violenze, estorsioni, ricatti, persino di vendite come schiavi, sono difficilmente confutabili, o derubricabili a eccezioni. Vale per oggi, nell’era Salvini, ma valeva anche ieri, nell’era Minniti, con l’unica mortificante differenza che prima la stampa progressista si barcamenava o chiudeva un occhio, mentre ora si indigna 24 ore su 24: sublime ipocrisia dell’umanitarismo a senso unico.

È strano, molto strano, che a chi proclama di voler limitare gli arrivi, sia esso un “sincero democratico” o un bieco politico “populista”, non venga mai in mente che impedirli con l’intimidazione e la sopraffazione fisica, delegando ai libici il lavoro sporco, non può che moltiplicare la disperazione, e rafforzare la volontà di sbarcare in Europa, costi quel che costi.

Insomma, quel che non capisco, pur condividendo l’idea che in Europa si debba entrare esclusivamente in modo legale, è come mai, oggi come ieri, siamo così timidi quando ci rapportiamo a paesi come la Libia: un paese che, a differenza di altri paesi africani, non ha ancora firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951), e pone non pochi ostacoli alla presenza di osservatori internazionali e all’azione delle organizzazioni umanitarie. Forse siamo timidi perché siamo politicamente deboli e isolati, o semplicemente perché siamo ricattabili a causa dei nostri interessi economici (l’Eni è presente in Libia). Eppure dovremmo riflettere. Se davvero vogliamo “aiutarli a casa loro”, non possiamo non porci il problema, sollevato quasi dieci anni fa da Dambisa Moyo (africana trapiantata negli Stati Uniti), dell’uso dei fondi che affluiscono in Africa, troppo spesso finiti nel circuito della corruzione anziché alle popolazioni cui erano destinati (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli 2010). Soprattutto dovremmo condizionare i nostri aiuti e il nostro supporto a un minimo di garanzie sui migranti, nonché alla possibilità di aprire in territorio africano canali legali e funzionanti di ingresso in Europa (sempre che l’Europa riesca ad essere meno avara di quanto si sta rivelando oggi).

Perché i numeri e i tempi contano. Un flusso ragionevole e ordinato di ingressi in Europa può solo arricchire il Vecchio Continente, ma la finzione che tutto vada bene nell’inferno libico rischia solo di alimentare una bomba che, prima o poi, non potrà che esplodere, travolgendo tutto e tutti.