Scuola e COVID, il problema sono gli insegnati

Capisco che, con l’avvio delle vacanze, la mente vaghi lontano dalla politica, e dopo mesi di sofferenza quasi tutti si cerchi soltanto un po’ di relax. Capisco anche che, con montagne di soldi in arrivo dall’Europa, sia in atto la corsa a spenderne il più possibile, anche prima di averli. Capisco, infine, la disattenzione generale sui problemi della scuola e dell’Università, lasciati all’improvvisazione di ministri e rettori.

Quel che non capisco, invece, è il tipo di decisioni (o non decisioni) che – quatti quatti – i nostri politici stanno prendendo in vista della ripresa di settembre, in particolare in materia di scuola. Leggo che la ministra Azzolina è sicura che la scuola riaprirà, e che il commissario Arcuri ha promesso che entro il 7 settembre arriveranno fino a 3 milioni di banchi monoposto, una parte dei quali con rotelle (traduzione di “sedute scolastiche attrezzate di tipo innovativo, ad elevata flessibilità di impiego”), quasi gli studenti non fossero in grado, ammesso che serva, di spostare un banco monoposto. I banchi, il cui costo totale si potrebbe aggirare sui 500 milioni di euro, dovrebbero servire a garantire il distanziamento, cervelloticamente previsto in almeno un metro fra le “rime buccali” (sì avete letto bene, non è un errore tipografico, è il Comitato Tecnico-Scientifico che parla così: in sostanza vuol dire che gli studenti potranno stare a circa 60 centimetri l’uno dall’altro).

Come primo modo di spendere i soldi dell’Europa non c’è male. Non tanto perché, in realtà, li abbiamo già spesi (i finanziamenti a fondo perduto, 81 miliardi, non bastano nemmeno a ripianare l’extra-deficit che abbiamo fatto in soli 4 mesi di “scostamenti di bilancio”), ma perché sono soldi letteralmente gettati dalla finestra. Per capire perché, basta il buon senso, ma visto che il buon senso è divenuto una risorsa scarsa (specie fra i politici) lasciamo parlare il prof. Andrea Crisanti, quello che ha salvato il Veneto e realizzato l’indagine su Vo’ Euganeo: “dai 6 ai 13 anni il distanziamento è inutile, usciti dalla classe fanno quello che vogliono”. In realtà, a fare tutto quello che vogliono non sono solo gli studenti della scuola dell’obbligo (dai 6 a i 13 anni) ma sono gli studenti in generale, anzi i giovani in generale. Basta un minimo di esperienza della realtà, scolastica e non, per rendersi conto che, anche se gli insegnanti fossero in grado di far rispettare un vero distanziamento in classe (che non può essere di soli 60 cm, specie al chiuso, e specie nella stagione fredda), nessuno potrebbe impedire la violazione delle regole durante l’ingresso, l’uscita, e gli intervalli fra una lezione e l’altra, per non parlare di quel che succede prima e dopo la scuola: assembramenti sui mezzi pubblici, movida, ecc.

Ma la cosa più strana è che, mentre ci si accinge a sprecare mezzo miliardo di euro per una misura che avrà effetti nulli o trascurabili sul contagio fra studenti, nulla si prevede per limitare il rischio principale: e cioè che ad essere contagiati siano gli insegnanti, che – a causa della loro età e della esposizione alla massa studentesca – sono una categoria ad altissimo rischio (come lo sono, peraltro, i docenti universitari e i nonni con nipoti).

Si potrebbe pensare che tutto ciò sia solo frutto della leggerezza (o stoltezza?) di un manipolo di politici inesperti. Purtroppo non è così. Se osserviamo con attenzione quel che succede nel settore pubblico nel suo insieme, e lo confrontiamo con quel che succede nel settore privato, non si può che uscirne sconcertati. Mentre nel settore privato assistiamo a una ammirevole, talora eroica, assunzione di responsabilità, con riorganizzazioni meticolose delle fabbriche, degli uffici, delle regole di ingaggio dei lavoratori (e pesanti conseguenze sulla struttura dei costi), nel settore pubblico lo smart working troppo sovente si è risolto o in una pura e semplice soppressione di servizi (per non chiamarla una “vacanza”, come coraggiosamente ebbe a definirla Sabino Cassese), o in un drammatico abbassamento di efficienza e di qualità. Il tutto senza la minima assunzione di responsabilità da parte dei vertici della Pubblica amministrazione.

Su questo, ancora una volta, quel che sta succedendo nella scuola e nell’università è esemplare. Con la scusa della “autonomia” di scuole e atenei, il Governo centrale lascia le istituzioni periferiche con il cerino in mano, a formulare piani di riorganizzazione per cui non hanno né le risorse né i poteri necessari. E queste ultime, come è successo e sta risuccedendo, non avendo né le capacità necessarie per una vera riorganizzazione, né il coraggio di assumere decisioni vincolanti per tutti, si rifugiano nella comoda soluzione di lasciar liberi i docenti di fare ciascuno quello che si sente (lezioni ed esami a distanza o in presenza), in base alla propria sensibilità e propensione al rischio. Il che garantisce alle autorità di ogni livello della piramide burocratica di non essere imputabili di nulla quando l’epidemia dovesse riprendere il suo corso, e le decisioni (o meglio le non-decisioni) adottate dovessero presentare il conto, in termini di nuovi contagi, nuovi malati, nuovo morti.

Quando arriverà settembre, e continueranno ad esserci regole finte, che vengono ripetute per salvarsi la coscienza ma che nessuno ha la minima intenzione di far rispettare, ci ritroveremo – nelle scuole e nelle università – tristemente e inesorabilmente divisi in due gruppi: i coraggiosi (o incoscienti?), che fanno come se il virus non ci fosse, e i paurosi (o prudenti?) che si defilano il più possibile per limitare i rischi. E’ la conseguenza inevitabile di una classe dirigente che non perde occasione per invocare responsabilità da parte dei cittadini, ma le proprie responsabilità non ha la minima intenzione di prendersele.

Pubblicato su Il Messaggero del 25 luglio 2020




Il lassismo sanitario prepara lo scenario B?

Nelle ultime settimane le valutazioni sull’epidemia sono lentamente ma abbastanza inesorabilmente cambiate. Alle rassicurazioni di metà giugno si sono sostituite le preoccupazioni sui numerosi focolai che si stanno accendendo in varie parti d’Italia, e dalla retorica della ripartenza stiamo lentamente tornando a quella della prudenza.

E’ giustificato questo cambiamento di accenti?

Sì, è più che giustificato, semmai è un po’ tardivo. I segnali di una ripresa dell’epidemia c’erano già un mese fa, e semmai stupisce che non siano stati colti prima. La vera novità, tuttavia, non sta in un’inversione di tendenza nell’andamento complessivo dell’epidemia, che da diverse settimane è sostanzialmente stazionario (il termometro della fondazione Hume oscilla intorno ai 2 gradi pseudo-Kelvin dal 26 giugno). La vera novità è la polarizzazione fra territori in cui l’epidemia continua a rallentare, e territori in cui tende a rialzare la testa. Fra questi ultimi si segnalano alcune regioni, come il Veneto, l’Emilia Romagna, il Lazio, la Campania, ma soprattutto si segnalano circa 35 province critiche, in cui la curva dei contagi ha ripreso a salire (per i dettagli vedi qui).

E’ in questo contesto di crescente preoccupazione che, non solo fra le autorità politiche e sanitarie, ma anche fra i virologi, riprende quota il timore di una seconda ondata in autunno. Certo, lo scenario A, o scenario auspicato, continua ovviamente ad essere quello di un’epidemia che lentamente si spegne, o tutt’al più si manifesta in piccoli focolai facilmente controllabili. Accanto a tale scenario, tuttavia, sempre più frequentemente viene evocato lo scenario B, quello di un ritorno in grande stile del contagio dopo l’estate.

Come mai, in poche settimane, quella che pareva una profezia isolata sta diventando un timore diffuso?

Le ragioni fondamentali, a mio parere, sono quattro, di cui una dicibile e le altre tre accuratamente tenute sullo sfondo del discorso pubblico.

La ragione dicibile è che molti studiosi e scienziati si stanno convincendo che la velocità di circolazione del virus sia pesantemente influenzata dalle condizioni climatiche, che ora – con le alte temperature estive e la possibilità di trascorrere molte ore all’aperto – sono le più favorevoli possibile (mentre nell’altro emisfero, in particolare in America latina, sono le più pericolose possibile: alla nostra estate corrisponde il loro inverno). Questo significa che, con l’arrivo della cattiva stagione, le misure che ora bastano ad evitare un’esplosione dell’epidemia potrebbero non essere  più sufficienti.

Ma passiamo alle ragioni meno dicibili. Tutte hanno a che fare con le scelte del governo, e proprio per questo vengono raramente evocate. Ma è bene esserne coscienti, se non altro per prepararci agli eventi.

La prima ragione di preoccupazione è l’apertura delle frontiere, e in particolare il via libera ai flussi turistici. Non è un mistero che una parte considerevole degli attuali focolai è legata a spostamenti fra nazioni. Né ci vuole una particolare scienza per comprendere che molto difficilmente una pandemia può essere contenuta e vinta senza forti limitazioni dei flussi internazionali. Per non parlare dei problemi che, di qui a breve, potrebbero sorgere con l’ingresso incontrollato di migranti dall’Africa, con percentuali di positivi che attualmente sono già dell’ordine del 20% (1 su 5).

La seconda origine dei timori è il tradimento della solenne promessa di fare più tamponi, formulata dalle autorità sanitarie nella prima metà di maggio: dopo una breve stagione di aumento, dalla fine di maggio il trend del numero di persone testate è sempre stato calante. E meno tamponi significa meno possibilità di controllare e spegnere l’epidemia.

Ma la ragione più importante per cui l’eventualità di una seconda ondata deve essere presa in seria considerazione è che il governo, consapevolmente (e diversamente da quanto aveva fatto ai tempi del lockdown), ha scelto di non sanzionare la violazione delle regole che esso stesso ha imposto. Dopo la stagione dei controlli a tappeto, delle multe, delle denunce, talora ai limiti del ridicolo (inseguire bagnanti e passeggiatori solitari), ora la parola d’ordine è: fare finta di niente. Spiagge affollate, movida senza freni, mascherine abbassate (o assenti) in molti negozi e ambienti chiusi sono tutte cose che non interessano più le forze dell’ordine.

E’ comprensibile, se si pensa che la principale forza di opposizione – lungi dal pretendere il rispetto delle regole – accusa il governo di eccessiva severità (“gli italiani vogliono vivere senza distanziamento sociale”). Si deve capire, però, che se oggi la linea del lassismo sanitario – grazie alle condizioni climatiche – si limita a far nascere qualche focolaio in più, domani potrebbe produrre effetti di ben altra portata. Non solo nel senso che le abitudini imprudenti acquisite nell’estate potrebbero dispiegare i loro effetti fra qualche mese, quando il “generale inverno” si alleerà con il virus. Ma anche in un altro senso: se fra qualche mese dovesse presentarsi lo scenario B, e dovessimo essere costretti a un altro lockdown, i danni per l’economia sarebbero devastanti. E verosimilmente più grandi di quelli che subiremmo oggi se ci attenessimo a una linea più prudente, o meno ossessionata dalla preoccupazione di tutelare l’economia qui e ora, anziché proteggerla nella lunga durata.

Pubblicato su Il Messaggero del 18 luglio 2020




Emergenza sanitaria o emergenza democratica?

Dunque, il governo sta per prorogare lo “stato di emergenza”. Per altri 5 o 6 mesi potrà ricorrere ai famigerati Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), senza passare attraverso il vaglio del Parlamento. In sostanza il governo sta per riattribuirsi i “pieni poteri” che già si era preso nel semestre scorso.

Si potrebbe osservare che, più o meno lentamente, stiamo cessando di essere una democrazia, e che il modo in cui stiamo passando a un regime dispotico è paradossale: questo governo è nato (o meglio dice di essere nato) per impedire che libere elezioni conferissero a Salvini i “pieni poteri” che aveva invocato, ma il risultato è che i pieni poteri – quelli veri – se li sta prendendo precisamente questo governo, senza chiedere il permesso a nessuno, e meno che mai a noi cittadini.

Qui però non voglio fermarmi su questo. La domanda cui vorrei provare a rispondere è un’altra: la situazione è così grave da giustificare la richiesta di pieni poteri?

Per certi versi sì. Dopo essermi preso un mese di insulti per aver detto (a metà giugno) che l’epidemia stava rialzando la testa, devo constatare che il fronte dei minimizzatori è oggi meno saldo nelle sue convinzioni. Ormai è l’Organizzazione mondiale della sanità stessa ad avvertire che la pandemia è in espansione, e solo i più ostinati fra i negazionisti continuano ad additare a modello “gli altri paesi europei” che hanno riaperto scuole, fabbriche e viaggi prima di noi.

Aggiungo solo che un’analisi dettagliata delle province italiane, pubblicata nei giorni scorsi sul sito della Fondazione David Hume, ha mostrato che il numero di province in cui i contagi stanno aumentando è in continua crescita. Erano una ventina tre settimane fa, sono quasi il doppio oggi. Il fatto che i dati nazionali mostrino solo una leggera tendenza all’aggravamento della situazione è in realtà il frutto di una polarizzazione fra i territori in cui l’epidemia si sta lentamente spegnendo, e quelli – sempre più numerosi – in cui sta invece ripartendo, non sempre e non solo a causa di specifici, circoscritti e quindi controllabili “focolai”. In breve, per chi è disposto a vedere, la situazione è abbastanza chiara: nonostante il favore della stagione, l’epidemia non si sta spegnendo.

Meno chiaro è perché ciò accada. La mia opinione è che, fondamentalmente, ciò dipenda da una scelta di fondo che le autorità politiche e sanitarie hanno compiuto all’inizio di giugno: traghettarci in un regime di anarchia cognitiva, una sorta di “libero arbitrio” nella lettura della situazione epidemica.

Lo avete notato, parlando con i vostri amici e conoscenti? Ognuno interpreta la situazione a modo suo. Ci sono gli iper-prudenti, che rispettano le regole, e sono spesso considerati “fobici”. E ci sono gli ipo-prudenti che se ne infischiano allegramente, e sono spesso guardati come “untori”: si assembrano, non rispettano le distanze sui mezzi pubblici e nei supermercati, entrano nei negozi senza la mascherina, o con la mascherina abbassata (il che equivale a senza).

Gli uni e gli altri hanno buone ragioni per comportarsi come si comportano. Agli iper-prudenti è sufficiente richiamarsi alle ancora severe regole vigenti, agli ipo-prudenti è sufficiente appellarsi alle sciagurate esternazioni dei virologi ottimisti, e più o meno sottilmente negazionisti (eufemismo). Ma su tutti pesano due mosse cruciali delle autorità politiche, nazionali e locali: ridurre il numero di tamponi e chiudere sistematicamente un occhio sulle numerosissime violazioni delle regole. Due mosse aggravate dall’ostinazione con cui fin qui non si è voluto distinguere fra le regioni (innanzitutto la Lombardia) in cui la gravità dell’epidemia avrebbe richiesto un prolungamento del lockdown, e le regioni (molte del Sud) in cui la tenuità dell’epidemia avrebbe consentito di accorciare la durata della clausura.

Naturalmente non è difficile capire la logica di queste scelte: non allarmare la popolazione, favorire la ripartenza dell’economia, salvare la stagione turistica. Come se una pandemia potesse essere domata lasciando le briglie sciolte sul turismo internazionale, allentando le regole di distanziamento sugli aerei, e più in generale incentivando la circolazione delle persone.

Ed eccoci allora al punto. La situazione è grave, e forse richiede davvero la ri-proclamazione dello “stato di emergenza”, ma la situazione stessa è diventata grave perché il governo, coscientemente, ha permesso che lo diventasse. Il regime di libero arbitrio sanitario, in cui uno vale uno e l’analisi della situazione si fa nei salotti televisivi, è il risultato della schizofrenia governativa: lasciare in piedi regole molto severe, e al tempo stesso permettere che siano sistematicamente violate.

Ecco perché rispondere alla domanda sulla sensatezza o meno di una proroga dello stato di emergenza è difficile. Sì, verrebbe da dire, perché occorre – ma soprattutto potrebbe occorrere in autunno – una nuova stretta (ma allora perché il governo continua a tollerare le violazioni?). No, perché questo governo ha già dimostrato di non saper governare l’epidemia: l’aggravamento della situazione sanitaria non è dovuto a un meteorite piovuto dal cielo, ma è stato favorito dall’inerzia dell’esecutivo, che proprio così si è costruito le pre-condizioni e il pretesto per invocare un ulteriore aumento dei propri poteri.

C’è poi un’ultima osservazione, che lascio lì sotto forma di dubbio. Siamo sicuri che lo stato di emergenza di cui ora si parla durerà solo altri 6 mesi? La maggior parte degli scienziati ritiene che, da oggi a dicembre, la situazione sia destinata a peggiorare drasticamente già solo per ragioni climatico-ambientali, e che a fine anno, quando lo stato di emergenza dovrebbe finire, la situazione non potrà che essere peggiore di quella odierna. Dunque, facendo 2 + 2: fanno finta di chiedere altri 6 mesi di pieni poteri, ma la richiesta verrà rinnovata in inverno, così quello che di fatto stanno chiedendo è un altro anno di pieni poteri, che si aggiungono ai 6 mesi già consumati.

Ma diciotto mesi di pieni poteri non sono un po’ troppi per un governo che si è lasciato sfuggire di mano la situazione e, per quanto formalmente legale, non ha alcuna legittimazione democratica?

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 luglio 2020




La gazzella e l’ornitorinco. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, nella nostra ultima intervista del 21 giugno scorso lei ha mostrato come in una quindicina di province l’epidemia non poteva considerarsi sconfitta, anzi. Ora, a distanza di venti giorni, gli ultimi dati pubblicati sul sito della Fondazione Hume confermano che purtroppo il trend dei nuovi contagi in diverse province è in aumento. A che punto è la notte?
Direi che siamo nel momento più buio della notte, non nel senso che le cose vadano malissimo, ma nel senso che massima è l’incertezza interpretativa sui pochissimi dati che “Lor Signori” (mi permetto di evocare l’indimenticabile Fortebraccio) hanno la benevolenza di comunicare a noi umili sudditi di questa sfortunata Repubblica. Quello che è certo è che nella prima metà di giugno, ossia in coincidenza della liberalizzazione degli spostamenti fra comuni, è successo qualcosa di grave e di nuovo. Fino ad allora, di settimana in settimana, il numero di province critiche diminuiva, da allora ha smesso di diminuire e, nelle ultime due settimane, ha cominciato a salire in modo sistematico e preoccupante. Nella scorsa intervista i calcoli della Fondazione Hume segnalavano 15-20 province critiche, ora ne segnalano quasi il doppio. E in queste province non vi sono solo le “solite” province della Lombardia e del resto del Nord ma anche molte province del Centro Italia (fra cui Firenze e Roma) e del Mezzogiorno, ad esempio Avellino, Sassari, Chieti, Pescara, Salerno.

Mi sembra più che chiaro, perché allora parla di incertezza interpretativa?
Perché noi vorremmo sapere come le cose stanno andando in questo momento, mentre i dati dei nuovi contagi ci possono dire soltanto che, per la piccola porzione di realtà che le autorità sanitarie sono in grado di monitorare, le cose stavano nettamente peggiorando una decina di giorni fa, ovvero il tempo che occorre ad un evento di contagio per essere rilevato da un tampone. Oggi le cose potrebbero essere migliorate, ma potrebbero anche essere nettamente peggiorate.

Lei che cosa pensa?
Io penso che, verosimilmente, siano ancora un po’ peggiorate.

E’ il suo consueto pessimismo?
No, purtroppo: è l’andamento del numero di persone sottoposte a tampone che mi rende poco incline all’ottimismo. Nonostante le autorità nazionali abbiano finalmente compreso che è stato un grave errore fare pochi tamponi, e che occorrerebbe farne molti di più, la maggior parte delle Regioni sta riducendo il numero di tamponi. Se ne facessero di più, anziché di meno, i dati del numero di contagiati sarebbero ancora più inquietanti. E io non mi ritroverei ad essere fra i pochi che, da tre settimane, segnalano il pericolo.

La Fondazione Hume utilizza anche un altro strumento, un termometro giornaliero, che “misura” la temperatura dell’epidemia. Cosa ci dicono le ultime misurazioni? Confermano un incremento della pericolosità del virus?
Il termometro della Fondazione Hume si basa su tre indicatori: il numero di decessi, il numero di nuovi contagiati (corretto per il numero di tamponi) e una stima degli ingressi in ospedale. Queste tre informazioni vengono sintetizzate in una temperatura assoluta, in gradi pseudo-Kelvin, variabile fra 0 e 100, dove 0 significa che non ci sono nuovi contagi, mentre 100 significa che ce ne sono tanti quanti nella settimana di picco (ossia nei giorni a cavallo fra marzo e aprile). Negli ultimi 3 mesi la temperatura dell’epidemia è sempre diminuita, fino a portarsi al di sotto di 2 gradi pseudo-Kelvin (il 28 giugno toccava il minimo di 1.8), ma da una quindicina di giorni oscilla intorno a 2 e manifesta una leggera tendenza all’aumento. Poiché il termometro può solo rilevare quel che succedeva 2-3 settimane fa, anche questo strumento ci dice che nella prima metà di giugno il vento è cambiato, ma non sappiamo esattamente a che punto siamo oggi.

Siamo sopra o sotto la soglia di sicurezza?
Dipende da cosa consideriamo soglia di sicurezza. Io ritengo che, sfortunatamente, siamo ancora ampiamente sopra, e spiego perché. Per me la soglia di sicurezza è 6000 persone in grado di contagiare il prossimo, il che – in un paese di 60 milioni di abitanti – significa avere un contagiato ogni 10000 abitanti. La considero una soglia di sicurezza per vari motivi, ad esempio perché, nel breve periodo, anche i più “relazionati” fra noi difficilmente hanno contatti con più di 1000 persone, e comunque solo una parte di tali contatti è abbastanza stretta da comportare un serio rischio di contagio.
Ma la mia stima, basata sul termometro della Hume, è che attualmente il numero di contagiati ancora contagiosi sia dell’ordine di 60 mila persone, ovvero 10 volte al di sopra della mia personale soglia di sicurezza. Per farci stare abbastanza tranquilli il termometro dovrebbe segnare 2 decimi di grado o meno.

Ma come si passa da 2 gradi pseudo-Kelvin a una stima di 60 mila persone contagiose?
Non è un calcolo semplicissimo, diciamo che un grado pseudo-Kelvin corrisponde a circa 2000 nuovi contagiati al giorno, e che considerando che la contagiosità dura una quindicina di giorni, 2 gradi pseudo-Kelvin segnalano un numero di persone potenzialmente in grado di infettare altri non lontano da 60 mila (2000 x 2 x 15 = 60 mila).

Però le cifre ufficiali sono molto più basse…
Certo, le cifre ufficiali indicano che negli ultimi 15 giorni i nuovi contagi sono stati circa 3000 (non 60 mila), ma è noto che il numero di contagiati effettivo è un multiplo di quello ufficiale. Non arrivo a pensare, come Ilaria Capua, che il multiplo sia 100, mi limito a dire che potrebbe essere circa 20.

Lei si è lamentato per la poca trasparenza e profondità dei dati messi a disposizione dalle autorità pubbliche. La situazione è migliorata negli ultimi giorni o, se possibile, peggiorata?
Sì, è peggiorata. Oltre ai continui ricalcoli dei decessi e dei contagiati, ultimamente si è aggiunto un improvviso cambiamento nei criteri di assegnazione dei casi alle province. Fino al 23 giugno l’assegnazione era in base alla provincia di ospedalizzazione, dal 24 è in base a quella di residenza. Può immaginare a quali salti mortali tecnico-statistici siamo stati costretti per ricostruire le serie storiche provinciali. Aggiungo che permane il segreto sui dati comunali (che sarebbero essenziali per individuare tempestivamente i nuovi focolai) e che nessuno ha spiegato che cosa è effettivamente successo il 24 maggio in Lombardia (il dato di zero decessi è sicuramente falso, se non altro per la smentita della Ats di Brescia, ma nessuno si è ancora degnato di comunicare il dato vero).

Che tutto non stia andando per il verso giusto è dimostrato da un doppio fallimento: l’indagine sierologica e l’app Immuni sono state finora un flop. Come se lo spiega?
Sinceramente ho solo spiegazioni inquietanti, anche se per motivi diversi. Nel caso della app Immuni tendo a pensare (ma spero di sbagliarmi) che sia stata concepita solo per far credere che il governo stesse facendo qualcosa. Non mi spiego altrimenti perché non siano state utilizzate tecnologie già collaudate da molti paesi, e soprattutto perché non si siano formate ed assunte molte migliaia di persone per il tracciamento dei contatti, come se la app da sola fosse in grado di ricostruire a ritroso il percorso del contagio.
Nel caso della indagine sierologica, pianificata dall’Istat, sono semplicemente sbalordito. A giudicare da quel che riportano i quotidiani, sembra che l’indagine stia facendo flop perché molti dei soggetti inclusi nel campione Istat rifiutano il test. In base alla mia esperienza con i sondaggi mi chiedo: ma non lo sapeva l’Istat che per fare 1 intervista ci vuole una lista di riserva di almeno 5 nominativi, e spesso di 10? E non ha pensato che se così tanti rifiutano una tranquilla chiacchierata telefonica, sarebbero potuti essere ancora più frequenti i rifiuti verso un’indagine così invasiva, che avrebbe comportato un appuntamento per un prelievo del sangue?
Insomma, qui qualcosa mi sfugge. Leggo che il fallimento sarebbe colpa degli italiani, ma come sociologo e statistico sono invece stupefatto che il tasso di adesione (se è vero quello che riportano i mezzi di informazione) sia stato molto superiore a quello di un normale sondaggio politico o di una survey. D’altronde mi risulta difficile pensare che un ente come l’Istat, sicuramente iper-burocratico ma anche dotato di un’enorme esperienza, sia stato così ingenuo da non pensare a una lista di riserva adeguata, e abbia scelto la strategia notoriamente meno efficace: tempestare di decine di telefonate chi non ha voglia di partecipare all’indagine.

E i tamponi?
Anche qui alzo bandiera bianca, perché non capisco. Il governo avrebbe tutto l’interesse a farne a tappeto, per portare i contagi vicino a zero prima dell’autunno, ma non fa nulla, lasciando che le Regioni ne facciano pochi, pur di evitare di scoprire troppi nuovi casi. Eppure basterebbe dire chiaramente: care Regioni, non sarete giudicate (negativamente) sul numero di infetti che scoprirete, ma sarete giudicate (positivamente) sul numero di tamponi che farete per scoprirne il più possibile.
Ma forse la realtà è più semplice: in questa fase nessun governante, nazionale o locale, può permettersi di dire la verità sul contagio, perché ogni segnale di allarme danneggia l’economia.

Uno dei problemi che il governo sta faticando ad affrontare efficacemente è il cosiddetto Covid d’importazione. L’esecutivo finora si sta limitando a sospendere per alcuni giorni i voli diretti dai paesi più a rischio, come il caso del Bangladesh. Però la misura non sembra risolvere il problema: viene aggirata tranquillamente con la triangolazione dei voli, come la cronaca ci ha mostrato mercoledì, quando a Fiumicino sono arrivati 120 bengalesi tramite scalo a Doha. Quanto rischiamo per il virus che torna dall’estero?
Secondo me, e secondo una parte dei virologi, rischiamo molto. Ma qui, a mio parere, la responsabilità maggiore non ce l’ha il nostro governo (per una volta solidarizzo con Conte) ma ce l’hanno gli organismi internazionali, in primis l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Unione Europea. Nessun paese può chiudere o limitare drasticamente i collegamenti internazionali se non lo fanno anche la maggior parte degli altri paesi. Posso sbagliare, naturalmente, ma per me è semplicemente incredibile che chi ci governa non abbia ancora voluto accettare una cosa di puro buonsenso: il turismo internazionale è incompatibile con una pandemia.
Posso anche capire che, in un mondo altamente interconnesso, i movimenti internazionali legati al lavoro non siano limitabili, o lo siano solo in misura molto contenuta, ma i flussi turistici? Si parla e straparla continuamente di nuovo tipo di sviluppo, di green deal, di cambiamenti nello stile di vita, e non siamo in grado di accettare una limitazione temporanea di uno dei fattori fondamentali di diffusione e amplificazione dell’epidemia?
Possibile che non capiamo che questa è una pandemia, e il turismo internazionale è un cerino buttato in una polveriera?

Quanto rischiamo poi una seconda ondata in autunno?
Se non lo sanno i virologi, meno che mai può saperlo un sociologo. Quel che posso dire è che, a mio modestissimo avviso, la vera domanda è: quanto il forte rallentamento dell’epidemia osservato nel trimestre aprile-maggio è stato dovuto anche all’evoluzione del clima e alle sue conseguenze, prime fra tutte diminuzione dell’umidità, aumento del soleggiamento, frazione di tempo trascorsa all’aperto?
Se, come alcuni ritengono (vedi ad esempio l’articolo dell’ing. Mastropietro pubblicato sul sito della Fondazione Hume), questi fattori hanno avuto e continuano ad avere un ruolo cruciale, non si può escludere che con l’arrivo della stagione fredda l’osservanza delle regole comportamentali non basti più, e l’epidemia riparta.
Detto in modo più crudo: forse in questo momento la vera ragione per cui l’epidemia sembra ancora sotto controllo non è né l’autodisciplina della popolazione adulta (quella giovanile è già fuori controllo), né la tempestività delle autorità sanitarie nello spegnere i nuovi focolai, ma è semplicemente il fatto che i fattori climatici stanno contrastando e bilanciando quelli comportamentali.

L’eventuale seconda ondata sarebbe il colpo di grazia per la nostra economia? Gli stessi imprenditori, del turismo e non, dovrebbero essere più cauti in questo periodo?
Io non sono sicuro che il compito della politica, oggi, sia scegliere fra la salute e l’economia. Può darsi che sia così, ma si dovrebbe preliminarmente provare a rispondere a questa domanda: e se limitare (almeno) il turismo internazionale, misura sicuramente dannosa per l’economia nel breve periodo, non fosse invece una misura che tutela l’economia nel periodo medio-lungo?
Se la risposta fosse affermativa, il conflitto salute-economia sarebbe meno insanabile di quel che appare. Io sono piuttosto sicuro che aver ritardato di circa un mese il lockdown (il vero lockdown inizia solo il 22 marzo, ossia più di un mese dopo Codogno) non ha solo aumentato drasticamente il numero dei decessi, ma ha anche danneggiato l’economia (se si fosse chiuso subito, la chiusura sarebbe durata di meno). Sul domani sono assai meno sicuro, ma la domanda me la faccio: oltre a far ripartire l’economia, non dovremmo preoccuparci – proprio per il bene dell’economia – di evitare l’arrivo di una seconda ondata?
Perché se una tale seconda ondata dovesse abbattersi sulle nostre teste, quello cui assisteremmo non è una recessione drammatica, peggiore di quella del ’29, ma una catastrofe, l’inabissamento di un’intera civiltà.

Ormai esperti dell’analisi dei dati, virologi e medici si dividono fra pessimisti e ottimisti. Dove l’hanno collocata? E soprattutto: da che parte si sente di stare?
Quella dei pessimisti e degli ottimisti è una commedia, volutamente mandata in scena per permettere alla politica, complice la secretazione dei dati essenziali, di tenersi le mani libere. Se fra gli scienziati vi fosse una posizione dominante o egemonica, se i dati fossero pubblici e di qualità, lo spettro delle scelte della politica si restringerebbe drasticamente, perché alcune scelte apparirebbero chiaramente dannose, o strumentali, o palesemente inappropriate.
Invece così, grazie al chiacchiericcio di tutti (compreso il nostro in questa intervista), grazie alla opinabilità di ogni presa di posizione, i governanti possono tutelare il bene per essi più prezioso: la facoltà di decidere solo in vista del consenso, al di fuori di ogni controllo dell’opinione pubblica.
Quanto a me, so che molti mi classificano fra i pessimisti, o fra i nemici dell’economia. Ma sbagliano. Il pessimismo è un’altra cosa, pessimismo è vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, anche quando non lo è. A me capita un’altra cosa, ossia di non essere dotato di quella che molti studiosi considerano una delle caratteristiche distintive, e uniche, degli esseri umani: la capacità di ridurre la “dissonanza cognitiva” mediante costruzioni mentali che servono ad attenuare l’angoscia, a mitigare la paura, a nascondere rischi e pericoli, a dispetto della cruda realtà.
Insomma, come sociologo penso di appartenere al mondo animale: se una gazzella vede un leone, non pensa che sia un ornitorinco solo per controllare l’ansia che sente dentro di sé. Incredibile: pensa che sia un leone.

Intervista di Gianni Del Vecchio a Luca Ricolfi, Huffington Post, 10 luglio




Sul populismo fiscale

Non sono particolarmente incline all’ottimismo. Tendo a pensare che questo governo ce lo terremo il tempo sufficiente a distruggere l’economia del paese, un’impresa per completare la quale – dopo tutto quel che (non) si è fatto – basta ancora davvero poco. Altri sei mesi così, e neanche Mandrake potrà fare il miracolo. Però dentro di me albergava ancora, fino a pochi giorni fa, un lumicino di speranza. Pensavo: magari adesso hanno capito che devono assolutamente fare qualcosa per salvare l’economia, e magari sanno persino che cosa. Magari nei prossimi mesi vedremo un altro film, magari Renzi – che ci ha messi in questo guaio – prova anche a tirarcene fuori.

Poi, pochi giorni fa, è arrivata una trasmissione televisiva (credo fosse “In Onda”), e quella domanda di uno dei conduttori al ministro dell’economia. Più o meno diceva così: signor ministro, si rende conto che, a forza di scostamenti di bilancio, a breve il rapporto debito/Pil schizzerà dalle parti del 170%, e a quel punto ci sarà poco da fare, o aumenti le tasse o riduci la spesa pubblica, “tertium non datur”, insomma altre alternative non ce ne sono.

A questa osservazione perfettamente ragionevole del conduttore, il ministro dell’economia accennava un sorrisetto di soddisfazione, e ribatteva che no, non è vero, “tertium datur”, un’alternativa c’è.

Non ero affatto curioso di sapere che cosa questo “tertium” potesse essere, perché credevo di saperlo già. Dentro di me mi sono detto: ecco, adesso ripeterà il solito discorsetto degli ultimi 10 anni, tanto elegante quanto evanescente: il problema non è ridurre il numeratore (il debito) ma far crescere il denominatore (il Pil). Il che tradotto significa: se cresciamo abbastanza, il rapporto debito/Pil può diminuire senza aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica, due cose che nessun politico ama fare per paura di perdere voti.

Invece, sorpresa: il “tertium” che il ministro dell’economia ha in mente per ridurre il rapporto debito/Pil è un massiccio recupero di evasione fiscale. Un’idea non nuova, ripetuta per decenni sindacalisti e politici convinti che “se tutti pagassero le tasse, l’Italia risolverebbe tutti i suoi problemi”.

A quel punto ho perso ogni speranza. Perché si può anche ipotizzare che un’idea simile sia un parto solitario del ministro dell’economia, ma la realtà – temo – è che è il governo nel suo insieme che a questo punta: ridurre l’extra-debito rimpinguando le casse dell’erario (e dell’Inps) con i proventi della sacrosanta “lotta all’evasione fiscale”.

Che questa idea, che agli ingenui e ai moralisti pare una genialata, sia invece catastrofica, lo si può capire da due semplici considerazioni.

Primo, una parte non trascurabile dell’evasione fiscale è “di necessità”, come da anni coraggiosamente ripete Stefano Fassina, il che significa che, se dovessero pagare le tasse con le attuali aliquote, centinaia di migliaia di piccole attività semplicemente chiuderebbero, distruggendo un numero enorme di posti di lavoro. Ma c’è anche una seconda considerazione, ancora più decisiva. Supponiamo che, domattina, un fisco improvvisamente divenuto onnisciente ed efficiente, riuscisse a scovare tutti gli evasori, e che nessuna impresa fallisse. Anche ammettendo questa eventualità (chiaramente impossibile), il risultato sarebbe un aumento spaventoso della pressione fiscale, già oggi a livello record, perché i soldi eventualmente recuperati non verrebbero da Marte, come tanti parrebbero credere, ma verrebbero prelevati dalle tasche di produttori e consumatori, con conseguente drastica contrazione del reddito disponibile e della domanda aggregata. Qualcuno può pensare che, con un incremento della pressione fiscale di 7-8 punti di Pil (a tanto ammonta l’evasione fiscale e contributiva) l’economia non riceverebbe il colpo di grazia?

Si può obiettare, naturalmente, che i soldi recuperati con la lotta all’evasione dovrebbero andare a ridurre le aliquote che pesano sull’economia regolare, ma è proprio qui che il ragionamento del ministro dell’economia va in cortocircuito: se non si vuole aumentare la già insostenibile pressione fiscale attuale, e quindi tutti i proventi della lotta all’evasione fiscale vengono (molto opportunamente!) usati per ridurre le aliquote, alla fine non resta un solo euro per ridurre il debito pubblico. Questo è il duro, e inaggirabile, nocciolo del problema.

Giunti a questo punto, si potrebbe supporre che io auspichi che il timone dell’economia passi ad un ministro espressione dell’opposizione, che della riduzione della pressione fiscale ha fatto un articolo di fede. Sfortunatamente, però, anche questa non è una via rassicurante. Uno dei drammi dell’Italia attuale è il populismo fiscale, che vagheggia riduzioni generalizzate delle aliquote senza fare i conti con la realtà, ed è purtroppo radicato sia in buona parte della sinistra giallo-rossa sia in buona parte della destra verde-azzurra. Riduzione dell’Iva e dell’Irpef, taglio delle aliquote contributive, flat tax per tutti e su tutto: di questo parlano i maggiori partiti, a destra come a sinistra. E se la sinistra di governo preoccupa per la sua incapacità di individuare delle priorità e scegliere una politica fiscale realistica, ancor meno rassicura la destra quando Salvini ripropone forme più o meno mascherate di condono fiscale per finanziare la flat tax, o quando dice che la Lega è pronta ad appoggiare qualsiasi riduzione delle tasse, come se questo non equivalesse a confessare di non avere delle chiare priorità.

Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che in materia fiscale le forze più avvedute, e avvedute in quanto capaci di scegliere, non siano quelle con il maggiore seguito elettorale. A sinistra, solo i piccoli partiti di Calenda e Renzi paiono in grado di formulare delle priorità, ancorché talora un po’ vaghe (detassare le imprese e il lavoro). A destra solo Giorgia Meloni, sia pure molto cautamente, ha più volte dato segni di capire che occorre scegliere, e procedere con gradualità: premiare innanzitutto le imprese che aumentano l’occupazione, introdurre la flat tax solo sul reddito incrementale (sui maggiori guadagni da un anno all’altro), unificare le tutele sul mercato del lavoro, superando la frattura fra garantiti e non garantiti.

Una situazione che lascia un enorme spazio al populismo fiscale. Perché la politica economica del governo la fanno Cinque Stelle e Pd, non certo il partitino di Renzi. E, a destra, la linea continua a dettarla Salvini, non certo il partito di Berlusconi, né quello di Giorgia Meloni. Per adesso.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 luglio 2020