Il grande abbaglio del “modello italiano”. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, dal vostro osservatorio della Fondazione Hume continuate ad analizzare i dati sull’andamento dell’epidemia. Come siamo messi a contagi rispetto a marzo scorso?
Il numero attuale di persone contagiose nessuno lo conosce, perché i casi rilevati – oggi come ieri – sono solo la punta dell’iceberg. Io ritengo, basandomi soprattutto sui dati dei ricoveri, che il numero di persone in grado di infettare gli altri possa essere dell’ordine di 1/3 di allora.
Quanto al parametro più importante, la velocità di crescita dei contagi, quella attuale è la stessa dei giorni intorno al 21 marzo, quando venne decretato il vero lockdown, con la proibizione degli spostamenti fra comuni: i nuovi casi raddoppiano ogni settimana. Evidentemente è questa la soglia che induce i politici a risvegliarsi dal loro torpore.

Perché, dovrebbe essercene un’altra?
Certo, la soglia vera non è quando l’epidemia va fuori controllo, ma quando si passa da una crescita lineare a una crescita esponenziale.

E questa seconda soglia quando è stata attraversata?
Dipende dallo strumento che si usa per accorgersi che l’epidemia sta rialzando la testa. Se, come pare siano abituate a fare le autorità sanitarie, si usa il numero di nuovi casi giornaliero, il campanello di allarme era già suonato nell’ultima parte del mese di luglio. Se invece ci si basa su strumenti più sofisticati, il punto di svolta si situa intorno a metà giugno. Come Fondazione Hume abbiamo sollevato il problema precisamente allora (4 mesi fa!), con un’intervista all’Huffington Post in cui notavo che, per salvare il turismo estivo, il nostro governo stava lasciando ripartire l’epidemia.

E a tamponi come stiamo?
Sui tamponi ci sono state varie fasi, ognuna caratterizzata da un diverso tipo di negazionismo.
Nelle prime settimane, il negazionismo governativo era assoluto: i tamponi danneggiano il turismo, facciamoli solo in casi estremi.
Poi, fino all’appello di Lettera 150 promosso da Giuseppe Valditara e Andrea Crisanti (inizio maggio), è stato il tempo del negazionismo relativo: i tamponi servono, e noi ne facciamo più di ogni altro paese, Germania compresa (era falso, ma loro mostravano di crederci).
Infine, dopo un breve periodo in cui anche le autorità sanitarie parevano essersi convinte della giustezza dell’appello di Lettera 150, siamo passati al negazionismo di fatto: sappiamo che dobbiamo fare molti più tamponi, ma di fatto ne facciamo pochi. Giusto per darle un’idea: il numero medio di tamponi settimanali di agosto era ancora ai livelli di maggio.
L’unico cambiamento significativo è intervenuto fra settembre e ottobre, quando finalmente il numero di tamponi è aumentato sensibilmente (di circa il 40% rispetto a fine agosto), se non altro per limitare i danni provocati dai vacanzieri di ritorno. Ma siamo ancora lontanissimi dal livello suggerito da Crisanti, che a fine agosto aveva chiesto di (almeno) triplicare il numero di tamponi, con tanto di piano trasmesso la governo.

Ma non siamo tra quelli che fanno meglio in Europa?
Questo è semplicemente un abbaglio collettivo, qualcosa di cui come sociologo stento a darmi conto. Capisco che chi ci governa non abbia il minimo rispetto per la pietrosa realtà dei dati, e abbia voluto alimentare il mito del “modello italiano” che tutti ci invidierebbero, ma trovo mortificante che – fortunatamente con qualche eccezione – il sistema dei media per mesi abbia accettato acriticamente questa narrazione.

E allora diciamoli questi dati…
Il primo dato, il dato di fondo, da cui qualsiasi analisi dovrebbe partire, è il bilancio complessivo in termini di morti e di caduta del Pil. Ebbene, su 37 società avanzate (paesi Oecd e Unione Europea) solo quattro hanno avuto più morti per abitante di noi. Si tratta di Spagna, Belgio, Regno Unito, Stati Uniti (vedi grafico). Quanto al Pil, le previsioni del Fondo Monetario Internazionale uscite pochi giorni fa, ci dicono che quest’anno solo la Spagna farà peggio di noi (vedi grafico).
Ma non è tutto. Anche se guardiamo esclusivamente alla fase attuale, quella in cui – secondo la narrazione dominante – l’Italia si starebbe comportando meglio degli altri paesi, la realtà è che siamo a metà classifica, un po’ meglio di Francia e Regno Unito, ma molto peggio della Germania. L’illusione di stare molto meglio di Francia e Regno Unito si basa semplicemente su un errore, o ingenuità, di tipo statistico.

Che tipo di errore?
L’errore di basarsi sui nuovi casi giornalieri accertati, senza tener conto del fatto che la capacità diagnostica dei vari paesi è molto diversa, perché diverso è il numero di tamponi per abitante, e diversa è l’efficacia del tracciamento. Tutti i maggiori paesi occidentali, compresa la Francia, da almeno due mesi fanno il doppio o il triplo dei tamponi che facciamo noi, e questo finisce per gonfiare il numero di nuovi casi diagnosticati, permettendo a noi – che di tamponi ne facciamo molti di meno – di cullarci nell’illusione di stare meglio di altri.
Ma c’è un errore ancora più grande, che un po’ tutti hanno commesso.

Quale?
E’ quello di puntare sempre i riflettori su chi stava peggio di noi, anziché su chi aveva fatto molto meglio, con un bilancio di morti (e di caduta del Pil) enormemente più favorevole del nostro. Avremmo dovuto studiare i paesi migliori per cercare di imitarli, anziché auto-rassicurarci con i guai dei paesi che avevano sbagliato strategia.

La riapertura delle scuole, e il successivo svolgimento delle elezioni, hanno avuto un peso sulla crescita dei contagi? O stiamo pagando ancora le vacanze matte di agosto?
La scuola è semplicemente il luogo nel quale, a causa di un livello di attenzione lodevolmente elevato (tamponi), si tocca con mano quanto folle sia stata la nostra estate. Quanto alle elezioni sì, è possibile che, come temeva il prof. Massimo Galli, decine di milioni di italiani alle urne abbiano accelerato la circolazione del virus. Lo dico perché la serie dei decessi ha avuto un repentino innalzamento dopo l’11 ottobre, giusto 20-25 giorni dopo la data del voto, e giusto ieri un nuovo balzo (+83 morti, il doppio del giorno prima).
Ma quello che stiamo pagando davvero, in questi giorni, sono i 5 peccati capitali dei nostri governanti: pochi tamponi; mancato rafforzamento del trasporto pubblico locale; incredibili ritardi nel rafforzamento del servizio sanitario nazionale e della medicina territoriale; deliberata indulgenza su movida, discoteche, assembramenti; nessun serio piano per ridurre il numero di alunni per classe.
E’ ipocrita, e anche un po’ vile, attribuire la responsabilità del dramma attuale alla popolazione, quando si sono passati mesi ad adulare i cittadini per il loro presunto senso di responsabilità, anziché denunciarne le follie estive, e magari provare a far rispettare le regole. La realtà è molto semplice e cruda: la frittata l’hanno fatta i governanti, e adesso tocca a noi toglier loro le castagne dal fuoco. Perché la strategia del governo è sempre quella, ieri come oggi: tergiversare finché i casi sembrano pochi; svegliarsi di colpo quando si profila il collasso del sistema sanitario; e a quel punto terrorizzare l’opinione pubblica perché accetti l’unica cosa che al governo riesce bene, ossia chiuderci tutti in casa.
Ma il dato più terribile è che, oggi come ieri, chi si ammala non riceve alcuna visita a casa, ed è abbandonato nei meandri della burocrazia sanitaria, digitalizzata e senza umanità (una realtà che il caso di Feruccio Sansa riassume fin troppo bene).

Il virologo Andrea Crisanti auspica un nuovo lockdown a ridosso del Natale per frenare il diffondersi del contagio. Cosa ne pensa?
Ho ascoltato l’intervista, ma non mi è sembrato un auspicio, semmai una previsione. Secondo me il prof. Crisanti, per una volta, è fin troppo ottimista: se ci sarà un nuovo lockdown, sarà ben prima di Natale. Il problema dei politici è che sanno benissimo che solo i nostri sacrifici possono rallentare la circolazione del virus, ma non hanno ancora trovato un modo di chiuderci senza dire che ci rinchiudono una seconda volta.

Cosa manca secondo lei per gestire la crisi sanitaria ed economica? Il governo invita tutti al senso della responsabilità
Quel che manca lo sappiamo perfettamente: è tutto quel che il governo avrebbe dovuto fare e non ha fatto. Ora è tardi, quasi tutto quel che andava fatto richiede mesi, e andrebbe attuato in condizioni di quasi-normalità, in cui siamo stati per 4 mesi e ormai non siamo più. Mentre ai primi di marzo, proprio in un’intervista a questo giornale, mi ero permesso di fare un invito alla chiusura immediata, oggi ogni suggerimento mi pare perfettamente inutile: i buoi sono scappati, possiamo solo inseguirli più o meno affannosamente, e con maggiore o minore cialtroneria.

Ma l’Italia si può permettere un nuovo lockdown?  Il Fondo monetario internazionale ha abbassato le stime di crescita del Pil rispetto a quanto fa il governo nei suoi documenti economici e finanziari, non sarebbe un disastro?
Il disastro c’è già stato, purtroppo, e il neo-lockdown che verrà non potrà che aggravarlo. Ma bisogna capire che l’alternativa non è fra salute ed economia. Contrariamente a quel che il senso comune sembra suggerire, la relazione fra salute ed economia è diretta, non inversa. Meno ci si preoccupa della salute oggi, e più si danneggia l’economia domani. E’ da qualche mese che provo ad avanzare questo dubbio, ora uno studio del Fondo Monetario Internazionale pare arrivare alle medesime conclusioni.
Se il Fondo Monetario ha ragione, i difensori estivi dell’economia sono stati i suoi peggiori nemici, perché è precisamente la superficialità con cui si è riaperto durante la stagione calda che sta per regalarci un nuovo lockdown, più o meno mascherato, ora che inizia la stagione fredda.

Siamo a un passo dall’approvazione del nostro piano di utilizzo delle risorse del Recovery Fund. Che gliene pare? Nel 2021 quanta ricchezza recupereremo?
Le risorse del Recovery Fund arriveranno nella seconda metà del 2021, quindi il loro effetto si farà sentire solo nel 2022. Per quanto riguarda il rimbalzo del Pil italiano, sono pessimista: la politica dei bonus e dei sussidi è la ricetta giusta per non far ripartire l’economia. Siamo avviati a diventare una “società parassita di massa”, e in una società basata sull’invadenza dello Stato e il soffocamento del settore privato il Pil non cresce.

 

Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi, ItaliaOggi, 16 ottobre 2020




L’economia contro l’economia

E’ stato necessario superare i 4000 nuovi casi (giovedì scorso), quasi 1000 in più del giorno prima, perché anche i nostri governanti, fin qui impegnati a lodare il “modello italiano” che tutto il mondo ci invidierebbe, cominciassero a sospettare che non tutto stesse filando liscio. Ora, improvvisamente, si parla di 10 o 20 mila casi al giorno come un punto d’arrivo non troppo lontano (ieri, nonostante i pochi tamponi, erano già ben oltre quota 5000). E c’è persino qualche membro del Comitato tecnico-scientifico che confessa candidamente che “non se lo aspettava”.

Eppure i segnali di una ripresa dell’epidemia c’erano tutti, e da parecchio tempo. Come Fondazione Hume, fin dalla metà di giugno (circa 4 mesi fa) avevamo segnalato che in molte province l’epidemia stava rialzando la testa. Come noi, diversi centri indipendenti non hanno mai smesso di snocciolare quotidianamente le cifre che indicavano l’aggravarsi della situazione. E sono state molte, anche se minoritarie, le voci che in questi mesi hanno ripetutamente denunciato l’insufficienza del numero di tamponi, l’errore di aprire le discoteche, l’inerzia delle autorità su movida e assembramenti nei trasporti pubblici, i ritardi sul versante delle scuole (mancanza di spazi, insegnanti, banchi). Per non parlare dei numeri della Protezione Civile: non è certo da quest’ultima settimana che tutti gli indici del contagio – nuovi casi, ricoveri in terapia intensiva, morti – si muovono su una traiettoria di crescita accelerata. Ed è sotto gli occhi di chiunque abbia il coraggio di guardarlo in faccia il dato di base sui tamponi: da almeno due mesi l’Italia fa meno tamponi per abitante di Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, per limitarci ai paesi a noi più comparabili.

Sui veri motivi che hanno condotto le nostre autorità, che sicuramente sapevano quel che stava succedendo, a ritardare gli interventi necessari, preferisco non dire e non pensare nulla. Mi soffermerei, invece, su uno in particolare dei possibili motivi, che è anche quello più citato, capito e approvato un po’ da tutti: “non potevamo fermare l’economia”.

Ebbene, su questo motivo mi sono permesso, nei mesi scorsi, di porre la seguente domanda: qualcuno ha provato a calcolare se i benefici economici immediati della linea “aperturista” siano maggiori dei costi che dovremo sostenere quando la ripresa dell’epidemia sarà evidente a tutti, e si sarà costretti a nuovi lockdown più o meno generalizzati?

Detto in altre parole: siamo sicuri che l’alternativa sia fra salute ed economia? Siamo sicuri che ridando fiato all’economia oggi, non finiamo per soffocarla domani, appena il virus avrà ripreso la sua corsa?

Insomma, la mia idea era che la dottrina Crisanti – assestare il colpo decisivo al virus quando circola ancora poco (cioè a giugno) – non avesse solo giustificazioni sanitarie o etiche, ma potesse avere anche una giustificazione economica.

Ho posto la domanda in un paio di articoli su questo giornale, l’ho ripetuta ad economisti ed esperti di finanza, ma non ho ricevuto risposte, per lo più perché “il calcolo è troppo difficile”. Ora però uno studio del Fondo Monetario Internazionale, uscito pochi giorni fa, una risposta la fornisce.

Nello stile cauto che si addice, molto opportunamente, a chi fa ricerca con modelli statistici, il Fondo Monetario avanza una tesi che pare supportare la mia ipotesi. Secondo lo studio, il lockdown ha sì effetti negativi immediati sull’economia, ma il fattore cruciale per la ripresa dell’economia è quel che succede dopo il lockdown. Se dopo il lockdown, per qualche motivo, il numero si contagiati è ancora alto si innesca una catena causale esiziale per la ripresa delle attività economiche: l’alto numero di contagiati aumenta il rischio percepito, l’aumento del rischio percepito induce la gente a proteggersi volontariamente con il distanziamento sociale, la messa in atto sistematica di misure individuali ultra-prudenti fa crollare la mobilità e le interazioni sociali, e di qui consumi, occupazione, eccetera. Per dirla più in concreto: serve a ben poco far riaprire bar, ristoranti, negozi, perché la gente, se non è ancora tranquilla, non ci entrerà quasi mai in quei bar, ristoranti, negozi. Insomma il vero nodo è se il lockdown è abbastanza tempestivo (il nostro non lo è stato: vedi Nembro e Alzano), e se dopo il lockdown la circolazione del virus è sufficientemente bassa da rendere soggettivamente trascurabile il rischio di contagi.

E’ proprio questo il nostro problema, mi pare. Per salvare l’industria del turismo, che prospera per tre mesi all’anno, abbiamo messo a repentaglio l’economia nel suo insieme, che ha di fronte sei mesi in cui le condizioni climatiche saranno tutte dalla parte del virus.

Ci hanno abituati a pensare che la politica si trovasse di fronte al dramma di dover scegliere fra la salute e l’economia, o di trovare un ragionevole compromesso. Lo studio del Fondo Monetario suggerisce un’altra lettura: usare la tregua estiva per portare vicino a zero il numero dei contagi sarebbe stato il modo più efficace di aiutare l’economia; usarla per sostenere l’industria delle vacanze è stata una scelta miope, di cui ora siamo chiamati a pagare il prezzo.

Forse dobbiamo prenderne atto: il peggior nemico dell’economia è il “partito dell’economia”.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 ottobre 2020




Cinque province a rischio

I dati degli ultimi 7 giorni (30 settembre – 6 ottobre) confermano la difficile situazione di La Spezia, in cui il numero di nuovi casi per abitante ha avuto un’impennata, ora fortunatamente in rallentamento.

La vera novità è costituita però da Genova, dove il numero di nuovi casi per abitante ha superato quello di La Spezia, ed è tuttora in crescita.

In una situazione analoga a quella di Genova si trova la provincia di Belluno.

In tutte e tre le province il numero di nuovi casi è oltre il quadruplo di quello nazionale.

Dietro queste province critiche se ne trovano altre 8 in cui il numero di nuovi casi è almeno il doppio di quello nazionale. In ordine di gravità della situazione: Treviso, Venezia, Nuoro, Imperia, Barletta-Andria-Trani, Trento, Bari, Savona.

E’ il caso di notare che, su 11 province critiche, 4 sono in Liguria, che è la regione più colpita (con 4 province su 4), 4 si trovano nel Triveneto (Belluno, Treviso, Venezia, Trento), 3 si trovano al Sud (Nuoro, Bari, Barletta-Andria-Trani).

Del tutto assenti, fra le 11 province più critiche, quelle lombarde e delle regioni centrali, dall’Emilia Romagna al Lazio.

Ecco la graduatoria completa:

 

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi sono quelli diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile aggiornati al 6 ottobre (ore 18).

La serie storica dei dati provinciali è stata ricalcolata per tenere conto dell’interruzione di serie che si è verificata il 24 giugno in seguito alla nuova classificazione dei casi positivi (non più in base alla provincia in cui è avvenuta l’ospedalizzazione, ma in base alla residenza della persona risultata positiva al COVID-19).

Data l’impossibilità di stabilire, provincia per provincia, che cosa è effettivamente avvenuto tra il 23 e il 24 giugno, i dati sono stati ricalcolati assumendo che, fra le due date, gli incrementi giornalieri dei nuovi casi fossero pari a zero.

Quando possibile, i dati sono stati corretti per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalle autorità regionali.

La capacità diagnostica è stata calcolata come rapporto fra contagi registrati nell’arco di tre settimane e nuovi decessi avvenuti nelle tre settimane successive con uno sfasamento temporale di 10 giorni. Maggiore sarà la capacità di intercettare i nuovi casi minore sarà la mortalità registrata nella provincia.

L’indicatore è stato costruito utilizzando i dati regionali, perché la Protezione Civile non fornisce il numero dei decessi a livello provinciale, ma solo quello dei casi totali. La capacità diagnostica delle regioni più piccole a livello demografico è stata posta convenzionalmente pari a 1.

Questi valori sono stati applicati al numero di nuovi contagi settimanali (per 100 mila abitanti).




I conti non tornano

Quando, un paio di mesi fa, uscirono le prime stime Istat sul numero di contagiati ne rimasi molto stupito. Secondo l’indagine, condotta fra la fine di maggio e parte del mese di luglio, le persone in cui erano stati rilevati anticorpi (persone “con esito IgG positivo”) erano solo 1 milione e mezzo, pari al 2.5% della popolazione. Questi numeri sono stati quasi sempre interpretati come stime del numero di persone “venute a contatto con il virus” fino a quel momento, ovvero come valutazioni della “reale diffusione dell’infezione”.

Il mio stupore poggiava su tre elementi. Il primo è che, fin dai mesi della massima espansione dell’epidemia, autorevoli studiosi avevano congetturato cifre molto più alte, per lo più comprese fra 4 e 10 milioni di contagiati. Il secondo elemento fonte di perplessità è che, nei casi in cui erano state effettuate indagini di sieroprevalenza su popolazioni ordinarie (senza un cluster di contagi in atto), le percentuali emerse erano risultate sistematicamente più alte, talora molto più alte, del 2.5% stimato dall’indagine Istat. Ma la mia maggiore fonte di perplessità derivava da una conseguenza logica della stima Istat: poiché nel periodo dell’indagine i morti Covid ufficiali erano 35 mila, e quelli effettivi erano almeno 60 mila (come si sa molte morti per Covid sono sfuggite alle statistiche ufficiali), la stima di soli 1.5 milioni di persone entrate a contatto con il virus implicava logicamente un tasso di letalità del 4% (60000/1500000=0.04). Troppo alto rispetto a quel che si sa dalla letteratura scientifica, ormai sostanzialmente concorde sul fatto che il tasso di letalità effettivo dovrebbe essere compreso fra lo 0.5% congetturato dai più ottimisti, e l’1.5% congetturato dai più pessimisti.

I miei calcoli, basati sull’ipotesi (probabilmente ottimistica) che i morti effettivi fossero un po’ meno del doppio di quelli ufficiali, fornivano queste cifre: se il tasso di letalità effettivo fosse dell’1.5%, i contagiati totali sarebbero dovuti essere non 1.5 bensì 4 milioni, se fosse dell’1% avrebbero dovuto essere 6 milioni, se fosse dello 0.5% avrebbe dovuto essere 12 milioni, ben 8 volte la stima deducibile dall’indagine Istat.

Perché, fino ad oggi, non ho mai reso pubblici questi calcoli, peraltro del tutto elementari?

La ragione fondamentale è che non avevo una spiegazione convincente dello scostamento fra le mie congetture e i dati Istat. Ora invece, grazie a un fondamentale studio del prof. Paolo Gasparini, ordinario di Genetica dell’Università di Trieste, una spiegazione esiste. Ed è una spiegazione abbastanza inquietante. La ragione per cui l’Istat ha trovato solo 1.5 milioni di persone presumibilmente “venute a contatto con il virus” è che gli anticorpi IgG su cui l’indagine si basa durano pochissimo. E’ ancora presto per dire quanto durano, ma lo studio del gruppo del prof. Gasparini suggerisce che la sopravvivenza a 3 mesi sia inferiore al 10%, e che il tasso di decadimento possa essere dell’ordine del 20% la settimana. Il numero di contagiati che l’Istat ha stimato, in altre parole, non è nemmeno lontanamente assimilabile al totale effettivo delle persone contagiate fino al momento dell’indagine (giugno-luglio), ma è semplicemente il numero di persone i cui anticorpi non erano ancora scomparsi.

Ma c’è un altro elemento molto interessante di questa indagine, basata su due rilevazioni condotte a 3 mesi di distanza su personale dell’Ospedale materno infantile Burlo Garofalo di Trieste. Nella prima rilevazione, che risale ai primi di aprile, il numero di contagiati del sottocampione più assimilabile alla popolazione generale (gli amministrativi) era del 9.6%. Se riportiamo questa percentuale all’intera popolazione, otteniamo un numero di contagiati (ai primi di aprile) di poco inferiore a 6 milioni. Ma questo numero, ricondotto all’epoca dell’indagine Istat (che è successiva), porta a valutare il numero totale di contagiati in 8-9 milioni, che è un valore intermedio fra quello della curva alta e quello della curva media (vedi grafico).

Conclusione. E’ verosimile che, a oggi, il numero di contagiati totali dall’inizio dell’epidemia sia non lontano da 10 milioni, e che il tasso di letalità sia compreso fra lo 0.5 e l’1%.

Ma questa è, al tempo stesso, una buona e una cattiva notizia. E’ una buona notizia perché ci dice che, anche conteggiando i morti nascosti (non rilevati nelle statistiche ufficiali) il tasso di letalità è inferiore all’1%, e piuttosto lontano dai tassi (dal 2 al 4%) spesso ipotizzati nelle prime fasi dell’epidemia. E’ una cattiva notizia, perché ci dice che, nonostante un lungo e severo lockdown, e nonostante le precauzioni adottate nei mesi successivi, il numero di italiani che hanno contratto il virus è molto più alto di quanto supponessimo prima; e che il numero di italiani che hanno gli anticorpi, e quindi sono presumibilmente più protetti dal rischio di reinfezioni, è terribilmente basso, in barba alla dottrina dell’immunità di gregge.

A quanto pare, il virus è leggermente meno cattivo del previsto, ma è molto più alto di quanto si supponesse il rischio di venire a contatto con il virus. Una realtà negata da troppi, e che le drammatiche cifre diffuse ieri sera dalla Protezione civile (24 morti e oltre 2500 nuovi infetti nelle ultime 24 ore) purtroppo confermano.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.

Pubblicato su Il Messaggero del 2 ottobre 2020




Quanti sono i contagiati in Italia?

Nel grafico seguente riportiamo alcune stime del numero di persone contagiate dal virus Sars-Cov-2 dall’inizio dell’epidemia alla fine di luglio e le confrontiamo con la stima fornita dall’Istat all’inizio di agosto sulla base di una vasta indagine nazionale di sieroprevalenza.

La traiettoria dei contagiati è stata costruita assumendo, prudentemente, che il numero effettivo di morti per Covid-19 sia un po’ inferiore al doppio del numero ufficiale (per l’esattezza: 1.71 volte), e che il tasso di letalità sia compreso fra lo 0.5% e l’1.5%.

Le tre curve sviluppano tre ipotesi sul tasso di letalità (0.5%, 1%, 1.5%) secondo la seguente espressione:

contagiatit = 1.7 * mortit+τ / λhyp

dove τ rappresenta la sfasatura fra contagio e morte (assunta pari a 14 giorni), e λhyp è il tasso di letalità sotto le 3 ipotesi (λ1 = 0.005, curva rossa; λ2 = 0.01, curva gialla; λ1 = 0.015, curva verde).

Il valore di τ è presumibilmente variabile nel tempo ma, nel range 10-25 giorni, non modifica in modo apprezzabile il profilo delle varie curve.

La linea orizzontale in basso rappresenta la stima dell’Istat, ottenuta con un’indagine di sieroprevalenza svolta fra la fine di maggio e la fine di luglio.

Il grafico si ferma al 31 luglio perché, dopo quella data, a causa dell’abbassamento dell’età mediana dei contagiati e la conseguente progressiva riduzione (temporanea) del tasso di letalità medio, non è più possibile assumere la sostanziale proporzionalità fra numero di contagiati e numero di morti.

Come si vede l’Istat stima 1.5 milioni di contagiati, mentre le nostre stime suggeriscono un numero di contagiati compreso fra 4 e 12 milioni.

Per una spiegazione più ampia vedi “Il Messaggero” del 2 ottobre 2020 e, a partire dal 3 ottobre, il sito della Fondazione Hume.