Esuli pensieri. Un’agenda dell’epidemia

Esuli pensieri

Su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar 

(Giosuè Carducci, San Martino)

Un’agenda dell’epidemia

Era un po’ di tempo che avevo voglia di cominciare una specie di diario, una sorta di “agenda della crisi” che raccontasse questi giorni funestati dal Covid-19.

Un’agenda fatta di numeri e di analisi, perché maneggiare numeri è il mio mestiere. Ma un’agenda, anche, fatta di riflessioni e di pensieri, che il procedere della crisi continuamente sollecita. Li ho chiamati “esuli pensieri”, perché mi sento in esilio.

Ora ho sentito in Tv il discorso di Conte che annuncia la riapertura il 4 maggio, e non posso più rimandare. La mia agenda comincia da qui, dal discorso che ci è stato inflitto stasera.

E allora andiamo subito al sodo. Che cosa ha detto Conte?

Il succo è questo: Cari italiani, è giunto il momento di riaprire. Certo, riaprire già adesso comporta dei rischi, perché l’epidemia può ripartire in qualsiasi momento. Ma impedire al virus di tornare a circolare si può: dipende essenzialmente da voi, dal vostro senso di responsabilità. Se rispetterete le regole, l’epidemia si potrà tenere sotto controllo, se non le rispetterete l’epidemia ripartirà.

Eh no, caro presidente del Consiglio, questo non puoi proprio dirlo. Dire che l’epidemia potrebbe ripartire è già un inganno. L’epidemia è tuttora in corso, non c’è un solo indizio empirico che sia finita, quindi la prima cosa che dovevi dirci è che voi, politici, avete cambiato idea. Ci avete fatto credere che prima avremmo fermato l’epidemia, e poi avremmo riaperto. Invece ora ci dite che riaprite ad epidemia in corso, esponendo tutti noi a rischi drammatici.

Ma l’inganno più grande è scaricare su di noi, comuni cittadini, la responsabilità di impedire una nuova esplosione del contagio. Troppo comodo. Questo lo potreste dire se, in questi mesi, ci aveste messi in condizione di difenderci. Se, dopo settimane e settimane in cui siamo stati dimenticati nelle nostre case (o nelle nostre residenze per anziani), senza assistenza, senza mascherine, senza tamponi, ora foste in grado di dirci: state tranquilli, ora le mascherine ci sono per tutti, ora un tampone non ve lo negheremo più, ora i medici vi verranno a trovare a casa quando state male.

Invece su tutto questo non una parola, non un numero. Apprendiamo che verrà fissato un prezzo massimo per le mascherine, e si sprecano parole di fuoco contro la speculazione che fa lievitare i prezzi. Ma nemmeno Manzoni avete letto? Non lo sapete che, se gli speculatori prosperano, è perché voi non siete in grado di assicurare un approvvigionamento adeguato? Non vi vergognate a chiederci di mettere le mascherine, salvo coprirci con foulard, sciarpe e asciugamani se le mascherine non le troveremo?

Per non parlare dei tamponi, che avete negato e disincentivato in tutti i modi, nascondendovi – finché vi è stato possibile – dietro le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ora che l’OMS ha fatto macchina indietro, e invita a fare tamponi (“test, test, test”), perché continuate a farne così pochi? Non lo sapete che i paesi in cui la conta dei morti è meno drammatica sono quelli che hanno puntato sui tamponi di massa? Quanti dati, quante analisi, quanti grafici dobbiamo darvi per convincervi che le cose stanno così?

E i lavoratori cui chiedete di tornare al lavoro, “nella massima sicurezza”? Ci sarebbe piaciuto sentire qualche numero sui cosiddetti dispositivi di protezione individuale. Quanti ne occorrono, quanti sono attualmente disponibili, chi provvederà a fornirli alle imprese, chi si farà carico del costo.

E invece no. Anziché dare garanzie su questo, il governo si compiace di farci sapere che presto inonderà imprese e organizzazioni con dettagliatissimi “protocolli di sicurezza”, nel solito consueto stile degli apparati pubblici: io ti dico a quali norme devi attenerti, non mi preoccupo di metterti effettivamente in grado di rispettarle.

E allora, almeno una cosa lasciatecela dire. Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali.

Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa.

 




L’azzardo della ripartenza

Sono stato facile profeta quando, una settimana fa, scrissi che ai primi di maggio la fase 2 sarebbe partita comunque, a prescindere dall’andamento dell’epidemia. E infatti così è: il mese di maggio sarà il mese della ripartenza. Più o meno modulata, più o meno differenziata, ma comunque ripartenza, allentamento delle misure restrittive, riapertura di molte fabbriche ed esercizi commerciali.
Può essere più o meno sbagliato, ma è inevitabile. La democrazia è sospesa, l’opinione pubblica preme, gli operatori economici scalpitano: impensabile che la politica non ne tenga conto.
Che poi tanti medici e tanti scienziati dicano che è pericoloso, poco importa. E nemmeno contano le parole del prof. Andrea Crisanti, probabilmente il nostro epidemiologo più esperto, quello che ha realizzato l’indagine su Vo’, ha scoperto l’enorme peso degli asintomatici, e fin da febbraio ha avvertito che occorreva chiudere, e chiudere subito: “tutti quelli che si affannano e spingono per riaprire non si rendono conto delle conseguenze a lungo termine; i rischi esistono perché c’è ancora tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi”.
Che dire, dunque?
Forse semplicemente a che punto siamo, quel che sappiamo e quel che non sappiamo.
Soprattutto quel che non sappiamo, perché nessuno può pensare di governare un’epidemia senza i dati di base della situazione, e senza strumenti di monitoraggio ragionevolmente precisi.

Ignoranza 1. Non sappiamo quanti sono i contagiati, né quanti fra i contagiati sono tuttora contagiosi. E non lo sappiamo innanzitutto perché, nonostante fin da metà marzo vi fossero proposte di condurre un’indagine su un campione nazionale rappresentativo, e per quanto alla fine anche le autorità si fossero convinte della sua utilità, il pachiderma dell’apparato addetto all’indagine nazionale non ha ancora fornito un solo bit di informazione. Dunque, se vogliamo avere un’idea della diffusione del contagio siamo costretti a ricorrere a stime ultra-incerte, che viaggiano arditamente fra i 2 e i 12 milioni di persone.

Ignoranza 2. Non conosciamo neppure la diffusione territoriale relativa del contagio. Il dato meno inquinato di cui disponiamo è quello dei morti per Covid-19 in ogni regione. Ma da quando si è appreso che non solo il numero dei morti effettivo è molto superiore a quello ufficiale (da 2 a 4 volte), ma il numero oscuro dei morti nascosti è estremamente variabile da regione a regione, da provincia a provincia, da comune a comune, siamo costretti a concludere che la distribuzione territoriale del contagio potrebbe essere molto diversa da quella suggerita dai morti per abitante, e che i rischi per il Sud potrebbero essere sensibilmente maggiori di quel che si pensa basandosi sul numero di morti ufficiali (del numero di contagiati fornito dalla Protezione Civile non vale neppure la pena di parlare, tanta è la loro dipendenza dai tamponi effettuati in ogni territorio). E dire che, per saperne di più, basterebbe che le autorità, anziché trincerarsi dietro il paravento della privacy, si degnassero di comunicare il numero di morti comune per comune.

Ignoranza 3. Non sappiamo a che velocità viaggia effettivamente l’epidemia, nonostante vi siano esperti che presumono di conoscere il cosiddetto “numero riproduttivo” (ossia il numero di contagiati per persona) addirittura regione per regione.
Credo non a tutti sia chiaro che i numeri che quotidianamente ci vengono comunicati dalla Protezione civile non si riferiscono al “mare” dei contagiati, ma a un “laghetto” di pazienti intercettati dalle autorità sanitarie. Nessuno conosce esattamente le dimensioni relative del laghetto rispetto al mare, ma le stime più ottimistiche dicono che il mare potrebbe essere “solo” 10 o 20 volte più grande del laghetto, mentre le più pessimistiche (vedi la virologa Ilaria Capua) si spingono ad ipotizzare che possa essere 100 volte tanto (la stima della Fondazione Hume, che verrà pubblicata nei prossimi giorni, è che il mare sia circa 50 volte più grande del laghetto). Questo significa che, quando la sera ascoltiamo con trepidazione le cifre dei nuovi casi, quello di cui gli esperti ci stanno parlando è quel che succede nel laghetto che loro riescono ad osservare, mentre di quel che capita nel restante 90, 95 o 98% della realtà nulla di preciso è dato sapere.

Dobbiamo concludere che stiamo per ripartire, ma nulla sappiamo dell’epidemia?
Non esattamente. Sfortunatamente alcune cose, invece, le sappiamo eccome, e non sono cose che ci possano rassicurare.
Che cosa sappiamo?
Quasi tutto quel che sappiamo è legato ai decessi accertati. Rispetto ai casi, infatti, i decessi hanno molto minori possibilità di essere occultati. E’ vero, ci sono i decessi nascosti nelle residenze per anziani. E ci sono le persone lasciate a casa a morire perché nessuno è venuto a visitarle, o il numero verde non risponde, o il 118 non arriva, o una mail si è perduta nel labirinto della sanità moderna e digitalizzata. Ma, nonostante tutto ciò, resta il fatto che il numero di morti nascosti può essere 2 o 3 volte il numero di morti ufficiali, ma non 20, 30, o 100 volte, come avviene nel caso dei contagiati non diagnosticati. Il “mare” dei morti totali è più grande del “lago” dei morti accertati, ma non è immensamente più grande. Di qui un’importante conseguenza: se vogliamo avere un’idea dell’andamento dell’epidemia, l’evoluzione dei decessi è la migliore (o la meno inaccurata) fonte di informazione di cui disponiamo (anche le ospedalizzazioni sarebbero una buona fonte, se solo a Protezione Civile fornisse dati un po’ più analitici).
Ebbene, lavorando sui decessi, alcune cose possiamo dirle con ragionevole sicurezza. La prima è che, in base ai dati dell’ultima settimana, in almeno la metà delle regioni l’epidemia non dà chiari segni di arretramento, e in diversi casi è tuttora in espansione
La seconda è che, nel percorso di avvicinamento alla meta di “contagi zero”, siamo ancora molto indietro. E’ passato un mese esatto dal giorno in cui le morti raggiunsero il loro picco (919 in un giorno), ma da allora – dopo una sensibile riduzione nella prima settimana (da 919 a circa 600) – la diminuzione dei decessi è stata decisamente lenta. Negli ultimi giorni siamo a quota 400-500 morti al giorno, ossia esattamente a metà del cammino che ci separa dall’obiettivo di azzerarli. Il progresso tendenziale, in altre parole, nelle ultime 3 settimane è di circa 10 morti in meno al giorno: a questo ritmo, il numero di morti quotidiani si azzererebbe solo a metà giugno, e i contagi – presumibilmente – nell’ultima parte di maggio (i morti di oggi, infatti, sono la traccia di contagi avvenuti circa 3 settimane prima).
Ma la cosa più preoccupante che la contabilità dei decessi rivela è un’altra ancora: nel confronto internazionale l’Italia non solo risulta ai primissimi posti fra i paesi occidentali per gravità e precocità dell’epidemia, ma è anche fra i paesi in cui più lenta è la discesa dopo il picco del contagio e la messa in atto delle misure di contenimento. In Germania, Francia, Spagna, Stati Uniti, la curva di discesa dei decessi è molto più ripida che da noi (solo il Regno Unito, fra i grandi paesi, presenta un profilo simile al nostro).
Insomma, siamo ancora lontani dalla condizione che – fino a poco tempo fa – da tutti veniva considerata una pre-condizione ovvia e inderogabile dell’avvio della fase 2: che il numero di nuovi contagi sia prossimo a zero. Possiamo ugualmente sperare che, nonostante tutto, l’epidemia resterà sotto controllo?
Penso proprio di no. E questo non perché la cosa sia in linea di principio impossibile, ma perché – per riaprire evitando la ripartenza del contagio – occorrerebbe essere consapevoli che il mero fatto di moltiplicare il numero di persone che lavorano e si muovono sui trasporti pubblici non può non facilitare la trasmissione del contagio. Tale consapevolezza porterebbe, o meglio avrebbe già portato, a prendere tutte le contromisure che sono indispensabili per evitare che i nuovi i focolai tornino ad espandersi come hanno fatto tra febbraio e marzo. Fra tali misure vi sono indubbiamente le procedure di tracciamento (che da noi sono “allo studio”), l’indagine nazionale sulla diffusione (che partirà il 4 maggio, se va bene), ma soprattutto i tamponi di massa.
E’ questa la via che sta permettendo alla Germania (ma anche ad altri paesi: Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Canada) di limitare drasticamente il numero di morti. Ed è questa la via che, inspiegabilmente, noi non abbiamo voluto seguire, e continuiamo ostinatamente a non percorrere.
Non capisco perché. E non lo capisce uno sconsolato Andrea Crisanti, che grazie ai tamponi sta salvando il Veneto, ma non può salvare il resto del paese: “penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione”. Trasmissione il cui inevitabile aumento – strano doverlo sottolineare – è il nodo cruciale della fase 2.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 aprile 2020




Le risposte del Governo e la fase 2

Qualche giorno fa, dalle colonne del “Messaggero”, avevamo posto al governo 7 domande, con l’obiettivo di capire se il governo stesso, e più in generale le autorità che gestiscono l’epidemia, erano pronti per la fase due. Le risposte sono arrivate nel giro di poche ore, con una tempestività che è stata molto apprezzata da tutti, a partire dai lettori che già il giorno dopo hanno potuto leggere le valutazioni del governo.
Bisogna anche dire che alcune risposte, penso in particolare a quella sulle residenze per chi non può passare la quarantena in casa per il rischio di infettare i familiari, a quella sull’indagine campionaria sulla diffusione del Coronavirus, e a quella sulla app per il tracciamento, sono risultate relativamente rassicuranti, o lo stanno diventando di ora in ora, man mano che si apprendono nuove notizie sulle iniziative in corso.
E tuttavia credo sia giusto, avendo lanciato il sasso delle domande, non ritirare la mano a proposito delle risposte, che vorrei qui passare in rassegna ad una ad una, con l’intento di fare più chiarezza possibile.
Domanda 1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
Qui la riposta è stata che sono state fornite 93 milioni di mascherine al personale sanitario, ma quanto al punto cruciale, la capacità delle farmacie di rifornire noi cittadini, la risposta è che le farmacie “devono rivolgersi al mercato” e che “presto arriverà il modo e il momento di regolarlo”. Ma adesso? Se dovesse partire la fase 2, il mercato (più o meno ben regolato) riuscirebbe a rifornire tutti? Perché lo Stato non ha avviato autonomamente, o stimolato con incentivi, la produzione di mascherine? E sulle misure di protezione dei lavoratori nel trasporto pubblico e sui luoghi di lavoro a che punto siamo? Hanno ragione i sindacati a dire che la fase 2 non può partire perché non siamo ancora in grado di mettere in sicurezza i lavoratori?
Domanda 2. Quanti tamponi al giorno è in grado di effettuare la sanità pubblica? Qui la risposta è precisa (50 mila al giorno) ma inquietante. Non solo perché il fabbisogno è di almeno il doppio, ma perché la risposta è corredata da affermazioni non veritiere o fuorvianti sulle capacità italiane rispetto ad altri paesi. La realtà, come documentato nei giorni scorsi dalla Fondazione Hume, è che l’Italia è uno dei paesi che di tamponi ne ha fatti di meno, a parità di “anzianità dell’epidemia”. Una circostanza aggravata dal fatto che non solo avremmo potuto approvvigionarci sul mercato prima che partisse la corsa degli altri paesi, ma avremmo anche potuto incentivare e potenziare la produzione interna facendo cadere le barriere normative e burocratiche che finora l’hanno ostacolata.
Domanda 3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
La risposta è chiara: no, una simile data non esiste. Il perché non esiste è inquietante: l’Organizzazione Mondiale della Sanità è indietro, i percorsi autorizzativi saranno ancora lunghi. E, aggiungo io: quando un imprenditore si dà da fare per sottoporre a test i suoi dipendenti, rischia una denuncia o l’intervento dei Nas (è successo alla Sbe di Monfalcone pochi giorni fa).
Va detto, però, che nelle ultime ore le cose si stanno muovendo. Almeno per quanto riguarda i lavoratori, si sta finalmente affrontando il problema di rendere possibili test sierologici certificati. A quel che si apprende, dovrebbe essere imminente la pubblicazione, sul sito della protezione Civile, del bando per raccogliere le offerte delle aziende che si candidano alla produzione del kit per gli esami sierologici. Questo è estremamente positivo.
Domanda 4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone finora sono state reclutate a questo scopo?
Qui la sostanza della riposta è: no, non ce l’abbiamo ancora (sono passati 2 mesi dall’inizio dell’epidemia!), ma prima o poi ce l’avremo. Infatti la ministra all’innovazione tecnologica “sta lavorando – insieme a una task force di 74 esperti – a un’app su base volontaria che dovrebbe essere elaborata da una software house milanese”. Sarà perché faccio il professore universitario, e di commissioni e gruppi di lavoro un po’ ho esperienza, ma confesso che venire a sapere che ci lavora una task force di ben 74 esperti (ovviamente in smart working), che i medesimi esperti devono ancora testarla su un campione, e che a usarla saranno solo volontari, non mi rassicura per niente. Ma non potevamo comprarne subito una funzionate e collaudata dai Cinesi o dai Coreani, i quali (anche) grazie al tracciamento sono riusciti a contenere rapidamente l’epidemia?
Le notizie delle ultimissime ore, però, sono un po’ diverse, e decisamente più incoraggianti: il commissario Arcuri ha appena firmato un’ordinanza per accelerare il decollo della app, le sperimentazioni a livello regionale dovrebbero partire in tempi relativamente rapidi. Speriamo bene.
Domanda 5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
La risposta non è precisa, ma è abbastanza rassicurante: 6800 posti nelle strutture messe a disposizione da Forze Armate e Polizia, più “decine di migliaia” negli hotel grazie ad accordi conclusi dalle Regioni. E’ verosimile che, finché si faranno pochi tamponi come adesso, questa disponibilità di posti risulterà più che sufficiente.
Domanda 6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
Anche in questo caso nessuna data, né per l’inizio, né per la conoscenza dei risultati. Per fare l’indagine sul numero di cittadini previsti (150 mila), oltre a costruire il campione, occorre approvvigionarsi di test (molecolari e sierologici), che al momento non sono disponibili. Che il commissario Arcuri li stia cercando sul mercato “in queste ore” è una buona notizia, anche se inquieta un po’ il fatto che non lo abbia già fatto, visto che della necessità di fare un campione nazionale si parla da settimane.
Domanda 7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?
Qui la risposta brilla per chiarezza: mai. Le motivazioni invece brillano per oscurità, burocratese e, mi spiace dirlo, per capziosità. Si invocano “la tutela della riservatezza”, e le “valutazioni a garanzia della tutela dei dati personali e sanitari”. Mi limito ad osservare che, mentre si sospende la libertà fondamentale di spostamento, e si discute (giustamente) della possibilità di limitare le tutele alla privacy per permettere il tracciamento dei soggetti positivi, è davvero curioso che ci si preoccupi di proteggere la privacy dei malati di Covid, e persino dei morti.
Eppure, chi ha esperienza di ricerca sa benissimo che da decenni esistono collaudati sistemi di “anonimizzazione” e aggregazione dei micro-dati che permettono di trattarli nel perfetto rispetto dell’anonimato. Senza dire che, se proprio non vogliono fornire i micro-dati, le autorità potrebbero almeno rilasciare dati aggregati ma tuttora non disponibili come il numero di morti per Covid nei singoli comuni: una informazione che, incredibilmente, ancora oggi non è disponibile, e la cui conoscenza permetterebbe finalmente di tracciare la mappa delle morti nascoste.
Se devo basarmi sulle risposte ricevute fin qui, mi sembra inevitabile concludere che, nonostante alcuni importanti passi avanti, le autorità non sono pronte alla fase 2. Allo stato attuale, anche se i nostri sacrifici fossero già riusciti ad azzerare i contagi, dovremmo comunque – per evitare che l’epidemia riparta – stare ancora fermi, in attesa che le autorità forniscano un numero adeguato di tamponi, test sierologici, mascherine, dispositivi di protezione per i lavoratori.
Dobbiamo dunque pensare che la fase 2 è lontana, e che saremo costretti agli arresti domiciliari per mesi e mesi?
Niente affatto. Potrò sbagliarmi, ma la mia sensazione è che la fase 2 partirà comunque. Troppa è la pressione della gente, troppa la più che comprensibile impazienza del mondo delle imprese. Difficile che il governo riesca a tenerci tutti nel congelatore oltre la prima metà di maggio. Del resto quasi tutto il Nord sta già, più o meno incautamente, avviando la fase 2, sia pure per tappe progressive.
Dunque la domanda non è: quando partirà la fase2? La vera domanda è: quanti altri morti ci costerà la scelta di ripartire comunque per timore di un tracollo economico e sociale?
La risposta a questa domanda è che il numero di morti dipenderà molto dalla velocità con cui le autorità colmeranno i ritardi che hanno accumulato.
Per questo abbiamo fatto le 7 domande. Per questo speriamo che, con il passare del tempo, le risposte diventino sempre più rassicuranti.

Pubblicato su Il Messaggero del 18 aprile 2020




7 domande senza risposta

Supponiamo che a un certo punto, speriamo presto, vi siano buoni motivi per pensare di essere vicini alla meta di nuovi contagi-zero. In sostanza significherebbe che, con i sacrifici dei cittadini, si è arrivati ad avere pochissimi nuovi contagiati ogni giorno (nessun nuovo contagiato è ovviamente impossibile, nel breve periodo).

Bene, a quel punto la pressione di tutti, famiglie e imprese, per ripartire diventerebbe fortissima. Ascolteremmo discorsi del tipo: noi abbiamo fatto il nostro dovere, adesso lasciateci tornare a vivere e a lavorare.

Supponiamo anche, giusto per stare sul concreto, che quel giorno sia fra 3 settimane, ovvero ai primi di maggio.

Ebbene, a quel punto potremmo riaprire?

La risposta è che questo non dipende da noi comuni cittadini ma dipende dai nostri governanti. Se loro avranno fatto la loro parte, i nostri sacrifici non saranno stati vani. Ma se invece non l’avranno fatta, sarà perfettamente inutile quel che abbiamo patito fin qui perché l’epidemia ripartirà. Prima a macchia di leopardo, con pochi e piccoli focolai un po’ in ogni parte d’Italia, poi alla grande, quando i nuovi focolai si espanderanno, più o meno come è già successo dalla fine di febbraio.

Ecco perché dobbiamo farci la domanda: ma loro sono pronti? Hanno fatto i compiti?

E’ una domanda che, meritoriamente, alcuni mezzi di informazione pongono, e ripropongono quotidianamente, a politici e funzionari quando li interrogano su cose come tamponi, mascherine, test sierologici, ma è anche una domanda cui seguono balbettamenti, frasi involute, vaghe intenzioni, riflessioni e valutazioni che sarebbero in corso, rivendicazioni di quel che si è fatto, ma nessuna chiara e univoca risposta, in un frastuono di voci ora confuse, ora discordanti.

Eppure è la domanda cruciale: siete pronti? Se oggi fossimo a contagi zero sareste in condizione di gestire la fase due?

Quel che si è capito fin qui è che loro non sono affatto pronti. Perché se lo fossero ci direbbero cose come quelle che seguono.

  1. Ci siamo approvvigionati, ci sono mascherine per tutti, abbiamo calcolato che ce ne vogliono 100 milioni al giorno (almeno 2 a testa), le farmacie sono rifornite.
  2. Di tamponi ne facciamo ancora pochi, ma entro la settimana prossima arriveranno tamponi e reagenti, e saremo in grado di farne 500 mila alla settimana come la Germania.
  3. Abbiamo deciso di rinunciare al monopolio pubblico dei test, da oggi chiunque lo desideri può sottoporsi a tamponi e test sierologici in una struttura privata, o mediante prelievi a domicilio; episodi come quello di Monfalcone, in cui i Nas hanno sequestrato i tamponi a un’impresa che stava facendo i test ai suoi lavoratori, non si ripeteranno più.
  4. E’ pronta una app per il tracciamento dei contatti, ed è già operativa una task force di 5000 persone che ricostruirà i contatti di ogni caso risultato positivo.
  5. Ci sono 10 mila posti, in alberghi e strutture para-ospedaliere, pronti ad accogliere chi non può passare la quarantena a casa perché rischia di infettare i familiari.
  6. L’Istat sta svolgendo un’indagine a campione in tutto il territorio nazionale, entro una settimana avremo i dati fondamentali per governare l’epidemia, a partire da quelli sul numero di asintomatici e pauci-sintomatici.
  7. Abbiamo deciso di de-secretare i micro-dati (anagrafici e clinici) dell’Istituto Superiore di Sanità sui positivi, per permettere agli studiosi di dare il loro contributo alla comprensione dell’epidemia.

Sfortunatamente, di rassicurazioni di questo tipo non v’è la minima traccia.

Ecco perché, da oggi in poi, noi ve lo chiederemo sempre. Abbiamo preparato 7 domande, una per ciascuno dei 7 punti precedenti, e le ripeteremo periodicamente, per fare il punto, e sapere se avete fatto progressi, e a che punto siete. Potete non risponderci, ma la vostra non-risposta sarà più eloquente di qualsiasi risposta.

Noi cittadini, la nostra parte la stiamo facendo. Ora tocca a voi, che vi siete presi i pieni poteri per gestire l’epidemia, dimostrarci che state facendo la vostra.

***

 

Bozza di questionario

1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
2. Quanti tamponi al giorno, al momento, è in grado di effettuare la Sanità Pubblica?
3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone (oltre ai 74 esperti), finora, sono state reclutate a questo scopo?
5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?

Pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2020




Il Governo non è pronto per la “fase 2”. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, siamo tutti segregati in casa da 50 giorni e il governo ha prolungato la chiusura del paese fino al 3 maggio. Il danno economico sarà devastante. Ma almeno il lock down sta funzionando a contenere l’epidemia a suo avviso?
Sì e no. Sì, perché, dopo il duplice lockdown del 5 e del 9 marzo (chiusura scuole + chiusura totale), il numero giornaliero di nuovi contagiati ha quasi immediatamente smesso di crescere, almeno secondo la ricostruzione della Fondazione Hume, basata sulla dinamica recente delle morti e delle ospedalizzazioni).
Ma attenzione: meno nuovi contagi quotidiani non significa che si è fermato il contagio, ma solo che il numero di nuovi infetti cresce a un ritmo via via più lento. Giusto per darle un’idea: se fino all’annuncio della chiusura delle scuole avevamo 100 mila nuovi contagiati al giorno, dopo 10 giorni di arresti domiciliari (ultima settimana di marzo) si può stimare che i nuovi contagiati fossero scesi a “solo” 60 mila al giorno. Oggi dovrebbero essere ancora di meno, ma con i pochi dati che ci forniscono non si può stimare quanti siano.

Insomma il governo ci sta tenendo a casa perché sostanzialmente è l’unica cosa che sa fare per fermare il contagio?
Anche qui, mi permetta di rispondere senza nascondere le due facce della medaglia, quella pro-governo e quella anti. Il governo fa bene a mantenere il lockdown perché un mese non può bastare, e finché non si arriva vicini a contagi-zero è estremamente imprudente riaprire.
Al tempo stesso, però, non si può non rilevare che la curva di discesa è estremamente lenta, e questo è precisa responsabilità del governo, che non solo si è preso l’enorme responsabilità di ritardare di 2 settimane il lockdown totale (è dal 25 febbraio che c’erano gli elementi per capire che bisognava fermare tutto), ma non ha ancora fatto T-M-T, ossia le tre cose che avrebbero potuto abbreviare il percorso di uscita.

T-M-T ?
Sì, T come tamponi di massa, M come mascherine per tutti, T come tracciamento dei casi positivi e dei loro contatti. I paesi che hanno riportato vittorie significative nella lotta al virus (Cina, Corea del Sud, Singapore), hanno avuto successo perché hanno fatto queste cose. E in Europa tutto lascia pensare che il tributo di morti di ogni paese dipenderà più da T-M-T che dalla durata del fermo delle attività produttive. Da questo punto di vista, come ha notato il prof. Massimo Galli, la Germania è in vantaggio su molti altri paesi europei, e potrebbe – alla fine – uscirne meno peggio proprio perché non punta tutte le sue carte sul lockdown.

Lei stima un numero di contagi e morti molto più alto di quello ufficiale. In che modo desume questi numeri? Le autorità stanno sottostimando la diffusione del virus?
L’evidenza che suggerisce che i numeri non sono quelli ufficiali è frammentaria, ma molto convincente perché tutti gli indizi convergono nel farci ritenere che il numero di morti potrebbe essere il triplo dei morti rilevati dalla Protezione Civile, e che la mortalità al Sud potrebbe essere anche 10 volte quella ufficiale (per i dettagli si può consultare il sito della Fondazione Hume: www.fondazionehume.it)
Non credo che le autorità sottostimino la diffusione, semplicemente non vogliono che anche noi sappiamo quel che loro sanno perfettamente.

Il premier Conte a fine gennaio diceva che il governo era “prontissimo, abbiamo adottato tutti protocolli possibili e immaginabili”, possibile che il governo non avesse idea del pericolo che correva l’Italia?
Sì, è possibile. Perché i politici non si circondano di veri scienziati (che per me significa esperti che sono anche menti libere) ma scelgono gli studiosi più pronti a confermare le credenze e le scelte dei politici stessi. L’emergenza fu dichiarata non perché si era capito che saremmo arrivati al lockdown, ma semplicemente perché era un’occasione formidabile per assumere i “pieni poteri” (non metaforicamente, come l’ingenuo Salvini, ma sul serio).

Intervista rilasciata a Il Giornale del 12 aprile 2020