Una svolta nella politica sanitaria?

E’ abbastanza stupefacente, almeno per me che da un anno seguo quotidianamente l’andamento dell’epidemia, quanta attenzione si concentri sulle scelte di Draghi in campo economico-sociale, e quanto poco, invece, ci si interroghi sul futuro della politica sanitaria. Come se accelerare la campagna di vaccinazione fosse l’unica cosa che ci si può aspettare da lui.

E’ quindi con un sospiro di sollievo che ho ascoltato le considerazioni di Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza, in una intervista televisiva concessa martedì notte. In essa, accanto a una (ben poco convincente) difesa della politica di Conte durante la prima ondata, Ricciardi ha sostenuto tre tesi molto forti, che meritano attenta considerazione. Le riassumo brevemente.

Tesi 1: nella seconda ondata, decidendo lockdown tardivi e troppo blandi, il governo Conte ha sbagliato politica, finendo per dilapidare i sacrifici degli italiani.

Tesi 2: dobbiamo cambiare completamente rotta, abbandonando il protocollo europeo, che si accontenta di mitigare l’epidemia, e passare risolutamente al protocollo dei paesi orientali e dell’emisfero Sud, che punta alla soppressione del virus.

Tesi 3: la via maestra per farlo è un inasprimento e allungamento dei lockdown.

Sulle prime due tesi, avendole io sostenute da più tempo di Ricciardi, non posso che concordare (ho addirittura scritto un libro, La notte delle ninfee, per spiegare come la seconda ondata si sarebbe potuta evitare). L’unica cosa che avrei da aggiungere è: poiché il prezzo di questi errori, misurato in migliaia di vite umane sacrificate, è enorme, e poiché – questo gli va riconosciuto – è da quattro mesi che il consulente del ministro Speranza critica la politica sanitaria del governo, come mai né lui né il ministro della salute si sono mai palesati nell’unico modo politicamente efficace, ossia minacciando le dimissioni? Possibile che, per sferrare un attacco frontale a Conte, si sia dovuto aspettare che Conte stesso avesse perso il potere, disarcionato da Renzi?

Ma veniamo alla tesi 3: ci vuole un maxi-lockdown. Su questa tesi è inevitabile che ognuno abbia le proprie opinioni, per lo più dettate dall’età (i giovani si ammalano pochissimo) e dalla professione (gli autonomi rischiano di perdere tutto). Però c’è un punto di cui, a mio parere, dovremmo renderci conto tutti: esaurita la sorpresa della prima ondata, ogni lockdown lungo e non circoscritto è semplicemente un certificato di fallimento della politica. Perché, ormai dovrebbe essere chiaro, quando il governo chiede ai cittadini di farsi carico, con le loro rinunce e con i loro sacrifici, della lotta al virus, è precisamente perché le autorità politiche e sanitarie non hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per contenere l’epidemia. Vogliamo ricordarle, queste omissioni e mancanze?

Eccone un succinto elenco: dimezzamento (anziché aumento) del numero di tamponi nel bimestre critico che va da metà novembre 2020 a metà gennaio 2021; sostanziale rinuncia al tracciamento elettronico; debolezza delle misure di controllo della quarantena; timidezza nel far rispettare le regole in estate; mancato rafforzamento del trasporto locale; mancata messa in sicurezza delle scuole e delle università sul versante dell’aerazione e deumidificazione dei locali;  debolezza della politica di controllo delle frontiere e dei flussi turistici.

Ecco perché l’invocazione del lockdown, di un lockdown più severo e lungo, è poco credibile, per non dire inquietante, se non è accompagnata dal riconoscimento che, dopo la prima ondata, l’errore primario del governo Conte non è stato di non aver fatto un lockdown durissimo a ottobre (quello è stato l’errore secondario, o derivato), ma è stato quello di non fare tutto ciò che ci avrebbe permesso di arrivare a ottobre in condizioni meno critiche, rendendo assai meno necessario il ricorso al lockdown.

Perché, nell’intervista a Ricciardi, tutto questo non emerge con la dovuta evidenza?

Forse per lo stesso motivo per cui il consulente del ministro Speranza considera “ineccepibile” il comportamento del governo durante la prima ondata. Spiace doverglielo ricordare, ma anche ammesso (e non concesso) che nulla sia stato sbagliato nella tempistica dei lockdown di marzo-aprile, resta il fatto che nella prima ondata egli fu in prima linea nella guerra del governo contro la politica dei tamponi del Veneto, accusato di farne troppi. E che, oltre all’errore di frenare i tamponi di massa, furono parecchi gli errori gravi ed evitabili del governo Conte anche durante la prima ondata: perché nulla fu fatto, a gennaio-febbraio, per dotare il personale medico di dispositivi di protezione individuale? Perché si aspettarono così tanti mesi per rendere obbligatorio l’uso delle mascherine nei negozi e nei locali al chiuso? Perché così poco venne fatto per controllare le frontiere?

Insomma, la mia impressione è che il fascino discreto che il lockdown esercita sui politici dipenda semplicemente dalla loro consapevolezza che su tutto il resto, su cui si è fatto quasi nulla quando si era in tempo, si continuerà a fare ben poco. E che alla fine della fiera, nell’attesa messianica del vaccino, la loro idea sia ancora oggi quella di sempre: che la lotta al virus non si fa dall’alto, costruendo politiche sanitarie incisive, ma si fa dal basso, limitando le nostre libertà.

E’ come se la politica, tutta la politica, fosse perfettamente in grado di riconoscere il debito accumulato dai governi passati quando esso è di natura economica, ma non lo fosse quando è di natura sanitaria. Eppure il dramma odierno, in cui un nuovo e severo lockdown appare a molti come l’unica misura praticabile, è il frutto amaro del debito sanitario accumulato in mesi e mesi di omissioni e atti mancati.

Non ci resta che sperare che, con questo genere di debito, il governo Draghi cominci a fare i conti nell’unico modo possibile: facendo oggi, finalmente, tutto ciò che non si è fatto fino a ieri.

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 febbraio 2021




La destra e le elezioni anticipate

La richiesta di tornare al voto, ripetuta innumerevoli volte dai partiti del centro-destra, non è priva di buone ragioni. E’ vero che la nostra resta una repubblica parlamentare, e che i cambi di governo in corso di legislatura sono perfettamente legittimi, ma è altrettanto vero che di questa flessibilità si è abusato troppo. Siamo nel 2021, e bisogna risalire al lontano 2008 per rintracciare un governo e un premier (il governo Berlusconi) che fossero espressione del voto popolare. Da allora a decidere chi governa sono state sempre alchimie di palazzo, di volta in volta innescate da emergenze e situazioni eccezionali, o presunte tali: la crisi finanziaria (2011), la mancanza di un chiaro vincitore (2013), l’impazienza di Renzi (2014), l’esito del referendum istituzionale (2016), di nuovo la mancanza di un chiaro vincitore (2018), il rischio di una vittoria elettorale della destra (2019), fino al colpo di teatro di questi giorni, motivato con la doppia emergenza economica e sanitaria.

Di tutte queste ragioni che hanno condotto a costituire governi sganciati da ogni riferimento al consenso popolare la più inquietante è quella che, nel 2019, ha portato al Conte bis. In questo caso, infatti, la motivazione che ha portato a formare il nuovo governo giallorosso non è stata, come in passato, né un’emergenza reale, né l’assenza di un chiaro orientamento dell’elettorato, ma – tutto al contrario – la convinzione che tale orientamento ci fosse, ma non fosse quello “giusto”. Tutti i sondaggi, infatti, indicavano (ed indicano tuttora) che, ove la parola fosse restituita ai cittadini, il colore politico del nuovo governo sarebbe stato di centro-destra, e non di centro-sinistra. Ed è fonte di sconforto che, a 75 anni dalla nascita della Repubblica, la cultura progressista non abbia ancora la maturità democratica per accettare che siano gli elettori, anziché gli abitanti del Palazzo, a scegliere chi li dovrà governare.

Dico tutto questo per dire che capisco l’amarezza dei leader del centro-destra di fronte al rifiuto del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere e dare la parola agli elettori. E penso anch’io che, in circostanze normali, il capo dello Stato avrebbe fatto bene a sciogliere le Camere, senza farsi condizionare dal timore che a vincere siano i cattivi.

Ma nello stesso tempo non posso non aggiungere che, come studioso che segue l’evoluzione dell’epidemia, penso che in questa circostanza la posizione di chi ha invocato le elezioni anticipate, in particolare Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non sia solidamente fondata, e che abbia fatto bene Mattarella a non percorrere questa via, che pure era nelle sue facoltà. E provo a spiegare perché.

Lascio da parte le considerazioni, peraltro assai convincenti, sull’opportunità che a gestire il Recovery Fund sia una personalità di alto profilo e di indubbia competenza, e mi concentro solo sull’altro motivo sottolineato da Mattarella, ossia il rischio che due mesi di campagna elettorale potessero alimentare ulteriormente l’epidemia.

Come si sa il caso che, in queste settimane, ha originato questo genere di preoccupazioni è quello delle elezioni presidenziali in Portogallo, tenutesi alla fine di gennaio. E infatti, per sostenere l’infondatezza di tale preoccupazione, sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini hanno tentato di smontare precisamente quel caso.

Giorgia Meloni, in un’intervista a Porta a Porta (giovedì notte), ha affermato che si è votato il 24 gennaio, e che “poiché il virus incuba 14 giorni” non era ancora possibile osservare eventuali effetti sull’epidemia. Matteo Salvini, all’opposto, tali effetti ha preteso di osservarli, e lo ha fatto notando che il giorno delle elezioni i contagiati erano 11721, e 8 giorni dopo erano 5805, ovvero circa la metà (in realtà la diminuzione, calcolata in modo appropriato, è stata molto minore).

Ebbene, entrambe queste argomentazioni non fanno adeguatamente i conti con quel che è successo in Portogallo. Quel che, per settimane, ha preoccupato gli analisti non è tanto il rischio che l’afflusso ai seggi (in un singolo giorno) potesse moltiplicare i contagi, quanto il timore che a far esplodere l’epidemia provvedesse la campagna elettorale (lungo un periodo di parecchie settimane). Questo timore era supportato dal fatto che, circa un mese prima del voto (all’inizio della campagna elettorale), la curva dei contagi avesse invertito repentinamente la sua rotta, passando da calante a crescente, e più o meno una settimana dopo la medesima sorte fosse toccata alla curva dei decessi.

In effetti, nel giro di un mese, e proprio in coincidenza con l’appuntamento elettorale, il Portogallo ha scalato sia la classifica della velocità di propagazione dell’epidemia (quella che si misura con Rt), sia la classifica della diffusione del contagio, andando ad occupare il triste primato che per quasi tutto il 2020 era toccato al Belgio. Non solo: entrambe le curve, dei contagi e dei decessi, hanno cominciato a dare segnali di arretramento solo 1-2 settimane dopo l’appuntamento elettorale (prima quella dei contagi, poi quella dei decessi). Infine, è di questi giorni la notizia che gli ospedali portoghesi sono al collasso, e il paese ha dovuto richiedere l’aiuto degli altri paesi europei.

E’ la prova inconfutabile che a far precipitare la situazione sia stato l’appuntamento elettorale?

No, non lo è. In questo campo non si possono fornire dimostrazioni rigorose, ma solo individuare indizi, più o meno supportati da evidenze matematico-statistiche. Però si può osservare che, nel caso delle elezioni portoghesi, gli indizi ci sono, purtroppo. E che, quanto alle elezioni italiane, oggi il numero di contagiati è circa 10 volte quello di settembre, che già non aveva mancato di suscitare le preoccupazioni di alcuni studiosi.

In questa situazione, in cui mancano le prove ma abbondano gli indizi, ognuno ha buone ragioni per tenersi le idee che preferisce. Ma è difficile non comprendere quelle del capo dello Stato, che ha ritenuto imprudente interrompere la legislatura in un momento in cui il numero di contagiati è molto alto e l’epidemia non accenna a piegare la testa.

Pubblicato su Il Messaggero del 6 febbraio 2021




L’Europa è una discriminante?

Non è da oggi che, nel dibattito politico, l’europeismo viene agitato come una discriminante fondamentale. Da una parte le forze che credono nel progetto europeo, dall’altro i nemici dell’Europa, di volta in volta qualificati come sovranisti, anti-europei, euroscettici.

Ma negli ultimi giorni la tendenza a trattare l’europeismo come una categoria politica si è accentuata, con la ripetuta evocazione di una fantomatica “maggioranza Ursula”, in cui dovrebbero riconoscersi le forze che – nel Parlamento di Strasburgo – hanno reso possibile l’elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea. Il tutto con la folkloristica, per non dire grottesca, appendice del drappello di “responsabili” che, in Senato, si auto-ridenominano “europeisti”, suscitando lo sconcerto di Emma Bonino e del suo partito (+Europa), sicuramente il più coerente alfiere del sogno europeo.

Ma ha ancora senso distinguere fra europeisti e anti-europeisti?

Su un piano descrittivo forse sì. In effetti il grado di severità delle critiche all’Europa è molto variabile. Il Pd +Europa sono molto indulgenti, Lega e Fratelli d’Italia molto severi. Quanto alle altre forze politiche quel che le distingue è soprattutto il tipo di critiche che rivolgono all’Europa: Forza Italia e i Cinque Stelle non apprezzano (o non apprezzavano) la politica migratoria, l’estrema sinistra è iper-critica sul patto di stabilità e sul Mes.

Già questo schizzo dovrebbe suscitare qualche dubbio sulla utilità e sensatezza della contrapposizione fra europeisti e anti-europeisti. Ma l’aspetto che più mi lascia perplesso è l’uso etico-normativo del concetto di europeismo, per cui i critici dell’Europa sarebbero i cattivi, e i difensori sarebbero i buoni. A mio parere sarebbe più aderente alla realtà dire che la costruzione europea ha un bel po’ di difetti (una cosa che ben pochi negano), e che le forze politiche si distinguono per i difetti che tendono a evidenziare o a occultare.

La destra, ad esempio, ha spesso messo in luce difetti come: eccesso di regolazione del mercato interno; insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a Est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico; svantaggi dell’ingresso nell’euro.

La sinistra ha spesso attirato l’attenzione sui ritardi del progetto di unificazione politica, militare, economica: incapacità di parlare con un’unica voce in politica estera; mancanza di un esercito europeo; rigidità del patto di stabilità e crescita; modestia del bilancio europeo; ostilità agli eurobond; tolleranza verso i regimi illiberali di alcuni paesi dell’Unione (Ungheria e Polonia).

Basterebbero questi due stringati elenchi di difetti della costruzione europea per far sorgere il dubbio che l’europeismo possa sensatamente essere usato come una discriminante politica, e tantomeno come una medaglia al merito. Ma in realtà quei due elenchi sono fortemente incompleti. Mancano infatti i limiti dell’Europa su un altro terreno fondamentale, quello della gestione della pandemia.

Qui non mi riferisco tanto ai limiti sul versante dell’economia, e in particolare all’incredibile ritardo con cui diventerà effettivo il Recovery Plan (circa 1 anno e mezzo dallo scoppio dell’epidemia). Quello che ho in mente è il governo complessivo della pandemia sul piano sanitario, dove l’Europa ha brillato molto più per i suoi errori che per i propri meriti.

L’errore più grande è stato, a mio parere, quello di non prendere nemmeno in considerazione il protocollo di gestione dell’epidemia adottato dai paesi che sono riusciti a contenerla (dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda): chiusura delle frontiere, tracciamento elettronico, quarantene controllate, lockdown precoci e circoscritti. E tutto questo non casualmente, ma in omaggio ai totem di quella che mi sento di chiamare l’ideologia europea: libera circolazione delle persone, tutela della privacy, primato dell’economia, subalternità all’Oms (un’istituzione i cui gravissimi errori di valutazione sono costati migliaia di vite umane).

Ma gli errori che ho elencato sono solo i primi in ordine di tempo. Perché se veniamo agli ultimi mesi c’è un ulteriore terreno su cui l’Europa si è mossa in modo discutibile (per usare un eufemismo): quello dei vaccini.

Lascio perdere i dubbi sul ruolo degli interessi nazionali (di Germania e Francia in particolare) nella selezione delle aziende farmaceutiche da finanziare, ma mi limito a un’osservazione: se la campagna vaccinale di tanti paesi europei è in difficoltà è anche perché la Commissione europea, guidata dalla stella (Ursula von der Leyen) che dovrebbe illuminare il cammino delle forze “europeiste”, ha commesso due errori cruciali: firmare contratti senza garanzie sufficienti sulle consegne, e farlo troppo tardi rispetto a paesi concorrenti (ad esempio il Regno Unito, fresco di Brexit). Se ora altri paesi hanno la precedenza su quelli europei nella fornitura delle dosi non è tanto per la cattiveria delle aziende farmaceutiche, quanto perché, pure su questo terreno, la classe dirigente europea non è stata all’altezza.

Ecco perché mi permetto di dare un consiglio non richiesto alle forze politiche: lasciate perdere l’europeismo. L’Europa è un edificio fragile e imperfetto, e se ha senso dividerci può essere solo su come intendiamo provare a ripararne i non pochi difetti.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 gennaio 2021




La terza ondata

Che nell’ultima parte del 2020, in Italia e in altri paesi del mondo, vi sia stata una “seconda ondata”, nessuno dubita. A partire dalla fine di settembre tutti gli indicatori di diffusione dell’epidemia hanno iniziato a galoppare, oltrepassando una dopo l’altra le principali soglie di allarme: nuovi casi, morti, quoziente di positività, ricoveri ospedalieri hanno presto raggiunto livelli preoccupanti.

Quello che è invece meno chiaro è se sia in arrivo, o sia già arrivata, anche una terza ondata, e se le ondate di cui si parla stiano investendo più o meno uniformemente tutti i paesi, o perlomeno i paesi a noi comparabili.

Ma che cos’è un’ondata?

Qui i punti di vista divergono. Per chi lavora in ospedale un’ondata è l’arrivo repentino di un numero di malati Covid che satura, o rischia presto di saturare, la capacità di accoglienza del sistema sanitario nazionale. Da questo punto di vista non c’è nessuna nuova ondata in atto, semplicemente sta succedendo che gli ospedali non si stanno svuotando, e continuano ad operare al limite della capacità.

Per chi invece monitora la dinamica dell’epidemia le cose stanno molto diversamente. Osservata da questa angolatura, un’ondata è una perturbazione della curva epidemica che ne modifica (peggiora) in modo apprezzabile l’andamento. Se guardiamo le cose in questo modo, quel che possiamo dire è che in Italia la terza ondata è arrivata già intorno al 10 dicembre. E’ allora, infatti, che si è interrotto il processo che, sia pure lentamente, stava mitigando la seconda ondata. Se oggi gli ospedali non si stanno ancora svuotando, è perché da un mese e mezzo una terza ondata si è sovrapposta alla seconda.

A che cosa si deve la terza ondata?

Nessuno lo sa con certezza, ed è probabile che le determinanti siano più d’una: la diffusione, anche in Italia, di varianti del virus più contagiose; l’ingresso nella stagione fredda; e forse pure qualche imprudenza nella settimana del Black Friday (27 novembre). Quel che è certo è che, da allora, non siamo più riusciti a riportare la curva epidemica lungo un robusto sentiero di discesa.

E negli altri paesi?

Contrariamente a quanto spesso si sente dire, non è vero che quel che succede in Italia sia, più o meno, quel che sta succedendo in tutta Europa, o in tutte le società avanzate. Quel che colpisce, invece, è quanto diversa sia la dinamica dell’epidemia da paese a paese. Se consideriamo le società avanzate, con istituzioni economiche e sociali comparabili alle nostre (29 paesi, di cui 20 europei), è possibile individuare almeno tre gruppi di paesi.

A un estremo, 9 paesi (su 29) in cui negli ultimi mesi non si è osservata alcuna vera e propria seconda ondata, ma solo alcune modeste fluttuazioni del numero dei casi e della mortalità. Fra questi paesi quasi-esenti 6 sono lontani da noi (Giappone, Australia, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Taiwan, Hong Kong), ma tre sono in Europa (Finlandia, Norvegia, Islanda), anche se uno solo – la Finlandia – fa parte dell’Unione Europea.

All’altro estremo quattro paesi (fra cui fortunatamente non c’è l’Italia) che se la passano decisamente male, anche se per ragioni diverse: Portogallo, Spagna, Regno Unito, Svezia. In Spagna a preoccupare è soprattutto la velocità del contagio, nel Regno Unito e in Svezia il numero di contagiati, in Portogallo entrambe le cose.

Fra questi due estremi – paesi quasi-esenti e paesi travolti – si collocano le altre 16 società avanzate, fra cui l’Italia. In questo gruppo quasi sempre la curva epidemica mostra una sovrapposizione fra seconda e terza ondata, e la differenza fondamentale che emerge è fra paesi in cui la curva epidemica ha iniziato risolutamente a regredire (Cipro, Danimarca, Olanda, Lussemburgo, Svezia, Svizzera) e paesi in cui il rallentamento è debole o appena iniziato (tutti gli altri, Italia compresa).

Che cosa ne possiamo concludere?

Fondamentalmente, due cose. La prima, positiva, è che in questa fase l’Italia, pur restando fra i paesi in cui la conta dei morti è più drammatica, ha perso il triste primato che deteneva insieme al Belgio: nelle ultime due settimane sono 5 i paesi in cui i morti per abitante superano quelli dell’Italia (Regno Unito, Svezia, Portogallo, Germania, Stati Uniti).

La seconda conclusione, negativa, è che – se desideriamo ridurre sensibilmente la circolazione del virus – siamo ancora terribilmente lontani dall’obiettivo. Il numero di contagiati per abitante è ancora paragonabile a quello della prima ondata, e circa 10 volte superiore a quello di Finlandia e Norvegia, ossia dei due migliori paesi europei (senza contare l’Islanda, che ha zero decessi). Quanto all’andamento del numero di contagiati, nelle ultime due settimane la tendenza è alla diminuzione, ma a una velocità bassissima (Rt di un soffio sotto 1).

Spiace prenderne atto, ma la realtà è che le misure di contenimento non stanno funzionando a dovere, non solo in Italia. Forse dovremmo prendere atto che, specie di fronte alle nuove varianti del virus, nemmeno i lockdown sono sufficienti a produrre una decisa inversione di rotta. E’ arrivato il momento di abbandonare il protocollo europeo, che ci sta inesorabilmente portando a un regime permanente di stop and go, e guardare con più attenzione alle strategie dei paesi che non si sono fatti travolgere né dalla prima né dalla seconda ondata.

Pubblicato su Il Messaggero del 23 gennaio 2021




Lettera a Renzi

Caro Renzi,

anche se non ci conosciamo, né ci siamo mai parlati a tu per tu, mi permetto di raccontarle che cosa passa per la testa di un ex-renziano come me.

Non sono mai stato iscritto a un partito, e meno che mai al Pd, di cui non mi sono mai piaciuti l’attaccamento al potere e l’ostinato convincimento di rappresentare “la parte migliore del paese”.

E tuttavia, quando lei di quel partito cercò di rinnovare la sostanza e il linguaggio, ho fatto una cosa per me del tutto innaturale, ma che allora mi sembrò utile: ho fatto la coda alle primarie, per votare lei, che mi pareva l’unico in grado di modernizzare la cultura politica del campo progressista, di cui mi sono sempre sentito parte.

Poi l’ho vista in azione al governo, e l’ho vista far naufragare il suo stesso progetto di riforma istituzionale. Ho cominciato a pensare che mi ero sbagliato, e che le mie speranze erano state mal riposte. Ma il colpo di grazia è arrivato nel 2019, quando lei si fece promotore della più spregiudicata manovra parlamentare della storia repubblicana: la nascita del governo giallo-rosso.

Attenzione, però. La spregiudicatezza di quella manovra, per me, non risiedeva nel fatto che l’unico collante del nuovo governo fosse il terrore del voto (per i Cinque Stelle) e l’amore per il potere (per il Pd). E nemmeno nel fatto che lei promuoveva un’alleanza, quella con il partito di Grillo, che fino ad allora aveva escluso, e che inevitabilmente avrebbe snaturato il suo Pd, spegnendone ogni residua vocazione riformista e modernizzatrice.

No, per me la spregiudicatezza sta nella giustificazione che di quella manovra lei volle dare. Allora lei si oppose strenuamente alle elezioni anticipate soprattutto con un argomento, ovvero il rischio che Salvini potesse assumere “i pieni poteri”. Di fronte a quel rischio si poteva, anzi si doveva, anche digerire il rospo-cinque Stelle.

Ebbene, quella giustificazione non sta in piedi. Quella giustificazione è solo il frutto di una consapevole e non scusabile manipolazione della realtà, o meglio delle parole altrui.

La terribile invocazione dei pieni poteri è la seguente:

“Non sono nato per scaldare le poltrone. Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri. Siamo in democrazia, chi sceglie Salvini sa cosa sceglie”.

Credo che chiunque non sia accecato dall’odio o dall’ideologia sa riconoscere, in una dichiarazione del genere, quel che è sempre stato il sogno irrealizzato di tuti i grandi partiti, o meglio di tutti i partiti di maggioranza relativa: avere il 51% dei seggi parlamentari, per poter realizzare il programma su cui hanno chiesto il voto ai cittadini.

Era stato il sogno della Dc di De Gasperi (ai tempi della cosiddetta legge truffa: 1953), è stato il sogno di Berlusconi, quando i “cespugli” del centro-destra gli impedivano di attuare la “rivoluzione liberale” promessa. Ma è stato anche il sogno del Pd, quando Veltroni parlava di “vocazione maggioritaria” e sognava una legge elettorale capace di individuare un vincitore. Ed è stato pure il sogno di Renzi, quando guidava un partito del 41%, e diceva che non importava quale legge elettorale si fosse scelta, purché la sera delle elezioni si sapesse chi aveva vinto.

Perché dunque quel che tanti leader avevano chiesto non poteva essere chiesto da Salvini?

Per questa domanda ci sono una serie di risposte ideologiche pronte, precotte e premasticate: perché Salvini ci avrebbe portati fuori dall’euro; perché Salvini avrebbe aumentato l’Iva; perché Salvini avrebbe instaurato una dittatura, o una quasi-dittatura (se no, perché temere i pieni poteri?).

Ma la risposta vera, secondo me, è un’altra, ed è drammatica: la sinistra, il campo progressista, ancora oggi (anno di grazia 2021) non ha raggiunto la maturità democratica. Che consiste nel trattare l’avversario politico come avversario, e non come nemico della democrazia. Nel considerare sé stessi come portatori di un progetto politico, anziché come depositari esclusivi del bene comune. Nella fiducia di poter combattere gli avversari con la forza delle idee, anziché cercando ogni volta di evitare il ricorso alle urne, quasi che noi progressisti, le molte idee di Salvini che non condividiamo, non fossimo in grado di sconfiggerle in campo aperto.

Ci aveva provato un po’ Veltroni, a rispettare l’avversario, ma non ce l’ha fatta nemmeno lui a cambiare il Dna del Pd. Anche per responsabilità della cosiddetta società civile che – attraverso  appelli, girotondi e sardine varie – ha ritenuto di dover gridare al pericolo per la democrazia ogni qualvolta all’orizzonte si è profilato il rischio che a vincere non fossimo noi, i “sinceri democratici”, unici interpreti degli interessi generali del paese, unico presidio contro le tentazioni autoritarie della destra.

Ora lei, caro Renzi, da qualche mese viene piagnucolando che quota 100 è una follia, il reddito di cittadinanza un obbrobrio, l’azione del governo inesistente, i progetti di utilizzo dei fondi europei imbarazzanti, l’economia allo sbando, la gestione dell’epidemia catastrofica, lo stile di governo improntato a vanità e spregio delle istituzioni. E mille altre cose ripete, per lo più sacrosante, e per cui si è deciso ad aprire una crisi di governo.

Ma io le faccio un’unica domanda: non lo sapeva, quando ha bussato alla porta di Zingaretti per proporre il patto incestuoso con i Cinque Stelle, che così avrebbe dissolto in un colpo solo il progetto da cui il Partito democratico era nato, e di cui lei era diventato l’interprete più brillante e coraggioso?

Non so perché, un anno e mezzo fa, lei si decise a ingoiare il rospo, e a ingoiarlo ancora vivo e vegeto. Capisco che le sia rimasto sullo stomaco, e non l’abbia digerito ancora oggi. Ma quando lei denuncia i limiti dell’azione di governo sta solo constatando una verità ovvia, che pare stupire solo lei: i Cinque Stelle sono i Cinque Stelle, e quindi fanno i Cinque Stelle. Come direbbe Gertrude Stein: una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.

Che cosa si aspettava? Che il Pd rieducasse i cinque Stelle? Che nell’alleanza fra un partito non ancora pienamente riformista come il Pd e un partito populista e giustizialista come il partito di Grillo sarebbe stato il mite Zingaretti a prevalere? O che bastasse Italia viva a rieducare entrambi?

La realtà, temo, è che in Italia il sogno di una sinistra riformista – egualitaria e modernizzatrice – è tramontato definitivamente. Lei, è il momento di prenderne atto, a questo tramonto ha dato un contributo significativo. Ed è tristemente emblematico che i giorni di questa crisi, che hanno visto il trionfo del trasformismo e l’umiliazione di quel che resta del riformismo progressista, siano gli stessi in cui Emanuele Macaluso, il più coerente e sincero dei riformisti, ci ha lasciato per sempre. Quasi a segnare, con questa coincidenza di tempi, il passaggio di testimone fra due mondi e due epoche.

Peccato. Perché quel sogno aveva un senso, e alcuni di noi ci avevano creduto e lavorato. Ora tutto è più difficile, e addolora il fatto che a seppellire quel sogno sia stato proprio chi, di quel sogno, era stato l’ultimo e più incisivo interprete.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 gennaio 2021