Il debito e il sonno dei mercati

Capisco che sentirsi seduti sopra una montagna di euro sia inebriante. E’ la sensazione che doveva provare lo zio Paperone quando si tuffava fra le monete del suo deposito. E dev’essere la sensazione che provano i nostri governanti quando parlano dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

Ci sono due importanti differenze, tuttavia. I soldi che arriveranno in Italia non saranno dollari, bensì euro. Ma soprattutto: lo zio Paperone sedeva su soldi propri, perché li aveva guadagnati. Invece i nostri governanti si accingono a sedersi su soldi altrui, che dovranno essere restituiti.

Qualcuno potrebbe obiettare: una parte dei soldi che attendiamo dall’Europa, più di 80 miliardi, sono a fondo perduto. Ma è un’illusione. Chi ha provato a fare i conti, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, avverte che, dal momento che l’Italia è contributore netto al bilancio europeo, il beneficio effettivo per il nostro paese potrebbe aggirarsi sui 46 miliardi. Che sono meno della metà del nuovo debito che il Governo ha contratto con i tre scostamenti di bilancio approvati durante il primo semestre, e circa un terzo dell’incremento del debito pubblico intervenuto in appena 5 mesi, da febbraio a luglio di quest’anno.

In poche parole: i soldi “veri” (diversi dai prestiti) che prima o poi arriveranno dall’Europa non bastano nemmeno a ripianare il debito aggiuntivo (più di 100 miliardi) che abbiamo già accumulato nella prima parte dell’anno. L’occasione meravigliosa e “senza precedenti” che l’Europa ci offre è di aggiungere ai debiti già contratti nei mesi scorsi altri 130 miliardi di ulteriori debiti, destinati a diventare quasi 170 se ci decideremo a ricorrere anche al MES.

E’ in questa situazione che, da qualche giorno, è partito l’assalto alla diligenza delle “risorse” in arrivo dall’Europa. Centinaia e centinaia di progetti si contendono l’accesso ai nuovi fondi, come se si trattasse solo di decidere che cosa è importante per il nostro futuro. Parole fumose e astratte si inseguono nella speranza di incontrare la comprensione e la benevolenza delle autorità europee cui spetta approvare i nostri progetti di spesa: digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, formazione, equità, inclusione sociale.

Quel che resta del tutto in ombra è il punto decisivo: a conti fatti la manna che arriverà dal cielo europeo è fatta solo di prestiti, e i prestiti andranno restituiti. Il che significa: il problema non è di spendere in cose che riteniamo utili al paese (su questo ognuno ha ovviamente le sue idee), il problema è di far sì che, alla fine, ogni euro speso generi più di un euro di nuovo Pil. Solo così potremo rimborsare domani i prestiti che ci vengono erogati oggi.

E’ questo che i vari piani e progetti dovrebbero essere in grado di garantire, o perlomeno rendere verosimile. E non è affatto un requisito facile. La spesa pubblica corrente di norma distrugge più risorse di quante ne crei, e gli investimenti stessi non sempre sono in grado di far crescere il Pil più di quanto costino. Molto dipende dai settori in cui si investe, dalla qualità dei piani, dai manager chiamati ad attuarli, ma ancor più da un fattore che troppo spesso trascuriamo: l’ambiente economico e istituzionale in cui l’investimento avviene. Se la burocrazia soffoca l’iniziativa privata, la giustizia civile non funziona, il mercato del lavoro è ingessato, il fisco asfissia i produttori, anche i migliori investimenti e i migliori stimoli all’economia rischiano di generare benefici modesti, o addirittura nessun beneficio netto.

Perché la politica non si pone il problema della restituzione del debito? Perché si parla e si ragiona come se i prestiti fossero finanziamenti a fondo perduto, o come se il creditore potesse dimenticarsi del debitore, o rimettere i suoi debiti “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

Sinceramente non lo so. Alle volte penso che sia la nostra cultura cattolica che ci rende così irresponsabili. Come il peccatore pecca e ripecca sereno in attesa della prossima confessione o indulgenza che lo laverà di tutti i suoi peccati, forse allo stesso modo il politico pensa che alla fine si troverà una quadra, e che i debiti non debbano essere davvero restituiti.

Altre volte, invece, mi capita di pensare che dietro la rimozione del problema del debito vi sia un calcolo preciso, e cioè: il problema riguarda chi verrà dopo, noi intanto spendiamo e acquisiamo consenso, poi chi vivrà vedrà. Può darsi che sia così, che il governo giallo-rosso pensi di durare fino al 2023, spendendo allegramente i 209 miliardi del Recovery Fund, e che la restituzione del debito tocchi a Salvini-Meloni-Berlusconi, quando sarà il loro momento.

Se fosse così, sarebbe un calcolo alquanto cinico. Però, a mio parere, sarebbe anche un calcolo azzardato. La scommessa di poter fare tranquillamente le cicale per 2-3 anni, lasciando a chi verrà dopo la gestione della bancarotta del Paese, non tiene nel debito conto un’eventualità tutt’altro che remota: i mercati finanziari, che in questi mesi sono stati drogati dalle politiche dei bassi tassi di interesse, potrebbero anche svegliarsi. I calcoli della Fondazione Hume sui rendimenti dei titoli di Stato dei paesi europei segnalano che, in questi mesi, gli interessi richiesti alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona (compresa la Francia, ma escluse Germania e Irlanda) sono molto più bassi di quanto i fondamentali dei vari paesi suggerirebbero e giustificherebbero. Il che significa: domani potrebbero essere più alti, anche molto più alti.  A quel punto i paesi indebitati fino al collo, come l’Italia, la Grecia, e il Portogallo potrebbero salvarsi da una spirale di innalzamento dei rendimenti (come quella del 2011) solo se le loro economie fossero state nel frattempo risanate, e poste su un robusto sentiero di crescita.

Perché è inutile illudersi: il debito “buono” non è quello che serve a fare le cose che i politici di turno ritengono prioritarie per il paese, ma è quello che i mercati giudicano rimborsabile. E, quando il rapporto debito/Pil è molto alto, ci sono due modi soltanto di rassicurare i mercati: l’austerità (più tasse e meno spese), che serve a diminuire il numeratore, e la crescita, che serve ad aumentare il denominatore.

Ecco perché l’enfasi esclusiva su “come spendiamo questa montagna di soldi”, e la demonizzazione delle riduzioni fiscali (fra le poche misure in grado di dare una spinta alla crescita) sono estremamente pericolose. Certo, potrebbero creare problemi solo ai governi successivi, quando i mercati si sveglieranno. Ma ne potrebbero creare anche al governo in carica, ove esso dovesse durare più a lungo del sonno dei mercati.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 settembre 2020




Potevamo vincere il virus, il Governo ha scelto il turismo. Intervista a Luca Ricolfi

Che cosa ci dicono i dati sull’andamento del virus elaborati dalla Fondazione Hume?
La Fondazione pubblica quotidianamente un termometro dell’epidemia, che monitora l’andamento del numero di contagiati. Ebbene, il termometro segnava 1.5 gradi pseudo-Kelvin alla fine di luglio, oggi sfiora gli 8 gradi. Questo significa che il numero di contagiati è almeno quintuplicato in poco più di un mese.
Un’altra cosa che facciamo è valutare la capacità dei vari paesi di intercettare i contagiati. E’ un’operazione essenziale, perché i dati dei nuovi casi (i più usati dai mass media) sono del tutto fuorvianti: 1000 casi in più in Italia, che ha una bassa capacità diagnostica, sono molto più preoccupanti che 1000 contagiati in più in Germania, un paese che, grazie al numero di tamponi e alla capacità di tracciamento, ha una capacità diagnostica ben superiore alla nostra.

Che evoluzione c’è stata in questi mesi?
Forse, riguardo all’Italia, in questo momento il dato più significativo è l’inversione di tendenza delle curve dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva.  In poche settimane abbiamo avuto una triplicazione (decessi) e una quadruplicazione (terapie intensive). La svolta nella curva epidemica risale alla seconda metà di giugno (noi l’abbiamo segnalata il 18 giugno sul sito: www.fondazionehume.it), ma il governo – fino a Ferragosto – è stato del tutto sordo ai nostri allarmi, e non solo ai nostri. Anche la Fondazione Gimbe, con il prof. Nino Cartabellotta, anche virologi autorevoli come Andrea Crisanti e Massimo Galli, si sono sgolati per mesi avvertendo del pericolo di una ripartenza dell’epidemia, ma è stato tutto vano. Il governo non voleva vedere né sentire.

I virologi consigliano di guardare il numero dei ricoverati e non quello dei contagiati per capire l’andamento dell’epidemia: è d’accordo?
Hanno perfettamente ragione, il numero di ricoverati è molto più significativo. Però anche il numero di ricoverati ha dei problemi, due soprattutto. Il primo è che la Protezione Civile non fornisce il numero di ingressi in ospedale (dato di flusso), ma solo quello degli ospedalizzati (dato di stock), che è altamente fuorviante: se avessero fornito il numero di ingressi in ospedale, che non si sono mai fermati, ci si sarebbe accorti che l’epidemia andava assai meno bene di quanto suggerisse la stazionarietà o la diminuzione del numero di ospedalizzati. Il secondo problema è che l’andamento del numero di ospedalizzati sottostima fortemente l’andamento dei contagi quando l’età mediana dei contagiati si abbassa, perché i giovani finiscono in ospedale molto più raramente degli anziani. In concreto questo significa: negli ultimi 30 giorni le persone in terapia intensiva sono “solo” quadruplicate, ma i contagiati potrebbero essere aumentati anche di 7 o 8 volte.

Il governo Conte si è proposto come modello di gestione della pandemia, ma lei ha sconsigliato di prendere l’Italia come esempio. Perché?
Perché, fra le società avanzate (che sono più di 30) ci sono solo 3 paesi che hanno registrato più morti per abitante di noi, e cioè Belgio, Regno Unito, Spagna. Persino gli Stati Uniti, che i nostri media descrivono come un paese dove si è scatenata l’Apocalisse, hanno meno morti per abitante di noi. Ma non è l’unica ragione per cui considero l’Italia come un modello da non imitare, ce ne sono almeno altre due.

Quali?
La prima è che l’Italia ha gestito malissimo il ritorno a scuola, commettendo alcuni errori madornali, primo fra tutti la mancata riduzione del numero di alunni per classe. La seconda è che l’Italia è uno dei pochi paesi che sono riusciti nel capolavoro politico di rilanciare l’epidemia e al tempo stesso affossare l’economia.

Chi bisognerebbe seguire? La “solita” Germania?
Sì, la Germania si è comportata benissimo, era organizzata e pronta già a febbraio con i tamponi e il tracciamento. Ma, se devo indicare dei modelli, più che un singolo paese indicherei una categoria di paesi, che per brevità chiamerò i “paesi disciplinati”. Si tratta di paesi che, per le ragioni più diverse (la religione, la tradizione, la cultura), hanno una ampia riserva di senso civico, rispetto per l’autorità, propensione a seguire le regole. Fra questi c’è sicuramente la Germania, ma ci sono anche altri paesi europei di area germanica o asburgica (Austria, Svizzera, Ungheria), o di religione luterana (paesi scandinavi), nonché buona parte delle democrazie asiatiche più o meno influenzate dal confucianesimo e dal buddismo (Giappone, Corea del Sud, Taiwan). Se si vanno a vedere i tassi di mortalità per il Covid di questi paesi, si scopre che sono tutti molto inferiori a quelli dei maggiori paesi europei, come Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.

A chi va attribuita la ripresa dei contagi? Ai giovani incontrollabili e amanti del rischio? Alla voglia generalizzata di sfogarsi dopo i mesi di isolamento? O è semplicemente un’evoluzione naturale della malattia alla quale dovremmo adeguarci?
No, il Covid si poteva sconfiggere, anche se non debellare completamente, quando (a giugno) i contagi erano scesi a 2-300 al giorno. Quello era il momento di moltiplicare i tamponi e mettere restrizioni severe ai viaggi per motivi turistici, sia verso l’estero sia verso l’interno. Alcuni governatori, ad esempio quelli della Sardegna e della Sicilia, l’avevano capito, ma sono stati messi a tacere dall’imperativo categorico di salvare la stagione turistica, costi quel che costi.

Le autorità sanitarie dovevano seminare tra la gente ancora più paura del Covid?
No, le autorità sanitarie avrebbero dovuto limitarsi a dire la verità, senza cambiarla a seconda dei giorni, dei programmi televisivi, o di chi fosse l’intervistato di turno.

Che messaggi ha dato il governo ai cittadini in questi mesi con la sequela di regole incoerenti su bus, treni, aerei, scuole, discoteche, aperitivi, mascherine a orario?
E’ molto semplice. Il governo ha scelto di dare messaggi contraddittori, perché ognuno potesse raccontarsi la situazione come voleva. Il governo desiderava che ci sfrenassimo, per risarcirci del lockdown e far ripartire l’economia, ma non poteva dire che non c’erano pericoli, perché sarebbe stato accusato di “procurata epidemia”. Ha scelto di lasciarci credere che i pericoli fossero tutto sommato limitati, senza prendersi la responsabilità di affermarlo esplicitamente.

Perché per la scuola si parla soltanto di regole da applicare, dai banchi mobili a chi deve rilevare la temperatura, senza che nessuno si sia preoccupato di una riforma più complessiva?
E’ da almeno vent’anni che, quando si parla di scuola, si parla solo di cattedre, graduatorie, edilizia, orari, senza alcun riferimento alla funzione di trasmissione culturale. Questo governo si è limitato a continuare sulla strada dei predecessori, dopo essersi liberato dell’unico ministro (l’on. Fioramonti) che sulla scuola e sull’università forse qualche idea ce l’aveva.

Alla fine del lockdown lei disse che il governo si giocava una “scommessa rischiosa”: lasciava riprendere l’economia e consentiva di fare le vacanze sperando che in autunno la situazione sarebbe stata diversa. Scommessa vinta o persa?
Strapersa, direi. Anche perché stagione fredda e influenze non potranno che peggiorare ancora le cose.

Nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo), pubblicato subito prima dello scoppio della pandemia, lei sostiene che l’Italia si sta trasformando in una “società parassita di massa”. Le decisioni prese finora dal governo a colpi di bonus confermano la sua analisi. E’ una tendenza ineluttabile?
Temo di sì, perché anche a destra le spinte stataliste e assistenziali sono molto forti (quota 100 l’ha inventata Salvini). La realtà è che le forze pro-impresa e pro-mercato, non eccessivamente compromesse con l’assistenzialismo, non rappresentano più del 30% dell’elettorato.

A chi si riferisce?
Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione (Calenda), Italia viva (Renzi), più qualche esponente isolato del Pd, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

I soldi promessi dall’Europa serviranno davvero per ripartire o sarà l’ennesima iniezione di assistenzialismo parassitario?
La seconda che ha detto.

Lei ha scritto che del Covid si è parlato finora come minaccia per la salute e per l’economia, e non per la nostra psiche. Che intende?
Che non ci si può dividere stabilmente fra impauriti e incoscienti, e che il Covid è destinato a degradare la rete delle nostre relazioni sociali. Se dura ancora a lungo, diventerà anche un problema psichiatrico, perché l’umanità non è programmata per vivere temendo sistematicamente l’altro, quando l’altro è parte della propria comunità, rete di amici, cerchia famigliare.

Davvero ci avviamo verso una società in cui gli altri sono soltanto un pericolo?
No, perché una società di questo tipo non è una società. Se il Covid dura, e non si trova un vaccino né una cura, quella verso cui ci avviamo è una società di bolle, o monadi, o vasi non comunicanti: piccole cerchie di persone, che si vedono fra loro e minimizzano i contatti con il resto del mondo. Con buona pace della globalizzazione.

Posso chiederle che cosa voterà al referendum, se voterà?
Vivo buona parte dell’anno a Stromboli, non mi sposto certo a Torino per scegliere fra il sì e il no al referendum. Il problema è che chi vota no rafforza la casta, chi vota sì rafforza l’anti-casta, ma nessuno sa quale delle due fa più danni all’Italia.

Intervista di Stefano Filippi a Luca Ricolfi, La Verità, 14 settembre 2020




Scuola, ripartenza rischiosa

“La scuola riapre regolarmente il 14 settembre”, ha affermato il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ma avrebbe fatto meglio a dire la verità, tutta la verità: le scuole cercano di ripartire il 14, ma non riusciranno a farlo in tutta Italia.

Infatti la situazione reale è questa. Il Friuli Venezia Giulia e quasi tutte le regioni del Sud (6 su 8) hanno già deciso di rimandare la riapertura, per lo più a dopo le elezioni del 21 settembre. Quanto alle altre regioni, alcune scuole partiranno, altre no: regioni e comuni possono autorizzare le singole scuole a rinviare la partenza, e già lo stanno facendo dove i dirigenti scolastici ritengono che non ci siano le condizioni per riaprire subito.

Le ragioni del ritardo sono fondamentalmente tre: cattedre scoperte (come tutti gli anni), lavori edilizi non completati o ancora privi delle necessarie certificazioni, mancata consegna dei banchi, originariamente prevista entro l’8 settembre, ed ora slittata alla fine di ottobre.

Si poteva fare diversamente?

Se teniamo conto del fatto che le scuole sono state chiuse da marzo, e che a metà maggio già si sapeva che non avrebbero riaperto prima di settembre, la risposta è: sì, almeno per quanto riguarda la consegna dei banchi. Bastava fare il bando a maggio, come fin dalla fine di aprile suggerivano alcuni produttori, anziché aspettare il 20 luglio (più di 4 mesi dopo la chiusura delle scuole!). Quanto alle nomine degli insegnanti, non riesco a credere che – con i pieni poteri che questo governo si è auto-attribuito – non vi fosse alcun modo di coprire la maggior parte delle cattedre, se non altro in considerazione del fatto che la carenza di insegnanti, nella misura in cui genera caos amministrativo e organizzativo, è anch’essa un potenziale fattore di rischio.

Possiamo almeno dire che la riapertura, dove avverrà, sarà “in sicurezza”?

Questo è difficile stabilirlo in anticipo, anche se il fatto che il premier abbia già messo le mani avanti, dicendo che eventuali focolai non sono imputabili a carenze dell’azione di governo, non è particolarmente incoraggiante. E’ ovvio che, come ha detto al figlio Niccolò, “se succede qualcosa a scuola non è perché papà ha lavorato male”. Ma il punto non è se ci saranno casi di Covid a scuola (questo è certo, ed è perfettamente normale, ahimè), ma se ve ne saranno pochi o parecchi, se sarebbero potuti essere molti di meno con scelte politiche diverse, e se ci siano le condizioni per gestire efficacemente i casi che certamente ci saranno, tanti o pochi che siano. Il caso di Israele, che giusto in questi giorni – primo paese al mondo – ha annunciato il ritorno al lockdown, dovrebbe insegnare qualcosa: se Israele deve di nuovo chiudere, è essenzialmente perché ha sbagliato tutto sulla scuola, dai tempi di riapertura, alla dimensione delle classi, agli errori nella aerazione dei locali (basata sui condizionatori).

Ebbene, sul versante della sicurezza il quadro è tutt’altro che rassicurante, per due ordini di ragioni. Il primo è che le misure adottate sono alquanto deboli, specie se confrontate con quelle di diversi paesi europei, che prevedono regole precise sulla frequenza di aerazione dei locali, un distanziamento maggiore (1.5 metri o 2), vincoli stringenti alla dimensione delle classi (da 10 a 20 bambini, a seconda dei paesi). Per non parlare della incapacità di assicurare un adeguato distanziamento nei trasporti: quella di considerare “congiunti” i bambini che vanno nella medesima scuola è una trovata degna di un Azzeccagarbugli; una acrobazia linguistica cui il governo è dovuto ricorrere perché per mesi e mesi si era occupato d’altro e, arrivati al 27 agosto, non c’era più tempo di provvedere diversamente, innanzitutto rafforzando il trasporto pubblico locale. Viene da chiedersi: a che serve tentare maldestramente di assicurare il distanziamento a scuola, con la ridicola regola del metro fra le “rime buccali”, se prima e dopo l’ingresso a scuola – per mancanza di bus – si costringono i ragazzi ad assembrarsi sui mezzi pubblici?

Ma c’è anche un altro ordine di ragioni, strettamente sanitarie, che non ci può lasciare tranquilli. Dalla metà di giugno, quando l’epidemia ha dato chiari segni di rialzare la testa (un fatto inizialmente segnalato da pochi, ma progressivamente riconosciuto da tutti), nulla è stato fatto per invertire la tendenza, e molto è stato invece fatto per prolungare il più a lungo possibile il periodo in cui la gente poteva divertirsi, il turismo riprendere fiato, e il virus accomodarsi fra noi; fino alla decisione finale di tenere le discoteche aperte anche a Ferragosto, nonostante i disastri provocati dalla folle estate fossero divenuti evidenti a tutti. Ebbene tutte queste scelte e omissioni (specie quella di chiudere un occhio su discoteche e movida) un risultato, prevedibile e previsto, l’hanno prodotto: aumentare il numero di contagiati e, con esso, il rischio che chiunque, ragazzo, insegnante, o familiare, contragga il virus.

Mentre ipocritamente si proclamava che la scuola era una “priorità assoluta”, e che “nemmeno una ora di lezione” doveva andare perduta, si permetteva che il rischio di contagiarsi, sceso ai minimi all’inizio dell’estate, tornasse inesorabilmente a salire.

Ma di quanto? A che punto siamo oggi?

Difficile fornire una stima precisa, ma l’ordine di grandezza è chiaro. Rispetto ai minimi toccati all’inizio dell’estate il numero di morti è quasi triplicato, e il numero di ricoverati in terapia intensiva è circa quadruplicato. Quanto al numero dei contagiati, è verosimile che sia aumentato ancora di più, perché l’età mediana si è drasticamente abbassata, e più la popolazione di contagiati è giovane, minore è la probabilità di un ricovero in terapia intensiva o di un decesso. Morti e ricoverati in terapia intensiva tornano, anche se per ragioni diverse rispetto a marzo e aprile, ad essere solo la punta dell’iceberg del contagio.

Tirando le somme, credo che il numero di contagiati sia almeno quintuplicato, ma non sarei stupito che qualche collega epidemiologo meno prudente di me ipotizzasse che sono decuplicati.

Ecco perché affermare che la scuola riapre “in condizioni di sicurezza” è semplicemente una bugia. No, tra luglio e agosto la scelta di chi ci governa non è stata di approfittare dell’estate per ridurre ulteriormente la circolazione del virus e arrivare alla riapertura delle scuole in condizioni di massima sicurezza (linea di condotta più volte invocata dal prof. Crisanti, e non solo da lui). La scelta è stata di risarcire gli italiani per il lockdown regalando loro un’estate senza regole, anche se si sapeva benissimo che questo avrebbe reso meno sicuro il ritorno a scuola.

Ora che la frittata è fatta, ora che è chiaro che molte scuole non potranno garantire una ripartenza in sicurezza, ora che lo spettro di un ritorno alla didattica a distanza si fa più minaccioso, vorrei almeno, a nome di tanti genitori, chiedere una cosa, minimale ma dovuta: se uno studente viene confinato nella stanza del Covid, e mandato a casa perché sospetto, potete almeno garantirgli il tampone (e la comunicazione dell’esito) entro 48 ore?

Già, perché non tutti i genitori se ne sono ancora accorti, ma non c’è nulla, ma proprio nulla, nei protocolli e nelle procedure, che dia alle famiglie questa garanzia. Non paghi di scaricare sulle famiglie un’operazione (la misurazione della temperatura) che la scuola non è in grado di assicurare, i nostri politici ed esperti hanno previsto che, in caso di sospetto Covid, i genitori debbano riprendersi il pargolo e provvedere loro stessi a contattare un medico, che a sua volta deciderà. Come se non si sapesse che proprio questo è il problema, in tante realtà: non c’è garanzia che il medico venga a casa per una visita, non c’è garanzia che qualcuno effettui subito il tampone, non c’è garanzia che l’esito venga tempestivamente comunicato, e non si perda invece nei meandri della burocrazia delle mail, della “sanità digitalizzata” e senza volto.

Questo è, purtroppo, quello che è successo nei terribili mesi della prima ondata. Possiamo chiedervi che non succeda più?

Pubblicato su Il Messaggero del 12 settembre 2020




La mente sotto il Covid

Del Covid, in questi lunghi mesi, si è parlato quasi sempre da due angolature: come minaccia alla salute, e come minaccia all’economia. Meno spazio ha avuto un terzo possibile punto di vista, quello degli effetti sul modo di funzionare delle nostre menti. Eppure è quest’ultimo, probabilmente, il terreno su cui stanno avvenendo i cambiamenti più radicali.  Forse non amiamo parlarne perché questi cambiamenti non ci piacciono, o ci fanno soffrire, o aumentano il nostro disorientamento e la nostra angoscia.

Il cambiamento più evidente, probabilmente, è l’aumento dell’incertezza. Che non significa semplicemente che non sappiamo come sarà il mondo fra un anno, e nemmeno fra un mese, ma che viviamo in uno stato di sospensione perenne, senza fine. Rimandiamo ogni decisione, non siamo più capaci di pianificare nulla, né progettare le nostre vite. Il Covid ci paralizza esistenzialmente. Ma forse sarebbe più esatto dire: il Covid paralizza gli italiani, forse gli europei. Non gli americani: le notizie che provengono da New York, che descrivono una città che si sta svuotando e una popolazione in fuga verso siti più periferici, mostrano che la paralisi non è l’unica reazione possibile. Forse perché molto più abituati di noi ai cambiamenti – cambiare lavoro, cambiare città, cambiare stato – gli americani sembrano aver deciso che il mondo non tornerà come prima, e il momento di cambiare abitudini e modi di vita è adesso, non chissà quando nel futuro. La società americana è elastica, forse anche per questo lì il contraccolpo economico del Covid – nonostante la catastrofe sanitaria (grave quasi come la nostra) – potrebbe risultare meno drammatico che in Europa. Per il 2020 l’Ocse prevede un tracollo del Pil di Italia, Regno Unito, Francia e Spagna compreso fra l’11 e il 15%, mentre per gli Stati Uniti prevede un calo del 7-8%, poco più della metà.

Non è solo la difficoltà di progettare il futuro, però. Il Covid sta portando nelle nostre vite cambiamenti più sottili, ma potenzialmente ancora più distruttivi. Il più importante, a mio parere, è uno stato generalizzato di anarchia mentale, un fenomeno che mi è più facile spiegare con esempi che con un discorso astratto.

Prendiamo un invito a cena. In condizioni normali lo accetti, se ti piacciono le persone che incontrerai. Ma in condizioni Covid, specie se si sono superati i 50 anni, può succedere di chiedersi: quante persone ci saranno? si mangia all’aperto o al chiuso? il pranzo è in piedi, o saremo tutti seduti a tavola? e in questo secondo caso, a che distanza ci metteranno? chi sono gli invitati? sono persone prudenti e isolate, o sono persone che, per lavoro o per svago, hanno centinaia di contatti? potendo scegliere il posto a tavola, è più rischioso sedere fra X e Y o fra Z e W?

Ovviamente sono tutte domande che, di norma, nessuno osa rivolgere esplicitamente ai suoi interlocutori.  Però non vuol dire che non ce le facciamo. O che alcuni di noi potrebbero farsele. O che potrebbero abitare le menti delle persone che incontriamo. Ed ecco la conseguenza: puoi essere più o meno ansioso, più o meno preoccupato, più o meno razionale, ma non puoi sfuggire al fatto che il mondo sociale in cui il Covid ti ha gettato è un mondo in cui non è irragionevole pensare che l’altro possa essere un pericolo per te e tu possa essere un pericolo per lui. Possiamo negarlo finché vogliamo, protestare che noi siamo superiori, che per noi tutto è come prima, ma la realtà è che in ciascuno la percezione degli altri è cambiata, tanto o poco, ma è cambiata. E vale anche per i negazionisti: loro possono credere quel che vogliono, ma non possono sfuggire al fatto che gli altri non la vedono come loro.

Quello descritto sarebbe già, di per sé, un mondo inquietante. Ma non è tutto. Nel mondo sociale che il Covid ci ha regalato le nostre menti non si trovano semplicemente a fare i conti con il trauma dell’altro come pericolo. Accanto a quel trauma, che costringe persino genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle a percepirsi come reciprocamente pericolosi, c’è un altro dramma: il sistematico disallineamento fra le soglie di rischio, ossia il fatto che molto raramente due persone hanno il medesimo grado di avversione al rischio, e ancora più raramente hanno le medesime idee su che cosa è veramente rischioso e che cosa non lo è. Può così capitare di essere considerati pavidi (o fobici), se l’interlocutore ha una avversione al rischio minore della nostra, e imprudenti (o incivili) se la sua avversione è maggiore. L’altro non è semplicemente percepito come un pericolo, ma come diverso e incompatibile con noi, perché non ha le nostre stesse sicurezze e paure.

Questa situazione in parte è normale. Le differenze di avversione al rischio ci sono sempre state, Covid o non Covid. Quel che è nuovo, e tutt’altro che normale, è che le soglie di rischio individuali siano del tutto disallineate. C’è chi pensa che il Covid sia un pericolo mortale, e chi pensa che sia poco più di un’influenza. C’è chi porta la mascherina anche all’aperto senza nessuno nelle vicinanze, e chi si ammassa su autobus e vaporetti, in strada, in discoteca. C’è chi pensa che la trasmissione del virus avvenga solo interagendo con altri, e chi teme la trasmissione attraverso le superfici, o attraverso l’aria. C’è chi smette di pensare che il Covid sia un pericolo, perché pensarlo gli rovinerebbe le vacanze, salvo poi tornare a temerlo quando prendere sul serio il Covid comporta solo la noia di sottoporsi a un tampone (è il caso dei giovani di ritorno da vacanze massificate).

La realtà, come ben sanno gli psicologi sociali dai tempi di Leon Festinger, inventore della “teoria della dissonanza cognitiva”, è che gli esseri umani funzionano come macchine di auto-rassicurazione. Mediamente, non pensano quel che l’evidenza empirica disponibile suggerisce, ma quello che li fa stare meglio, o li fa soffrire di meno, o mitiga la loro angoscia. La loro capacità di ignorare la realtà, o di autoingannarsi, non ha alcun riscontro nel mondo animale. E il Covid ha fornito una eccezionale occasione di esercitare questa loro capacità.

E’ un problema?

Sì, perché la vita sociale si regge su regole comuni e accettate, ma anche su schemi condivisi di percezione della realtà. Il regime di anarchia mentale innescato dal Covid è pericoloso per la coesione sociale perché nessun società può sopravvivere senza una descrizione delle cose minimale e comune. Ma è anche pericoloso per l’equilibrio psicologico del singolo, perché un mondo in cui ognuno vede quel che vuol vedere, senza riguardo a quel che vedono gli altri, è altamente ansiogeno, conflittuale, destabilizzante.

Si poteva evitare?

In parte no, perché la paura è uno stato d’animo con cui ognuno fa i conti o modo suo, in base alla sua personalità, alle sue esperienze, e anche ai propri interessi. Per un imprenditore, o per un lavoratore non garantito, prendere sul serio la paura può essere troppo costoso, perché fermarsi significa la rovina economica. Per un pensionato, un dipendente pubblico, o un operaio tutelato dalle organizzazioni sindacali, la paura è meno costosa, perché il suo reddito non è a rischio (per ora).

In parte però sì, l’anarchia mentale e i suoi danni si potevano evitare, almeno un po’. Non era impossibile, volendo, arrivare a un minimo di regole e di standard di prudenza condivisi. Bastava non dire prima che le mascherine e i tamponi non servivano, e poi che erano assolutamente necessari. Bastava non stabilire regole illogiche e incoerenti (distanziamento sui Freccia rossa, ammucchiate sugli altri mezzi di pubblici). Bastava far rispettare le regole che si enunciavano, senza chiudere un occhio sulle violazioni (movida, assembramenti). Bastava essere netti e chiari sulle discoteche, anziché pilatescamente scaricare ogni responsabilità sui Governatori delle regioni. Bastava che gli scienziati e gli esperti veicolassero un messaggio sostanzialmente coerente e ragionevole, anziché dividersi nei programmi televisivi in cerca di attimi di celebrità. Se ognuno può permettersi di percepire la realtà in modo del tutto personale, e privo di agganci obiettivi, è perché in questi mesi il racconto pubblico è stato dissonante e cacofonico.

L’anarchia mentale che ci attanaglia è certamente, innanzitutto, figlia della filogenesi, ovvero di ciò che siamo diventati come membri della specie umana. Ma è anche, in qualche misura, figlia della classe dirigente che ci ritroviamo: incapace di parlare con una voce sola, e proprio per questo destituita di ogni autorevolezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 settembre 2020




Altro che modello italiano sulla pandemia. Intervista a Luca Ricolfi

Un anno particolare, segnato dalla pandemia e da una crisi economica senza precedenti. Dove si torna a discutere del ruolo dello stato sociale e soprattutto della scuola e della sanità pubblica in una società, quella italiana, per la quale Luca Ricolfi, politologo e sociologo, ha coniato l’espressione “società signorile di massa” (una società dove molti consumano ma pochi producono perché si fonda sulla ricchezza accumulata dai padri).

Professor Ricolfi, mancano meno di due settimane all’inizio dell’anno scolastico. Lo considera l’ultimo banco di prova della tenuta dello stato di emergenza? Si sente ottimista?
Né ottimista né pessimista, perché purtroppo mancano (o meglio sono secretati) i dati che permetterebbero di formulare previsioni solide. Quello che posso dire, con i pochi dati che la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità rilasciano, sono essenzialmente due cose.
La prima è che fra i paesi avanzati, che sono una trentina, solo tre – Belgio, Spagna e Regno Unito – hanno un bilancio complessivo di morti (per abitante) peggiore di quello dell’Italia.
La seconda è che, se guardiamo al solo mese di agosto, le cose vanno un po’ meglio per noi: l’Italia è intorno alla metà della classifica fra i paesi avanzati, e fra i grandi paesi solo Germania, Giappone, Corea del Sud, presentano tassi di mortalità più bassi dei nostri.

Didattica a distanza, cattedre vuote, edilizia scolastica in condizioni critiche, è il momento di ripensare tutto il modello della nostra istruzione pubblica oppure non c’è spazio che per la gestione dell’emergenza?
Veramente è da mezzo secolo che sarebbe il momento di ripensare il sistema dell’istruzione. Magari non pensando solo all’edilizia e alle graduatorie dei precari ma anche al fatto che la qualità dell’istruzione (e dei docenti) si è abbassata drammaticamente, e ora con la didattica a distanza si appresta a ricevere il colpo di grazia. Travolte dalle pressioni a promuovere, per dare all’Europa i numeri che pretende, scuola e università sono diventate macchine per produrre false certificazioni, o meglio certificati veri indistinguibili da quelli falsi.

Altri Paesi adesso guardano con interesse al modello Italia, almeno per la gestione sanitaria del Covid-19.  Crede che la nostra consapevolezza e la profilassi ormai entrata nelle abitudini quotidiane ci eviteranno un ritorno al lockdown?
A giudicare dai risultati, sconsiglierei qualsiasi paese di seguire il modello italiano, fatto di ritardi, disorganizzazione, leggerezza nel far rispettare le regole, incapacità di far ripartire l’economia. Siamo al 4° posto in Europa come numero di morti per abitante, e all’ultimo come andamento del Pil 2020. Come si fa a parlare di modello italiano?
Se dovessi additare dei modelli, citerei piuttosto quello della Germania e quello della Corea del Sud, due paesi che molti media stanno descrivendo come attualmente più inguaiati di noi, ma che in realtà si stanno comportando meglio: anche considerando il solo mese di agosto, il numero di morti per abitante della Germania è poco più della metà di quello dell’Italia, e quello della Corea del Sud è circa un sesto.

Emergenza sanitaria ed economia non sono mai stati così correlati. Quando saremo fuori dal pericolo del contagio tornerà il modello economico che è entrato ora in crisi o cambierà qualcosa?
Una cosa nuova ci sarà di sicuro, anche se la pandemia dovesse miracolosamente sparire nel 2021: il mondo occidentale si troverà ad avere perso ulteriori posizioni nella competizione con la Cina.
Sul fatto che possa tornare il modello economico precedente, ho i miei dubbi, almeno per l’Italia. Noi eravamo già una “società signorile di massa” in declino. Questi mesi li abbiamo usati per tappare le falle e congelare tutto, senza la minima attenzione a creare le condizioni di una ripartenza. Quel che mi aspetto, quindi, è un brusco risveglio nel primo semestre 2021, quando ci si accorgerà che non si può andare avanti in eterno con i sussidi e il blocco dei licenziamenti.

Lo smart working secondo lei cambierà il volto delle nostre città e il settore dei servizi?
Sì, lo cambierà, con un abbattimento parallelo dei costi e della qualità.

Più volte lei ha lamentato in passato il rischio di finanziamenti a pioggia per riparare i danni economici di questa crisi. Ma è davvero possibile in un momento simile pianificare interventi a lungo termine?
Certo che è possibile, basta togliere la parola “pianificare”. Non si tratta di pianificare, ma di creare un ambiente – meno tasse e meno burocrazia – che consenta ai produttori di restare sul mercato o di entrarvi. L’alternativa è di diventare una “società parassita di massa”, in cui una piccola minoranza lavora e la maggioranza vive di trasferimenti.

Dalle prime misure di marzo a oggi il governo ha dovuto prendere decisioni poco popolari. Ora che siamo tornati in campagna elettorale crede sia difficile conquistare il consenso degli elettori senza perdere di vista il bene comune?
Era già impossibile prima, figuriamoci oggi. Il governo Conte è un mirabile esempio di esecutivo basato esclusivamente sulla massimizzazione del consenso, anzi del consenso di breve periodo.

A proposito di elezioni, cosa pensa del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari?
Penso che qualsiasi cosa si voti si sbaglia. Votando sì, si legittima il qualunquismo grillino, e si rafforza un governo che ha già notevolmente compromesso il nostro futuro. Votando no ci si accoda a un penoso tentativo di vestire di nobili intenzioni (la Costituzione, la Democrazia, ecc.) la fame di posti del ceto politico.

Le Regionali in piena pandemia e durante una conclamata crisi economica che banco di prova rappresentano per il governo?
Nessuno può saperlo. Se hanno avuto il fegato di fare un governo che se ne infischia di un voto politico (quello del 2018), non mi stupirei restassero abbarbicati al potere di fronte a un voto amministrativo, anche dovessero perdere in 6 Regioni su 6. Se proprio devo immaginare degli scenari capaci di mettere in crisi l’attuale governo, le eventualità che mi vengono in mente sono altre, nessuna auspicabile: 1 milione di posti di lavoro distrutti, una tempesta finanziaria, una nuova chiusura di scuole e università, una proliferazione dei focolai e dei connessi lockdown.

Intervista di Pierfrancesco Borgia  a Luca Ricolfi, Il Giornale, 2 settembre 2020