Automazione e perdita di controllo

Ha suscitato una viva impressione il disastro aereo del Boeing 737 dell’aviazione etiope, che è costato la vita a 157 persone. Impressione, certo, perché un disastro aereo fa sempre impressione. Ma impressione anche per altri motivi. In Europa occidentale non siamo più abituati ai disastri aerei (l’ultimo risale a 11 anni fa, in Spagna). La compagnia produttrice dell’aereo, l’americana Boeing, è il più grande produttore di aerei civili del mondo. E poi, soprattutto, le cause presunte del disastro: la ipotesi più accreditata è che il disastro, in questo caso come in un altro di pochi mesi fa in Indonesia, sia stato provocato da un difetto di un sottosistema di controllo automatico (software) della stabilità e correttezza dell’assetto del velivolo, che sarebbe entrato in conflitto con il sistema di guida manuale, ovvero con i tentativi del pilota (essere umano) di correggere gli ordini del “software”.
Sapremo, forse, come sono andate le cose, solo quando i tecnici avranno recuperato e analizzato i dati della scatola nera, nonché raccolto tutte le altre informazioni necessarie per tentare una ricostruzione attendibile di quel che è successo. Fin da ora, però, c’è una cosa che possiamo registrare: l’ipotesi di un disastro dovuto a una cattiva interazione fra operatore umano e software è considerata verosimile. Anche se si scoprisse che la causa è stata tutt’altra (la meno accreditata: un attentato) resterebbe il fatto che le cose potrebbero essere andate così, e comunque quasi sicuramente sono andate più o meno così in un precedente disastro, sempre con un Boeing 737, avvenuto pochi mesi fa in Indonesia (in quel caso con 189 vittime).
Di fronte a questa eventualità, e cioè che sia stata una cattiva interazione fra operatore umano e procedure automatiche a causare il disastro, possiamo naturalmente liquidare la questione (qualcuno lo ha già fatto) notando che sono molto più numerosi i casi in cui la tecnologia evita i disastri che quelli in cui li provoca. Possiamo anche spingerci ad accusare di luddismo, o di avversione irrazionale al progresso, quanti segnalano i rischi talora connessi all’interazione uomo-macchina. Ma sarebbe saggio?
A mio parere no. Perché se è vero che ci sono innumerevoli situazioni in cui la cooperazione fra operatori umani e supporti tecnologici più o meno automatici funziona perfettamente, è altrettanto vero che ci sono ambiti nei quali le cose sono assai più problematiche.
Alcuni di tali ambiti sono apparentemente innocenti. Se lascio libero il correttore automatico di infierire sull’articolo che sto scrivendo, posso star sicuro che la parola Pasolini verrà sostituita con ‘pisolini’, e hackeraggio con ‘shakeraggio’. Se messaggio distrattamente con il telefonino, dovrò vigilare perché la mia firma (ricolfi) non diventi ‘rivolgi’.
Ma prendete un caso più serio. Se programmo in un certo linguaggio, e uso un editor amichevole (cioè rivolto a un utente ignorante), non è infrequente che il programma mi suggerisca, e talora mi imponga, che cosa scrivere dopo una certa istruzione. O mi avverta continuamente che non ho completato una espressione, o che ho commesso un errore di sintassi. Questi interventi sono quasi sempre fastidiosi, e non di rado dannosi (perché devi perdere tempo a scovare dove il software ha messo le sue parole al posto delle tue). Ma soprattutto sono rischiosi, perché attenuano la nostra vigilanza e le nostre capacità di attenzione: a forza di essere assistiti da un programma, diventiamo meno bravi a scrivere programmi complessi, che richiedono piena padronanza di una sequenza complicata di passaggi.
Andiamo oltre. Se apri il computer può capitare che il sistema operativo ti obblighi a interagire con una nuova risorsa (per esempio un assistente vocale), che tu non hai richiesto, né hai la minima intenzione di usare. Per non parlare di una qualsiasi, normalissima, visita a un sito internet. Prima di poter fare, finalmente, quello per cui ti sei recato colà, ecco una serie di perentorie richieste di interazione: approvi le nostre politiche sulla privacy? ci autorizzi a usare cookies, cioè a schedarti e pedinarti (naturalmente “per migliorare il servizio”)? vuoi accedere a quell’informazione (se sì devi registrarti)? ti piace quel che hai visto? perché non lasci un commento?
Fin qui, direte, è solo interazione molesta. Niente a che fare con il dramma dell’aereo precipitato. Può darsi, ma non ne sarei sicuro: in entrambi i casi, pur nell’enorme differenza fra una immane tragedia e uno sciame di seccature, c’è una sostanziale perdita di controllo dell’operatore umano, che può incontrare difficoltà ad affrancarsi dalla tutela del software, o può non esserne capace, o semplicemente può trovarsi nell’impossibilità di farlo perché il software non lo consente. Una perdita di controllo che può diventare insopportabile quando, a essere obbligati a interagire con il software (e spesso solo con il software), sono i disperati cittadini di fronte ai mostri burocratici che governano le reti elettriche, il gas, la telefonia, la previdenza, tutti enti divenuti ormai inaccessibili agli esseri umani, costretti a interagire a distanza, inviando mail cui, di norma, risponderà automaticamente un apposito software. Né oso immaginare che cosa potrà succedere quando, con Internet of things e le reti 5G, tutti saremo collegati con tutto, con conseguente moltiplicazione dei rischi e delle vulnerabilità, dai furti informatici agli hackeraggi ai black-out.
Ma dove la cooperazione fra software ed esseri umani sta assumendo i tratti più inquietanti è, probabilmente, nei due pilastri dello Stato sociale, ossia la sanità e l’istruzione. Qui proprio la disponibilità di supporti più o meno intelligenti, di dispositivi più o meno autonomi, spesso rischia di prosciugare le capacità di chi con essi deve interagire e cooperare. Accade così che strumenti nati per potenziare le prestazioni di operatori umani, in un primo momento migliorino il servizio, perché i rispettivi contributi si sommano, ma poi lo peggiorino, perché i contributi si sottraggono: l’operatore umano rinuncia a sapere quel che presume possa sapere al posto suo il software cui lui si affida.
Non sarebbe grave, se si trattasse solo di taxisti che, a navigatore spento, non ti sanno portare da nessuna parte, o di automobilisti che non sono in grado di cambiare una ruota dell’auto perché non c’è campo, e quindi non possono chiedere a Google come si fa (così in The mule, ultimo film di Clint Eastwood). Ma il problema si fa serio quando un professore non è in grado di tenere due ore di lezione senza una montagna di slide. O quando un medico non è in grado di fare una visita clinica, o di formulare una diagnosi senza una caterva di esami strumentali.
In questi casi il mito dell’interazione uomo-macchina perde un po’ del suo smalto, perché rivela quel che essa in realtà è: nient’altro che un Giano bifronte, come la maggior parte delle conquiste dell’umanità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 17 marzo 2019




In attesa di nuovi leader. Intervista a Luca Ricolfi

L’idea dell’accoglienza, evocata dal Papa, è un’idea molto cristiana ma non è di sinistra. Il giorno dopo sentire risuonare queste parole da un sociologo di sinistra come lei può impressionare. Può spiegare meglio che cosa intende?

Il papa e l’ONU possono permettersi il lusso di rivolgersi all’umanità intera, come se vivessimo sotto un unico super-regime mondiale, più o meno orwelliano. Invece i governanti, finché ci sono gli Stati nazionali, hanno il dovere di difendere i propri cittadini, da cui sono stati eletti. Se poi sono di sinistra hanno anche il dovere di occuparsi degli ultimi, ovvero operai, disoccupati, precari, esclusi, svantaggiati, eccetera. Se non lo fanno, e tendono a sostituirsi al Papa e all’ONU in nome del dovere dell’accoglienza di cittadini provenienti da altri Stati, vengono puniti dai loro elettori. Il governo gialloverde non è una meteora piombata sulla politica italiana dal cielo, ma la logica conseguenza della rinuncia dell’establishment progressista ad occuparsi degli ultimi.

Ministri fuori dai ministeri, politici fuori dalle Camere e presentissimi sui social network e in tv. È una degenerazione senza via di uscita o un mutamento dell’idea di rappresentanza?

Come mutamento dell’idea di rappresentanza mi pare poco riuscito, almeno nel caso dei Cinque Stelle: il 98% dei votanti per i Cinque Stelle non è iscritto alla piattaforma Rousseau.

E chi ci governa davvero dal momento che chi dovrebbe farlo è impegnato a comunicare ciò che non ha più il tempo di fare?

In realtà il tempo per il “fare” lo trovano. Solo che è un fare demoralizzante: nomine, spartizioni, lottizzazioni, regole cucite su misura di lobby varie (taxisti, per esempio) e di segmenti elettorali più o meno di nicchia. Tutto per acchiappare consenso, non certo per affrontare i problemi del paese…

È trascorso un anno dal 4 marzo 2018, il voto che anche a suo dire ha modificato e anzi ‘sconquassato’ le modalità della lotta politica. Sì è solo imbarbarita o è una mutazione genetica più profonda? E si può tornare indietro?

La mutazione riguarda la società italiana, prima ancora della politica. Quindi suppongo che non si possa tornare indietro. A meno che per ‘tornare indietro’ si intenda un ritorno della sinistra al governo, evento invece perfettamente possibile.

La ricchezza del Paese in quest’anno è sensibilmente diminuita. Gli ultimi dati parlano però di un bilancio degli operatori finanziari tornato positivo. Vuol dire che si allarga la forbice tra chi perde e chi guadagna? O si può intravedere qualche segnale di ottimismo?

Contrariamente a quanto dicono le opposizioni, non è vero che – sul piano economico – tutto va male da quando c’è il governo Conte: va male quasi tutto, non tutto. Fra le cose che non vanno male c’è l’occupazione (che è stabile da qualche trimestre) e la ricchezza finanziaria, che è minore di com’era il 4 marzo dell’anno scorso, ma maggiore (per un ammontare di 21 miliardi) di com’era a fine maggio, quando si è insediato il governo giallo-verde.

La cosa interessante è che il colpo più micidiale alla ricchezza finanziaria del sistema-Italia non l’ha dato la polemica sull’Europa (quelle perdite virtuali sono già state riassorbite) ma il trimestre di incertezza nella formazione del governo, culminato con l’azzardo Cottarelli (per i dettagli: fondazionehume.it).

L’assistenzialismo del reddito di cittadinanza, è una delle sue tesi più note, sta creando cittadini assistiti più ricchi dei lavoratori cosiddetti atipici o forse sarebbe meglio dire sottopagati. Teme che questa contraddizione deflagri in uno scontro sociale?

Più che temerlo, me lo auguro, naturalmente a condizione che il conflitto resti pacifico. Chi come me è contro i privilegi e le diseguaglianze ingiustificate non può veder bene l’emergere di una frattura sociale, quella che separerà chi guadagna sudando e chi nullafacendo.

La Lega sembra aver capitalizzato la fiducia degli italiani nonostante sulla sicurezza non sembrano essere stati fatti passi avanti. Al contrario, i casi di cronaca nera sono sempre più paurosi. E non si intravedono nuove politiche sull’immigrazione. Come se lo spiega?

La gente non era arrabbiata perché criminalità e immigrazione dilagano, ma perché il precedente governo negava l’esistenza del problema. E’ possibile che prima o poi anche a Salvini venga chiesto il conto, ma si dimentica troppo spesso una cosa: per mettere in crisi Salvini bisognerebbe strillare che la criminalità e gli ingressi irregolari sono in aumento, e questa è precisamente la cosa che i media progressisti sono propensi a non fare, sia quando l’allarme è giustificato sia quando non lo è. Fossi Salvini dormirei ancora per un po’ fra due guanciali (però non metterei l’immagine su internet).

Rispetto al Contratto, che pure è stato già un grave vulnus nel modo di vedere la rappresentanza nella nostra Repubblica, che cosa può dire che è stato attuato e che cosa no? Vede promesse mantenute?

Sì, ne vedo, anche se in modo alquanto parziale: reddito di cittadinanza al 30%, Fornero e quota 100 al 25%, flat tax al 2%.

Come si esce da quello che lei ha definito il trash della politica? In questa mediatizzazione che scavalca i contenuti pensa che l’elezione di Zingaretti sia una delle conseguenze dell’effetto Montalbano?

No, penso sia una conseguenza della disciplina del popolo di sinistra.

Una domanda da profeta più che da studioso: si attende la nascita di nuovi leader?

Sì, mi attendo che qualcuno ci provi.

In quale area esiste il vuoto da cui può nascere un Macron o un De Gasperi?

L’area in cui può nascere qualcosa di nuovo è una sola: è l’area degli smarriti.

E cioè?

Gente semplice, che non frequenta i salotti, ma viene disprezzata perché non urla e conserva un po’ di educazione.

Intervista a cura di Sabrina Cottone pubblicata su Il Giornale de 5 marzo 2019



Di quanto è diminuita la nostra ricchezza dopo il voto di marzo? Aggiornamento all’ultima settimana

Di quanto è diminuita la nostra ricchezza dopo il voto di marzo?

NOTA DI AGGIORNAMENTO: settimana 22 febbraio – 1° marzo 2019

 

  1. Le perdite dell’Italia

Torna positivo il bilancio degli operatori finanziari italiani. La settimana che va dal 22 febbraio al 1° marzo 2018 si chiude positivamente per tutti e tre i principali mercati italiani. Il valore dei Titoli di Stato è salito di 8.1 miliardi di euro, quello delle obbligazioni di 3.9 miliardi, mentre il mercato azionario ha recuperato 9 miliardi.

Nel complesso degli operatori finanziari italiani hanno recuperano circa 21 miliardi rispetto alla settimana precedente.

Tabella 1. Perdite e guadagni virtuali complessivi sui tre mercati principali (miliardi di euro)

Ricordiamo che dal calcolo sono escluse sia le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri, sia i maggiori oneri per il servizio del debito pubblico. Va poi ricordato che il dato della Borsa si riferisce alle sole società quotate.

Dalle elezioni ad oggi (1 marzo 2019) le perdite virtuali di Borsa, obbligazioni e titoli di Stato (esclusi quelli detenuti da Banca d’Italia e investitori esteri) sono pari a 67.6 miliardi di euro.

Banca d’Italia e investitori esteri detentori di titoli di Stato italiani hanno perso invece (sempre dalle elezioni ad oggi) 43.6 miliardi euro.

Grafico 1. Perdite e guadagni virtuali sui tre mercati principali nella settimana dal 22 febbraio al 1 marzo 2019

 

Grafico 2. Perdite e guadagni virtuali sui tre mercati principali dal 28 febbraio 2018 al 1 marzo 2019
Grafico 3. Perdite virtuali sui tre mercati principali dal 28 febbraio 2018 al 1° marzo 2019*
* Eventuali piccoli scostamenti tra i valori cumulati del Grafico 3 e quelli presenti in Tabella 1 sono imputabili ad arrotondamenti e al metodo utilizzato per la stima del valore delle obbligazioni.

 

  1. Le perdite di famiglie e imprese

Secondo le nostre stime, famiglie e imprese hanno recuperato nell’ultima settimana 16.7 miliardi di euro. Dalle elezioni ad oggi (1° marzo 2019) le perdite virtuali ammontano quindi a 50.1 miliardi euro.

Tabella 2. Perdite e guadagni virtuali delle famiglie e delle imprese (miliardi di euro)

Ricordiamo che il calcolo è effettuato considerando esclusivamente quella parte della ricchezza finanziaria di famiglie e imprese che è più sensibile alle fluttuazioni di mercato, in particolare titoli del debito pubblico, obbligazioni, quote di fondi comuni, azioni e altre partecipazioni (incluse le società non quotate). Sono invece esclusi i depositi (bancari e postali), i titoli emessi da soggetti esteri, e varie altre forme di ricchezza più resistenti alle fluttuazioni di mercato[1].

[1] Come nell’ultima pubblicazione (15 – 22 febbraio 2019), i tassi di deprezzamento della ricchezza finanziaria in mano a famiglie e imprese sono stati stimati ponendoli uguali al tasso di deprezzamento medio sui tre principali mercati italiani (escluse le banche).
[testo a cura di Luca Ricolfi, Rossana Cima, Caterina Guidoni]



L’anno che cambiò la politica

E’ passato esattamente un anno dalle ultime elezioni politiche. Anche se, sull’esito, ognuno la pensa a modo suo, credo che almeno su una cosa la pensiamo tutti allo stesso modo: nessuno, prima del voto di marzo, avrebbe immaginato un tale sconquasso nelle modalità della lotta politica.
Certo, si può obiettare che anche la realtà economico-sociale, in pochissimi mesi, è profondamente cambiata. Mai era successo, ad esempio, che il contrasto all’immigrazione irregolare fosse così rude. Mai era successo che la polemica con le autorità europee fosse così aspra. Mai era successo che politica economica fosse tanto assistenziale. E mai (tranne forse nel momento più acuto della crisi 2011-2012), era successo che le perdite patrimoniali, sia pure di tipo virtuale, del sistema-Italia fossero così ingenti e concentrate nel tempo (200 miliardi di euro fra marzo e ottobre).
E tuttavia, nonostante tutto questo, a me pare che il cambiamento fondamentale, forse irreversibile, sia avvenuto nel modo di fare politica e di comunicare con gli elettori. Lo spettacolo che la politica ha offerto dopo il 4 marzo 2018 è una prima assoluta, anche se innumerevoli assaggi forse avrebbero potuto farne presagire i contorni.
In questo spettacolo vi sono vari pilastri. Il primo è la credenza che si possa governare senza immergersi negli innumerevoli dossier che qualsiasi premier, vice-premier o ministro si trova a dover gestire. E che, tutto al contrario, sia normale allocare la stragrande parte del proprio tempo a coltivare il proprio elettorato e accrescere il consenso. Minniti una volta ebbe a dire che, anche avesse voluto, non avrebbe potuto lasciare il suo ufficio al Ministero dell’Interno tale era la mole di cose da fare. Salvini gli ha dimostrato che invece è possibilissimo, con quali conseguenze lo vedremo nel tempo.
Il secondo pilastro della nuova politica è la credenza che, per dirigere un ministero, né la competenza specifica né una robusta esperienza politica siano doti imprescindibili. E’ vero che di ministri incompetenti ve ne sono sempre stati, ma non era mai successo che fossero così numerosi, e non provassero la minima vergogna.
Il terzo pilastro è la credenza che il rapporto del politico con il proprio elettorato debba essere quotidiano, e persino più che quotidiano. E’ da qui che deriva l’assoluta centralità di internet: non potendo accedere tutti quanti per due-tre volte al giorno alla televisione e alla radio, i politici ricorrono a internet per “esserci” sempre, da mane a sera (e talora anche di notte). E lo fanno nei modi divenuti tipici della rete, con dosi crescenti di volgarità, cattivo gusto, disprezzo per chi la pensa diversamente.
Il quarto pilastro è la credenza che nessun rispetto sia dovuto alle altre istituzioni, autorità, corpi intermedi, né tantomeno ai legittimi rappresentanti di altri Stati o di organismi sovranazionali. Il governante di oggi pensa di potersi rivolgere alla Banca d’Italia o al Presidente di uno Stato estero come ci si può rivolgere alla suocera, al vicino di casa o al tifoso di un’altra squadra.
Ma il pilastro più importante, probabilmente, è ancora un altro, e sta nel concetto di “contratto” di governo. Qui l’innovazione è davvero radicale, perché capovolge quello che è stato il cardine della seconda Repubblica, ovvero il principio per cui è un diritto fondamentale dei cittadini conoscere prima del voto non solo i programmi dei partiti ma anche le loro alleanze. Questa, per venticinque anni, è stata l’ideologia centrale della seconda Repubblica, nonché la base delle sue pretese di superiorità rispetto alla prima. Contro le perpetue manovre parlamentari della prima Repubblica, la seconda ha sempre proclamato che le carte vanno scoperte prima, e che è immorale chiedere il voto agli elettori in nome di uno schieramento, per poi cambiare le carte in tavola una volta entrati in Parlamento.
Ora, con il contratto di governo, non solo si abbandona il principio che le alleanze si fanno prima del voto, ma si osa quel che nemmeno nella prima Repubblica si era mai osato: fare un governo con l’avversario politico, in nome di un “contratto” che non impegna i contraenti in un’alleanza politica, ma si limita a regolane gli scambi reciproci di favori nell’orizzonte di una singola legislatura. Nella prima Repubblica potevi non sapere se la Dc si sarebbe alleata con i socialisti o con i liberali, ma potevi star certo che non avresti visto un governo nazionale dei comunisti con i fascisti (quello che i politologi chiamano “milazzismo”, perché un simile esperimento fu attuato da Silvio Milazzo, nella sola Sicilia, alla fine degli anni ’50). Oggi no, la terza Repubblica va più indietro non solo della seconda, ma anche della prima, perché consente il tradimento completo delle identità e dei programmi elettorali delle forze politiche che firmano il “contratto”.
Si potrebbe supporre che queste mutazioni riguardino solo o principalmente la Lega e i Cinque Stelle. Ma a ben guardare le cose non stanno così. I nuovi modi della politica, il suo stile aggressivo e talora un po’ trash, contagia e travolge un po’ tutti. Per un Salvini che si fa fotografare sopra una ruspa o con un panino alla Nutella, non ci vien fatto mancare un Calenda in costume da bagno che affronta il gelo di un laghetto alpino, e ha persino il fegato di corredare la foto con l’hashtag: #orgoglio progressista. L’ossessione di presidiare internet contagia un po’ tutti i politici, sottraendo tempo ed energie ad attività ben più proficue. Persino lo scontro magistratura-politica, endemico da almeno tre decenni, fa un salto di qualità: oggi al ministro dell’Interno vengono contestati comportamenti che a nessun ministro del passato sarebbero stati contestati; oggi ai Cinque Stelle sembra normale che siano i propri iscritti a decidere se la magistratura ha o non ha il diritto di procedere nei confronti di un politico.

Articolo pubblicato il  2 marzo su Il Messaggero




Una crisi che viene da lontano

Sul fatto che l’Italia sia in recessione, ormai nessuno prova più a sollevare dubbi. E che non si tratti solo di un fatto statistico, di una recessione “tecnica” (calo del Pil per due trimestri consecutivi) è purtroppo provato dai dati negativi sull’export e da quelli disastrosi sul prodotto industriale e sugli ordini. Di questo passo, la domanda non è più se quest’anno il Pil crescerà dell’1.5% (come fino a pochi mesi fa si illudeva il governo), dell’1% (come il governo prevede ora), o dello 0.5% come per lo più pronosticano i centri di ricerca indipendenti, bensì se davanti alla variazione del Pil nel 2019 ci sarà ancora il segno ‘più’o tornerà a comparire il segno ‘meno’, come cinque anni fa.
Se la maggior parte dei cittadini non avverte ancora il problema è perché, proprio come nel 2007-2009, l’occupazione è uno degli ultimi anelli della catena di trasmissione della crisi. Prima che l’occupazione ne risenta in modo apprezzabile devono entrare in crisi la produzione, gli scambi, la borsa, il mercato dei titoli di Stato, e soprattutto il credito alle imprese, la cui stretta è la vera anticamera di fallimenti e licenziamenti.
Il fatto che ancora non ce ne accorgiamo, e che le Agenzie di rating siano ancora relativamente benevole con noi (vedi il mancato declassamento da parte di Fitch), non dovrebbe, tuttavia, renderci ciechi di fronte a quello che si sta preparando e alle sue origini. Perché se l’anno che è appena iniziato non sarà affatto “bellissimo” (come avventatamente pronosticato dal premier Conte), non è solo perché Trump ha dichiarato guerra (commerciale) alla Cina e al resto del mondo, o perché l’Europa sta rallentando la sua crescita. No, se ci aspettano tempi difficili è anche, anzi soprattutto, per causa nostra.
Ma “nostra” di chi?
La risposta facile a questa domanda è che la colpa è del governo giallo-verde, colpevole di aver inutilmente litigato con l’Europa (facendo lievitare lo spread e crollare i mercati borsistici e azionari), nonché varato due provvedimenti assistenziali (quota 100 e reddito di cittadinanza), anziché concentrare tutte le risorse disponibili su misure capaci di stimolare l’economia, come investimenti pubblici e sgravi fiscali ai produttori. Ma è una risposta troppo facile, per tanti motivi.
Intanto perché si sopravvaluta il potere dell’esecutivo, che potrà senz’altro infliggere ingenti danni all’economia italiana, ma non ha avuto ancora il tempo necessario per nuocere davvero, visto che i due provvedimenti cardine – quota 100 e reddito di cittadinanza – non sono ancora operanti, mentre la recessione è iniziata ben 9 mesi fa. Ma c’è anche un altro punto che si tende a trascurare. Pochi hanno dubbi sul fatto che all’inizio di una recessione un governo dovrebbe essere in condizione di varare provvedimenti anticiclici, capaci di fornire un po’ di ossigeno a famiglie e imprese. Non occorre essere keynesiani per riconoscere che, in tempi di vacche magre, è bene usare il fieno accumulato in cascina in quelli di vacche grasse (non entro nel merito della natura di questo “fieno”, ossia se si debba trattare di investimenti pubblici, spesa corrente, o minori tasse). Il punto però è che, per poter usare il fieno in tempi di crisi, ci vuole qualcuno che quel fieno abbia accumulato quando le cose andavano meglio, in quanto il Pil cresceva.
Ma che cosa abbiamo fatto noi, nel quadriennio (relativamente) felice 2014-2017? Anziché procedere risolutamente verso il pareggio di bilancio, lo abbiamo rimandato di anno in anno, ogni volta chiedendo flessibilità e promettendo che “poi” avremmo provveduto. Così lo stock del debito è cresciuto, il rapporto debito/pil è rimasto sostanzialmente invariato, e la flessibilità strappata all’Europa (allora assai meno arcigna di oggi) è stata spesa in misura preponderante per acquisire consenso: bonus 80 euro per i lavoratori dipendenti, bonus ai diciottenni, bonus bebé, stanziamenti per l’accoglienza dei migranti. Oggi i mercati presentano il conto: se lo spread non accenna a piegare la testa, e il governo non può permettersi di varare una vera politica anticiclica, non è solo per la sciocca ed autolesionista polemica con l’Europa, ma anche perché i governi precedenti – con il colpevole assenso dell’Europa stessa – avevano prosciugato le non molte risorse che quattro anni di crescita avevano generato.
Ma avrebbero potuto agire diversamente? E oggi, un qualsiasi governo armato delle più ragionevoli e disinteressate intenzioni, potrebbe contrastare efficacemente la recessione in atto?
Per certi versi la risposta è sì. Renzi e Padoan avrebbero potuto occuparsi di più dei conti pubblici e della crescita, e meno della ricerca spasmodica del consenso, un punto su cui, negli anni del renzismo trionfante, solo Mario Monti e pochi altri hanno attirato la dovuta attenzione. Quanto a Conte e Tria, si potrebbe fare un discorso del tutto analogo: se i soldi di quota cento e del reddito di cittadinanza li avessero messi in maggiori investimenti e minori tasse, la recessione in atto sarebbe risultata meno severa.
Ma per altri versi la risposta vera, la risposta principale, è no. I nostri governanti avrebbero anche potuto attuare politiche un po’ più pro-crescita e un po’ meno pro-consenso, ma temo che il problema dei problemi dell’Italia non sarebbe ugualmente stato risolto. Il nostro problema dei problemi è che la produttività del sistema-Italia è ferma da quasi un quarto di secolo, un fatto che non ha riscontro in alcun altro paese avanzato, e un enigma di cui nessuno ha ancora fornito la chiave. Finché non avremo il coraggio di affrontarlo a viso aperto, potremo anche crescere di qualche decimale in più o in meno a seconda di quanto lungimirante è chi ci governa, ma non eviteremo di restare quello che siamo diventati dalla metà degli anni ‘90: un paese che precipita quando gli altri cadono, e ristagna quando gli altri crescono.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 febbraio 2019