Se 100 mila vi sembran pochi

E’ incredibile quanto le classi dirigenti dei paesi occidentali siano incapaci di imparare dalle esperienze altrui. Cianciano senza sosta di importare modelli vincenti e “best practices” dagli altri paesi, ma al primo vero test – l’epidemia di coronavirus – si mostrano quasi del tutto incapaci di sfruttare le conoscenze altrui. Vale per l’Italia, che per oltre un mese si è ben guardata dal fare tesoro di quel che potevano insegnare paesi come la Cina e la Corea del Sud, che avevano avuto l’emergenza della Sars nel 2003 e quindi sono stati capaci di prendere sul serio il Covid-19, con il risultato di rallentare molto rapidamente l’epidemia. Ma vale anche per i paesi europei, che avevano a due passi il dramma dell’Italia, e solo ora – dopo averci guardato con sufficienza – si apprestano, molto lentamente e goffamente, a varare misure simili alle nostre. Né meglio paiono comportarsi gli stati Uniti, dove il problema è ancor oggi largamente sottovalutato.

Alle volte mi chiedo se i capi di governo e il ceto politico dei maggiori paesi occidentali si rendano conto del senso di quello che dicono. Nelle ultime settimane mi è capitato di sentire dichiarazioni che prospettavano una diffusione dell’epidemia da coronavirus fino al 20% della popolazione (Regno Unito), al 50% della popolazione (Stati Uniti), al 70% della popolazione (Germania), e dimenticavano di aggiungere che cosa questo avrebbe potuto significare nei rispettivi paesi: circa 400 mila morti nel Regno Unito, 5 milioni di morti negli Stati Uniti, 1 milione e 700 mila morti in Germania. Eppure  dovrebbero sapere che l’ordine di grandezza della catastrofe, il fatto cioè che alla fine i morti siano decine di migliaia, o centinaia di migliaia, o addirittura milioni, dipende in modo cruciale da quanto tempestivamente e radicalmente si agisce.

Ma torniamo all’Italia. Il governo ha sicuramente sottovalutato il problema, lo ha affrontato tardi e disordinatamente, ma alla fine ha preso atto che doveva varare misure drastiche. Ora la domanda è: sono sufficienti?

A mio parere no, e per una ragione fondamentale. Il numero di soggetti che è potenzialmente in grado di contagiarne altri è sconosciuto, ma il suo ordine di grandezza si può valutare. Lo abbiamo fatto come Fondazione David Hume, usando procedimenti statistici e modelli di simulazione, e il risultato è che, oggi 14 marzo 2020, le persone non diagnosticate come positive ma in grado di trasmettere il contagio sono almeno 100 mila, circa 7 volte i 15.000 soggetti positivi delle cifre ufficiali. E’ il caso di notare che questa stima è estremamente prudente: c’è anche chi, come la virologa Ilaria Capua (università della Florida) non esclude che i casi effettivi possano essere 10 volte quelli accertati (se non di più).

Il fatto che le persone con licenza di infettare siano almeno 100 mila, e inevitabilmente siano in costante aumento (fra 15 giorni potrebbero essere comprese fra 500 mila e 1 milione), induce a considerare tre limiti delle misure attuali.

Limite 1. Forse il fermo delle attività produttive non è abbastanza esteso, certamente le misure a protezione di chi ancora lavora vanno rafforzate. Se le persone che continuano a lavorare in modalità tradizionale sono, poniamo, anche solo 15 milioni (su un totale di 23), si può stimare che fra esse vi siano almeno 25 mila soggetti contagiosi che non sanno di esserlo.

Limite 2. E’ stato un gravissimo errore scoraggiare l’uso delle mascherine in quanto inutili a proteggere sé stessi: più numerosi sono i soggetti asintomatici ma contagiosi, più diventa essenziale l’obbligo di portare la mascherina. Meglio sarebbe stato cercare di dotare l’intera popolazione di questo dispositivo, incoraggiandone l’uso altruistico. E’ ora di correre ai ripari subito, incentivando i produttori a produrne ed esortando i cittadini ad usarle. Questa linea di condotta è stata una delle chiavi di volta del successo della Corea del Sud nella lotta contro il coronavirus.

Limite 3. Ma l’errore più grave, che ancora oggi testardamente le nostre autorità si ostinano a perpetuare, è quello di non aver avviato una campagna di massa di tamponi, un errore aggravato dalla doppia scelta di restringere ulteriormente il ricorso ai tamponi (26 febbraio) e di conferire alle strutture pubbliche un vero e proprio monopolio. Oggi, in Italia, per ottenere un tampone bisogna avere sintomi gravi e forti indizi di essere stati contagiati. Una situazione che getta nell’angoscia e nella disperazione migliaia di persone sintomatiche ma ignorate da Servizio Sanitario Nazionale perché non ancora abbastanza gravi, o non in grado di provare contatti con persone risultate positive.

Questa, a mio parere, è stata e rimane la scelta più grave. Di nuovo non siamo stati capaci di copiare le pratiche migliori. La Corea del Sud ha fatto oltre 200 mila tamponi, nel regno Unito si possono fare tamponi addirittura dal finestrino dell’auto, come in un comune drive-in (si chiama: drive through facility), in molti paesi il tampone si può fare privatamente. Si potrebbe fare anche in Italia, se i numerosi kit già disponibili (compresi i kit domestici) ricevessero il via libera delle autorità sanitarie, anziché essere ostacolati politicamente o amministrativamente. E sarebbe un grande sollievo per tutti, specie se – oltre alla liberalizzazione dei tamponi, che servono a capire se si è positivi ora – venissero incentivati gli esami del sangue, che potrebbero rivelare se si è stati positivi in passato, senza sviluppare i sintomi.

E dire che a favore dei tamponi di massa (almeno nelle zone con un focolaio) si sono ripetutamente espressi numerosi esperti e istituzioni mediche, sia nella fase in cui la loro efficacia sarebbe stata massima, sia nella drammatica fase attuale. Agli accorati inviti degli studiosi indipendenti, i funzionari cui il governo ha affidato la gestione dell’epidemia hanno perlopiù opposto argomenti vuoti: “fare i tamponi solo alle persone con sintomi è una strategia fatta per massimizzare i vantaggi”; le “evidenze scientifiche” indicano l’utilità di riservare i tamponi “a soggetti sintomatici che hanno avuto contatti a rischio o che provengono da aree a rischio”.

E quale sarebbe la base logica di questa fortissima limitazione dei tamponi, incredibilmente incorporata nelle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità?

Eccola qua: dalle indicazioni dell’OMS non si deve derogare “altrimenti si possono determinare effetti collaterali; per esempio, il fatto di aver all’inizio effettuato troppi tamponi ha generato una focalizzazione dell’attenzione mondiale sull’Italia, che ha finito per essere indicata come paese di ‘untori’”.

Sì, avete capito bene. Il turismo. Se a un certo punto (26 febbraio) è stato deciso di limitare ulteriormente i tamponi (che peraltro non erano affatto tanti: meno di 10 mila dall’inizio dell’epidemia, il Regno Unito intende farne 10 mila al giorno) è perché nella “cabina di regia” di questa crisi si è ritenuto che scoprire più casi avrebbe sì aiutato a curali o isolarli, ma avrebbe anche danneggiato l’immagine dell’Italia all’estero.

Non ho parole.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 marzo 2020



Proteggete il Centro-Sud e le zone franche

Vivo al Nord, alcuni mi considerano (sbagliando) un paladino degli interessi del Nord, ma oggi devo unirmi all’invito di Virman Cusenza (direttore del “Messaggero”) e dirlo chiaro e tondo: arrivati a questo punto, preservare il Sud e il Lazio – almeno in parte e in qualche misura – dalla sorte toccata a buona parte del Nord e del Centro per colpa di un governo tardivo, irresoluto e irresponsabile, è essenziale se vogliamo che l’Italia abbia ancora un futuro. Il che significa: fare in modo che le limitazioni alla circolazione, una misura che gli studiosi più lucidi hanno sollecitato da tempo, siano una cosa seria.

La ragione è semplice: la diffusione del virus, per quanto di entità drammatica anche al Sud e nel Lazio, è attualmente 30 volte minore rispetto alle regioni del Centro-Nord, in cui solo Bolzano sembra in parte salvarsi. In termini temporali: il Sud, con il Lazio, si trova oggi più o meno nella situazione in cui le regioni più colpite del Nord si trovavano 12 giorni fa. Detto altrimenti: ha un piccolo vantaggio temporale, di cui può approfittare.

Nessun territorio, salvo forse la Calabria (che ha 100 volte meno positivi della Lombardia), può provare a sperimentare che cosa sarebbe successo se il governo si fosse mosso un mese fa, quando i cosiddetti allarmisti lo imploravano di agire. Ormai è troppo tardi.

Ma il Mezzogiorno nel suo insieme può almeno sperimentare, a proprio vantaggio, la riduzione del danno di cui il Nord avrebbe potuto beneficiare con un governo più risoluto.

Solo una cosa sento ancora di dover raccomandare agli amici del Mezzogiorno: usate pure i dati (elaborati dalla Fondazione Hume), che trovate qui sotto per confortarvi un po’, per prendere coscienza di quanto meno pericolosa sia la situazione del Sud e del Lazio rispetto a quella del resto d’Italia, ma non fate l’errore di pensare che, allora, potete stare meno attenti di noi, intrappolati nelle zone rosse del centro-nord. Proprio perché la vostra situazione è, per ora, meno drammatica della nostra, approfittatene per proteggervi nel modo più rigoroso possibile.

Ne va del vostro futuro, e anche del nostro.

Fonte: Elaborazioni Fondazione Hume su dati Dipartimento della Protezione Civile (aggiornamento al 9/3/2020)
Pubblicato su Il Messaggero del 10 marzo 2020

 

 




Coronavirus, una guerra che non ammette disertori

Fino a sabato avevo in mente, per l’editoriale che leggete oggi, di ribadire con ancora maggiore forza il concetto che avevo espresso più volte, sia un mese fa sia nei giorni scorsi; la situazione è seria, anzi drammatica, chi la sottovaluta o minimizza i pericoli, ma soprattutto chi non si attiene a tutte le regole consigliate dalle autorità contribuisce, con la propria superficialità, ad accelerare l’avanzata del virus che sta devastando il nostro paese, e non solo il nostro. Avere senso civico, oggi, significa fare ciò che ci viene richiesto, anche se significa vivere in un modo orribile e disumano. Ed è gravissimo che sia i privati (per interessi economici) sia le autorità (per ragioni politiche) continuino a diffondere le tre bufale fondamentali che hanno ritardato la presa di coscienza dei cittadini: che il virus uccida solo gli anziani già affetti da altre gravi patologie; che i soggetti senza sintomi (i cosiddetti asintomatici) non possono trasmettere il virus; che il coronavirus sia poco più che una brutta influenza. Come è gravissimo che lo spot di Amadeus sulle regole di comportamento sia stato così reticente su alcuni pericoli fondamentali: la trasmissione attraverso le cose, il contagio in bar, ristoranti, piscine, cinema, palestre, sale giochi, mezzi di trasporto, mostre, chiese, musei, acquari, festival, giusto per ricordare i principali.

Ora però è tutto diverso. Il governo, dopo aver partecipato (o organizzato?) la sceneggiata della tranquillizzazione (in una trasmissione condotta da Bruno Vespa) pare essersi improvvisamente convertito alla linea più severa. Gli appelli di noi presunti “allarmisti”, lapidati su internet perché indurremmo panico e psicosi collettive, sono finalmente diventati superflui. Ancora venerdì pochi avevano capito, oggi hanno capito – si spera – quasi tutti. Già nella giornata di sabato, con la notizia che il virus aveva colpito Zingaretti (a proposito: i miei auguri più sinceri di uscirne presto e bene!) il livello di attenzione del pubblico, ma soprattutto della politica, è improvvisamente salito alle stelle. E la politica, questa volta, ha dovuto arrendersi, risolvendosi a fare oggi quel che avrebbe dovuto fare un mese fa. Meglio tardi che mai, anche se la lezione non pare completamente assimilata: se vuole prevenire, anziché intervenire solo quando i buoi sono scappati, chi ci governa forse dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di adottare misure drastiche di contenimento e di limitazione anche nelle zone a bassa diffusione del virus, proprio per preservare almeno alcune “isole felici”, o meno infelici delle altre.

Oggi, dunque, non è più il tempo di lottare per far capire a tutti come stanno le cose. Oggi è tempo di obbedire scupolosamente agli ordini che ci vengono impartiti, il che significa – inevitabilmente – rinunciare a un bel pezzo della nostra libertà, a partire da quella di movimento. Con quali prospettive?

Nessuno può avere risposte sicure. Quel che però possiamo fare è cercare di delineare il percorso che dobbiamo fare, e le ragioni per le quali non è impossibile frenare l’avanzata del virus, e persino – alla fine – far spegnere questa epidemia.

Per capire come, occorre spiegare alcune cose un po’ tecniche, ma che è essenziale comprendere per arruolarsi convintamente nella armata dei nemici del virus.

In una epidemia, il parametro fondamentale, da cui tutto dipende, è R0. Con questo simbolo (“erre zero”) si intende il numero di persone che, mediamente, ogni infetto contagia prima di diventare innocuo (o perché messo in isolamento, o perché ricoverato o perché deceduto). Il valore di R0 è fondamentale, perché più R0 è grande, più il contagio si allarga velocemente. Se R0 è 2, il tempo medio in cui si resta contagiosi è una settimana, e ci sono 1000 infetti, allora dopo una settimana gli infetti saranno 3000 (i 1000 di partenza + 2000 nuovi infetti). Se R0 è 5, dopo una settimana gli infetti saranno 6000 (i 1000 di partenza + 5000 nuovi infetti). A questo punto il ciclo riparte, con più o meno ritardo a seconda di quanto tempo un neo-infetto impiega a diventare esso stesso contagioso. Ma non ci vuole molto a capire che, una volta che la base di partenza si sia allargata abbastanza, bastano pochissime settimane a generare un numero di infetti molto grande, dell’ordine delle centinaia di migliaia di persone, se non oltre.

Ma quanto è grande R0 nel caso del coronavirus?

Nessuno lo sa, e infatti le stime che sono circolate nella letteratura scientifica, spesso basate su dati cinesi, vanno quasi tutte da 2 a 6, valori entrambi preoccupanti, ma enormemente preoccupanti se il valore effettivo fosse davvero 5 o 6 (come ha autorevolmente congetturato, fra gli altri, il prof. Crisanti, eminente studioso ora arruolato nella task force della regione Veneto).

C’è però anche un’altra risposta, la risposta più corretta, alla mia domanda sul valore di R0: e la risposta corretta è che R0 non esiste, perché non dipende solo dalle caratteristiche del virus ma anche dal nostro comportamento. Sul punto, voglio lasciare la parola al prof. Crisanti:

“Nella letteratura scientifica non ci sono valori di R0 esportabili geograficamente, perché il tasso di replicabilità non dipende solo dalla virulenza del virus, ma molto dalla densità della popolazione di un’area, dalle condizioni di igiene, dalle abitudini di vita, dalla mobilità. Faccio un esempio: la poliomielite nel 1930 aveva un R0 di 12 in Italia. Negli Usa era di 4. Lì avevano le fogne, noi no”

Capite? Trasportato ai giorni nostri, “avere le fogne” si traduce in: rispettare scrupolosamente tutte le regole, a partire dal “distanziamento sociale” e dall’isolamento in casa degli anziani (come me: ho quasi 70 anni).

Se sapremo farlo, il valore di R0, quale che sia oggi, non potrà non scendere. Insomma: non è detto che vinciamo la guerra, avremo sicuramente delle perdite gravi, ma abbiamo anche un’arma con cui combattere.

Ma c’è anche un’altra buona notizia o, se preferite, un altro filo di speranza. Ed è che la matematica del contagio dimostra che, perché l’epidemia si esaurisca, non occorre che R0 sia 0, ma basta che sia minore di 1. Che cosa significa, in concreto?

Significa che non occorre che un infetto non contagi nessun altro, ma basta che il numero medio di contagiati per infetto sia minore di 1. Il che significa, tornando all’esempio dei 1000 contagiati iniziali, che l’importante è che 1000 infetti ne contagino meno di altri 1000, per esempio 900, o 800. Può sembrare strano a chi non è uno specialista di statistica o di epidemiologia, ma è precisamente così. Se R0 è minore di 1, poco per volta l’epidemia, anziché propagarsi, si spegne.

Il compito delle prossime settimane sarà di capire qual è il valore attuale di R0, e di quanto esso cala man mano che noi combattiamo nell’unico modo che ci è concesso, quello della più stretta osservanza delle regole di prudenza. E’ una guerra, lo so, ma è una guerra che non ammette disertori.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 marzo 2020



Coronavirus, obbligatorio cambiare rotta

(Why Giuseppe Conte is unfit to save Italy)

Non ho molti dubbi sul fatto che gli storici del futuro avranno molto da dire sulle responsabilità del governo Conte in questo cruciale mese di febbraio.

E’ molto verosimile che, quando la distanza temporale degli eventi avrà reso gli animi più distaccati e le menti più lucide, alla mediocre classe dirigente che ha gestito questa crisi verranno imputati tre errori fatali, dislocati più o meno a una settimana di distanza l’uno dall’altro.

  • Errore 1: aver sottovalutato, nonostante le avvertenze degli esperti (il primo allarme di Roberto Burioni è dell’8 gennaio, ben due mesi fa), la gravità della minaccia dell’epidemia di coronavirus, non solo respingendo la linea rigorista dei governatori del Nord, ma tentando di approfittare politicamente delle circostanze: un’emergenza sanitaria è stata trattata come un’emergenza democratica, come se la posta in gioco fosse l’antirazzismo e non la salute degli italiani (il medesimo Burioni, per le sue proposte di quarantena, è stato accusato di fascio-leghismo).
  • Errore 2: aver rinunciato, quando la misura sarebbe stata ancora efficace, a una campagna massiccia di tamponi, per la paura di danneggiare l’immagine dell’Italia all’estero.
  • Errore 3: aver insistito per giorni sulla necessità di far ripartire l’economia, come se questo obiettivo – se perseguito nel momento di massima espansione dell’epidemia – non avesse l’effetto di facilitare il contagio.

Non so se, in queste ore, il governo correggerà la rotta, e in che misura eventualmente lo farà. Ma penso di poter dire, sulla base dell’evidenza statistica disponibile, che non essere intervenuti drasticamente e subito avrà un costo enorme in termini di vite umane, prima ancora che in termini di ricchezza.

Il numero di persone già contagiate è molto più ampio del numero di positivi, e il numero di morti raddoppia ogni 48 ore senza, per ora, mostrare alcun segno di rallentamento. Il tasso di propagazione dell’epidemia, il famigerato R0, è tuttora largamente superiore a 2, probabilmente prossimo a 5 contagiati per infetto.  Se, come molti esperti considerano possibile, il virus dovesse raggiungere anche solo il 20% della popolazione (12 milioni di persone), i morti non sarebbero il 3% (circa 360 mila) ma almeno il triplo o il quadruplo, ovvero 1 milione o più. In quel caso, infatti, i posti di terapia intensiva necessari per salvare i pazienti gravi non sarebbero sufficienti, nemmeno ove – tardivamente – il governo varasse oggi stesso un piano per raddoppiare o triplicare la capacità attuale (oggi i posti disponibili sono 5000, con 12 milioni di contagiati ce ne vorrebbero almeno 50 mila, ossia 10 volte la capacità attuale).

Questa eventualità, ossia che il coronavirus raggiunga un cittadino su 5, è così poco inverosimile che il Regno Unito la sta considerando seriamente come uno scenario possibile. E non voglio neppure pensare che cosa potrebbe accadere se, come alcuni esperti ritengono possibile, l’epidemia dovesse raggiungere quasi l’intera popolazione italiana.

In questa situazione ci vorrebbe ben altro governo e ben altra classe dirigente, ma non è questo il tempo di fare considerazioni politiche. Oggi è il tempo di salvare l’Italia da una catastrofe potenzialmente peggiore di una guerra, e di farlo con i mezzi che abbiamo e il tempo ristrettissimo che ci sta davanti. So di star per dire una cosa non provabile in modo inoppugnabile (i dati sono ancora parziali) ma solo plausibile, e tuttavia voglio dirla lo stesso, perché proteggere la mia reputazione di studioso è meno importante che avvertire di un pericolo che è largamente preferibile sopravvalutare che ignorare.

Ebbene, nelle prossime 72 ore, se nulla cambia, è verosimile che l’Italia attraversi la barriera dei 60.000 contagiati, un limite oltrepassato il quale il rischio di interagire con persone contagiate diventa non trascurabile, ed enormemente più grande di quello che avevamo anche solo fino a un paio di settimane fa.

Non spetta a me, né ne avrei gli strumenti, per redigere un piano che limiti i danni. In proposito ci sono idee e proposte di grande spessore degli esperti che in queste settimane sono stati più vigili, e meno disponibili ad accodarsi alle oscillazioni delle autorità di governo: penso al prof. Roberto Burioni (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano), al prof. Andrea Crisanti (Università di Padova), al prof. Massimo Galli (ospedale Sacco di Milano).

Due cose, però, mi sento di dirle. La prima è che la priorità non può essere far ripartire l’economia subito, perché questo non farebbe che accelerare la circolazione del virus. Le risorse economiche dovrebbero essere indirizzate prima di tutto a moltiplicare le unità di terapia intensiva e sub-intensiva, perché quasi certamente fra 2 o 3 settimane i malati gravi saranno molto più numerosi dei posti disponibili.

La seconda è che, se vogliamo limitare il numero dei morti, dovremo rinunciare, per almeno qualche settimana, a una parte delle nostre libertà e, probabilmente, anche a una frazione di ciò che siamo abituati a pensare come parte integrante della democrazia.

Quando dico rinunciare alle nostre libertà, penso soprattutto alla libertà di circolazione e di spostamento. E quando dico rinunciare a una frazione della democrazia intendo dire che, se vogliamo salvare il servizio sanitario nazionale, dobbiamo avere il coraggio di nominare un commissario per l’emergenza, che sia competente, dotato di pieni poteri, di un budget adeguato, e completamente immune alle interferenze della magistratura e della politica.

L’alternativa esiste, naturalmente, ed è di continuare con la rancida minestra che ci sta somministrando questo governo. Ma bisogna sapere, allora, che il costo non si misurerà in termini di consenso, o di punti di Pil perduti, bensì in termini di vite umane che si è rinunciato a salvare.

(4 marzo 2020)



Dobbiamo fermarci un paio di mesi. Intervista a Luca Ricolfi

Con gli attuali trend, si può arrivare, nelle mie simulazioni, anche ad avere 2-300mila decessi. Il calcolo si basa su due parametri, uno (relativamente) noto e l’altro ipotetico. Il parametro noto è che, su 100 infetti, ne muoiono 2 o 3. Questo dato ci dice che, ove avessimo 8 milioni di infetti (come in una comune influenza), il numero di morti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila.

Il parametro ipotetico è invece il tasso di propagazione del virus, che al momento non è noto, ma che, a mio parere, è nettamente superiore a 2 o a 2.5 contagiati per ogni infettato. È qui che subentrano i modelli matematici di simulazione, che partono da ipotesi sul tasso di propagazione e controllano se le traiettorie che ne risultano sono compatibili con i dati noti.

I dati noti con i quali misurarsi nel modello sono le serie storiche dei contagi accertati e, soprattutto, delle morti connesse al coronavirus. Queste ultime sono le più affidabili, perché dipendono solo dalla diffusione effettiva del contagio, e non dalle politiche sanitarie e diagnostiche messe in atto, come accade invece con le statistiche sul numero di positivi al test.

***

Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo aiuterebbe la circolazione del virus, potrebbe essere la catastrofe». Luca Ricolfi, sociologo, ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino, ha letto le informazioni disponibili sul Coronavirus- contagio, ammalati, morti- utilizzando le sue competenze statistiche. I risultati delle simulazioni fatte per la Fondazione David Hume, di cui è presidente, sono choccanti: con gli attuali tassi di prorogazione, se il virus non verrà rallentato drasticamente, potrebbero esserci centinaia di migliaia di decessi in pochi mesi. Decisiva una politica rigorosa di contenimento, in tal senso «le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione». I 3,6 miliardi di sforamento del deficit che la UE potrebbe autorizzarci? «Andrebbero utilizzati non per dare aiuti a pioggia alle imprese ma a rafforzare il servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto. Altrimenti si rischia il collasso».

Professore, lei stima che, con gli attuali trend di contagio e di morte, si possa arrivare anche ad avere 2-300mila decessi. Una cifra terribile. Come arriva a questa conclusione? Qual è il metodo di calcolo?
Il calcolo si basa su due parametri, uno (relativamente) noto e l’altro ipotetico. Il parametro noto è che, su 100 infetti, ne muoiono 2 o 3. Questo dato, da solo, ci dice che, ove avessimo 8 milioni di infetti (come in una comune influenza), il numero di morti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila. Il parametro ipotetico è invece il tasso di propagazione del virus, che dipende da tanti fattori e al momento non è noto, ma a mio parere è nettamente superiore a 2 o a 2.5 contagiati per ogni infettato. È qui che subentrano i modelli matematici di simulazione, che partono da ipotesi sul tasso di propagazione e controllano se le traiettorie che ne risultano sono compatibili con i dati noti, ossia con le serie storiche dei contagi accertati e, soprattutto, delle morti connesse al coronavirus. Queste ultime sono le più affidabili, perché dipendono solo dalla diffusione effettiva del contagio, e non dalle politiche sanitarie e diagnostiche messe in atto, come accade invece con le statistiche sul numero di positivi al test.

E cosa dicono le sue simulazioni?
Ebbene, le simulazioni mostrano che, se si vogliono generare serie storiche compatibili con la dinamica di quelle osservate, si è costretti a ipotizzare un tasso di propagazione più alto di 2.5. Qualche esperto, come il prof. Andrea Crisanti, virologo dell’Università di Padova, è arrivato a ipotizzare un tasso di 4 o 5 contagiati per infettato, che nelle simulazioni risulta più compatibile con i dati storici di un tasso di 2 o di 2.5. Ma il dramma è che, se il tasso di propagazione è davvero 4 o 5, e non si interviene con politiche di contenimento drastiche, il numero degli infettati non ci metterà molto ad arrivare a qualche milione, come accade con l’influenza stagionale.

Il calcolo statistico non sconta variabili, nella fattispecie potrebbero essere il caldo della primavera, l’indebolimento del virus stesso o l’efficacia delle misure prese dal governo. Che margini di errore hanno di solito analisi di questo tipo?
Le analisi basate su modelli matematici possono solo formulare ipotesi su eventuali meccanismi di attenuazione (o di amplificazione), perché la capacità di propagazione del virus non è un dato assoluto, o intrinseco, ma dipende da numerose condizioni al contorno, perlopiù sconosciute nelle loro dimensioni e nel loro impatto. Cionondimeno, la mera osservazione della dinamica attuale basta a suggerire che, per frenare il virus, occorrerebbero fattori di grandissimo impatto, come una elevata sensibilità al caldo, o una tendenza all’indebolimento nel ciclo delle mutazioni.
Fra i fattori potenzialmente frenanti, però, ve n’è uno fondamentale, che nei miei modelli ho chiamato qt.

Cosa indica qt?
È la quota di malati “ritirati” dalla scena pubblica al tempo t e collocati in quarantena, in quanto precocemente diagnosticati come positivi al coronavirus. Ebbene, poiché (insieme alle norme comportamentali) l’incremento di q mediante una campagna massiccia di tamponi è l’unica arma che abbiamo, considero irresponsabile (per non dire altro) il comportamento del premier Giuseppe Conte, che qualche giorno fa ha esortato a fare meno tamponi.
Se anziché straparlare di numero eccessivo di tamponi il governo avesse seguito il saggio consiglio del virologo Roberto Burioni di moltiplicarli, prevedendoli per chiunque abbia anche solo 37 gradi e mezzo di febbre, oggi la progressione del contagio sarebbe sensibilmente più lenta, e avremmo qualche speranza di fermarlo.

Tra Nord e Sud c’è qualche differenza? Ad oggi ci sono meno contagi.
Penso che l’esplosione dei contagi al Nord sia dovuta a due fattori distinti. Il primo è il caso, ossia che il Nord abbia avuto un paziente super-spreader (ultra-capace di infettare), che da solo ha dato luogo a una catena di contagi molto vasta, favorita dai protocolli seguiti nell’ospedale di Codogno, che per quel che ne so erano quelli vigenti, anche se inadeguati.
Il secondo, decisivo, fattore è che sono tutte del Nord le regioni più produttive e internazionalizzate del Paese, ossia Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Io ho fatto calcoli separati per la propagazione al Nord e al Sud e, allo stato attuale dell’informazione disponibile mi risulta che la velocità di propagazione sia analoga.

L’Italia da zona franca è diventato focolaio europeo. Ma c’è chi sostiene che la differenza sia proprio nel numero (in eccesso) di tamponi fatti in Italia.
La considero una sciocchezza. In Italia il processo è partito un po’ prima, per ragioni casuali, ma temo che gli altri paesi vedranno il medesimo film, a meno che qualche paese si decida a percorrere la strada-Burioni anziché il precipizio-Conte. Lì si vedrà quali paesi hanno una classe dirigente all’altezza.

A fronte di questa situazione, le autorità stanno via via riavviando le attività. Che segnali arrivano alla popolazione?
Errati. Le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione.
Io però distinguo nettamente fra l’intervento assistenziale e riparativo dello Stato (che è opportuno) e il tentativo di riaprire le attività, tornando alla vita normale (che produrrebbe effetti catastrofici). Quest’ultima cosa, il ritorno alla normalità, non possiamo ancora assolutamente permettercela.

Senza risorse massicce, il servizio sanitario nazionale rischia di non farcela.
Rischia il collasso. A mio parere è praticamente certo che, nel giro di poche settimane, si comincerà a morire perché non ci sono abbastanza posti nei reparti di terapia intensiva. È il guaio delle democrazie, che non possono costruire un ospedale in 10 giorni, né rinchiudere qualche milione di abitanti in una zona rossa, né proclamare il coprifuoco.

Lei sta seguendo il flusso di informazioni dei media? Come lo giudica?
Ne sono disgustato. Tutto continua con i consueti teatrini, in cui i soliti personaggi si scambiano opinioni (e qualche volta insulti) su cose più grandi di loro. È come la scena finale del Titanic, con la gente che balla mentre la nave affonda.

Che stima è possibile fare per quanto riguarda gli effetti sul Pil?
Stime vere e proprie sono impossibili. Se proprio devo azzardare, però, di stime ne farei non una ma due. Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo – come è elementare prevedere – anziché frenare il virus aiuta la sua circolazione, potrebbe essere la catastrofe. Che a quel punto non si misura sui punti di Pil perduti ma, come in guerra, sul numero di morti.

Il governo italiano si accinge a incassare uno sforamento dei vincoli Ue pari a 3,6 miliardi di euro di maggiori risorse. Che effetto avrà?
Sono sempre stato ostile agli sforamenti del deficit, ma questo è uno dei pochi casi in cui lo troverei sacrosanto. Il problema, però, è come usarli i 3.6 milioni di euro. Io prevedo che il grosso sarà usato per soddisfare le innumerevoli richieste di risarcimento danni che pioveranno sul tavolo del governo, e ben poco resterà per l’unica vera emergenza: rafforzare il servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi del 4 marzo 2020