Sinistra, il DNA è cambiato

La sinistra è in crisi. Il suo partito di riferimento, il Pd, lotta per sopravvivere. Eppure, ancora 5 anni fa, alle elezioni europee del 2014, aveva toccato il 40.8% per cento, per poi precipitare al 18.8% nel giro di soli 4 anni, alle ultime elezioni politiche (4 marzo 2018).

Che cosa è successo?

Per capirlo dobbiamo cominciare a smontare un mito, ovvero che la sinistra sia in crisi un po’ dappertutto. Non è così, per lo meno dal punto di vista elettorale. Alle elezioni americane Hillary Clinton ha preso più voti di Donald Trump, e solo il sistema elettorale, basato sui “grandi elettori”, ha sottratto la vittoria alla candidata democratica. Nel Regno Unito la sinistra-sinistra di Jeremy Corbin gode di ottima salute. In Portogallo, in Grecia e in Spagna la sinistra è al potere, ora con formazioni tradizionali (Portogallo), ora con formazioni di neo-sinistra radicale (Tsipras in Grecia), ora con un compromesso fra sinistra tradizionale e neo-sinistra radicale (Sánchez in Spagna). In Germania i socialdemocratici sono in forte calo, ma il loro declino è compensato dall’ascesa dei Verdi.

Se guardiamo ai grandi paesi di cultura occidentale, una vera crisi di consenso della sinistra si osserva solo in Francia e in Italia, dove la sinistra tradizionale è stata travolta dall’affermazione dei partiti populisti di destra (il Front National di Marine Le Pen, la Lega di Salvini), di sinistra (la France Insoumise di Mélenchon), e né di destra né di sinistra (il Movimento Cinque Stelle di Grillo).

Ma torniamo all’Italia e alla crisi del Pd. In nessuna elezione politica del dopoguerra, dal 1948 al 2013, il maggiore partito della sinistra, che si chiamasse Partito comunista, Pds, Ds o Pd era mai sceso sotto il 20% (unica eccezione apparente, il 2001, in cui c’erano 2 partiti alla pari: Ds e Margherita, complessivamente oltre il 31%). Che cosa è successo, dunque?

Questa è la domanda che molti si fanno, da qualche mese a questa parte. Io però me ne sono sempre fatta un’altra, negli ultimi 20 anni, e cioè: perché non è ancora successo? Come ha potuto il maggior partito della sinistra evitare così a lungo il tracollo?

Questa domanda mi ha sempre fatto compagnia dalla fine degli anni ’90, perché fin da allora mi erano evidenti tre limiti della sinistra riformista, che mi è anche capitato di descrivere e analizzare in qualche libro (La frattura etica, 2002; Perché siamo antipatici?, 2005).

Il primo limite era l’antipatia della sua classe dirigente, ovvero quel mix di supponenza, oscurità di linguaggio, ipocrisia che si potrebbe sinteticamente descrivere come il “complesso dei migliori”. Il secondo limite era l’atteggiamento completamente acritico verso l’Europa e verso il carattere asfissiante di tante sue regole: non tanto il 3% di deficit, quanto la ipertrofia delle leggi, delle direttive e dei regolamenti, un male che negli stessi anni Giulio Tremonti denunciava lucidamente in un suo libro (Rischi fatali, 2005). Il terzo limite, forse il più grave, era la radicale trasformazione della propria base sociale, e la conseguente mutazione del partito della classe operaia in “partito radicale di massa”, secondo la definizione (e la profezia) di Augusto del Noce. Un partito attento alle esigenze dei ceti medi, per i quali l’immigrazione è innanzitutto una risorsa, e sempre più insensibile a quelle dei ceti popolari, per i quali l’immigrazione è un problema, quando non una minaccia.

Poiché questi limiti erano evidenti già vent’anni fa, la domanda vera diventa: perché solo ora?

La risposta, forse, è semplicemente che, fino al deflagrare della crisi (2008-2009), non è stato difficile fingere. O, se preferite, alla sinistra è stato facile far passare il proprio racconto, la propria narrazione della realtà: noi difendiamo i deboli, noi difendiamo le minoranze, noi stiamo con gli immigrati, noi siamo i difensori dei diritti, noi siamo le forze dell’apertura (dei commerci e delle frontiere). Quel racconto poteva reggere perché l’economia, sia pur a un ritmo modesto, cresceva ancora, la povertà era ai minimi, l’immigrazione non era fuori controllo e, last but not least, l’offerta politica era stagnante: il movimento di Grillo era appena agli albori (il “vaffa day” è del 2007), la Lega non aveva ancora compiuto la “svolta nazionale” che nel 2018 la porterà al potere.

Poi è arrivato il 2011, che ha aperto il vaso di Pandora dei mali del nostro mondo. La crisi finanziaria ha fermato l’economia, il numero dei poveri è raddoppiato, la caduta di Gheddafi ha moltiplicato le partenze dalle coste libiche. Ma, soprattutto, i governi di sinistra, tutti a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni), hanno fatto – di fronte a questi cataclismi – due mosse cruciali, che hanno definitivamente cambiato il DNA della sinistra.

La prima è stata di fare dell’accoglienza una questione morale (“noi siamo umani, i nostri avversari sono disumani”) anziché un problema politico. La seconda è stata di destinare le poche risorse disponibili (in particolare i 10 miliardi degli 80 euro) sulla propria base sociale tradizionale, fatta di lavoratori dipendenti e garantiti, anziché sui veri deboli: che non sono solo gli immigrati, ma i precari, i disoccupati, i lavoratori in nero, più in generale l’esercito dei poveri cresciuto a dismisura negli anni della crisi.

Di questi due errori una parte della classe dirigente del Pd a un certo punto si è accorta, e infatti, a fine legislatura, è arrivata la stretta sull’immigrazione del ministro Minniti, e un primo timido avvio del Rei (reddito di inclusione), una misura diversa dal reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle solo nel nome, e per la scarsità di risorse messe in campo. Ma ormai era tardi, l’elettorato aveva perso la pazienza, e del Pd non si fidava più. Per affrontare il problema degli immigrati, a molti è sembrato più credibile Salvini, per affrontare quello della povertà a molti è sembrato più affidabile Di Maio.

Non pare che, in vista delle Europee, qualcosa di sostanziale stia cambiando. La rinuncia di Minniti alla corsa per la segreteria del Pd ha tolto al maggiore partito della sinistra ogni residua possibilità di recuperare fiducia sul versante della sicurezza e del controllo dell’immigrazione. Quanto alla lotta alla povertà, è curioso che il Pd non si renda conto che la filosofia del reddito di cittadinanza, così aspramente criticata, è assai simile a quella del Rei e delle politiche attive del lavoro, propugnate per tanti anni dalla sinistra riformista ma mai messe veramente in atto, come testimonia lo stato penoso dei Centri per l’impiego.

Ma non dobbiamo stupirci troppo. Il DNA del Pd è cambiato, e non da ieri. E dalle mutazioni non si torna indietro facilmente, in biologia come in politica.




Un futuro senza lavoro?

Uno spettro si aggira sulle economie occidentali: lo spettro della scomparsa del lavoro.

Spaventati dal progresso tecnologico, dall’avanzata dell’automazione, dai successi dell’intelligenza artificiale, dalla crescita senza precedenti delle reti di comunicazione, sono sempre più numerosi gli osservatori e gli analisti che profetizzano la nascita di una società completamente diversa da quelle del passato. E se alcuni cercano di vedere il lato positivo di questi processi, immaginando un’umanità liberata, in cui l’ozio creativo prende il posto del duro lavoro, più numerosi sono quanti sottolineano il lato distruttivo, per non dire catastrofico, di questi processi. E’ anzi diventato una sorta di spietato esercizio contabile quello di calcolare quanti e quali tipi di lavoro sono destinati a scomparire nel giro di 10, 20, 30 anni, travolti dal progresso tecnico e organizzativo.

E poiché il sospetto che si sta facendo strada è che il numero di posti di lavoro distrutti non sarà, come in passato, compensato da altrettanti posti di lavoro di tipo nuovo, c’è chi comincia a domandarsi: se i posti saranno sempre di meno, e il lavoro diventerà un attributo di pochi eletti (o sfortunati), quale sarà il destino di tutti gli altri? Che cosa faranno, ma soprattutto come si manterranno, coloro che non hanno un lavoro?

E’ in questo contesto che, sempre più spesso, viene evocata la necessità di un “reddito di base”, talora qualificato anche come universale, incondizionato o di cittadinanza (nulla a che fare con quello dei Cinque stelle, che è una normalissima forma di reddito minimo: quanto ben congegnata lo vedremo solo fra 2-3 anni). Esiste addirittura un network di università e centri studi che di reddito di base si occupa da oltre trent’anni, cercando di sensibilizzare sul tema opinione pubblica e studiosi (si chiama BIEN, ossia Basic Income Earth Network). L’idea è tanto semplice quanto difficile da realizzare: fornire a tutti, ricchi e poveri, un minimo vitale permanente e incondizionato, in modo da non scoraggiare la ricerca di un lavoro (se il sussidio è per gli inoccupati, il timore di perdere il sussidio può scoraggiare la ricerca di un’occupazione, o indurre a cercare solo lavori in nero).

Come si vede, si tratta di un modo di raccontare i problemi del mercato del lavoro molto diverso dagli approcci classici. Nella tradizione socialista e socialdemocratica l’obiettivo fondamentale della politica economica è ridurre al minimo al disoccupazione, offrendo un lavoro a tutti (è il mito della “piena occupazione”). Nella tradizione liberale si dà per scontato che non tutti riescano, anche impegnandosi, a mantenersi con il proprio lavoro, e quindi si caldeggia un qualche tipo di sostegno economico per chi è rimasto indietro (imposta negativa, sussidi ai poveri). Ma né gli uni né gli altri partono dal timore che l’era del lavoro sia destinata a finire, e che quindi diventi inevitabile erogare un reddito a tutti.

Nei fautori del reddito di base, invece, la profezia di una drastica contrazione dei posti di lavoro sembra svolgere un ruolo cruciale. La cosa curiosa, tuttavia, è che l’evidenza empirica a sostegno di questa profezia è quanto mai frammentaria, aneddotica, per non dire evanescente. E’ anche possibile, naturalmente, che fra 20 o 30 anni ci troveremo a constatare la scomparsa di milioni di posti di lavoro, nonché una contrazione complessiva del tasso di occupazione. Ma nel frattempo, che cosa dicono i dati? Quali sono le tendenze in atto nelle economie avanzate o relativamente avanzate? Si può affermare, ad esempio, che dopo la lunga crisi iniziata nel 2007-2008 il tasso di occupazione è oggi più basso di quello di una decina di anni fa?

Nel caso dell’Italia la risposta è purtroppo affermativa: fra il 2007 e il 2017 (ultimo anno per cui sono disponibili dati completi), il tasso di occupazione è diminuito. E lo stesso vale per altri paesi colpiti da violente crisi finanziarie, come la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, Cipro, ma anche per paesi più solidi come Norvegia e Stati Uniti. Se però guardiamo al complesso dei paesi avanzati (appartenenti all’Oecd o all’Unione Europea) il quadro che ci si presenta è ben diverso. Su 41 paesi avanzati, sono solo 9 quelli in cui il tasso di occupazione è diminuito, e sono ben 29 (più del triplo!) i paesi in cui è aumentato (nei restanti 3 paesi il tasso è il medesimo di 10 anni fa). E fra i 29 paesi che hanno aumentato l’occupazione ben 12 appartengono all’Eurozona. Questo significa, in sintesi, che la teoria secondo cui, nelle società avanzate, sarebbe in atto una tendenza a distruggere più posti di lavoro di quanti se ne creino, è sostanzialmente incompatibile con i dati.

Di qui, forse, una lezione. Può anche darsi che, in certi paesi, ci si debba prima o poi rassegnare a garantire un reddito a un esercito di inoccupati, che altrimenti non avrebbero di che sostentarsi. Quel che non possiamo fare, tuttavia, è considerare questa scelta, che è tutta politica, come una sorta di scelta obbligata, conseguenza ineluttabile del progresso tecnico o dell’iper-modernità divoratrice di posti di lavoro. No, la realtà è che nella maggior parte dei paesi avanzati si è riusciti, a dispetto del progresso tecnico e della lunga crisi del 2007-2013, a creare più posti di lavoro di quanti se ne perdevano. Se qualche paese è rimasto indietro, è solo a sé stesso (e all’inadeguatezza della sua classe dirigente), che deve guardare.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 2 febbraio 2019



Fronte europeista, è una buona idea?

Così, pare che alle prossime elezioni europee la sinistra non sarà rappresentata, come al solito, dal Pd e dai suoi partiti satelliti. Al posto dei simboli di partito, sulla scheda elettorale troveremo un simbolo nuovo, che cercherà di rappresentare il campo delle forze progressiste e europeiste, unite dalla volontà di difendere il “progetto europeo”, e fermare l’avanzata delle forze sovraniste e illiberali che lo starebbero mettendo a repentaglio.

L’idea di una lista unica progressista, o di un “fronte repubblicano” che fermi la “deriva populista”, circola da molti mesi nel mondo della sinistra, ed ora ha ricevuto una sorta di codificazione nel manifesto che Carlo Calenda ha lanciato qualche giorno fa, raccogliendo in pochi giorni oltre 100 mila firme. Calenda è uno dei migliori politici in circolazione in Italia, e il suo manifesto è pieno di affermazioni ragionevoli e di idee interessanti, anche se – purtroppo – espresse nel consueto linguaggio legnoso dell’intellighenzia di sinistra.

Tutto bene, dunque? E’ una buona idea, questa di un fronte anti-populista che superi le divisioni del campo progressista?

Temo di no, e vorrei spiegare perché. La prima ragione di perplessità è che, a dispetto delle intenzioni, il manifesto del fronte progressista sarà percepito come un progetto conservatore: in politica, specie al giorno d’oggi, quel che conta non è quel che effettivamente si dice e si pensa, ma come quel che si dice e si pensa si deposita nel cervello di chi ascolta. Ebbene, se ci mettiamo da questa prospettiva, non ci vogliono nozioni particolarmente sofisticate di psicologia della percezione per rendersi conto che la gente non crederà, non potrà credere, al racconto del manifesto-Calenda. Il manifesto sostiene che le forze populiste rischiano di farci uscire dall’Europa e dall’euro, e che “noi”, i progressisti democratici, invece vogliamo fermamente restare in Europa, sia pure cambiandone alcune regole di funzionamento. Ma nelle menti di chi vota il messaggio suona diverso. La gente non pensa che il governo giallo-verde voglia farci uscire dall’Europa e dall’euro, e quindi,  quando sente i progressisti accalorarsi a difesa del “progetto europeo”, traduce così: i populisti-nazionalisti-sovranisti l’Europa vogliono cambiarla davvero, i progressisti invece no, a loro l’Europa va bene così com’è, o con pochi ritocchi.

Ed è sterile accanirsi sulle parole, affannarsi a specificare che anche noi, in realtà, vogliamo cambiare profondamente le cose, eccetera eccetera. Se credi che la posta in gioco, la vera linea di frattura, sia fra europeisti e sovranisti, allora hai già perso la sfida: perché l’opinione pubblica si è convinta che l’Europa così com’è non funziona per niente, e non crede che l’alternativa sia fra stare dentro e stare fuori, ma semplicemente fra chi vuole cambiare radicalmente le cose e chi si accontenta di un timido restyling. E, sull’Europa, lo scetticismo dell’opinione pubblica è perfettamente fondato. Sono troppe le scelte sbagliate del passato, sono troppe le regole che non hanno funzionato: eccesso di regolazione del mercato interno, insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui quella di un fronte europeista, che si presenta alle elezioni con una lista unitaria, mi pare un’idea tanto generosa quanto infelice. Ed è che se c’è una cosa su cui tutti gli studiosi di cose elettorali concordano, perché è un risultato condiviso di centinaia di studi indipendenti, è che in Italia le fusioni fra partiti e sigle politiche non portano più voti ma ne portano di meno: il tutto è di meno della somma delle parti. E’ successo nel 1948, quando il fronte democratico-popolare (comunisti e socialisti insieme) uscì a pezzi nello scontro con la Dc, ma si è ripetuto in innumerevoli occasioni successive, nella prima come nella seconda Repubblica: ogni volta che hanno unito le loro forze, Psi e Psdi, così come Pri e Pli, così come Ds e Margherita, hanno sempre registrato una contrazione del consenso elettorale.

Certo, si può pensare che oggi la situazione sia diversa e speciale, e che il problema dei progressisti sia di inventarsi qualcosa, un simbolo, uno slogan, un mito, per far ritornare all’ovile chi si è rifugiato nell’astensione, o ha provato a punire il Pd votando Cinque Stelle (al Sud) o Lega (nel centro-Nord). A questo, a rimotivare un elettorato deluso e frastornato, servirebbe l’immissione di un nuovo simbolo, un simbolo unificante, nell’arena politica.

La mia sensazione è che questa sia un’illusione, frutto di una radicale incomprensione di quel che è successo il 4 marzo. Il popolo di sinistra che ha votato Lega e Cinque Stelle lo ha fatto per il semplice motivo che l’offerta del Pd non copriva né la domanda di sicurezza sociale (migranti) né quella di sicurezza economica (povertà). Lo spazio elettorale della sinistra si è ridotto semplicemente per questo: a sinistra, il 4 marzo, non era dato osservare né un partito credibile sul tema dell’immigrazione irregolare, né un partito credibile sul tema della povertà. Oggi, da questo punto di vista, nulla è cambiato: il mancato accordo con i Cinque Stelle ha certificato che per il Pd la priorità è l’occupazione, non il sostegno al reddito; la fredda accoglienza della candidatura di Minniti alla segreteria del partito ha certificato che per il Pd la priorità sono i diritti dei migranti, non la sicurezza dei cittadini.

Non voglio, con questo, entrare nel merito di queste scelte, su cui ognuno ha le proprie opinioni. Quel che voglio far notare è solo questo: l’offerta politica del campo progressista è oggi drammaticamente ristretta rispetto alla varietà di domande che salgono dall’elettorato. Per cogliere questa varietà, di partiti di sinistra ne occorrerebbero almeno un paio, forse addirittura tre. Non certo una lista unitaria che, per non turbare le varie sensibilità (e i vari candidati alla segreteria del Pd), sarà inevitabilmente costretta a tenersi sulle generali, lasciando ancora una volta a Lega e Cinque Stelle il compito di offrire all’elettorato progressista più eterodosso quello che né il Pd né una lista genericamente europeista sembrano in grado di offrirgli.




Il video su Battisti, solo colpa della politica?

La gestione del caso Battisti, con tanto di video che umilia il detenuto e mette a rischio l’incolumità degli agenti che lo hanno catturato, non ha nessuna giustificazione. E’ pura spazzatura politica, un gesto che squalifica chi lo ha compiuto e avvilisce chi ancora crede in cose come lo Stato di diritto, il senso delle istituzioni, il valore della sobrietà e della misura. Aggiungo che trovo incredibile che, sui media, già si parli di benefici e sconti di pena, come se una latitanza di 37 anni non fosse già, di per sé, uno sconto di pena più che soddisfacente. Ed è altresì vero che, nonostante alcuni precedenti imbarazzanti (ricordate le foto del detenuto Enzo Tortora?), nulla di simile si era mai visto in Italia.

Detto questo, però, non riesco a non farmi una domanda: lo spettacolo che ci è stato offerto in questi giorni va messo interamente in conto alla politica, al suo imbarbarimento, alla sua degenerazione in salsa populista?

O dobbiamo registrare che, rispetto anche solo a 10 anni fa, è il nostro mondo che è completamente cambiato? O, per dirla in modo provocatorio: non sarà che la politica si limita a mostrarci, nelle sue conseguenze estreme, quel che un po’ tutti stiamo diventando?

Non so se ci avete mai fatto caso ma, da qualche tempo, nelle nostre vite si sta installando un rapporto del tutto nuovo fra l’esperienza e la sua condivisione. Fino ai primi anni del secolo scorso la maggior parte di noi faceva quel che faceva per i motivi più diversi e poi – solo poi ed eventualmente – decideva che qualcosa di quel che aveva fatto meritava di essere condiviso. Una piccola frazione della nostra esperienza poteva oggettivarsi in uno scritto, in una foto, in un video, in un racconto, il resto restava privato, in disparte, irrilevante, o semplicemente non abbastanza rilevante da avanzare la pretesa di essere diffuso, socializzato, o gridato al mondo. Oggi questo schema è capovolto: facciamo determinate esperienze per poterle condividere, o per suscitare ammirazione e invidia negli altri. E quel che non possiamo condividere, o non ci permette di ostentare noi stessi, ci appare per ciò stesso irrilevante, banale, noioso. E c’è persino chi lo teorizza: quando la povera Tiziana Cantone si suicidò per le sue foto hard fatte circolare in rete, ci fu anche chi ebbe il becco di spiegare che fare sexting (mettere in rete foto audaci di sé stessi, o dei propri rapporti sessuali) fosse “assolutamente normale”, qualcosa che poteva apparire stonato solo a retrogradi e bacchettoni incapaci di sintonizzarsi con lo spirito dei tempi.

Accade così che ognuno di noi sia non solo indotto a fare soprattutto e prima di tutto quel che potrà condividere, ma anche continuamente invaso, quasi sopraffatto, dalle esperienze altrui, per lo più via internet: foto, messaggini, mail, pubblicità, video, app, quasi sempre banali, seriali, per lo più significative solo per il mittente. Voglio dire che mettere in rete sé stessi è diventato quasi un riflesso automatico. Pensare sé stessi come autori di una sceneggiatura, nonché registi di una pièce che dovrà avere la massima audience, è diventata una sorta di seconda natura. Possiamo stupirci che i politici sentano il medesimo impulso? Possiamo illuderci che qualcosa come il decoro, il buon gusto o il senso delle istituzioni li possa frenare?

Dopo tutto la loro vita e le loro gesta sono infinitamente più rilevanti delle nostre, e la loro sete di consenso è infinitamente più insaziabile delle nostre quotidiane pulsioni. Questo certamente non li giustifica e non li assolve, ma ce li mostra più vicini a noi stessi di quanto siamo disposti ad ammettere.

Né si tratta solo del cattivo gusto, dell’invadenza, che sono impliciti in ogni eccesso di condivisione. Ci stupiamo del fatto che i politici si insultino, trattino il nemico come avversario, cerchino di sopraffare ogni interlocutore che non li asseconda. Ma forse dovremmo riflettere sul fatto che la stessa “volgarità di parola e di pensiero”, come la chiama Enrico Letta nel suo ultimo libro (Ho imparato, Il Mulino), è onnipresente: non solo negli haters, gli odiatori di professione che infestano la rete, ma anche nei media: trasmissioni radiofoniche scientemente costruite sul turpiloquio e il disprezzo, conduttori televisivi che aizzano i politici l’uno contro l’altro, dibattiti in cui c’è spazio solo per chi è capace di sopraffare l’interlocutore.

A tutto questo ci siamo abituati, al punto che non ce ne accorgiamo più, lo consideriamo naturale, fisiologico. Forse ci diverte persino. Per questo la sacrosanta indignazione di tanti commentatori per la strumentalizzazione del ritorno di Battisti da parte del governo giallo-verde è destinata a restare lettera morta. Indignati con la politica, hanno perso la capacità di vedere l’abisso in cui è caduta la vita quotidiana al tempo della condivisione. Eppure è di lì che è giocoforza partire: solo quando cose come insulti, volgarità, sexting, ostentazione, sciatteria avranno smesso di apparirci cose “normalissime”, diventeremo capaci di vedere a occhio nudo, senza editorialisti che ce lo spiegano, il degrado cha affligge la politica e le istituzioni.

 




Dopo le Europee. Come potrebbe cambiare il sistema politico italiano

Sono sempre di meno, ormai, i politici e gli osservatori che pensano (o sperano) che le tensioni fra Lega e Movimento Cinque Stelle possano condurre a una rottura prima delle elezioni Europee del prossimo maggio. Ed è logico: ormai si è capito che le scintille fra Salvini e Di Maio servono solo ad occupare la scena del circo mediatico, un gioco cui purtroppo il mondo dell’informazione, specie televisiva, ha difficoltà a non prestarsi.

La convinzione che il governo gialloverde, dopo aver felicemente superato lo scoglio della finanziaria, durerà almeno fino a maggio, si accompagna tuttavia alla convinzione opposta per il dopo-maggio: ben pochi sono disposti a scommettere che, incassati i consensi che saranno riusciti a incamerare alle Europee, non prevalga la tentazione di cambiare gioco. Vale per Salvini, cui converrebbe tornare al voto nella speranza di raddoppiare i seggi in Parlamento, ma vale forse anche per Di Maio, che potrebbe prima o poi dover constatare che l’abbraccio con la Lega gli costa troppo in termini di voti.

La vera incertezza che aleggia sulla politica italiana, su cui forse sarebbe il caso di cominciare a riflettere, è come si posizionerebbero le forze politiche nel caso di un ritorno alle urne. Qui le possibilità paiono essere solo due, diversissime fra loro.

La prima è che, dopo un secolo di conflitti fra destra e sinistra, si assista invece a una competizione fra le forze della chiusura, anti-Europa, anti-immigrati, anti-globalizzazione, e le forze dell’apertura, più o meno timidamente pro-Europa, pro-immigrati, pro-mercato. Vedremmo, in quel caso, da una parte i due partiti di governo, magari spalleggiati da Fratelli d’Italia, dall’altra Pd e Forza Italia, verosimilmente alleati con una qualche lista civica nazionale, necessaria per portare sangue elettorale nelle esauste vene dei due partiti egemoni della seconda Repubblica.

La seconda possibilità, che per parte mia ritengo leggermente più probabile, è che si assista a una rinascita in grande stile del bipolarismo destra-sinistra, anche se si tratterebbe di un bipolarismo radicalmente nuovo, in quanto trainato dalle estreme. A destra, Forza Italia dovrebbe rassegnarsi a fare la ruota di scorta della ruspa salviniana, a sinistra – a meno di un improbabile ritorno all’ovile dei voti ceduti al Movimento Cinque Stelle – il Pd si troverebbe costretto ad allearsi con il partito di Grillo, nello scomodo ruolo di puntello e moderatore delle bizze pentastellate. Dopo decenni di bipolarismo egemonizzato dalle forze moderate (Pd e Forza Italia), passeremmo a un nuovo bipolarismo, egemonizzato dalle forze estreme.

Credo che dove si andrà a parare dipenderà molto dall’esito delle elezioni europee. Un grande successo delle forze populiste e sovraniste potrebbe far prevalere il primo scenario, strutturando il conflitto politico intorno alla contrapposizione fra populisti-sovranisti e moderati-europeisti, con conseguente trasformazione del “contratto” fra Lega e Cinque Stelle in un’alleanza organica. Un successo delle forze tradizionali, invece, potrebbe riportare qualche vigore e qualche attualità alla dialettica fra destra e sinistra.

C’è però anche un altro fattore che potrebbe contribuire a far prevalere uno dei due scenari a scapito dell’altro, ed è l’evoluzione politica del Pd. Un Pd aperto all’alleanza con il Movimento Cinque Stelle renderebbe più facile una rinormalizzazione del conflitto politico, favorendo la ricompattazione del fronte di destra (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia). Un Pd ostile ai Cinque Stelle gli lascerebbe aperta un’unica strada, quella della creazione di un fronte moderato, o liberal-democratico, o riformista (a seconda di come preferiamo etichettarlo), pronto ad alleanze con liste nuove ma anche con gli ex-nemici di Forza Italia.

Queste due prospettive, secondo molti, sono il non detto del congresso del Pd, che vedrà sfidarsi Zingaretti, il più disponibile a un’alleanza con i Cinque Stelle, e il duo Martina-Richetti, che paiono invece escluderla. Forse, a meno di due mesi dalla data del voto che porterà a scegliere il nuovo segretario del partito, non sarebbe male che i candidati alla segreteria del partito scoprissero le carte. Non solo perché chi andrà a votare per un determinato candidato ha diritto di sapere quali sono le sue reali intenzioni, ma perché la strada che il Pd vorrà intraprendere non sarà priva di conseguenze sul nostro sistema politico, e come tale interessa tutti, non solo gli elettori del Pd.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 gennaio 2019