L’Italia sta entrando in recessione?

Dopo cinque mesi di governo, per la prima volta si ha la sensazione che qualcosa stia cambiando, sia nei rapporti interni al Governo, sia in quelli con l’elettorato.

Dentro il Governo decreto sicurezza, disegno di legge anticorruzione, condono fiscale, grandi opere, stanno suscitando i primi dissensi veri. Visto dall’esterno, il clima fra gli alleati non sembra armonioso come nei giorni degli sbarchi o in quelli della crociata anti-Bruxelles.

Ma è sul versante dell’elettorato che le cose mi sembrano più in movimento, forse anche perché sono torinese e tocco con mano i primi segni di delusione, che nella mia città sono strettamente legati a due clamorosi no della sindaca Appendino: no alle olimpiadi invernali, che se verranno assegnate all’Italia si terranno a Milano e Cortina; no alla Tav, che se fermata costringerà molte imprese a chiudere o a licenziare. Due no che, almeno qui, paiono indebolire il consenso ai Cinque Stelle sia a livello cittadino, sia a livello nazionale. Qualcuno comincia addirittura a immaginare una nuova “marcia dei 40 mila”, questa volta promossa da un fronte che potrebbe unire imprenditori, sindacati, forze politiche di destra e di sinistra.

Si sarebbe tentati di pensare che il cambio di umori sia legato innanzitutto all’azione dell’esecutivo, assai popolare quando attacca i migranti e l’Europa, assai meno convincente quando tenta di mettere in atto il “contratto di governo”. Credo ci sia del vero in questa impressione, specie per i ceti produttivi, preoccupati del blocco o rallentamento delle grandi opere, ma anche della modestia degli sgravi fiscali alle imprese. Poco per volta, ci si rende conto che, complessivamente, le tasse non diminuiranno affatto, perché gli sgravi sull’Ires e l’Iva sulle piccole imprese (circa 2 miliardi nel 2019) sono più che compensati da nuove tasse e dal venir meno di altre misure di sostegno alle imprese, come l’Ace (che viene soppressa) o l’Iri (che non entra in vigore).

E tuttavia io sospetto che un certo raffreddamento del rapporto con l’elettorato possa avere anche un’altra origine, ben più insidiosa. Forse quello di cui imprenditori, artigiani, commercianti, lavoratori dipendenti cominciano ad accorgersi è che è il ciclo economico stesso a volgere al peggio. Non c’è solo la crescente consapevolezza dei danni prodotti dallo spread a 300 punti base, non c’è solo la preoccupazione per il peggioramento dei rapporti con l’Europa, o addirittura il timore di un’uscita dall’euro. Da qualche giorno, a queste preoccupazioni se ne stanno aggiungendo di assai più concrete e dirette. I dati di settembre sull’export sono pessimi: l’avanzo della bilancia commerciale si è drasticamente ridotto, sia rispetto a luglio sia rispetto a settembre di un anno fa. L’occupazione è in calo, e lo è proprio nella componente che il decreto dignità ambiva a rafforzare, quella dei posti a tempo indeterminato. Ma soprattutto è fermo il Pil, ovvero l’indicatore che tutti gli altri riassume: non succedeva dal 2014, ossia dall’anno di uscita dalla crisi. Perché questa impasse? Perché questi segnali negativi dal versante dell’economia?

Mi piacerebbe avere le certezze di Brunetta, secondo cui la crescita della disoccupazione è “il primo effetto disastroso del decreto dignità”. O quelle di Di Maio, secondo cui, tutto al contrario, il calo dell’occupazione è “l’ultimo colpo di coda del Jobs Act”. E ancora più mi pacerebbe avere quelle del presidente di Confindustria Boccia, secondo cui “se l’economia non cresce è colpa esclusiva delle scelte economiche di questo governo”.

Ma la verità è che, con i dati disponibili, è tecnicamente impossibile stabilire in che misura questi andamenti negativi siano da imputare all’azione del precedente governo, a quella dell’esecutivo attuale, o al rallentamento dell’economia europea, chiaramente avvertibile dal terzo trimestre di quest’anno. Personalmente, ritengo più verosimile che quello cui stiamo assistendo sia il solito film: l’economia italiana si muove più o meno in sincronia con quella degli altri paesi europei, ma a passo più lento, per cui quando “loro” vanno forte noi andiamo piano, e quando (come oggi) loro vanno piano noi stiamo fermi.

Quel che invece mi sento di dire è che è molto pericoloso, per chi governa, mandare all’opinione pubblica messaggi di onnipotenza, per cui l’Italia sarebbe in grado di ignorare le raccomandazioni dell’Europa, i segnali dei mercati, le previsioni dei centri studi indipendenti. Perché a forza di dire che possiamo fare di testa nostra, che tutto dipende da noi stessi, e che la manovra ci farà crescere il doppio del previsto, se poi le cose si mettono storte, e le certezze evaporano sotto i colpi della realtà, si rischia di pagare un prezzo molto alto in termini di consenso.

Vorrei ricordare che, tecnicamente, un paese è considerato in recessione se il suo Pil diminuisce per due trimestri consecutivi. E se al Pil piatto del terzo trimestre 2018 dovessero seguire due trimestri di Pil calante, l’Italia potrebbe venirsi a trovare ufficialmente in recessione già a fine aprile prossimo, giusto un mese prima delle elezioni europee. Se questo dovesse accadere, presumibilmente dipenderebbe poco dalle scelte di questo governo e molto dall’evoluzione della congiuntura europea. Ma difficilmente l’opinione pubblica sarebbe di questo avviso. E’ una questione di logica: se oggi ci vien detto che possiamo fare quel che vogliamo, contro tutto e contro tutti, quel che potrà accadere domani sarà considerato una conseguenza delle nostre azioni, non del “destino cinico e baro”.




A proposito della morte di Desirée: perché lo Stato è impotente

Nell’ora della pietà, dello sconcerto, della rabbia per la morte di una ragazza sedicenne, stuprata e uccisa da un gruppo di immigrati irregolari in un quartiere degradato di Roma, ho provato a fare un passo di lato, lontano dalla cronaca. Una sorta di esercizio, o esperimento mentale. Mi sono chiesto: se fossi il ministro dell’Interno, se fossi al posto di un Salvini o di un Minniti, e avessi la ferma volontà di impedire il ripetersi di fatti del genere (il caso di Desirée è solo l’ultimo di una serie), che cosa potrei fare?

Ci ho pensato a lungo, e la conclusione cui sono approdato è: poco, molto poco, almeno nel breve periodo.

Le ragioni del mio pessimismo sono molte. Penso per esempio che, poiché sono decenni che chiudiamo un occhio su ogni genere di trasgressione – in famiglia, a scuola, all’università, sugli autobus, per strada, sui treni, nei rapporti con il fisco – la violazione delle norme è entrata nel nostro DNA culturale. Per alcuni, succede addirittura che la violazione delle regole diventi un fattore identitario, se non di orgoglio personale: poiché ritengo che una data regola sia ingiusta, mi sento in diritto di violarla.

Non c’è solo la hybris, lo smisurato orgoglio del singolo: c’è anche l’opportunismo e la codardia dello Stato. Non è da oggi, e non è certo solo a Roma o nelle grandi città, che le forze dell’ordine hanno deliberatamente scelto di considerare extraterritoriali, o zone franche, intere porzioni del territorio nazionale, o interi quartieri di una città. Vale per le volanti che si guardano bene dall’entrare in certi territori, per i vigili che non osano entrare in certi edifici, ma anche per i magistrati, per i quali, a dispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, ci sono notizie di reato che non meritano indagini e approfondimenti.

Poi c’è la cultura finto-progressista, per cui la delinquenza comune, dal furto allo spaccio, è una conseguenza della povertà e della diseguaglianza, e dunque va trattata con riguardo. Come con riguardo vanno trattate le occupazioni di case, le occupazioni di scuole, le invasioni dei cantieri, tutte azioni illegali ma di cui si suppone che siano compiute per una giusta causa, o con sufficienti attenuanti per essere tollerate. Una visione del mondo per cui, da almeno vent’anni ci viene spiegato: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, firmataria della legge Turco-Napolitano sull’immigrazione).

Infine, naturalmente, c’è il problema degli immigrati irregolari, una massa di 500 mila persone (o forse più) che vagano per l’Italia, talora lavorando in nero, talora chiedendo l’elemosina, talora delinquendo, e che nessun ministro dell’Interno è in grado di espellere, perché per molti di essi mancano accordi di rimpatrio con i paesi d’origine.

Insomma sono molte, purtroppo, le ragioni per cui è difficile, molto difficile, far sì che quel che è successo a Desirée (e prima di lei a Pamela, e a tante altre e altri) non abbia a ripetersi in futuro. Siamo tutti troppo assuefatti al disprezzo delle regole per poter sperare che qualcosa di sostanziale cambi, non dico domani, ma nemmeno da qui a qualche anno.

Però c’è una ragione che, a mio parere, sovrasta tutte le altre, almeno quando parliamo di reati, ossia di condotte illegali. Questa ragione è l’evoluzione della legge penale e della prassi giudiziaria. Un’evoluzione che, da molti anni, è stata guidata da un unico principio di fondo: rendere quasi impossibile scontare la pena in carcere. Un’idea astrattamente assai nobile, perché punta alla rieducazione e al reinserimento, ma che ha come effetto pratico di togliere allo Stato la sua arma più importante nella lotta al crimine: la cosiddetta “incapacitazione”.

Che cos’è l’incapacitazione? E’ far sì che il soggetto che ha commesso un delitto sia materialmente impedito di ripeterlo (o di commetterne un altro) per un tempo congruo, ossia per la durata della detenzione in carcere. Non è questo il luogo per ricostruire i numerosi cambiamenti normativi, della legge penale e della legge carceraria, che nel giro di pochi decenni hanno condotto alla situazione attuale. E non è neppure il caso di infierire sulle responsabilità della sinistra, che quei cambiamenti ha voluto e promosso, un po’ per mentalità, un po’ per compiacere l’Europa, che giustamente denunciava il sovraffollamento e le condizioni disumane delle nostre prigioni. Ma almeno una cosa va detta: il fatto che si possa iterare un reato innumerevoli volte senza finire in carcere, il fatto che molti giudici tendano a infliggere il minimo della pena, il fatto che reati di forte allarme sociale prevedano pene modeste o la possibilità di accedere a pene alternative al carcere, non può che produrre due conseguenze cruciali: chi delinque matura un sentimento di impunità e onnipotenza, chi dovrebbe impedirgli di delinquere  matura un sentimento di impotenza e di frustrazione.

Quante volte capita, a poliziotti e carabinieri, di dover esclamare: “sì, lo conosciamo, l’abbiamo già beccato più volte ma non c’è niente da fare, noi lo arrestiamo e domani è di nuovo fuori”. E questo non solo di fronte al singolo ladro, spacciatore, estorsore, ma anche di fronte ai gruppi che occupano e controllano determinati territori. Credo che quasi tutti gli abitanti di grandi città abbiano avuto modo di constatarlo più volte nella loro vita: ci sono pezzi di città, quartieri, isolati, marciapiedi in cui brulicano attività illegali, è pericoloso abitare e passare, i criminali assumono atteggiamenti arroganti e intimidatori. In questi luoghi può succedere che i cittadini protestino, facciano esposti, chiedano disperatamente alle autorità di intervenire, e che le Istituzioni (polizia, magistratura, talora anche la Chiesa) si mostrino sorde. Ma può anche succedere, come a quanto pare è accaduto nel caso di San Lorenzo e della povera Desirée, che intervengano ripetutamente ma del tutto inutilmente: la criminalità che occupava un determinato luogo vi torna la settimana dopo, o semplicemente si sposta di un isolato, o cambia zona della città.

Ecco perché, quando si dice che una certa tragedia era “annunciata”, e si accusano le autorità, siano esse politici, amministratori, Forze dell’ordine, di non aver ascoltato, di non aver risposto, di non aver provveduto, io sento un certo fastidio, o forse imbarazzo. Insomma, qualcosa non mi torna. Non tanto perché il mantra di questi giorni, riqualificare le periferie, è “un vasto programma” che ben pochi politici anteporrebbero a più redditizie promesse elettorali, ma perché la precondizione di tutto è che lo Stato sia messo in condizione di tornare a fare lo Stato.

Questo, spiace dirlo, dipende in misura minima dal ministro dell’Interno, e in sommo grado dal Parlamento. Che può continuare con la vecchia linea: depenalizziamo tutto il possibile; riserviamo il carcere ai crimini più gravi (e, barbarie, ai presunti innocenti in attesa di giudizio!); per migliorare le condizioni di detenzione svuotiamo le carceri con indulti e amnistie. Oppure può trovare il coraggio di fare macchina indietro, e di riappropriarsi dello strumento dell’incapacitazione: cambiando le norme penali, limitando il ricorso alle pene alternative, destinando qualche miliardo all’edilizia carceraria.

Se così agisse il Parlamento, le Forze dell’ordine non penserebbero più che il loro lavoro è vano, o che i loro sgomberi sono fatiche di Sisifo. Perché, arrestando qualcuno, confiderebbero di non ritrovarselo la settimana dopo nello stesso posto, a fare le stesse cose, con le stesse compagnie.

E forse i cittadini ricomincerebbero ad avere fiducia nello Stato, a non sentirsi stupidi se rispettano le leggi. Perché, checché continuino a pensarne certi politici, non è vero che “le paure dei cittadini sono infondate”: le paure dei cittadini sono fondatissime, verso la criminalità degli immigrati come verso quella degli italiani. E quelle paure, solo uno Stato che torni a fare lo Stato ha qualche possibilità di spegnerle.




Pd, difendere l’Europa non basta

Questa volta, per la prima volta da 40 anni, ossia da quando esiste il Parlamento europeo (1979), le elezioni europee saranno quel che sempre avrebbero dovuto essere e mai sono state: un confronto sull’Europa, le sue politiche, il suo futuro. Quanto all’Italia, il 26 maggio prossimo sarà un banco di prova decisivo per almeno due soggetti politici: il governo giallo-verde (ammesso che sia ancora in sella) e il Partito Democratico, l’unica forza di opposizione che riscuote ancora un consenso a due cifre (16%, secondo gli ultimi sondaggi).

Ma come si presenterà il Pd al cruciale appuntamento di maggio? Chi lo guiderà?

Qui la nebbia è totale. Per alcuni il Pd dovrebbe addirittura essere sciolto, per far spazio a una formazione politica nuova di zecca. Per altri il Pd dovrebbe aprirsi alla società civile e diventare il perno di una larga alleanza. Per altri ancora l’unico modo per scongiurare la dissoluzione dell’Europa è la nascita di un “fronte repubblicano”, da Tsipras a Macron. Riguardo alla leadership, tramontata a quanto pare l’ipotesi di una candidata donna, le possibilità vere al momento paiono solo tre: Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, Marco Minniti (se scioglierà la riserva); sempre che Carlo Calenda non ci ripensi, e scenda in campo pure lui.

Personalmente sono molto scettico sull’idea di un fronte europeista e anti-sovranista. L’ultima volta che la sinistra ha provato a coalizzarsi in un fronte è stato nel 1948, e sappiamo come è andata: trionfo della Dc (48%) e débâcle del fronte popolare, fermo al 31%. Per non parlare del paradosso che si produrrebbe oggi: visto che il popolo sta con Salvini e Di Maio, quello che vedremmo nascere sarebbe una sorta di “fronte anti-popolare”, concetto curioso e difficile da digerire.

In realtà, più che di formule vincenti, o capaci di limitare il disastro, quello di cui si sente la mancanza sono le idee. Dicendo “idee” non mi riferisco a minuziosi programmi di riforma, o ai soliti proclami di politica economica. No, quello che mi pare manchi completamente sono un bilancio onesto sugli errori commessi dalla sinistra (non solo Pd), e risposte chiare alle due domande su cui Lega e Cinque Stelle hanno sfondato: la richiesta di protezione da criminalità e immigrazione, e la richiesta di protezione economica.

Su questo l’attuale campo progressista mi pare balbetti, o si mostri già ampiamente diviso. Penso al caso delle occupazioni di case, o quello del sindaco di Riace. Una parte della sinistra (maggioritaria, suppongo) ritiene che, anche ove emergessero irregolarità e violazioni di legge, la buona causa in nome della quale sono state commesse assolva i loro autori. Quando una legge è sbagliata, e viola principi che la nostra coscienza (o la nostra interpretazione della Costituzione) ritiene fondamentali, è giusto ribellarsi, come sotto i regimi autoritari; una posizione, peraltro, abbastanza simile a quella della destra, quando per difendere gli evasori parla di “evasione di necessità”, giustificata da tasse troppo alte. Un’altra parte della sinistra pensa invece che, in un regime democratico, le leggi si rispettano, e se non funzionano si cerca di cambiarle. Analogo discorso si potrebbe fare sugli sbarchi: una parte del popolo di sinistra è per l’accoglienza senza se e senza ma, un’altra parte condivide la linea dura di Minniti, che Salvini ha un po’ spettacolarizzato ma che resta sempre la stessa: gli ingressi irregolari in Europa (e in Italia) debbono essere combattuti con determinazione.

Ma penso anche a un altro tema, quello della lotta alla povertà e alla disoccupazione. Una parte del popolo di sinistra trova meravigliosa l’idea del reddito di cittadinanza, e si duole soltanto che a pensarci siano stati i Cinque Stelle anziché il Pd. Un’altra parte non ritiene ancora persa la battaglia per creare nuova occupazione, e considera il reddito di cittadinanza come una misura assistenziale, da usare con cautela perché mina dalle fondamenta la civiltà del lavoro.

E ancora. Una parte del popolo di sinistra ritiene che la riduzione della pressione fiscale e contributiva sia un obiettivo sacrosanto, per stimolare la crescita, un’altra parte pensa che i nostri problemi li risolveremo solo con maggiori imposte sul reddito e sul patrimonio (secondo il celebre slogan del 2006: “far piangere i ricchi”). Una parte dell’elettorato progressista crede che il debito non sia un problema, e anzi sia necessario per far ripartire l’economia, un’altra parte pensa che sia un ingiusto fardello sulle future generazioni.

Si potrebbe continuare con gli esempi. Ma quello che voglio dire è solo questo: su queste divisioni i candidati alla guida del campo progressista tendono a non prendere posizioni nette, perché sanno che scontenterebbero una parte, una parte troppo grande, dei loro potenziali sostenitori. Il rischio è che, non essendo nella condizione di spiegare in modo chiaro se e come intendano dare risposte nuove alla domanda di protezione che ha portato al successo dei movimenti populisti, non trovino di meglio che unirsi in una santa alleanza a difesa dell’Europa e della moneta unica.

Sarebbe un disastro. Non perché Europa ed euro non siano risorse cruciali per il nostro futuro, ma perché quella è solo la cornice. E la cornice non basta, ci vuole un pittore che trovi il coraggio di riempire la tela.

Pubblicato su Il Messaggero del 20 ottobre 2018

 




Ritorno alla lira?

C’è una narrazione che i potenti di oggi cercano di imporre al Paese, e che per ora ha avuto un discreto successo. Più o meno suona così: noi ci siamo presentati davanti all’elettorato promettendo determinate cose, l’elettorato ci ha dato la maggioranza, quindi abbiamo non solo il diritto ma il dovere di fare quel che abbiamo promesso. Non solo: chiunque ci critici, così facendo nega al popolo il sacrosanto diritto di esercitare la sua volontà, liberamente espressa attraverso il voto.

Molto si potrebbe dire sull’idea di democrazia (e di opinione pubblica) implicita in questo ragionamento. Ad esempio che chi ragiona così disprezza la Costituzione, che come ha ricordato il presidente della Repubblica prevede esplicitamente meccanismi di delimitazione e distribuzione del potere, volti ad evitare l’instaurarsi di una “dittatura della maggioranza”.

Ma non è su questo che vorrei attirare l’attenzione. Quel che mi pare interessante domandarci non è se gli attuali governanti si muovano con il dovuto senso dello Stato e il necessario rispetto delle istituzioni, perché chiunque non sia accecato dalle proprie credenze politiche sa perfettamente che la risposta è: NO. Quel che a me sembra degno di discussione è semmai se sia vera, oppure no, la pretesa dei nuovi padroni del potere statale di rappresentare le istanze del popolo che li ha eletti. E’ vero o non è vero quel che sentiamo ripetere fino alla noia, ovvero che la “manovra del popolo” realizza finalmente le promesse?

Per quanto riguarda la promessa principale del Movimento Cinque Stelle, ossia il reddito minimo (impropriamente chiamato “di cittadinanza”), la risposta è: sì, forse fin troppo (10 miliardi). Se partirà senza aver riorganizzato i centri per l’impiego, e non terrà conto del livello dei prezzi, il cosiddetto reddito di cittadinanza di soldi ne distribuirà addirittura più di quelli che servono, almeno in certe aree (quelle in cui il costo della vita è molto sotto la media nazionale). Quindi Di Maio ha tutte le ragioni di essere soddisfatto. Ma per quanto riguarda la promessa principale di Salvini, ovvero la flat tax?

Qui è il disastro. La flat tax doveva costare 50 miliardi, se non di più: la “manovra del popolo”, invece, non introduce alcuna flat tax, e di miliardi non ne stanzia neppure uno (l’aliquota del 15% per le piccole partite Iva produrrà sgravi per 600 milioni, cioè per 0.6 miliardi). Non vorrei essere crudele, ma la realtà è questa: Di Maio porta a casa (al suo popolo, concentrato al Sud) più o meno il 70% del suo impegno più importante, Salvini porta a casa (al suo popolo, concentrato al Nord) circa l’1% del suo impegno più importante. Dopo aver ripetuto in tutte le salse, durante la campagna elettorale, che non ci sarebbero stati problemi di copertura, scopre improvvisamente che quei problemi sono enormi (perché la pace fiscale non manterrà le promesse) e quindi le tasse non si possono ridurre. E non è tutto: se ci prendiamo la briga di ricostruire tutte le voci di bilancio della manovra scopriamo che, rispetto al 2018, gli italiani dovrebbero pagare 19 miliardi di euro di tasse e contributi in più, di cui 8.1 previsti dalla manovra stessa, in quanto necessari per finanziare le nuove spese (reddito di cittadinanza e revisione della legge Fornero).

Quindi, tanto per cominciare, diciamo una cosa: non è vero che c’è un governo che ha ricevuto un mandato elettorale dal popolo, e che sta mantenendo le promesse. Semmai esistono due forze politiche popolari, una molto forte al Sud, l’altra al Nord, di cui la prima sta mantenendo la sua promessa economica principale (reddito di cittadinanza), mentre l’altra ha preferito mettere in stand by la sua (flat tax), forse pensando che – elettoralmente – potesse bastare intestarsi i respingimenti dei barconi e l’affondamento della Fornero.

C’è un altro motivo, ben più importante, per cui l’idea che questo sia il governo del popolo, che agisce in nome e nell’interesse del popolo stesso, mi lascia alquanto perplesso. Non mi riferisco qui al fatto che, secondo molti osservatori, saranno i ceti popolari e i giovani a pagare le conseguenze più nefaste della manovra del popolo. Questo è molto verosimile, ma lo dirà solo il tempo. Il punto che mi lascia perplesso è che questo governo non sta facendo nulla per ridurre il rischio di una crisi finanziaria, il cui esito potrebbe essere la nostra uscita dall’euro e il ritorno alla lira. E dicendo “non sta facendo nulla” uso un eufemismo, perché la realtà è che sta facendo di tutto per aumentare la tensione, quasi che cercasse l’incidente.

Ebbene, io penso che sia giunto il tempo di dire in modo netto e chiaro almeno tre cose. Primo, una larghissima e crescente maggioranza degli italiani (7 a 3, secondo un sondaggio Ipsos di pochi giorni fa), certamente molto più ampia di quella che ha votato Lega e Cinque Stelle, non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro: da questo cruciale punto di vista l’attuale governo è profondamente anti-popolare. Secondo, l’eventualità di una crisi finanziaria drammatica, che sfoci in un ritorno alla lira non è remota come pare ai più: una stima recente, basata sul prezzo dei Cds, assegna 24 probabilità su 100 all’eventualità di una “Italexit”. Terzo, se all’incidente si arrivasse, tutto si potrebbe dire tranne una cosa: che il nostro governo abbia fatto tutto il possibile per evitarlo.

E’ questo che è poco accettabile: continuare a dire che si vuole restare nell’euro, ma comportarsi come se si desiderasse arrivare all’incidente che ci costringerebbe ad uscirne.

Sarebbe il colmo: infliggere alla maggioranza degli italiani quel che non vogliono (il ritorno alla lira) e arrivarci in nome del popolo sovrano.




Manovra del popolo, l’azzardo gialloverde

Dopo la presentazione della Nota di aggiornamento al Def (Documento di Economia e Finanza) le cose sono un po’ più chiare. Sappiamo finalmente qual è la crescita del Pil che ci si attende per i prossimi 3 anni, sappiamo qual è il deficit pubblico programmatico, sappiamo qual è la traiettoria prevista per il rapporto debito/Pil.

In estrema sintesi, la Nota di aggiornamento ci dice che nel prossimo triennio la crescita sarà circa una volta e mezza quella prevista dai maggiori organismi internazionali (1.5% contro 1%), il deficit pubblico passerà dall’1.8% del 2018 al 2.4% dell’anno prossimo, per poi tornare all’1.8% entro il 2021. Quanto al rapporto debito-Pil, esso è previsto in lentissima ma costante diminuzione, dal 130.9% del 2018 al 126.7% del 2021.

Sono inquietanti questi numeri? E’ giustificato il nervosismo dei mercati? Sono fondate le preoccupazioni della Commissione Europea e della Banca Centrale?

A mio parere a queste domande non esiste una risposta, ma ne esistono due molto diverse fra loro. La prima risposta è rassicurante: se questi numeri venissero rispettati, ovvero se le cose andassero precisamente come previsto, potremmo anche tranquillizzarci. Un ritmo di crescita dell’1.5% per tre anni non sarebbe granché, ma risulterebbe comunque superiore a quello medio degli ultimi 3 anni (1.2%). Un aumento del deficit dall’1.8% al 2.4% è semplicemente quel che avremmo dovuto aspettarci da qualunque governo che avesse scelto di limitarsi a non far scattare gli aumenti dell’Iva, ovvero di disinnescare la micidiale clausola di salvaguardia lasciata dai precedenti governi. Quanto alla riduzione del rapporto debito-Pil, è vero che se ne prevede una diminuzione di soli 4.2 punti in 3 anni, ma non si può non osservare che negli ultimi anni la diminuzione era stata ancora minore, per non dire irrisoria: appena 0.9 punti in un triennio, ossia meno di un quarto di quella messa nero su bianco dal governo gialloverde.

La seconda risposta che possiamo dare, invece, non è rassicurante per niente: i numeri della Nota di aggiornamento sono brutti non in sé, ma perché sono scritti sulla sabbia, e come tali non verranno creduti né dagli investitori, né dalle Agenzie di rating. Vediamo perché.

Una prima ragione è che la manovra non è affatto espansiva quanto si sente dire. E’ vero, sono stati annunciati 20 miliardi di benefici elettorali equamente divisi fra Lega e Cinque Stelle. Più esattamente 9 miliardi per il reddito di cittadinanza, 1 miliardo per i centri per l’impiego, in totale 10 miliardi in quota Di Maio. E poi 7 miliardi per andare in pensione anticipatamente, 1 miliardo per assumere più poliziotti, 2 miliardi per la flat tax per le partite IVA, in totale 10 miliardi in quota Salvini. Altri 1.5 miliardi sono per i truffati dalle banche, e 3.5 miliardi per aumentare gli investimenti pubblici. In tutto fa circa 25 miliardi, che si aggiungono ai 12 miliardi abbondanti necessari per sterilizzare l’Iva. Poiché l’aumento del deficit, dall’1.8% al 2.4%, serve a malapena a coprire il non-aumento dell’Iva, se ne deduce che gli ingenti aumenti di spesa pubblica (circa 23 miliardi) e le esigue riduzioni fiscali (circa 2 miliardi) dovranno essere finanziati con tagli di spesa e maggiori entrate, senza ricorrere a ulteriore deficit.

Su questo la Nota di aggiornamento è evasiva, e si capisce perché: per disporre di questi 25 miliardi elettorali (noi manteniamo le promesse!), che ahimé si aggiungono ai 12 miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva, Salvini e Di Maio dovrebbero fare una spending review piuttosto sanguinosa, nonché introdurre nuove tasse. Poiché difficilmente riusciranno a farlo nella misura necessaria, quel che è ragionevole attendersi è un deficit ben maggiore del 2.4% annunciato.

Non è tutto, però. Da quel che si riesce a capire fin qui, fra i provvedimenti che potrebbero finanziare le promesse elettorali vi sono ben pochi tagli di spesa (la Nota di aggiornamento li quantifica nello 0.2% del Pil, pari a 3.5 miliardi), mentre abbondano gli interventi cha aumentano il gettito fiscale: taglio delle cosiddette tax expenditures, ossia dei regimi fiscali agevolati; condoni e sanatorie, ribattezzati “pace fiscale”; inasprimento della tassazione sulle banche (con prevedibili gravi conseguenze sul credito a famiglie e imprese).

Ecco perché definire “espansiva” la manovra è abbastanza azzardato. Non solo gli investimenti pubblici aggiuntivi sono di entità assai modesta, non solo le nuove spese dovranno essere coperte da nuove entrate (si danno più soldi ad alcune categorie togliendone ad altre), ma alcune delle nuove entrate sono chiaramente dannose per la crescita (penso, in particolare, a quelle che graveranno sulle banche, ma anche alla cancellazione dei benefici fiscali settoriali). Davvero arduo pensare che da tutto ciò possa scaturire un impulso capace di accelerare la crescita dall’1 all’1.5%.

C’è anche una seconda ragione, tuttavia, che giustifica un certo pessimismo. Anche nel caso i numeri indicati nella Nota di aggiornamento non dovessero peggiorare nel tempo (come è sempre successo, con qualsiasi governo), anche nel caso il governo riuscisse a trovare coperture per tutte le spese che ha messo in cantiere, resterebbero due problemi non da poco: lo scetticismo dei mercati, che ha fatto imbizzarrire lo spread, e il rischio imminente di downgrading dei nostri titoli di Stato da parte delle Agenzie di rating, che potrebbe materializzarsi già alla fine di questo mese. Uno spread di 3-400 punti base e un declassamento dei nostri titoli di Stato credo proprio che non possiamo permetterceli, perché significherebbe tornare alla situazione del 2011, con conseguente nuovo collasso dell’economia.

Questo temo sia il vero pericolo per l’Italia, un pericolo che la Nota di aggiornamento finge di non vedere. Per capire quanto esso sia grave, però, dobbiamo smetterla di guardare solo allo spread dei nostri titoli di Stato rispetto ai soli titoli tedeschi, e guardare come i titoli italiani (e di altri paesi) si comportano rispetto a quelli degli altri paesi dell’Eurozona.

Ebbene, se si fa questo confronto (vedi grafico) si possono notare tre cose.

La prima è che ormai, Grecia a parte, siamo il paese dell’Eurozona di cui i mercati  meno si fidano: all’inizio di quest’anno, infatti, i rendimenti dell’Italia hanno superato quelli del Portogallo, ossia del paese (finora) più vulnerabile dopo la Grecia.

La seconda è che lo spread standardizzato, che tiene conto della nostra posizione relativamente a quella del nucleo dei paesi dell’Eurozona, è al suo massimo storico dal 2011.

La terza, forse la più inquietante, è che l’allarme dei mercati verso i conti pubblici dell’Italia non ha preso forma con la nascita del governo giallo-verde, bensì un anno e mezzo prima, più o meno in corrispondenza con la vittoria del “no” al referendum e la caduta del governo Renzi. Da allora, come mostra chiaramente il grafico, lo spread standardizzato ha cominciato a crescere, e lo ha fatto con impressionante regolarità, senza alcuno strappo o accelerazione, in parallelo alla discesa dello spread del Portogallo.

Spread standardizzato: Italia e Portogallo 2011-2018

Elaborazione Fondazione David Hume su dati Bloomberg e Investing

Anche se può recare qualche conforto agli esponenti dell’attuale governo, un simile andamento dovrebbe preoccuparci tutti moltissimo. Esso mostra, infatti, che la diffidenza dei mercati verso l’Italia ha un’origine più profonda e più remota del semplice insediamento di un governo euroscettico e populista. Essa deriva, più verosimilmente, dalla comparazione con le dinamiche dei conti pubblici negli altri paesi, e in particolare di quelli che hanno attraversato gravi crisi finanziarie: Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Cipro. In questi cinque paesi, i più fragili dell’eurozona, lo spread standardizzato, negli ultimi tre anni, ha mostrato una chiara tendenza alla diminuzione, cioè al miglioramento. In Italia no. In Italia, da circa 22 mesi, lo spread standardizzato continua a salire, inesorabilmente.

Un segnale per il governo, ma anche per l’opposizione, infantilmente convinta che prima tutto andasse bene, e solo ora i nostri conti pubblici siano diventati a rischio.  L’opposizione ha mille e una ragioni di stigmatizzare le inutili, anzi pericolosissime, esternazioni anti-europee dei nuovi venuti. Ma farebbe bene a interrogarsi anche sul proprio ruolo, perché le condizioni in cui ha lasciato il Paese sono una delle concause delle tensioni attuali.