Ci tengono chiusi in casa perché non sono capaci di gestire l’epidemia. Intervista a Luca Ricolfi

Come sta messo il paziente Italia?
Non benissimo, a giudicare dal valore del nostro indice di temperatura.

Come funziona l’indice messo a punto dalla Fondazione Hume che misura la temperatura?
L’indice si basa sugli unici dati relativamente affidabili forniti quotidianamente dalla Protezione Civile, ovvero morti, ricoveri ordinari e ricoveri in terapia intensiva. Queste informazioni vengono rapportate a quelle dei giorni precedenti, e sintetizzate in un indice molto semplice e intuitivo, che si può leggere come una temperatura: quando il termometro segna 42 gradi significa che l’epidemia sta galoppando, quando ne segna 37 vuol dire che si è virtualmente spenta.

E stasera qual è la temperatura?
È 37.8, poco meno di ieri. Ma il cammino da 38 a 37 è più lungo e difficile di quello da 39 a 38.

Quali sono le realtà più critiche?
La Valle d’Aosta e la Calabria. Lo abbiamo scoperto ieri, quando abbiamo applicato il nostro termometro a tutte le regioni. Nel cammino di avvicinamento a 37 gradi la Valle d’Aosta, con oltre 40 gradi, è la regione più lenta, la Calabria è di un soffio sotto i 40 gradi.

E la più veloce?
Se la Valle d’Aosta è la lumaca, la lepre è la Sardegna, che è già scesa sotto i 38 gradi, 37.6 per l’esattezza.

Alcuni studi dimostrano che il dato dei morti non è certo, quello reale, confrontando gli andamenti comunicati dalla Protezione civile con le medie degli ultimi anni, sarebbe di almeno tre volte tanto. Le risulta?
Mi risulta eccome. La mia stima più recente è che, almeno a marzo, i morti effettivi possano essere anche 3 volte quelli ufficiali. Il 31 marzo i morti ufficiali erano 12.428, il numero effettivo potrebbe essere di 40-45 mila: i morti silenti, dimenticati nelle loro abitazioni e nelle case di riposo, potrebbero essere 30 mila nel solo mese di marzo. E la differenza, credo che ne avremo le prove nei prossimi giorni, potrebbe essere dovuta in misura non trascurabile alle regioni del Sud, dove la diffusione del virus è molto più sottostimata che al Nord.

Ma se così fosse, il numero dei contagiati reali rispetto a quello degli accertati a quanto sale?
Questo è quello che tutti si stanno domandando, le stime che girano (talora relative al 28 marzo, talora aggiornate ai primi di aprile) spaziano da circa 2 a circa 16 milioni. Il valore più basso (1 milione e 900 mila) è il limite inferiore stimato dall’Imperial College, ed è a mio parere abbastanza irrealistico: sono parecchi di più. Il valore più alto, anch’esso di fonte Imperial College (15 milioni e 600 mila) è anch’esso poco credibile, a dispetto che sia stato recentemente accreditato dal nostro rappresentante presso l’Organizzazione Mondiale della sanità, che ha congetturato che gli infetti potessero essere il 20% della popolazione, ossia 12 milioni di persone.
In mezzo si situano ormai almeno 3-4 gruppi di studiosi, che convergono su una stima di 5-6 milioni di contagiati.

E lei ha una sua stima?
No, non ho una stima. Ne ho molte, perché – allo stato dell’informazione disponibile qualsiasi stima dipende da congetture su parametri che non abbiamo.

Quali parametri?
Essenzialmente quattro: il numero effettivo di morti rispetto al numero ufficiale, il tempo medio che intercorre fra il momento in cui si viene contagiati e la morte, il tasso di letalità in Italia (non è detto sia il medesimo in tutti i paesi), il peso degli asintomatici rispetto ai sintomatici e pauci-sintomatici. A seconda dei valori che si attribuiscono a questi parametri, la stima del numero di contagiati può variare notevolmente, anche se – a mio parere – non nel range indicato dall’Imperial College, che è troppo ampio ed equivale a non avere nessuna idea dell’ordine di grandezza del fenomeno: se dici che qualcosa può essere 1 o 10, come di fatto fa lo studio inglese (il rapporto fra massimo e minimo è 8.125), è come dire che non conosci nemmeno l’ordine di grandezza del fenomeno.
La “regola Crisanti” (moltiplico per 10 il numero dei contagiati ufficiali) porterebbe, ad esempio, a una stima di 1 milione e 325 mila contagiati (al 7 aprile). Se si usassero le morti ufficiali, e si ipotizzasse un tasso di letalità dell’1.5%, si potrebbe congetturare che i contagiati siano circa 1 milione. Ma se dovessimo accettare le congetture che molti studiosi stanno formulando in questi giorni, le cifre cambierebbero ancora, e di molto.

Che cosa si sta congetturando in questi giorni?
Il caso di Bergamo, in cui la mortalità fra marzo 2019 e marzo 2010 è esplosa ben al di là di quel che risulta dai morti ufficiali per Covid-19, ha indotto diversi studiosi a considerare come stima della mortalità da Covid non i decessi ufficiali della Protezione Civile bensì l’eccesso di mortalità osservato a marzo in una parte dei comuni italiani (l’Istat non è stata in grado di fornire i dati di tutti i comuni, ma solo di un campione distorto). Ebbene, i dati sulla mortalità pubblicati finora suggeriscono che il numero di morti effettivi possa essere il triplo del numero ufficiale. In tal caso il numero di contagiati non sarebbe di poco più di 1 milione, ma di poco meno di 4.
Ma anche assumendo per buona questa linea di ragionamento, resterebbe l’incertezza sul tasso di letalità, che per la maggior parte degli studiosi è compreso fra l’1 e il 2%, ma secondo i più pessimisti potrebbe anche essere maggiore del 3%.

Ma tenuto conto di tutto ciò, se la sente di azzardare una stima?
Sì, a me la stima più ragionevole pare quella che assume una mortalità tripla di quella ufficiale, e una letalità dell’ordine dell’1.5, forse del 2%, il che porta il numero di contagiati vicino ai 4 milioni (1 cittadino su 15), a metà strada fra la stima inferiore dell’Imperial College (2 milioni) e le stime pessimistiche dei colleghi che in questi giorni si sono spinti a parlare di 6 milioni di contagiati.

Come mai in Germania ci sono meno morti che da noi?
Non lo so. In un primo tempo, sono state avanzate due spiegazioni: il fatto che, essendo l’epidemia partita dopo, i malati tedeschi “non hanno ancora avuto il tempo di morire”, e l’ipotesi che il sistema di attribuzione delle cause di morte sia radicalmente diverso dal nostro. Ora però il tempo è passato, ed emerge che anche altri paesi hanno tassi di letalità apparente molto più bassi dei nostri. Quindi ribadisco la mia risposta: non lo so.

Abbiamo superato il picco?
Il concetto di “picco” è fuorviante. C’è un picco dei contagiati, un picco delle ospedalizzazioni, un picco della mortalità. E sono temporalmente sfasati fra loro. Il vero problema, però, non è se abbiamo superato il picco (io ritengo che abbiamo superato sia il picco delle ospedalizzazioni, sia quello dei morti), ma quanto lentamente scenderemo la collina: non è la stessa cosa metterci 5 settimane o 5 mesi, vuol dire riaprire a fine aprile o a settembre, dopo l’estate.
Il confronto con la Corea è scoraggiante: lì dopo il lockdown l’epidemia è scesa a precipizio, noi stiamo comodamente scendendo la collina.

Intanto c’è il rischio di una recessione profonda e duratura dell’economia?
No, non c’è un rischio, c’è una certezza. Purtroppo, per ora, il governo non sembra aver compreso le vere esigenze dell’imprese: si parla di prestiti a tasso zero garantiti dallo Stato, ma i problemi sono altri: pagare i fornitori e coprire i costi fissi quando il fatturato viaggia verso zero. Se vuole aiutare le imprese, lo Stato dovrebbe pagare istantaneamente tutti i suoi debiti verso il settore privato, e fornire aiuti a fondo perduto agli operatori che hanno subito un crollo del fatturato.
Ma le sembra che un imprenditore cui vengono a mancare alcune mensilità di fatturato può pensare di risolvere il problema aumentando l’indebitamento verso il sistema bancario? Che se ne fa di un prestito a tasso zero se ha un buco di fatturato del 20 o 30% rispetto all’anno precedente?

Il vaccino potrebbe arrivare forse il prossimo anno. Da più parti si chiede di mettere a punto una fase due di uscita graduale dalle misure di contenimento (lettera dei 150), con uso massiccio delle mascherine, test diffusi per scovare gli immuni e tamponi per i contagiati sommersi, ospedali dedicati per il Covid. Sperimentazioni stanno partendo in tal senso. Su quali basi e in quale tempo secondo lei si può pensare di allentare la stretta senza ritrovarsi in una situazione di ritorno più grave di quella di partenza?
La mia sensazione è che, non essendo capace di “fare come in Corea”, il governo caricherà quasi interamente sui cittadini l’onere di sconfiggere il virus, mettendo un intero paese agli arresti domiciliari piuttosto a lungo. Il fatto che negli ultimi giorni si siano moltiplicati gli avvertimenti che la fase di lockdown potrebbe essere lunga, io lo interpreto così: cari cittadini, noi non riusciremo a fare granché, quindi armatevi di santa pazienza, perché isolarvi e segregarvi è l’unica cosa che siamo davvero capaci di fare.
Se non fosse così, avremmo già visto: tamponi ed esami sierologici di massa, mascherine per tutti; sistema di tracciamento dei positivi funzionante; dati dell’Istituto Superiore di Sanità non secretati; campione statistico nazionale, per conoscere la diffusione dell’epidemia e tutti i dati necessari a governare la fase di riapertura.
Invece siamo ancora qui, a dibattere ogni giorno di cose che dovrebbero esistere da un pezzo.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi del 7 aprile 2020



Il partito della riapertura

Da almeno una settimana le voci che auspicano una ripresa delle attività produttive si sono moltiplicate. Scalpita per la riapertura Confindustria, che fa notare che ogni mese perduto si mangia quasi un punto di Pil. Scalpitano per l’apertura grandi e piccoli produttori, che rischiano di dover chiudere perché anche 2 sole mensilità (marzo e aprile) di mancato fatturato bastano a mandare all’aria il lavoro di anni, se non di generazioni. E scalpitano per l’apertura, più in generale, quanti si rendono conto che il fermo prolungato dell’economia potrebbe farci ritrovare, nel giro di pochi mesi, in un paese molto più povero e indebitato di prima, con inediti problemi di ordine pubblico e di malcontento sociale. Qualcuno si avventura a dire che, quando la base produttiva sarà semidistrutta, potremmo ritrovarci in un sistema di tipo cubano, con un’economia in cui quasi tutto è nazionalizzato e il tenore di vita si è drammaticamente abbassato. Uno degli argomenti centrali del “partito della riapertura” è che, quali che siano i tempi del ritorno alla normalità, con il virus dovremo comunque imparare a convivere, e dunque tanto vale provarci quanto prima, così almeno impediamo il collasso completo dell’economia (e del sistema sanitario). Questo argomento, nei più lucidi (o più cinici?) si accompagna con la tesi secondo cui il problema degli anziani si risolve rinchiudendoli in casa a tempo indeterminato, mentre quello dei giovani e degli adulti si affronta accettando il rischio di contagio, dato che per loro la mortalità è molto più bassa.

Non voglio negare che ci sia molto di vero in questo modo di porre la questione. E meno che mai voglio nascondermi il rischio che fra un anno ci ritroviamo in un “paradiso socialista”, con la gente che fa la fila per accedere ai generi di prima necessità. Perché è vero: se la base produttiva del paese si restringe drasticamente, tutto è destinato a saltare. Anziché la decrescita felice, avremo un tonfo tragico.

E tuttavia…

C’è un fondamentale “tuttavia”, secondo me. Lo scenario più catastrofico fra quelli che ci stanno davanti non è quello in cui apriamo troppo tardi, con conseguente grave erosione della base produttiva. Lo scenario più catastrofico per l’economia è quello in cui apriamo troppo presto, l’epidemia riparte a pelle di leopardo, e noi – causa la consueta disorganizzazione e miopia della classe dirigente – non siamo ancora nelle condizioni di bloccare ogni nuovo focolaio. A quel punto potremmo avere una nuova ecatombe sanitaria, ed essere costretti a un secondo lockdown, ancora più brutale e lungo di quello che stiamo sperimentando, con un’erosione della base produttiva di dimensioni tragiche. Questa è la vera alternativa da evitare.

Ma come evitarla?

La risposta di alcuni è: ritardare la ripartenza. Non dopo Pasqua, nemmeno il 1° maggio. Forse il 15 maggio, non prima (così ieri il commissario Borrelli). Insomma: aspettiamo che i contagi scendano a zero, poi ripartiamo.

Purtroppo, anche questa non è una risposta convincente. O perlomeno: non è una risposta completa. Una risposta completa sarebbe: ripartiamo quando, e nella misura in cui, non solo l’epidemia avrà esaurito la sua spinta, ma noi saremo in grado di evitare che riparta, nonché pronti a bloccarla sul nascere quando, qua e là, proverà a ripartire.

La domanda cui le autorità dovrebbero rispondere è: se oggi fossimo già a “nuovi contagi zero”, saremmo pronti a una progressiva riapertura, magari modulata per zone, settori produttivi, fasce demografiche?

La risposta non ce la danno, ma sarebbe chiaramente NO, per due ordini di motivi.

Primo. Non siamo pronti perché, nonostante tutte le denunce e le richieste del personale sanitario e dei comuni cittadini, ancora scarseggiano mascherine, tamponi, reagenti per i test, laboratori di analisi, dispositivi di protezione per i lavoratori; l’assistenza dei malati a casa è gravemente deficitaria, gli ospedali sono tuttora sotto pressione, né esiste un piano per la quarantena dei positivi che non possono trascorrerla in casa. Per non parlare della gestione degli asintomatici ancora contagiosi, che nessuno ci ha ancora spiegato come individuare e neutralizzare.

Secondo. Manca ancora quasi del tutto il sistema informativo necessario per la ripartenza. Non mi riferisco solo al fatto che buona parte dei dati dell’Istituto Superiore di Sanità non sono accessibili ai ricercatori, ma al fatto – ben più grave – che ben poco è ancora stato fatto per conoscere i dati di base della situazione (percentuale di italiani infetti, peso degli asintomatici, tasso di letalità), e soprattutto nulla è ancora pronto per il tracciamento dei contatti e degli spostamenti dei positivi, nonostante da almeno due mesi si sappia che questo è stato uno degli assi vincenti della Corea del Sud e degli altri paesi asiatici.

C’è, infine, un’osservazione che vorrei fare sui provvedimenti economici. Spero di sbagliarmi, ma la sensazione è che ben poco si stia facendo per evitare un radicale assottigliamento della base produttiva del paese. Dire, come è stato detto, che “nessuno perderà il posto di lavoro a causa del Coronavirus” significa nascondere la testa sotto la sabbia. Perché o si pensa che tutte o buona parte delle imprese che falliranno saranno nazionalizzate a prescindere dalla loro redditività, oppure si deve agire subito perché le imprese che, dal mattino alla sera, si ritrovano senza 2 o 3 mensilità di fatturato, non siano costrette a chiudere.

Ora, di questo tipo di azione io vedo ben poche tracce. Si parla di prestiti a tasso zero garantiti dallo Stato. Ma a un’impresa cui mancano mesi di fatturato servono stanziamenti a fondo perduto per pagare i costi fissi e saldare i fornitori, non agevolazioni per indebitarsi ancora di più. Senza parlare dei debiti dello Stato e delle Pubbliche amministrazioni verso il settore privato, quasi sempre incagliati e saldati con enorme ritardo: il modo più sano di aiutare le imprese non è sussidiarle, ma pagare tempestivamente i debiti.

Insomma, voglio dire che se il timore è che, dopo la crisi, l’apparato produttivo – già gravemente amputato nella crisi finanziaria del 2008-2013 – subisca ulteriori gravi amputazioni nel corso della crisi presente, allora è essenziale che tutto si faccia non solo per evitare (ora) le chiusure evitabili, ma anche per fornire (domani) incentivi alle imprese che saranno in condizioni di ripartire, specie se capaci di aumentare l’occupazione.

Perché possiamo nascondercelo per non spaventare la gente, ma la realtà è che, come in tutte le crisi e le ricostruzioni, anche in questo passaggio storico ci saranno molte imprese che chiuderanno e – speriamo – molte altre che apriranno o si riconvertiranno, secondo il consueto schema della “distruzione creatrice”, per dirla con Schumpeter. Alla fine, l’importante è che l’aggettivo, creatrice, abbia la meglio sul sostantivo, distruzione.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 aprile 2020




Tamponi, una storia inquietante

Oggi vi racconto una storia, ma spero vivamente che il mio racconto sia sbagliato. Sì, spero di sbagliarmi, e che le cose non siano andate come le ho ricostruite io. Perché se fossero andate come sembra a me, o anche solo più o meno così, dovremmo essere tutti molto preoccupati, ancora di più di quanto già siamo. E, forse, dovremmo chiedere che qualche politico faccia un passo indietro, o almeno ci chieda scusa.

Ed ecco la storia.

31 gennaio: appena appreso che due turisti cinesi sono positivi al Coronavirus, il Governo dichiara lo stato di emergenza fino al 31 luglio, e con ciò si auto-attribuisce poteri speciali; possiamo presumere che, almeno da quel momento, il Governo stesso sia consapevole della gravità della situazione

In realtà avrebbe potuto (e forse dovuto) esserlo già molto prima. In una serie di articoli pubblicati fra l’8 gennaio e la fine del mese, il sito di Roberto Burioni (Medical Facts) aveva fornito tre informazioni cruciali: una parte non trascurabile degli infetti è asintomatica ma può ugualmente trasmettere il virus; il controllo della temperatura negli aeroporti è una misura insufficiente; l’esperienza cinese suggerisce che è difficile fermare l’epidemia se non si intercettano almeno due terzi degli infetti.

21 febbraio: scoppiano i due focolai di Codogno (Lombardia) e Vo’ Euganeo (Veneto), si aggrava la situazione in Cina; Giorgia Meloni chiede la quarantena per chi viene dalla Cina o da altre zone ad alto rischio; anche Walter Ricciardi, nostro rappresentante nell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), critica il governo per essersi limitato a bloccare i voli diretti con la  Cina, ignorando il problema dei voli indiretti; ma il governo liquida la proposta della Meloni come “allarmismo” ingiustificato, e quanto alle critiche di Ricciardi se la cava nominandolo consulente del ministro della Sanità.

21-28 febbraio: mentre Roberto Burioni consiglia i tamponi anche a chi ha solo 37.5 gradi di febbre, parte l’offensiva del Governo contro i tamponi, che culmina con un’intervista a Walter Ricciardi in cui viene aspramente criticata la linea dei tamponi di massa adottata dal Veneto, contraria alle direttive mondiali ed europee, volte a minimizzare il numero di tamponi; contemporaneamente, in barba allo “stato di emergenza” dichiarato un mese prima, parte la compagna politico-mediatica per “riaprire Milano” e far ripartire l’economia.

28 febbraio: mentre l’epidemia dilaga, il ministro degli esteri Luigi Di Maio minimizza la gravità della situazione, dichiarando che “in Italia si può venire tranquillamente” e che i comuni coinvolti sono solo 10 su 8000; la linea del Governo è minimizzare i tamponi per non scoraggiare il turismo.

5 marzo: il prof. Andrea Crisanti, che sta conducendo un fondamentale studio epidemiologico sul comune di Vo’, congettura che il peso degli asintomatici possa superare il 30% (intervista rilasciata ad Alessandra Ricciardi su “Italia Oggi”); circa una settimana dopo, a conclusione della seconda rilevazione a Vo’, la congettura diventa certezza: il peso degli asintomatici è dell’ordine del 75%; e poiché gli asintomatici possono trasmettere il virus, diventa chiaro a tutti che il vero problema è individuarne il maggior numero possibile.

10-16 marzo: a seguito dell’indagine di Vo’, nel mondo scientifico si rafforzano le posizioni di quanti, diversamente dal nostro governo e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ritengono che minimizzare il numero di temponi sia stato un grave errore, e che – per quanto tardivamente – il numero di tamponi vada aumentato sia rendendo meno restrittivi i criteri per effettuare i tamponi, sia effettuando tamponi a tappeto alle categorie più a rischio (dai medici ai poliziotti, dagli edicolanti alle cassiere).

16-17 marzo: spettacolare giravolta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, per bocca del suo Direttore, ora invita a massimizzare il numero di test (“il nostro messaggio chiave è: testtesttest”), dopo settimane in cui li aveva scoraggiati in tutti i modi; anche il nostro rappresentante presso l’OMS, che 4 settimane prima aveva aspramente criticato le Regioni che volevano fare più test, aderisce istantaneamente alla giravolta dell’OMS, retwittando il messaggio “test, test, test”.

17-25 marzo: nel frattempo l’epidemia è esplosa in tutto l’Occidente, e ogni stato tenta di approvvigionarsi come può di materiale sanitario, compresi tamponi e reagenti per i test; il materiale per i test comincia a scarseggiare, ma i nostri governanti non sembrano avere fatto 2+2, ovvero: se l’OMS ingiunge di fare più test, e l’epidemia sta partendo in tutto il mondo, è inevitabile che vi sia una corsa di tutti a procurarsi il necessario, ed è ovvio che occorra immediatamente aprire una campagna di approvvigionamento sui mercati internazionali, specie per quei materiali che è più difficile produrre in patria (in particolare i reagenti, che servono per analizzare i campioni prelevati con i tamponi).

26-28 marzo: puntualmente accade quel che era logico aspettarsi; ovvero, proprio ora che il Governo si è convinto a non ostacolare le Regioni che vogliono fare più test, si scopre che scarseggiano i materiali per effettuarli, anche perché altri se li sono procurati prima di noi.

Ho seguito nei giorni scorsi quel che sta succedendo nelle varie Regioni, e il quadro è sconsolante. Tutte, o quasi tutte, vorrebbero moltiplicare i test per proteggere le persone più esposte e per individuare il maggior numero possibile di asintomatici, ma né la Protezione Civile né altri organismi dello Stato sono in grado di assicurare quel che serve. Soffre il Veneto, che vorrebbe fare 10 mila tamponi al giorno e riesce a farne solo 4000. Ma soffrono anche diverse altre regioni, come la Toscana e la Puglia.

A due mesi esatti dalla dichiarazione dello stato di emergenza, succede che il numero di tamponi che siamo in condizione di effettuare non solo sia del tutto inadeguato a scovare gli asintomatici, che sono il veicolo principale del contagio, ma non basti neppure ad assicurare i test per il personale sanitario. Nel frattempo, anche – se non soprattutto – per la mancanza di tutto ciò che servirebbe per proteggerli (dalle mascherine ai tamponi) i morti fra i medici sono più di 50, mentre ancora si attende di conoscere il numero delle vittime fra infermieri, operatori del 118, personale sanitario in genere. E non mi vengano a tirare in ballo i tagli alla sanità dell’ultimo decennio, perché chiunque abbia un’idea delle cifre in gioco sa benissimo che la mancanza di dispositivi di protezione individuale dei medici è una goccia nel mare magnum dei costi della sanità, e che per non trovarci nella condizione di oggi sarebbe stato sufficiente provvedere in tempo, quando si è capito che l’epidemia sarebbe arrivata (fine gennaio) e gli ospedali non erano al collasso.

Che dire?

Nulla, per parte mia. Mi limito e riportare le parole di uno dei pochi veri esperti italiani di epidemie, incredibilmente ignorato dal governo centrale (ma tempestivamente reclutato dal governatore del Veneto), il professor Andrea Crisanti, l’ideatore dell’indagine su Vo’: “Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte. Questo è un fallimento della classe dirigente del Paese”.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 marzo 2020



Cari politici, non dipende solo da noi

Ha fatto senz’altro bene il Governo a restringere ulteriormente il perimetro della attività produttive essenziali (il “Messaggero” lo aveva già chiesto ben 2 settimane fa, con un editoriale del suo direttore). Ha fatto bene a dare più ascolto ai sindacati, preoccupati della salute dei lavoratori, che alle organizzazioni imprenditoriali, preoccupate del quasi-arresto dell’economia. E stanno facendo benissimo governo, giornali, televisioni, divi dello spettacolo, scienziati a invitarci a rispettare rigorosamente le regole, nonché a stigmatizzare severamente chi non lo fa.

C’è, tuttavia, anche qualcosa che non va affatto bene nella comunicazione da cui siamo investiti, specie in quella che proviene dalle autorità di governo e dai partiti della maggioranza. Troppe volte il messaggio che si cerca di veicolare non contiene solo l’esortazione a rispettare le regole ma veicola anche, più o meno sottilmente (talora spudoratamente) due ulteriori messaggi, entrambi inaccettabili.

Il primo messaggio dice più o meno così: non è il momento delle polemiche, dobbiamo stare tutti uniti, chiunque critica le autorità è un disfattista.

Eh, no, questo proprio non avete diritto di dirlo. L’opposizione non ha solo il diritto di criticare il governo, ma ha il dovere di farlo se ritiene che il governo stia sbagliando. E la libera stampa, gli studiosi, i comuni cittadini hanno tutto il diritto di criticare il Governo: i nostri governanti hanno (giustamente) sospeso la maggior parte delle nostre libertà personali, dal diritto di spostamento a quello di voto, ma non hanno alcun titolo per toglierci una delle ultime libertà che ci è rimasta, quella di dire la nostra opinione senza subire linciaggi e intimidazioni. Chi ci governa non può pretendere l’immunità dalle critiche, e semmai dovrebbe chiederci umilmente e solennemente scusa per i grandissimi sbagli commessi fin qui.

Il secondo messaggio è ancora più insidioso. Esso dice in sostanza: cari cittadini, rispettate le regole, la sconfitta del virus è nelle vostre mani. Solo voi potete fermare l’epidemia, la vittoria dipende da voi e dai vostri comportamenti. Questo messaggio ci è stato ripetuto ossessivamente da tutte le autorità, Presidente del Consiglio e ministro della Salute in testa, da quando – appena 3 settimane fa – il governo si è (finalmente) deciso a prendere sul serio l’epidemia.

Eh, no, anche qui non ci sto. Perché non è vero. L’avanzata e l’arretramento dell’epidemia sono sicuramente influenzati dai comportamenti dei cittadini, ma non solo da essi.

Lo dico innanzitutto pensando agli enormi ritardi e alle gravissime omissioni nel fornire le armi che servono. Vogliamo qualche esempio?

Tantissimi medici e farmacisti sono stati costretti ad operare senza mascherine, tanti lavoratori senza dispositivi di protezione individuale. Il numero di tamponi è straordinariamente basso, e lo è per scelta delle autorità. La protezione Civile ha inviato alla Regione Lombardia 250 mila mascherine inadeguate. Intralci burocratici e la consueta farraginosità delle procedure rallentano i rifornimenti di materiale sanitario. Lo stesso vale per i fondi messi a disposizione da Banca Intesa, fermi per 15 giorni in attesa dell’immancabile “protocollo d’intesa”. Per non parlare dell’incapacità di mettere in piedi un monitoraggio (via internet e cellulari) dei soggetti positivi e dei loro contatti, come quello sperimentato in paesi come la Cina e la Corea del Sud. O almeno un efficace sistema di telemedicina per i pazienti costretti a casa e privi di assistenza, come invano e ripetutamente suggerito dal prof. Massimo Galli.

Potrei continuare, ma il punto è semplice: che cosa c’entriamo noi cittadini con tutto questo? Eppure la velocità con cui l’epidemia avanza, la quantità di medici che muoiono sul campo, il grado di letalità della malattia dipendono in modo cruciale da queste scelte ed omissioni, su cui noi cittadini non abbiamo alcun potere.

Ma non è tutto. Vogliamo parlare della “curva epidemica”? Vogliamo parlare dell’ondata di morti degli ultimi giorni, peraltro sottostimata dal fatto che molti anziani vengono lasciati morire in casa e seppelliti senza un’autopsia e una diagnosi (vedi il drammatico caso di Bergamo, più volte raccontato dal sindaco Giorgio Gori).

Ebbene, la responsabilità del picco di morti è chiaramente imputabile alla leggerezza della politica (e di molti media, bisogna aggiungere purtroppo). I dati parlano chiaro, chiarissimo. Il segnale di Codogno e Vo’, con l’improvvisa apparizione di due focolai di contagiati, è di venerdì 21 febbraio. Per qualche giorno restiamo attoniti, la speranza (ma sarebbe meglio dire: l’illusione) è di circoscrivere l’epidemia isolando i comuni interessati. A quel punto si apre un bivio: riconoscere la gravità della situazione, dichiararla pubblicamente, e prendere subito misure restrittive volte a minimizzare i contatti in tutta Italia; oppure: riesumare la retorica del “noi non ci faremo fermare, noi vogliamo continuare la nostra vita di sempre”, già collaudata nei confronti degli attentati terroristici.

Ebbene, arrivati a questo snodo fondamentale, non solo il governo, ma anche consistenti porzioni dell’opposizione, dei media, dell’arte, della società civile hanno risolutamente imboccato la seconda strada, quella del “riaprire le città” e “riprendersi la vita”. Potrei citare decine di prese di posizione, di video, di campagne di stampa. Mi limito a ricordare due fatti.

Il 27 febbraio, a meno di una settimana da Codogno e Vo’, la campagna “Milano non si ferma” è in pieno svolgimento, e culmina con lo sfortunato aperitivo in città voluto dal sindaco Beppe Sala e da Nicola Zingaretti, assai più preoccupato di “non diffondere il panico” che di diffondere il virus. Ma la linea de “riaprire” è caldeggiata anche da Salvini. Due giorni dopo, un sondaggio certifica che la netta maggioranza dei milanesi è a favore della riapertura. I politici stanno sbagliando, ma forse stanno sbagliando perché, contrariamente a quel che dicono, il loro faro non è la scienza, che da tempo li invitava a prendere sul serio il pericolo, ma è il consenso.

Ebbene, i 7 giorni che vanno dall’aperitivo a Milano alla decisione del governo di chiudere le scuole e le università (primo timido segnale di pericolosità della situazione), è stata cruciale nel favorire l’avanzata del virus. Un’avanzata che ha avuto a disposizione una manciata di giorni in più quando la chiusura delle scuole ha finito per prolungare le vacanze di Carnevale, e il governo ha atteso altri giorni per varare finalmente, una dopo l’altra, le varie ulteriori misure di chiusura, prima rivolte alle regioni e province più colpite, poi – nel week-end di follia del 7-8 marzo – finalmente a tutta l’Italia.

La curva delle morti di oggi (più di 500 al giorno nell’ultima settimana) non fa che riflettere, come la luce che viene da stelle lontane, gli eventi dei 10 giorni di follia che vanno dalla campagna “riapriamo Milano” alla riapertura delle scuole.

Ecco perché dico che a noi spetta rispettare le regole, ma alle autorità spetta tutto il resto. Non solo rifornire medici, malati, comuni cittadini di tutto ciò che avrebbero dovuto avere e non hanno avuto (dalle mascherine ai respiratori, dai tamponi all’assistenza domiciliare), ma anche non ripetere domani gli stessi errori di ieri, che  già tante vite ci stanno costando proprio in questi giorni. Perché su un punto la maggior parte degli studiosi è ormai concorde. Se e quando l’epidemia sarà stata domata, il pericolo più grande diventerà quello di non esserci nel frattempo attrezzati a reagire nel modo più tempestivo e risoluto ogni volta che il virus proverà a rialzare la testa.

Una prontezza di reazione che dipenderà dalla nostra maturità e disponibilità ad accettare altri sacrifici. Ma dipenderà anche dalla percezione che chi ci governa abbia imparato la lezione.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2020



Coronavirus: facciamo un’indagine nazionale su un campione rappresentativo

L’idea è venuta tempo fa a un mio amico viticoltore, che ha l’azienda in Friuli (si chiama Nicola Manferrari, le sue vigne sono a Borgo del Tiglio): perché non cerchiamo di capire quanti sono i contagiati dal coronavirus con un’indagine statistica?

Se si sottoponesse a tampone e (possibilmente) ad esame del sangue un campione rappresentativo della popolazione italiana, potremmo rapidamente sapere alcune cose fondamentali, che al momento non sappiamo ancora:

  • quanti sono i contagiati totali (sintomatici, asintomatici, guariti)
  • qual è la percentuale di asintomatici
  • qual è la distribuzione per genere, età ed altre caratteristiche
  • qual è, approssimativamente, il tasso di letalità.

Tutte informazioni preziose per contrastare la diffusione del virus.

Allora (appena tre settimane fa) l’idea mi parve impraticabile perché le stime che circolavano sul numero di contagiati erano troppo basse. I casi ufficiali erano circa 1000, e si pensava ancora che i casi totali potessero essere il triplo, magari anche il quadruplo o il quintuplo, ma certo non più di 10 mila. Diciamo che un numero verosimile poteva essere non lontano da 6000, il che significa 1 italiano su 10000.

Di qui la mia perplessità. Se il numero di contagiati è sconosciuto ma ancora molto basso (diciamo 1 caso su 10 mila, giusto per fissare le idee), per poter stimare accuratamente il numero effettivo di contagiati nella popolazione complessiva occorrerebbe un campione enorme: con un campione di 10 mila casi potremmo anche non intercettarne nessuno (o averne appena 1, o 2), con un campione di 100 mila casi potremmo ragionevolmente attenderci di intercettarne una decina (con un errore atteso di circa 3 casi). Per poter sperare di intercettare anche solo un centinaio di casi occorrerebbe un campione di 1 milione di casi, che è decisamente troppo grande (anche perché sarebbe opportuno sottoporre a test tutti i soggetti nei medesimi giorni).

Ora però le cose sono cambiate, per quattro motivi.

  1. Il numero di casi è molto più alto di tre settimane fa (al 20 marzo, i 1000 casi di inizio mese sono diventati circa 50 volte tanti).
  2. Sono sempre più numerosi gli esperti che congetturano che i casi effettivi possano essere molto più numerosi (anche 10 volte tanti, se non di più) rispetto ai casi ufficiali.
  3. La regola enunciata dal prof. Andrea Crisanti (lo studioso che ha guidato l’indagine di popolazione sul comune di Vo’), secondo cui l’ordine di grandezza del numero di asintomatici è 10 volte il numero di ospedalizzati, conduce a valutare in 200 mila il numero totale di casi positivi.
  4. Una stima indipendente, condotta dalla Fondazione Hume con un approccio del tutto diverso, conduce a valutazioni del medesimo ordine di grandezza.

E allora il calcolo è presto fatto. Se riuscissimo a organizzare una rilevazione per fine mese, anche un campione relativamente piccolo (per esempio 50 mila casi: più o meno i tamponi che oggi si fanno in 3 giorni) potrebbe fornirci le informazioni che cerchiamo.

I 45 mila casi ufficiali attuali (20 marzo), infatti, tra la fine del mese e i primi di aprile saranno diventati circa 150 mila, cui andrebbero aggiunti tutti gli asintomatici, che adottando la “regola Crisanti” (asintomatici = ospedalizzati x 10) potrebbero essere un po’ più di 400 mila.

Questo significa che, già nei primi giorni di aprile, potremmo avere a che fare con una popolazione di 5-600 mila contagiati su 60 milioni (l’1% della popolazione). Un campione di 20 mila casi ne intercetterebbe circa 200, un campione di 50 mila casi ne intercetterebbe circa 500.

Certo, resterebbe il problema di stratificare il campione per zona geografica, perché il numero di positivi per abitante è molto alto nel centro-nord, e molto più basso nel centro-sud. Ma è un problema risolvibile sovracampionando il centro-sud e sottocampionado il centro-nord, in modo da avere pressappoco il medesimo numero di casi in entrambi i territori.

Il vero problema è di estrarre un campione davvero rappresentativo, cosa che si può fare usando le liste elettorali, l’anagrafe tributaria o altra fonte amministrativa capace di raggiungere la quasi totalità della popolazione.

Insomma, il contagio è andato così avanti che l’idea di ripetere con un campione rappresentativo ciò che a Vo’ è stato fatto con la quasi totalità della popolazione sta diventando praticabile.

Non sappiamo quanti siano i contagiati, ma conoscerne l’ordine di grandezza (1 italiano su 100 ai primi di aprile) è più che sufficiente per pianificare un’indagine campionaria, che potrà finalmente fornire una risposta affidabile alle nostre domande iniziali: quanti sono effettivamente i contagiati, qual è il peso degli asintomatici, qual è la composizione per età, qual è il tasso di letalità.

Tutte cose che al momento non sappiamo, e che sarebbe molto meglio sapere. Come ha detto il prof. Crisanti nell’ultima intervista a “Italia Oggi” a proposito dell’idea di un’indagine statistica nazionale: “potrebbe essere molto utile dopo il picco quando si tratterà di capire se è il caso di sollevare le misure restrittive”.

Il picco è previsto per martedì 24 marzo. Credo che – se c’è la volontà politica di farla – l’indagine potrebbe partire lunedì 30 marzo e terminare lunedì 6 aprile.

[20 marzo 2020]