Abusi edilizi del nonno, difendo Luigi Di Maio

Del populismo mi piacciono due cose soltanto: lo sforzo di usare un linguaggio comprensibile, e il rispetto per i sentimenti della gente comune. Tutto il resto, a partire dalla politica economica e sociale, mi lascia perplesso, non saprei dire se di più o di meno di quanto mi lasciassero perplesso le gesta dei governi precedenti, che molto hanno contribuito, insieme ai nostri comportamenti quotidiani, a portare l’Italia nella palude in cui tuttora si trova.

La mia lontananza dalle idee sovraniste e populiste, tuttavia, non mi impedisce oggi di dire una cosa: il trattamento che una parte del mondo dell’informazione, e in particolare i media schierati con l’opposizione, hanno riservato a Luigi Di Maio (per la vicenda di un abuso edilizio sanato con un condono) non è degno di un paese civile. Anzi, vorrei dire di più: non è degno di un paese occidentale moderno, e meno che mai di una democrazia liberale.

Non che Di Maio sia l’unica vittima, naturalmente. E’ successo a decine di politici di essere messi alla gogna per presunti illeciti compiuti dai loro familiari. Recentemente è capitato a Maria Elena Boschi per le condotte del padre in banca Etruria, e a Matteo Renzi, anche lui per affari sospetti del padre. Ma, a mia memoria, mai era successo che un politico venisse crocefisso per un illecito (in materia edilizia) compiuto da suo nonno mezzo secolo prima, sanato da suo padre prima che il malcapitato uomo politico di oggi fosse venuto al mondo. Un quotidiano arriva ad accusare Di Maio di non aver tenuto gli occhi ben aperti quando, 12 anni fa, il padre ricevette comunicazione che la domanda di condono – da lui inoltrata venti anni prima – era stata finalmente accolta.

Eppure, più che aberrante, questa vicenda è molto istruttiva. Essa ci permette, infatti, di accorgerci di quanto radicalmente la nostra società e, dentro di essa, il mondo della comunicazione, si siano allontanati dai principi liberali che per tanti decenni sono stati alla base delle nostre istituzioni.

Ce ne siamo allontanati, tanto per cominciare, perché i difensori di quei principi sono i primi a calpestarli. Fa una certa impressione constatare che siano proprio i paladini delle istituzioni liberali, giustamente preoccupati di ogni indebolimento dello stato di diritto, a dimenticare che – nelle società moderne – la responsabilità è personale, e che le (eventuali) colpe dei padri non possono essere imputate ai figli: il superamento della legge del genos, per cui la colpa si trasmette lungo le generazioni, e la vendetta può abbattersi sui discendenti, è un caposaldo della nostra civiltà, uno dei punti cruciali che la separa dalle tante barbarie del passato.

Ma fa ancora più impressione il meccanismo di propagazione mediatica del fango. Quando una notizia, più o meno vera, più o meno completa, più o meno infamante, viene messa in circolo, essa entra istantaneamente nel tritacarne dei social, senza mediazioni, senza contrappesi, senza alcuna reale possibilità di autodifesa dei diretti interessati. Anzi, la tentata autodifesa non fa che peggiorare la situazione, favorendo la propagazione del fango, moltiplicando le voci che pretendono, senza alcuna cognizione di causa, di esibire i propri istinti e i propri impulsi.

Ed è qui che le cose diventano interessanti, e istruttive per chi volesse non chiudere gli occhi. La ragione per cui le figure pubbliche possono sì raccogliere rapidamente un enorme consenso, ma anche risultare improvvisamente vulnerabilissime, è precisamente che sono saltati tutti gli argini che, ancora pochi decenni fa, mettevano un limite all’arbitrio comunicativo: la realtà è che oggi chiunque può dire quel che desidera senza renderne conto a nessuno, i media non hanno alcuno scrupolo nel nascondere le notizie, nell’inventarle, nel deformarle, tecnici ed esperti sono guardati con sospetto, nessuno è considerato al di sopra delle parti, i fatti sono trattati come opinioni, eventi e comportamenti sono sistematicamente giudicati con due pesi e due misure, nessuno è chiamato a rendere conto delle affermazioni che fa, o a scusarsi per le bugie che dice. Insomma: se “uno vale uno”, e tutti siamo felicemente collegati via internet, allora tutte le opinioni sono sullo stesso piano, e quel che è fake ha esattamente gli stessi diritti di quel che non lo è.

In questo senso la vicenda Di Maio è illuminante, ma lo è per tutti. Si può accusare una parte della stampa di faziosità, o addirittura di aver montato un caso per colpire un avversario politico (non è certo il caso della Raggi, che non è partito dagli organi di informazione). Ma ci si dovrebbe rendere conto che il meccanismo è il medesimo che, una decina di giorni fa, aveva condotto la stessa parte politica, da sempre fustigatrice del cattivo giornalismo, ad ospitare sul proprio sito un video completamente manipolato, in cui a un’autorità europea (nella persona di Jeroen Dijsselbloem) venivano messe in bocca dichiarazioni gravissime (un invito ai mercati finanziari ad attaccare l’Italia) ma completamente inventate. E ancora prima aveva condotto a cavalcare le vicende di Renzi e Boschi con la stessa spregiudicatezza con cui oggi gli avversari dei Cinque Stelle cavalcano le malefatte edilizie del nonno di Di Maio.

Ecco, credo che questa vicenda innanzitutto questo ci insegni: allontanarsi troppo dalle istituzioni liberali, con i loro filtri, le loro mediazioni, i loro meccanismi di tutela della verità e della reputazione, può apparire liberatorio, ma è molto pericoloso. Perché un mondo in cui ciò che è fake e irragionevole conta tanto quanto ciò che è vero e ben fondato, può andare in qualsiasi direzione. Anche le più impreviste e inquietanti.

Articolo pubblicato su Il Messaggero di martedì 13 novembre 2018



Il non detto delle buone cause

Il caso della giovane volontaria rapita e sequestrata in Kenya riapre antiche ferite nell’opinione pubblica italiana. Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima. Chi ha buona memoria, o non è troppo giovane, ricorderà sicuramente il caso delle “due Simone”, che tante polemiche suscitò 14 anni fa (estate 2004), regnante Berlusconi e in piena guerra in Iraq.

Ma perché tanto si discute e tanto ci si divide quando accadono drammi di questo tipo? Perché non ci limitiamo a sperare che qualcuno, sia esso il nostro governo o quello del paese dove è avvenuto il rapimento, riesca a riportare a casa la persona che è stata rapita?

La ragione di fondo è che, di fronte ai sequestri di volontari impegnati in una causa umanitaria, scattano due reazioni opposte, talora entro la medesima persona. La prima è un sentimento di ammirazione per chi spende i suoi anni migliori per aiutare soggetti fragili, siano essi bambini, donne, malati, poveri. La seconda, più che una reazione, è una sorta di stato di perplessità e di dubbio, che si manifesta attraverso un groviglio di domande.

Queste perplessità, più o meno confusamente, poggiano su vari ordini di pensieri. Ma c’è un elemento comune che li attraversa tutti, ed è l’idea che, quando si parla di questo genere di scelte di vita, ci sia un non detto, un pezzo di verità che resta troppo spesso in ombra.

Un tipico non detto sono i costi delle scelte più imprudenti. Costi che per i paesi che, come l’Italia, sono usi pagare riscatti, sono di molti tipi, non solo economici. Le operazioni di liberazione degli ostaggi possono costare la vita ai liberatori, come accadde nel 2004, quando per liberare la giornalista Giuliana Sgrena, in Iraq per un reportage di guerra, perse la vita il nostro agente del SISMI Nicola Calipari. Il denaro del riscatto può essere usato per organizzare nuove operazioni terroristiche, che faranno altri morti innocenti. E proprio il buon esito della transazione può incentivare nuovi sequestri, tanto più probabili verso i cittadini dei paesi inclini alla trattativa (è questo il motivo per cui i governi americano e inglese non trattano). Per non parlare di quel che gli economisti chiamano il costo opportunità di ogni nostra scelta: se metto le mie energie in una cosa, le sottraggo a un’altra. Osservazione che può sembrare sottile o capziosa, ma cessa di esserlo quando ci si chiede perché, con tutti i drammi che abbiamo in patria (dalla povertà alla non autosufficienza), così pochi giovani si sentano attratti dall’affrontarli, e preferiscano esercitare le loro virtù in teatri lontani e spesso rischiosi.

E qui veniamo al non detto più insidioso, quello che riguarda i benefici dell’altruismo. Ciò che, a una parte dell’opinione pubblica non torna, è la retorica del racconto delle gesta umanitarie, per lo più descritte nel registro dell’altruismo, dell’abnegazione, del sacrificio di sé, e così raramente colte nel registro sociologicamente più plausibile, ovvero come strategie di autorealizzazione e di costruzione dell’identità (un tratto, sia detto per inciso, che spiega la sottovalutazione dei rischi: è proprio perché così cruciali nella costruzione del sé, che le imprese in teatri pericolosi non suscitano il timore che meriterebbero).

Ecco perché siamo combattuti. Da un lato l’ammirazione per una gioventù che, come ha scritto ieri Massimo Gramellini, non è fatta né di “lamentosi” vittimisti né di indolenti “sdraiati”.  Dall’altro la sensazione che, alla “meglio gioventù” di oggi, un po’ più di lucidità e consapevolezza non farebbero male.

E’ diventato normale, in tutte le società occidentali, che la stella polare di ognuno, giovane e meno giovane, sia la felicità individuale, la cosiddetta autorealizzazione. Una meta per lo più perseguita con determinazione, costi quel che costi, e che crea non pochi problemi nuovi, anche di natura diversissima fra loro: dalla rottura precoce delle unioni sentimentali alla mancanza di elettricisti (e di decine di altre categorie di lavoratori).

Che cosa c’entrano le separazioni con gli elettricisti? C’entrano eccome, perché alla base di entrambe c’è l’enorme, incontenibile, indomito bisogno di autorealizzazione che pervade le società moderne, e conduce a rompere un legame appena se ne presenta uno più promettente, ma anche a rifiutare una carriera solida ma prosaica (elettricista) appena se ne intravede una più incerta ma gratificante (blogger, conduttore televisivo, cantante). Con enormi conseguenze, individuali e collettive: la moltiplicazione delle diadi madre-figlio (più raramente padre-figlio), con uno dei genitori volato a più lieti lidi, la crescente difficoltà delle imprese di trovare le maestranze che servono.

Ecco perché dicevo che, forse, un po’ più di consapevolezza non guasterebbe. Chi usa il suo tempo a favore degli altri merita innanzitutto ammirazione. Ma nel vasto mondo di coloro che perseguono buone cause, merita una speciale ammirazione chi è impegnato in cause umili, che non dànno né visibilità, né speciali gratificazioni. E, soprattutto, non mettono a repentaglio la vita altrui, come accade ogni volta in cui la causa che abbiamo scelto può farci trovare in situazioni drammatiche, da cui solo gli altri ci potranno tirare fuori. Non di rado a prezzo della loro vita, come la storia di Nicola Calipari ci ricorda.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 23 novembre 2018




La crisi è un missile a 3 stadi

Ha suscitato una certa attenzione, anche a livello nazionale, la marcia sì-Tav di sabato scorso a Torino, la mia città. Molti hanno visto in essa i primi sintomi di un possibile indebolimento del consenso al Governo, peraltro segnalato anche da alcuni recenti sondaggi. L’opposizione, finora inerte, comincia a nutrire qualche timida speranza di rimonta.

Dobbiamo dare credito a questi segnali?

Per certi versi sì. E’ da qualche settimana, infatti, e precisamente dal giorno della denuncia in tv, da parte di Di Maio, della “manina” che avrebbe manipolato la manovra inserendo proditoriamente un condono fiscale troppo indulgente, che Salvini e Di Maio non sembrano più quelli di prima. Non passa giorno senza un battibecco, per lo più indiretto, via internet e via social media. Reddito di cittadinanza, condono fiscale, condono edilizio, decreto sicurezza, riforma della prescrizione, grandi opere, e ora persino gli inceneritori e la gestione dei rifiuti in Campania, offrono continue occasioni di punzecchiamento reciproco. Sembra quasi che, se non vi fosse l’odiata Bruxelles contro cui dirigere quotidianamente i propri strali, a Lega e Cinque Stelle resterebbero ben pochi motivi per restare insieme (il che, detto per inciso, forse spiega le rigidità dell’esecutivo sulla manovra: lo scontro con la cattiva Europa è l’unico vero cemento ideologico dei due partiti che ci governano).

Per altri versi però no, l’idea che il governo sia alla vigilia di una crisi non mi convince, o meglio non mi convince ancora. Quel che è interessante, infatti, e meriterebbe una spiegazione, è la circostanza per cui, in questo momento, nell’opinione pubblica paiono convivere due maggioranze di segno contrario, di cui i sondaggi tracciano puntualmente il profilo.

Da una parte c’è la maggioranza (circa il 60%) costituita da quanti approvano l’azione di governo e, in caso di elezioni, voterebbero Lega o Cinque Stelle. Ma dall’altra c’è anche una seconda maggioranza, costituita da una pluralità di maggioranze concentriche: la maggioranza dei contrari al reddito di cittadinanza, la maggioranza dei favorevoli alla Tav e alle grandi opere, la maggioranza di coloro che temono (e prevedono) tasse in aumento. Per non parlare della maggioranza più importante, quella di coloro che vogliono restare nell’euro (circa il 70%).

Strano: sulle cose importanti la maggioranza degli italiani non mostra molta fiducia nelle politiche del governo, ma poi – venuti al dunque – paiono ancora intenzionati a votare Lega e Cinque Stelle. Come mai?

Io penso che le ragioni fondamentali siano due. La prima è che, per votare altro, bisognerebbe che questo “altro” battesse un colpo. Pd e Forza Italia non lo stanno facendo: vorrebbero, ma non ne sono capaci. Se nascerà un’alternativa a questo governo, è più facile cha arrivi da fuori che da dentro il sistema politico attuale.

C’è anche una seconda ragione, però, per la quale il consenso al governo tutto sommato regge, a dispetto delle varie maggioranze contrarie sulle cose che contano. La ragione è che la recessione non è ancora arrivata (verosimilmente sarà riconoscibile la primavera prossima) e la manovra è un congegno a tempo, una sorta di missile a tre stadi.

Il primo stadio è già partito, e ha colpito la ricchezza finanziaria degli italiani, che hanno subito perdite virtuali per oltre 175 miliardi dalla data del voto, e per 85 dalla data di insediamento del governo (per i dettagli vedi: www.fondazionehume.it). Queste perdite hanno colpito, per ora, quasi esclusivamente le banche e i ceti medio-alti, che detengono ricchezza finanziaria sensibile (azioni, obbligazioni, titoli di Stato, fondi comuni). Non si tratta certo di quattro gatti, ma nemmeno di una vasta maggioranza (la maggior parte delle famiglie detiene ricchezza sotto forma di immobili e depositi, due asset assai poco colpiti dall’aumento dello spread e dalla crisi della borsa). Questo primo stadio del missile, a occhio e croce, dovrebbe aver raggiunto 1 famiglia su 5.

Il secondo stadio si farà sentire più avanti, quando comincerà a mancare il credito alle imprese e alle famiglie, con conseguenti riduzioni del fatturato e della spesa, dai mutui immobiliari ai consumi. Più o meno succederà a metà 2019, intorno alle elezioni europee. Subito dopo, ovvero verso la fine dell’anno prossimo, arriverà il terzo stadio, quello delle riduzioni dell’occupazione, un esito difficilmente evitabile se lo spread resterà ai livelli attuali, e praticamente certo se lo spread dovesse salire ancora, trascinando nel baratro le banche.

Ecco perché, nonostante tutto, il governo è ancora popolare. Chi desidera vederlo vacillare, farà bene ad attendere che la manovra dispieghi i suoi effetti, e che nasca una vera opposizione. Due eventi di cui solo il secondo è auspicabile, almeno per chi non è iscritto al “partito del popcorn”, che cinicamente attende che sia il naufragio dell’Italia a trascinare con sé il timoniere.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 17 novembre 2018



Piazza e governo. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, la manifestazione a Torino per la tav, e quindi contro il M5s, è stata un successo superiore alle aspettative. Come la interpreta?

Superiore alle aspettative? Forse sì, ma si potrebbe capovolgere il giudizio: con una maggiore organizzazione e più tempo davanti si potevano portare ancora più persone in piazza. Io penso che se la Tav non parte, e il Governo continua a non fare nulla per il Nord (o addirittura a disfare quel che aveva fatto l’esecutivo precedente), fra un paio di mesi di gente in piazza ne vedremo molta di più. 

I ceti produttivi, soprattutto al nord, iniziano a ribellarsi al governo? 

Certo, quel che è stupefacente è che abbiano messo così tanto tempo ad accorgersi che per il governo gialloverde i ceti produttivi vengono dopo quelli improduttivi (pensionati e inoccupati).

Beppe Grillo dice che sono tornati “i borghesucci più aggressivi e sempre più benpensanti”, accreditando così l’idea che il popolo è con loro, mentre l’élite borghese è nemica del governo. La convince questa tesi del comico?

Come sociologo la trovo imbarazzante (o forse semplicemente degna di un comico) nella sua completa incapacità di leggere la realtà. La protesta di Torino non è né solo borghese né solo popolare, perché è una protesta interclassista, a differenza della “marcia dei 40 mila” del 1980, che era fondamentalmente di ceto medio e anti-operaia. Quel che unisce oggi non è una condizione sociale specifica, ma è il rifiuto dell’immobilismo di fronte al declino che minaccia i ceti produttivi, specie nel Nord-Ovest.

Lei con la Fondazione Hume ha calcolato il costo del governo M5s-Lega per l’Italia. Finora è enorme, eppure il governo sembra godere ancora di buoni sondaggi di popolarità.

Abbiamo finito giusto pochi minuti fa di completare il calcolo delle perdite virtuali del sistema Italia nell’ultima settimana, che sono risultate pari a circa 12 miliardi, che aggiunte alle perdite dei mesi scorsi fanno un totale di 175 miliardi dalla data del voto, e di 114 miliardi dalla nascita del governo.

Pensa che la manovra con i suoi effetti pratici possa essere l’inizio di un’inversione di tendenza? La fine della luna di miele con gli italiani?

Sì, lo penso, anche se non posso non aggiungere che la percezione dei danni avverrà con tempi diversi a seconda dei ceti sociali. I primi colpiti, in ordine di tempo, sono i ceti medi detentori di ricchezza finanziaria sensibile, che hanno già subito perdite virtuali per 70 miliardi (136 dalla data delle elezioni). Poi, dopo le elezioni Europee, toccherà a imprenditori, artigiani, commercianti, su cui più peserà la restrizione del credito bancario. Poi, fra circa un anno, sarà il turno dei lavoratori dipendenti, a causa della contrazione dell’occupazione. Infine, nel lungo periodo, le vittime saranno i giovani, cui toccherà pagare i debiti addizionali che lo Stato contrae oggi. Per capire come evolverà il consenso, dobbiamo ricordarcelo: la manovra è un missile a 4 stadi.

Il reddito di cittadinanza sarà un ulteriore enorme trasferimento di risorse dal nord al sud, dove si concentra la maggior parte di potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza. Che effetto avrà secondo lei?

Molto dipende da fattori tecnico-organizzativi. Se riusciranno a farlo partire ordinatamente ci sarà un aumento di consenso per i Cinque Stelle, se invece sarà un caos, e gli abusi saranno numerosi e pubblicamente denunciati, sarà un boomerang per la Lega di Salvini.

Non la sorprende che sia proprio la Lega ad avallare un sussidio pubblico del genere, dopo aver denunciato per anni il “sacco del Nord”, per riprendere il titolo di un suo libro?

Sì mi sorprende, ma le dico di più: proprio non riesco a capire Salvini. Non perché ha lasciato passare il reddito di cittadinanza, ma perché non ha preteso in cambio la flat tax.

L’attacco violento alla stampa dato da Di Maio e Di Battista come lo giudica?

Lo trovo aberrante nella forma, del tutto fuori luogo sul caso Raggi, ma non del tutto infondato parlando in generale.

Quanto durerà questo governo?

Dipende soprattutto da due fattori: la crescita dell’economia e la nascita di nuove forze politiche. Se l’economia non dovesse ripartire, e scendesse in campo un nuovo imprenditore politico, l’attuale governo difficilmente potrebbe sopravvivere.

Lei è convinto che cadrà per colpe proprie, non per meriti delle opposizioni, che in effetti sembrano molto deboli?

I governi non cadono da sé: se questo governo cadrà, sarà per perché nasce un’opposizione, o di piazza (come a Torino) o politica (nuovo partito).

Alle Europee ci sarà uno scontro tra fronte populista-euroscettico, e moderati europeisti. C’è un vento populista che soffia in tutta Europa, o quella italiana è una anomalia?

No, il vento c’è dappertutto, ma non soffia con la stessa forza a tutte le latitudine.

Intervista a cura di Paolo Bracalini per Il Giornale, pubblicata il 13 novembre 2018



L’Italia sta entrando in recessione?

Dopo cinque mesi di governo, per la prima volta si ha la sensazione che qualcosa stia cambiando, sia nei rapporti interni al Governo, sia in quelli con l’elettorato.

Dentro il Governo decreto sicurezza, disegno di legge anticorruzione, condono fiscale, grandi opere, stanno suscitando i primi dissensi veri. Visto dall’esterno, il clima fra gli alleati non sembra armonioso come nei giorni degli sbarchi o in quelli della crociata anti-Bruxelles.

Ma è sul versante dell’elettorato che le cose mi sembrano più in movimento, forse anche perché sono torinese e tocco con mano i primi segni di delusione, che nella mia città sono strettamente legati a due clamorosi no della sindaca Appendino: no alle olimpiadi invernali, che se verranno assegnate all’Italia si terranno a Milano e Cortina; no alla Tav, che se fermata costringerà molte imprese a chiudere o a licenziare. Due no che, almeno qui, paiono indebolire il consenso ai Cinque Stelle sia a livello cittadino, sia a livello nazionale. Qualcuno comincia addirittura a immaginare una nuova “marcia dei 40 mila”, questa volta promossa da un fronte che potrebbe unire imprenditori, sindacati, forze politiche di destra e di sinistra.

Si sarebbe tentati di pensare che il cambio di umori sia legato innanzitutto all’azione dell’esecutivo, assai popolare quando attacca i migranti e l’Europa, assai meno convincente quando tenta di mettere in atto il “contratto di governo”. Credo ci sia del vero in questa impressione, specie per i ceti produttivi, preoccupati del blocco o rallentamento delle grandi opere, ma anche della modestia degli sgravi fiscali alle imprese. Poco per volta, ci si rende conto che, complessivamente, le tasse non diminuiranno affatto, perché gli sgravi sull’Ires e l’Iva sulle piccole imprese (circa 2 miliardi nel 2019) sono più che compensati da nuove tasse e dal venir meno di altre misure di sostegno alle imprese, come l’Ace (che viene soppressa) o l’Iri (che non entra in vigore).

E tuttavia io sospetto che un certo raffreddamento del rapporto con l’elettorato possa avere anche un’altra origine, ben più insidiosa. Forse quello di cui imprenditori, artigiani, commercianti, lavoratori dipendenti cominciano ad accorgersi è che è il ciclo economico stesso a volgere al peggio. Non c’è solo la crescente consapevolezza dei danni prodotti dallo spread a 300 punti base, non c’è solo la preoccupazione per il peggioramento dei rapporti con l’Europa, o addirittura il timore di un’uscita dall’euro. Da qualche giorno, a queste preoccupazioni se ne stanno aggiungendo di assai più concrete e dirette. I dati di settembre sull’export sono pessimi: l’avanzo della bilancia commerciale si è drasticamente ridotto, sia rispetto a luglio sia rispetto a settembre di un anno fa. L’occupazione è in calo, e lo è proprio nella componente che il decreto dignità ambiva a rafforzare, quella dei posti a tempo indeterminato. Ma soprattutto è fermo il Pil, ovvero l’indicatore che tutti gli altri riassume: non succedeva dal 2014, ossia dall’anno di uscita dalla crisi. Perché questa impasse? Perché questi segnali negativi dal versante dell’economia?

Mi piacerebbe avere le certezze di Brunetta, secondo cui la crescita della disoccupazione è “il primo effetto disastroso del decreto dignità”. O quelle di Di Maio, secondo cui, tutto al contrario, il calo dell’occupazione è “l’ultimo colpo di coda del Jobs Act”. E ancora più mi pacerebbe avere quelle del presidente di Confindustria Boccia, secondo cui “se l’economia non cresce è colpa esclusiva delle scelte economiche di questo governo”.

Ma la verità è che, con i dati disponibili, è tecnicamente impossibile stabilire in che misura questi andamenti negativi siano da imputare all’azione del precedente governo, a quella dell’esecutivo attuale, o al rallentamento dell’economia europea, chiaramente avvertibile dal terzo trimestre di quest’anno. Personalmente, ritengo più verosimile che quello cui stiamo assistendo sia il solito film: l’economia italiana si muove più o meno in sincronia con quella degli altri paesi europei, ma a passo più lento, per cui quando “loro” vanno forte noi andiamo piano, e quando (come oggi) loro vanno piano noi stiamo fermi.

Quel che invece mi sento di dire è che è molto pericoloso, per chi governa, mandare all’opinione pubblica messaggi di onnipotenza, per cui l’Italia sarebbe in grado di ignorare le raccomandazioni dell’Europa, i segnali dei mercati, le previsioni dei centri studi indipendenti. Perché a forza di dire che possiamo fare di testa nostra, che tutto dipende da noi stessi, e che la manovra ci farà crescere il doppio del previsto, se poi le cose si mettono storte, e le certezze evaporano sotto i colpi della realtà, si rischia di pagare un prezzo molto alto in termini di consenso.

Vorrei ricordare che, tecnicamente, un paese è considerato in recessione se il suo Pil diminuisce per due trimestri consecutivi. E se al Pil piatto del terzo trimestre 2018 dovessero seguire due trimestri di Pil calante, l’Italia potrebbe venirsi a trovare ufficialmente in recessione già a fine aprile prossimo, giusto un mese prima delle elezioni europee. Se questo dovesse accadere, presumibilmente dipenderebbe poco dalle scelte di questo governo e molto dall’evoluzione della congiuntura europea. Ma difficilmente l’opinione pubblica sarebbe di questo avviso. E’ una questione di logica: se oggi ci vien detto che possiamo fare quel che vogliamo, contro tutto e contro tutti, quel che potrà accadere domani sarà considerato una conseguenza delle nostre azioni, non del “destino cinico e baro”.