Una manovra coraggiosa?

A proposito della “manovra del popolo”

Il presidente del Consiglio ha definito “coraggiosa” la manovra del suo governo, che rifiuta di ridurre il deficit pubblico e anzi pianifica di mantenerlo per tre anni al 2.4% del Pil. I critici del governo giallo-verde, per parte loro, vedono nella manovra una sorta di svolta epocale, una specie di contro-riforma che capovolge la linea di prudenza adottata dai governi che lo hanno preceduto (Renzi e Gentiloni).

Mi permetto di dissentire radicalmente con entrambi. No, si possono scegliere mille aggettivi per definire questa manovra, ma “coraggiosa” no, quello non è l’aggettivo giusto. Nella lingua italiana un comportamento è coraggioso se comporta l’assunzione di un rischio per chi lo mette in atto, e solo per chi lo mette in atto. Se ti butti in un fiume in piena per salvare un bambino che sta annegando, stai compiendo un atto coraggioso. Ma se induci un tuo amico a fare un investimento che potrebbe anche fargli perdere metà del suo patrimonio, e magari pretendi anche una provvigione per i consigli che gli dai, non ti stai comportando in modo coraggioso, ma semmai in modo opportunista e irresponsabile.

Ora, comunque la si pensi sulla “manovra del popolo”, l’aggettivo giusto non è certo coraggioso. Non pretendo di stabilire quale sia l’aggettivo giusto, perché questo dipende dal giudizio che diamo sulle intenzioni dei nostri governanti e sulle conseguenze delle loro azioni. Ma la gamma degli aggettivi è tutta un’altra: “audace”, se pensiamo che anche loro corrano qualche rischio, “imprudente” se pensiamo che tutti corriamo dei rischi, “miope” se pensiamo che le conseguenze di lungo periodo siano negative per l’Italia, “suicida” se pensiamo che porterà (solo) alla caduta del governo, “incosciente” se pensiamo che porterà anche alla nostra rovina, “avventurista” se pensiamo che porterà alla catastrofe del Paese ma che “loro” troveranno il modo di salvarsi.

Ecco perché parlare di coraggio è del tutto fuori luogo. Coraggioso è un governo che, per il bene del Paese, mette in atto misure impopolari, e perciò corre, consapevolmente, il rischio di perdere il consenso. Una misura popolare, giusta o sbagliata che sia, non richiede alcun coraggio, perché il consenso lo alimenta. Ecco perché della “manovra del popolo” tutto si può dire, tranne che sia coraggiosa.

Detto questo, possiamo almeno ammettere che la manovra, giusta o sbagliata che sia, audace o incosciente, sia comunque una svolta radicale rispetto a quelle attuate dai passati governi?

Prima di provare a rispondere a questa domanda, vorrei far notare una cosa: la tesi della svolta epocale accomuna i critici più feroci e i difensori più accaniti dell’attuale governo. I critici considerano saggi e gloriosi gli anni dei governi Pd, i difensori del governo (specie i Cinque Stelle) non perdono occasione per dire che siamo entrati nella Terza Repubblica, e che ora – finalmente – tutto cambierà. In poche parole: il giudizio sul passato è opposto, ma l’idea di una rottura radicale con esso è perfettamente condivisa.

E’ su questa analisi comune che vorrei sollevare qualche dubbio. Io vedo tanta, tanta continuità con il passato, sia con quello recente sia con quello remoto. E mi conforta di non essere il solo a notarlo. Come non essere d’accordo, ad esempio, con Giorgia Meloni quando nota che, più che traghettarci nella terza Repubblica, Di Maio sta riesumando le peggiori pratiche della prima, quella dei Fanfani e dei Cirino Pomicino? E’ allora che la politica imparò a comprare il consenso con misure assistenziali (ricordate le baby pensioni? le false pensioni di invalidità?) che fecero esplodere il debito pubblico che ora soffoca l’economia e limita i margini di manovra della politica stessa. Ma non è solo il passato più remoto che ritorna. L’economista Roberto Perotti, per qualche tempo collaboratore del governo Renzi, ha ricordato che nei gloriosi anni del Pd (2013-2017) il disavanzo è sempre stato maggiore di quello programmato, e comunque superiore al 2.4% che ora tanto ci preoccupa. Altri hanno giustamente fatto notare che fu Renzi, appena un anno fa, a proporre di mantenere il disavanzo al 2.9% per ben 5 anni, contro il 2.4% (per 3 anni) dell’attuale governo.

Ma c’è molto di più e molto ancora. Si pensa giustamente che la fretta di Di Maio sul cosiddetto reddito di cittadinanza sia dettata dall’approssimarsi delle elezioni europee (maggio 2019), cui vuole arrivare con una misura-simbolo già in vigore, pur sapendo benissimo che quella misura non potrà che risolversi in pura assistenza finché i centri per l’impiego non saranno stati riformati, e la crescita non avrà acquistato vigore. Ma che cosa c’è di diverso rispetto agli 80 euro di Renzi, anche allora presentati come sostegno alla domanda, ma in realtà concepiti essenzialmente per vincere alle elezioni europee?

E la cosiddetta pace fiscale? Che cos’altro nasconde dietro l’eufemismo “pace” se non l’ennesimo condono, la solita sanatoria, di nuovo in perfetta continuità con la prima e la seconda Repubblica?

Per non parlare dell’orientamento generale della politica economica. Ci viene presentato come un cambio di rotta rispetto all’austerità che avremmo infruttuosamente praticato in questi anni. Ma la realtà è che in questa legislatura, lo ha ricordato più volte l’economista Veronica De Romanis, l’orientamento della politica economica è sempre stata espansivo, non restrittivo. Ancora una volta, la differenza con il passato è solo che, di una medicina che non ha funzionato (siamo tuttora ultimi in Europa per crescita del Pil), ora si prova ad aumentare la dose, anziché cambiare la medicina stessa. So che ricordarlo suscita incredulità (e qualche malumore), ma la realtà è che di austerità l’Italia ha fatto esperienza solo sotto il governo Monti, e l’austerità “buona” – quella che aggiusta i bilanci pubblici riducendo la spesa e tagliando le tasse – semplicemente non l’ha mai sperimentata, né con Berlusconi, né con Monti, né con Letta-Renzi-Gentiloni.

Ecco perché l’opposizione a questo governo è impotente, o addirittura si capovolge in consenso (è il caso della sinistra radicale, da sempre fautrice della spesa in deficit). La ragione è semplicemente che non c’è una differenza qualitativa vera con i governi precedenti, ma solo una differenza di grado, un “salto di imprudenza” mi verrebbe da chiamarlo, perché la medesima politica di prima ci viene somministrata in dosi più massicce, e quindi più rischiose.

Con questo non intendo dire che la politica economico-sociale di questo governo ci porterà necessariamente al disastro, o addirittura a uscire dall’euro. Questo non può saperlo nessuno, e l’opposizione che se ne proclama certa dà solo prova di isteria e di disfattismo. Quel che voglio dire è semplicemente che il cocktail che ci stanno somministrando è pericoloso, molto pericoloso. Non tanto perché il deficit programmato è al 2.4%, ovvero al medesimo livello degli ultimi anni. Ma perché quel deficit si accompagna a due ingredienti altamente infiammabili, se mi si consente l’immagine: una manovra sbilanciata dal lato della spesa, un drammatico deficit di credibilità, aggravato dall’umiliazione inflitta al ministro dell’Economia, uno dei pochi che un po’ di credibilità ce l’aveva.

Per questo, tutto possiamo pensare di questo governo, persino che le cose alla fine andranno bene (dopotutto nessuno ha la palla di vetro), ma su una cosa sarebbe meglio non autoingannarci: ci sono già stati parecchi danni per il bilancio pubblico, per i risparmiatori, per le imprese, e nulla assicura che non ve ne saranno altri, anche molto più gravi, quando dovessero aumentare le rate dei mutui e le banche stringessero i cordoni del credito. Insomma la “manovra del popolo” apre molte speranze, forse anche qualche opportunità reale, ma carica sul popolo stesso una notevole dose di incertezza e di rischio.

Questo è il motivo per cui possiamo chiamarla come vogliamo, ma non coraggiosa. Almeno finché continuiamo a pensare, con il dizionario della lingua italiana, che coraggioso è chi mette in pericolo sé stesso a beneficio degli altri, non chi il rischio lo fa correre a un intero paese e si comporta come se il rischio fosse zero. Proprio come, ironia della sorte, facevano le (giustamente) vituperate banche fallite, che vendevano obbligazioni ad alto rendimento senza avvertire i risparmiatori dei rischi che si assumevano.

 




Quel che non funziona nel reddito di cittadinanza

Intanto cominciamo a chiamare le cose con il loro nome: quello su cui si polemizza in questi giorni non è il reddito di cittadinanza, che non esiste in nessuna parte del mondo (quello dell’Alaska è un modesto bonus di meno di 200 dollari al mese), e in Svizzera è stato rifiutato dalla maggioranza dei cittadini in un recente referendum. Quello di cui si parla è semplicemente il reddito minimo, una misura universale di sostegno del reddito che esiste da anni in tutti i paesi dell’Unione europea (tranne che in Grecia), e in Italia è stata progressivamente, e molto limitatamente, introdotta dagli ultimi governo di centro-sinistra.

In linea generale il reddito minimo è un sussidio che viene erogato a chi non raggiunge una certa soglia minima di reddito, ed è legato al rispetto di alcune condizioni, tipo frequentare corsi di formazione, cercare attivamente un lavoro, essere disponibile ad accettare (ragionevoli) offerte di lavoro. La filosofia è sostanzialmente la medesima di quello che i Cinque Stelle si ostinano a chiamare “reddito di cittadinanza”, sicuramente un’espressione più glamour che “minimo vitale”, o “sussidio ai poveri”, o “social card”.

Ma quando si può dire che una misura di reddito minimo funziona bene?

Le condizioni base sono tre.

La prima è che la misura sia destinata ai poveri veri e propri, che sono solo i poveri assoluti, ossia chi fa parte di famiglie che non sono in grado di acquistare il cosiddetto “paniere di sussistenza”, ossia l’insieme minimo di beni e servizi che assicurano un’esistenza dignitosa. Se anziché essere agganciato alla povertà assoluta il reddito minimo venisse agganciato a quella relativa (guadagnare meno di metà della famiglia media) si assisterebbe al paradosso per cui il sostegno potrebbe aumentare anche quando non si è più poveri (solo perché l’economia cresce), o diminuire quando l’economia va male (perché l’asticella della povertà relativa si abbassa).

La seconda condizione è che la definizione di povertà assoluta adottata tenga conto del livello dei prezzi, che in un paese come l’Italia è molto differenziato, non solo fra Nord e Sud ma anche fra piccoli e grandi centri. Un punto questo su cui hanno più volte attirato l’attenzione l’Istituto Bruno Leoni, con la proposta di un “minimo vitale” agganciato al livello dei prezzi, e le associazioni del Terzo settore, con varie proposte e piani di lotta alla povertà.

La terza condizione è che il reddito minimo non disincentivi troppo la ricerca di un lavoro, e soprattutto non favorisca eccessivamente comportamenti opportunistici, come accade quando si rinuncia a un lavoro per non perdere un sussidio, o si lavora in nero per conservarlo. Questa è chiaramente la condizione più difficile da rispettare, perché, contrariamente a quanto talora si sente affermare, la capacità dei centri per l’impiego di trovare un lavoro ai percettori del sussidio non dipende tanto dalla efficienza e dalle risorse dei centri stessi, quanto dalla crescita dell’economia: se, come oggi in Italia, il Pil ristagna e ci sono quasi 3 milioni di disoccupati, è inevitabile che la maggior parte dei percettori del sussidio non riceva alcuna offerta di lavoro.

Vediamo ora le due principali proposte in campo, quella vigente del Pd (il Rei) e quella imminente dei Cinque Stelle. Il Rei, o “reddito di inclusione”, tendenzialmente rispetta la prima condizione (si rivolge ai poveri assoluti), ma non la seconda (non è agganciato al livello dei prezzi). Quanto alla terza (non disincentivare la ricerca di un lavoro), la rispetta solo perché il sostegno è molto modesto e probabilmente soggetto a troppe condizioni.

Il reddito minimo in versione Cinque Stelle, invece, non rispetta nessuna delle tre condizioni che abbiamo esposto. In primo luogo, perché si propone di sostenere chi è in posizione di povertà relativa, anziché i veri poveri, ossia chi è in condizione di povertà assoluta. In secondo luogo perché non tiene conto del livello dei prezzi, e quindi taglierà fuori buona parte dei poveri del centro-nord e dei grandi centri urbani. In terzo luogo perché non prevede alcun meccanismo per evitare che chi percepisce il sussidio, ben sapendo che i centri per l’impiego non saranno in grado di trovargli un lavoro, si adagi nella condizione di sussidiato, tanto più che il sussidio colma interamente la differenza fra il reddito percepito e la soglia di povertà relativa, posta vicina a 10 mila euro l’anno per un singolo, e oltre 20 mila per molte tipologie familiari.

Ma non è tutto. Nel reddito di cittadinanza in formato Cinque Stelle ci sono altre due insidie, di cui una è stata notata pochi giorni fa da Salvini, l’altra potrebbe essere notata da una sinistra fedele all’ideale dell’eguaglianza.

L’insidia-Salvini è che, se non si delimitano accuratamente i requisiti per godere del reddito minimo, circa un terzo delle risorse non andrebbero agli italiani, bensì agli immigrati, che – pur essendo l’8% della popolazione, sono il 30-35 % dei poveri. Può essere giustissimo sostenerli (non siamo per l’integrazione?), ma in quel caso non sarebbe semplicissimo spiegarlo a coloro cui si è raccontato che spendiamo troppi soldi per l’accoglienza.

L’insidia egualitaria, di cui stranamente né il Pd né Leu si sono ancora accorti, è che se i Cinque Stelle riuscissero a varare il reddito minimo secondo le linee del loro disegno di legge, l’effetto sarebbe una crescita clamorosa delle diseguaglianze negli strati medio-bassi della popolazione. Tutto infatti lascia prevedere che, nel giro di pochi anni, a una minoranza di poveri che lavorano duramente e galleggiano intorno alla soglia di sussistenza, si affiancherebbe un esercito di poveri che percepiscono un reddito decoroso ma, non per colpa loro bensì a causa di un mercato del lavoro asfittico, possono permettersi di non lavorare.

Ma forse non dobbiamo stupirci troppo. Dopotutto siamo già abituati a una sinistra che fa la destra, non sarà così difficile abituarci a una destra che fa la sinistra. Sì, perché le ragioni dell’equità, in questo caso, non le difende la presunta sinistra dei Cinque Stelle, ma la presunta destra della Lega, l’unica forza che sembra aver intuito il lato oscuro del cosiddetto reddito di cittadinanza.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 22 settembre 2018




Elezioni europee, contano i migranti. Intervista a Luca Ricolfi

Domanda. La campagna elettorale per le Europee di maggio sta entrando nel vivo con larghissimo anticipo. Un antipasto è stato il voto europeo sulle sanzioni ad Orban. Che ci dice la condanna al premier ungherese?

Risposta.  Ci dice che l’Europa è debole, debolissima, anzi impotente. Giuste o sbagliate che siano le sanzioni che l’Europa infligge agli Stati membri, o le raccomandazioni con cui li irrora quotidianamente, il punto è che le autorità europee (Commissione, Consiglio, Corte dei diritti dell’uomo ecc.) non sono assolutamente in grado di far rispettare le regole che tutti hanno sottoscritto. Vale per i conti pubblici, ma anche per le violazioni dei diritti dell’uomo, o l’obbligo di redistribuzione dei migranti.

E quando ci si erge a custodi delle regole, e poi si permette a (quasi) tutti di violarle, è naturale che si affermi l’idea che ogni Stato può fare un po’ quel che vuole.

D. Questo caos che rapporto ha con il ritorno dei nazionalismi?

R. Il primo combustibile che ha fatto rinascere i nazionalismi è stato fornito dall’Europa stessa, che prima ha formulato regole non applicabili a tutti, poi ha permesso a molti Stati (comprese Germania e Francia) di infischiarsene delle regole. E ci stupiamo che Orban pretenda di fare lo stesso?

D. Il presidente francese Macron avversa Orban per misure contro l’immigrazione che nei fatti ha preso la stessa Francia. Che partita è quella tra Francia, e con essa la Germania, contro Ungheria e anche l’Italia di Salvini? Quali sono i blocchi in campo?

R. Non vedo veri blocchi, ma tanti piccoli interessi di partito, prima ancora che nazionali. Ogni leader europeo pensa alle prossime elezioni, e così contribuisce alla distruzione dell’edificio comune. Quanto a Emmanuel Macron e alla Francia, penso che il presidente francese non faccia che continuare una politica che dura da anni, e che è stata ben documentata da Roberto Napoletano nel suo libro sulla crisi (Il cigno nero, ndr). La Francia ha interessi economici opposti a quelli dell’Italia sullo scacchiere libico, e non da ieri ci vede come un regime arretrato e illiberale (si pensi all’asilo concesso ai terroristi rossi, motivato con il presunto regime di polizia instaurato in Italia negli anni della lotta alle Brigate Rosse).

D. Come spiega il voto di Forza Italia su Orban? Ha abbandonato il Ppe per sposare le ragioni della Lega di Matteo Salvini.

R. Orban fa parte del Partito popolare europeo. Mi pare più esatto dire che nel partito popolare ci sono idee diverse. Probabilmente Silvio Berlusconi, più che sposare le idee della Lega, pensa che l’atteggiamento dell’Europa verso Orban sia discutibile. Perché le preoccupazioni dell’Europa sull’Ungheria sono comprensibili su certi versanti (limitazioni della libertà di stampa, o dell’indipendenza della Magistratura), ma opinabilissime sul versante migratorio. La malattia dell’Europa è il rifiuto della storia. Dopo aver accelerato imprudentemente l’ingresso nell’Unione degli stati ex comunisti, l’establishment europeo ha voluto ignorare le enormi differenze storiche ed economiche fra Europa occidentale ed Europa dell’Est. Di qui l’idea che, per il solo fatto di aver aderito all’Unione, paesi le cui istituzioni e le cui economie assomigliano alle nostre negli anni ’50 e ’60 potessero istantaneamente adottare la nostra mentalità, i nostri valori, i nostri costumi.

D. La scommessa era che l’ingresso nella Ue ne avrebbe accelerato i processi diciamo di occidentalizzazione.

R. Ma la storia non funziona così. Può accelerare, bruciare alcune tappe, ma non saltarle tutte. Lo sanno i nostri governanti che nella civilissima Francia di De Gaulle, Pompidou, Giscard D’Estaing, la gente veniva ancora ghigliottinata? E che si dovrà attendere l’elezione di Mitterand, nel 1981, per vedere l’abolizione della pena di morte? Per non parlare dei tempi lunghi dell’economia.

D. Ma questo cosa c’entra con il rifiuto dell’accoglienza dei migranti?

R. C’entra. Come si fa a non comprendere che l’atteggiamento di un popolo verso gli immigrati non dipende solo dal suo (presunto) livello di civiltà ma anche dal Pil e dal mercato del lavoro? Un paese come l’Ungheria, che negli ultimi anni si è duramente opposto agli ingressi legali, lo ha fatto con un livello di benessere e un tasso di occupazione fra i più bassi d’Europa; mentre i paesi che hanno generosamente accolto migranti lo hanno fatto in una condizione di benessere, con milioni di posti di lavoro che i nativi non erano più disposti ad occupare.

D. Salvini sembra stia tessendo una vera rete in Europa, dopo Orban ora con l’estrema destra austriaca capitanata dal vicencancelliere Strache.

R. Più che blocchi fra Stati, vedo alleanze fra famiglie politiche. In Europa il populismo è prevalentemente “di destra”, con le rilevanti eccezioni di Syriza, Podemos, Cinque Stelle. Quindi un esperimento populista-sovranista come quello italiano diventa difficile da immaginare. Più verosimile è che si formi, dopo le elezioni, un’alleanza fra partiti di destra “rispettabili” (tipo Ppe) e partiti di destra “scavezzacollo” (tipo Lega, Fronte Nazionale, Alternative für Deutschland, ecc.). Sempre che, naturalmente, i partiti che hanno governato l’Europa in questi 40 anni, ossia socialisti, popolari, conservatori, liberali, non riescano nel miracolo di ottenere più del 50% dei voti.

D. Quanto della sfida europea si giocherà sul terreno dell’immigrazione?

R. Temo più del 50%, perché i temi economici sono troppo complicati. Ma soprattutto perché mancano del tutto idee-forza, salvo la solita contrapposizione fra chi vuole sforare il deficit del 3% e chi raccomanda austerità.

D. Macron, che sfida i sovranisti, ha annunciato una misura populista come il reddito di cittadinanza, che è il cavallo di battaglia del Movimento5stelle. Che cosa ci dice questa scelta?

R. Che il ragazzo è sveglio, e ha capito che senza idee nuove (o che sembrano nuove) si scompare molto rapidamente. Però, per quel che se ne sa, la proposta di un “reddito universale di attivazione” è poco incisiva in termini di risorse stanziate, e ha il consueto difetto di tutte le misure di reddito minimo: può funzionare solo se l’economia cresce e i centri per l’impiego hanno un elevato numero di offerte di lavoro da sottoporre a chi percepisce il sussidio. In caso contrario la misura diventa di tipo assistenziale, e disincentiva la ricerca di un lavoro.

D. Che risultato si aspetta per l’Italia dal voto alle prossime europee?

R. Quasi tutto dipenderà da quanti e quali errori faranno di qui a maggio i partiti di governo. Tendo a pensare che ne faranno pochi, e potrebbero incassare un buon risultato, soprattutto la Lega.

D. Uno scenario per la stessa Italia?

R. Penso che, ancora una volta, crederemo che tutto sia cambiato, salvo accorgerci – fra qualche anno – che l’Italia è rimasta quello che è sempre stata dagli anni ’70 in poi: un paese incapace di grandi scelte, prigioniero delle tribù che se ne contendono le spoglie.

D. Non può mancare una domanda sul centrosinistra. Nel confronto sull’immigrazione così come sull’Europa l’opposizione, a partire dal Pd, pare non esistere, essere afona. Tutta colpa dei media?

R. Colpa dei media? Io li trovo fin troppo gentili, sia con il governo che con l’opposizione. Se avessimo una vera opinione pubblica, e i media facessero il loro dovere fino in fondo, nessuno dei politici attuali resisterebbe più di una settimana sulla scena.

Il centro-sinistra non ha bisogno dell’ostilità o dell’indifferenza dei media per estinguersi: bastano i suoi dirigenti. In tanti anni che osservo la sinistra, non avevo mai visto un vuoto di idee così spinto, e così poca consapevolezza degli errori commessi.

D. Dopo la guerra delle cene con Nicola Zingaretti, l’ex ministro Pd Carlo Calenda ha detto che l’unico segretario possibile per il partito è un buono psichiatra. Stiamo a questo punto?

Sì, siamo a questo punto. E lo siamo per una ragione molto semplice: a differenza di quel che succedeva con il Partito comunista, la maggior parte dei dirigenti del Pd è priva di idee, di cultura e di autentica dedizione a una causa che vada oltre la promozione di sé stessi. In queste condizioni è del tutto naturale che quel che residua siano quasi esclusivamente gli interessi personali. I quali non creano problemi in un’azienda, in una squadra di calcio, in un’emittente televisiva, perché lì fa parte delle regole del gioco che ognuno promuova sé stesso, mentre ne creano di enormi in un partito, perché lì la finzione che si pretende di mantenere viva è quella di avere a cuore soprattutto il bene comune. Insomma, per i politici di oggi mantenere quella finzione richiede dosi troppo grandi di falsa coscienza, di autoinganno. La mente rischia di andare in pezzi. E quando la mente vacilla, si pensa giustamente allo psichiatra. Sì, Calenda ha colto perfettamente nel segno.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 settembre 2018



Troppi paradisi

2008-2018, anniversario della lunga crisi

15 settembre 2008, esattamente 10 anni fa. Fu allora che, dopo un anno difficile, in cui la crisi americana dei mutui subprime aveva interrotto un lungo periodo di crescita, l’economia mondiale ricevette il colpo di grazia. A infliggere quel colpo fu il fallimento di Lehmann Brothers, una banca d’affari americana che, a differenza di altre società, venne lasciata fallire dal governo USA e dalla Federal Reserve.

Anche se, allora, vi fu chi salutò il fallimento di Lehman Brothers come “una buona giornata per il capitalismo”, col senno di poi sono quasi tutti concordi nel considerare quel mancato salvataggio come uno dei fattori cruciali che, nel giro di poche ore, trasformarono una recessione in una crisi epocale.

Ma come si presentano le economie dei paesi avanzati a un decennio di distanza?

La prima cosa che si può notare è che la crisi ha agito in modo fortemente asimmetrico: ci sono paesi che, oggi, hanno un tenore di vita e un tasso di occupazione superiori a quello del 2008 (è il caso della Germania, ma anche di Regno Unito, Polonia, Svezia, Giappone), ci sono paesi che, tutto all’opposto, nemmeno in 10 anni sono riusciti a recuperare i livelli di reddito e di occupazione pre-crisi: è questo il caso della Grecia, di Cipro, della Finlandia, dell’Italia.

Altrettanto diseguale è stata la evoluzione della vulnerabilità dei conti pubblici dei vari paesi. L’indice VS (vulnerabilità strutturale), calcolato dalla Fondazione David Hume per 40 economie relativamente avanzate, è peggiorato in molti paesi dell’eurozona (Grecia, Cipro, Spagna, Finlandia, Slovacchia, Slovenia) ma è sensibilmente migliorato per la maggior parte dei paesi dell’est, in particolare Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Lettonia, Lituania.

La vera domanda, però, forse è un’altra: dopo 10 anni di passione, le nostre economie hanno imparato la lezione? Le nostre economie, oggi, sono meno fragili di 10 anni fa?

La mia impressione è che la risposta sia negativa. Dieci anni, infatti, non sono bastati a rimuovere quelli che, per molti analisti, restano i due principali elementi di fragilità del sistema capitalistico quale si è affermato negli ultimi decenni.

Il primo è la mancata separazione fra banche commerciali e banche di investimento. La grande crisi del ’29, come la lunga crisi del 2007, sono entrambe figlie del medesimo errore di regolazione. Consentire al medesimo intermediario finanziario di raccogliere il risparmio, finanziare l’economia reale, e supportare la speculazione finanziaria è stato uno dei fattori della crisi del ’29, ma anche di quella del 2008. La sovrapposizione fra queste funzioni è fra le concause della crisi del ’29, mentre la loro separazione per legge (sancita dal Glass Steagall Act del 1933) è stata una delle condizioni dei “gloriosi trent’anni”, il lungo periodo di stabilità e crescita che seguì la fine della seconda guerra mondiale. Specularmente, l’abolizione della separazione (avvenuta nel 1999, sotto la presidenza di Bill Clinton) è stata una delle concause della crisi scoppiata nel 2007-2008.

Ma c’è anche un secondo elemento di fragilità, forse ancora più importante, che non è stato rimosso, ed è la possibilità di operare su mercati non regolamentati, i cosiddetti mercati OCT, in cui le transazioni avvengono “over the counter”, ossia sul bancone, come per le transazioni in contanti. Nessuno sa esattamente a quanto ammontino le attività finanziare negoziate su questi mercati rispetto a quelle negoziate sui mercati regolamentati, ma l’ordine di grandezza è conosciuto: secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali il loro valore nozionale è dell’ordine di 10 volte il Pil mondiale. E anche se il loro valore lordo di mercato è molto inferiore (circa un quinto del Pil globale, secondo alcune valutazioni), resta il fatto che si tratta di una massa di denaro enorme, i cui movimenti hanno un potenziale di destabilizzazione molto elevato. Un potenziale, peraltro amplificato dalle Agenzie di rating, spesso in sonno quando avrebbero dovuto avvertire dei pericoli, e fin troppo severe a cose fatte, ovvero quando i pericoli erano già stati segnalati dai mercati.

Se questo è il quadro, viene naturale chiedersi: ci attende una nuova crisi?

Ovviamente nessuno lo sa, ma se devo esprimere un’opinione la mia risposta è: sì, e piuttosto presto. La ragione è abbastanza semplice, e la riassumerei in quattro punti.

Primo. Quel che doveva essere fatto, separare banche commerciali e di investimento, imporre limiti ai mercati non regolamentati, attenuare i conflitti di interessi delle Agenzie di rating, non è stato fatto, o è stato fatto in modo insufficiente. Non aver corretto questi fattori di instabilità ci rende vulnerabili in caso di crisi.

Secondo. Il principale rimedio escogitato, negli Stati Uniti come in Europa, è stato inondare di liquidità i mercati, con i bassi tassi di interesse e le iniezioni di liquidità (Quantitative Easing e affini). Ma la liquidità è, al tempo stesso, il lenimento che attenua le crisi e il combustibile che le prepara.

Terzo. Diversi indicatori segnalano che la crescita di questi anni, in particolare quella dell’economia americana, sia arrivata al limite. Quel che si è formato in questi anni non è una bolla speculativa di tipo immobiliare, come nel 2007-2008, ma una bolla speculativa di tipo azionario, come nel 2000, quando crollò l’indice dei titoli tecnologici (NASDAQ). Per accorgersene basta osservare la corsa degli indici borsistici in rapporto al Pil: la capitalizzazione della Borsa americana rispetto al Pil USA ha superato il livello record del 2000, quando scoppiò la bolla tecnologica. E anche se, verosimilmente, i fondamentali delle aziende tecnologiche americane sono migliori di quelli di vent’anni fa, il rischio di una brusca frenata è tutt’altro che trascurabile.

Quarto. Anche in Europa si manifestano segni di tensione, in particolare sul mercato dei titoli di stato decennali. Il coefficiente di variazione dei rendimenti, una delle più semplici misure di allerta dei mercati, dopo aver toccato un minimo alla fine di gennaio di quest’anno, da 7 mesi è in costante ascesa. Anche se non siamo ancora entrati in una fase di “flight to quality” (cercare rifugio nei titoli sicuri, come i bund tedeschi), potremmo già essere nell’anticamera che la precede.

Se una crisi verrà, nei prossimi anni o già nei prossimi mesi, essa sarà anche il frutto delle omissioni di questi anni. Dopo aver proclamato ai quattro venti che l’importante era l’economia reale, non quella di carta (Main Street contro Wall Street), i regolatori dell’economia ben poco hanno fatto per ridurre le nostre fragilità, prime fra tutte una legislazione bancaria troppo permissiva e l’estensione del cosiddetto Sistema bancario ombra (Shadow Banking System), fondamentalmente sottratto ad ogni forma di vigilanza: “troppi paradisi”, verrebbe da dire, riprendendo il titolo del romanzo di Walter Siti. Perché quel che si è fatto, o meglio non si è fatto, è proprio questo: permettere la sopravvivenza di troppi luoghi in cui l’economia di carta soggioga e inquina l’economia reale.

 




L’eredità del centro-sinistra

Può sembrare strano, ma un bilancio del quinquennio di governo del centro-sinistra (dal 2013 al 2018), ovvero dell’azione dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, ancora non l’abbiamo né letta né ascoltata. Renzi se l’è sbrigata con poche battute, ma anche dai padri nobili e dai candidati alla successione sono arrivati, finora, solo discorsi più fumosi che alati, ma ben poche analisi. E autocritica ancor meno, se non la ferma  decisione di voler fare autocritica, e le solite due ammissioni di colpa: forse c’è stato un difetto di comunicazione, forse dovevamo parlare di più con la gente.

Eppure è di analisi e di autocritica che ci sarebbe bisogno. Servirebbero al Pd, se vuole fermare il declino e sperare di tornare al governo, ma servono anche a noi, studiosi ed opinione pubblica, per inquadrare l’azione (e le difficoltà) del governo gialloverde. L’azione di un nuovo governo, infatti, non è mai un inizio assoluto, ma sempre la continuazione di una storia scritta da altri, con cui i nuovi venuti sono costretti a fare i conti.

Qual è, dunque, l’eredità del centro-sinistra?

La risposta dei diretti interessati la conosciamo abbastanza bene, è il racconto autocelebrativo che abbiamo ascoltato in tutte le salse, centinaia e centinaia di volte: noi siamo quelli che hanno portato il Paese fuori della crisi; prima davanti al dato del Pil c’era il segno meno, ora c’è il segno più; con il Jobs Act e la decontribuzione abbiamo creato centinaia di migliaia di posti di lavoro; con gli 80 euro abbiamo dato un po’ di ossigeno alle famiglie, stremate da 9 anni di crisi; siamo stati noi a varare, per la prima volta in Italia, una misura di carattere universalistico contro la povertà (il reddito di inclusione); anche se con lo ius soli non ce l’abbiamo fatta, abbiamo varato importantissime leggi su unioni civili, fine vita, femminicidio; con il ministro Minniti abbiamo ridotto dell’80% gli sbarchi. Come hanno fatto gli italiani a non accorgersi di quanto bene abbiamo governato? Come hanno potuto spedirci all’opposizione?

Provo a rispondere, prima come studioso, poi come cittadino. Come studioso la mia obiezione è semplice: molto di quel che rivendicate come merito vostro, cari dirigenti del Pd, è semplicemente effetto della ripresa economica, che ha preso vigore, in Europa, giusto quando voi siete andati al governo. La marea alza tutte le barche, ma la barca dell’Italia negli ambiti che contano (occupazione e crescita del Pil) è rimasta agli ultimi posti in Europa, esattamente come prima, in certi casi peggio di prima.

Dunque la vera domanda non è se, dopo cinque anni di governo, l’Italia stia meglio o peggio di prima, ma è che cosa avreste potuto fare di diverso, e che cosa avete lasciato in eredità a chi oggi deve governare.

E allora vediamola, questa eredità.

Tasse. Per avere l’ok dell’Europa alle leggi di bilancio avete, come tanti governi del passato, inserito le stramaledette “clausole di salvaguardia”; così oggi chi ci governa deve trovare 12 miliardi e mezzo per non far aumentare l’Iva.

Conti pubblici. Anziché approfittare della ripresa per ridurre il debito pubblico, avete mendicato flessibilità in Europa, promettendo ogni anno che il debito l’avreste ridotto, ma l’anno dopo; poi l’anno dopo arrivava, e il debito continuava a crescere, e voi rimandavate di nuovo, o promettevate senza poi mantenere; una vera discesa del rapporto debito/Pil non è mai iniziata. E i mercati finanziari se ne sono accorti: contrariamente a quel che si crede, la tensione sui nostri titoli di Stato è partita fin dalla fine del 2016, in corrispondenza con il referendum perduto da Renzi (per accorgersene, basta dare un’occhiata, anziché allo spread con la Germania, allo spread fra i titoli di Stato di Spagna, Portogallo e Grecia rispetto a quelli dell’Italia).

Povertà. Che il numero di poveri fosse aumentato durante la crisi e continuasse ad aumentare anche negli anni della ripresa, l’Istat ve l’ha comunicato ogni anno. Ciononostante, quando si è trattato di decidere se ridurre l’Irpef, ridurre l’Irap o pensare agli “incapienti” (così poveri da non pagare tasse), avete preferito – con il bonus da 80 euro – convogliare le risorse sul ceto medio dipendente, il più vicino alla vostra base elettorale. E quando avete varato il reddito di inclusione, che ora chiedete al nuovo governo di potenziare, gli avete destinato le briciole, circa un decimo di quel che servirebbe. Come potete stupirvi che gli elettori abbiano voluto credere alla promessa del “reddito di cittadinanza”?

Investimenti pubblici. Nonostante i ripetuti omaggi a Keynes e alle politiche keynesiane, i governi di centro-sinistra si sono ben guardati dal sostenere gli investimenti pubblici, che anzi di anno in anno, chiunque fosse al governo (Letta, Renzi, Gentiloni), sono sempre stati ridotti, a differenza della spesa corrente, ben più redditizia sul piano elettorale. Il precario stato di tante infrastrutture in Italia ha indubbiamente origini lontane, ma è difficile non notare che – negli ultimi anni – la costante preferenza accordata alla spesa corrente non può che averlo aggravato.

Immigrazione. Minniti ha fatto un buon lavoro, non c’è dubbio, e questo è forse il principale asset che il governo gialloverde ha ricevuto in dote. Ma come ci si è arrivati? Il fenomeno che Minniti ha domato, gli sbarchi, è stato alimentato da anni e anni in cui i suoi compagni di partito hanno badato solo a sostenere l’industria dell’accoglienza, fatta di eroici salvataggi in mare e assai più prosaiche gesta delle cooperative che gestiscono gli sbarcati. Il risultato è stato che, in pochi anni, in Italia sono entrati quasi 500 mila migranti che non avevano diritto ad alcuna forma di protezione, e che nessuno (nemmeno Salvini) è in grado di rimandare indietro. Se il lavoro di Minniti non è stato apprezzato dall’elettorato è anche perché, in fondo, il Pd e la sinistra se ne vergognavano, in quanto capovolgimento dell’ideologia dell’apertura cavalcata negli anni precedenti.

Questi, purtroppo, sono i lati oscuri, il non detto e non visto, dell’eredità del centro-sinistra. Capisco che riconoscerli sia difficile, perché può suonare come un’implicita legittimazione del governo gialloverde. Ma non si riflette abbastanza sul fatto che non riconoscerli può essere ancora più pericoloso: senza un’autocritica spietata, un’opposizione di sinistra credibile non vedrà mai la luce.

Quello cui invece quotidianamente assistiamo, sui giornali come in Tv, è l’incredibile recita del seguente copione fisso: prima si dice che certamente c’è stato qualche errore di comunicazione, e che si sarebbe dovuti stare di più sulla rete; poi si ammette che sì, qualche errore politico deve essere stato fatto, se no non si sarebbero persi milioni di voti; ma poi, quando l’incuriosito giornalista chiede “dove avete sbagliato?”, o se il Jobs Act è stato un errore, scatta il grande nulla: dobbiamo riflettere, dobbiamo discutere (ma allora perché non avete ancora indetto il Congresso?), dobbiamo tornare fra la nostra gente. Come se la gente li avesse abbandonati non per le loro scelte politiche, ma perché non si facevano più vedere in giro. Incredibile.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 10 settembre 2018