Pd, difendere l’Europa non basta

Questa volta, per la prima volta da 40 anni, ossia da quando esiste il Parlamento europeo (1979), le elezioni europee saranno quel che sempre avrebbero dovuto essere e mai sono state: un confronto sull’Europa, le sue politiche, il suo futuro. Quanto all’Italia, il 26 maggio prossimo sarà un banco di prova decisivo per almeno due soggetti politici: il governo giallo-verde (ammesso che sia ancora in sella) e il Partito Democratico, l’unica forza di opposizione che riscuote ancora un consenso a due cifre (16%, secondo gli ultimi sondaggi).

Ma come si presenterà il Pd al cruciale appuntamento di maggio? Chi lo guiderà?

Qui la nebbia è totale. Per alcuni il Pd dovrebbe addirittura essere sciolto, per far spazio a una formazione politica nuova di zecca. Per altri il Pd dovrebbe aprirsi alla società civile e diventare il perno di una larga alleanza. Per altri ancora l’unico modo per scongiurare la dissoluzione dell’Europa è la nascita di un “fronte repubblicano”, da Tsipras a Macron. Riguardo alla leadership, tramontata a quanto pare l’ipotesi di una candidata donna, le possibilità vere al momento paiono solo tre: Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, Marco Minniti (se scioglierà la riserva); sempre che Carlo Calenda non ci ripensi, e scenda in campo pure lui.

Personalmente sono molto scettico sull’idea di un fronte europeista e anti-sovranista. L’ultima volta che la sinistra ha provato a coalizzarsi in un fronte è stato nel 1948, e sappiamo come è andata: trionfo della Dc (48%) e débâcle del fronte popolare, fermo al 31%. Per non parlare del paradosso che si produrrebbe oggi: visto che il popolo sta con Salvini e Di Maio, quello che vedremmo nascere sarebbe una sorta di “fronte anti-popolare”, concetto curioso e difficile da digerire.

In realtà, più che di formule vincenti, o capaci di limitare il disastro, quello di cui si sente la mancanza sono le idee. Dicendo “idee” non mi riferisco a minuziosi programmi di riforma, o ai soliti proclami di politica economica. No, quello che mi pare manchi completamente sono un bilancio onesto sugli errori commessi dalla sinistra (non solo Pd), e risposte chiare alle due domande su cui Lega e Cinque Stelle hanno sfondato: la richiesta di protezione da criminalità e immigrazione, e la richiesta di protezione economica.

Su questo l’attuale campo progressista mi pare balbetti, o si mostri già ampiamente diviso. Penso al caso delle occupazioni di case, o quello del sindaco di Riace. Una parte della sinistra (maggioritaria, suppongo) ritiene che, anche ove emergessero irregolarità e violazioni di legge, la buona causa in nome della quale sono state commesse assolva i loro autori. Quando una legge è sbagliata, e viola principi che la nostra coscienza (o la nostra interpretazione della Costituzione) ritiene fondamentali, è giusto ribellarsi, come sotto i regimi autoritari; una posizione, peraltro, abbastanza simile a quella della destra, quando per difendere gli evasori parla di “evasione di necessità”, giustificata da tasse troppo alte. Un’altra parte della sinistra pensa invece che, in un regime democratico, le leggi si rispettano, e se non funzionano si cerca di cambiarle. Analogo discorso si potrebbe fare sugli sbarchi: una parte del popolo di sinistra è per l’accoglienza senza se e senza ma, un’altra parte condivide la linea dura di Minniti, che Salvini ha un po’ spettacolarizzato ma che resta sempre la stessa: gli ingressi irregolari in Europa (e in Italia) debbono essere combattuti con determinazione.

Ma penso anche a un altro tema, quello della lotta alla povertà e alla disoccupazione. Una parte del popolo di sinistra trova meravigliosa l’idea del reddito di cittadinanza, e si duole soltanto che a pensarci siano stati i Cinque Stelle anziché il Pd. Un’altra parte non ritiene ancora persa la battaglia per creare nuova occupazione, e considera il reddito di cittadinanza come una misura assistenziale, da usare con cautela perché mina dalle fondamenta la civiltà del lavoro.

E ancora. Una parte del popolo di sinistra ritiene che la riduzione della pressione fiscale e contributiva sia un obiettivo sacrosanto, per stimolare la crescita, un’altra parte pensa che i nostri problemi li risolveremo solo con maggiori imposte sul reddito e sul patrimonio (secondo il celebre slogan del 2006: “far piangere i ricchi”). Una parte dell’elettorato progressista crede che il debito non sia un problema, e anzi sia necessario per far ripartire l’economia, un’altra parte pensa che sia un ingiusto fardello sulle future generazioni.

Si potrebbe continuare con gli esempi. Ma quello che voglio dire è solo questo: su queste divisioni i candidati alla guida del campo progressista tendono a non prendere posizioni nette, perché sanno che scontenterebbero una parte, una parte troppo grande, dei loro potenziali sostenitori. Il rischio è che, non essendo nella condizione di spiegare in modo chiaro se e come intendano dare risposte nuove alla domanda di protezione che ha portato al successo dei movimenti populisti, non trovino di meglio che unirsi in una santa alleanza a difesa dell’Europa e della moneta unica.

Sarebbe un disastro. Non perché Europa ed euro non siano risorse cruciali per il nostro futuro, ma perché quella è solo la cornice. E la cornice non basta, ci vuole un pittore che trovi il coraggio di riempire la tela.

Pubblicato su Il Messaggero del 20 ottobre 2018

 




Ritorno alla lira?

C’è una narrazione che i potenti di oggi cercano di imporre al Paese, e che per ora ha avuto un discreto successo. Più o meno suona così: noi ci siamo presentati davanti all’elettorato promettendo determinate cose, l’elettorato ci ha dato la maggioranza, quindi abbiamo non solo il diritto ma il dovere di fare quel che abbiamo promesso. Non solo: chiunque ci critici, così facendo nega al popolo il sacrosanto diritto di esercitare la sua volontà, liberamente espressa attraverso il voto.

Molto si potrebbe dire sull’idea di democrazia (e di opinione pubblica) implicita in questo ragionamento. Ad esempio che chi ragiona così disprezza la Costituzione, che come ha ricordato il presidente della Repubblica prevede esplicitamente meccanismi di delimitazione e distribuzione del potere, volti ad evitare l’instaurarsi di una “dittatura della maggioranza”.

Ma non è su questo che vorrei attirare l’attenzione. Quel che mi pare interessante domandarci non è se gli attuali governanti si muovano con il dovuto senso dello Stato e il necessario rispetto delle istituzioni, perché chiunque non sia accecato dalle proprie credenze politiche sa perfettamente che la risposta è: NO. Quel che a me sembra degno di discussione è semmai se sia vera, oppure no, la pretesa dei nuovi padroni del potere statale di rappresentare le istanze del popolo che li ha eletti. E’ vero o non è vero quel che sentiamo ripetere fino alla noia, ovvero che la “manovra del popolo” realizza finalmente le promesse?

Per quanto riguarda la promessa principale del Movimento Cinque Stelle, ossia il reddito minimo (impropriamente chiamato “di cittadinanza”), la risposta è: sì, forse fin troppo (10 miliardi). Se partirà senza aver riorganizzato i centri per l’impiego, e non terrà conto del livello dei prezzi, il cosiddetto reddito di cittadinanza di soldi ne distribuirà addirittura più di quelli che servono, almeno in certe aree (quelle in cui il costo della vita è molto sotto la media nazionale). Quindi Di Maio ha tutte le ragioni di essere soddisfatto. Ma per quanto riguarda la promessa principale di Salvini, ovvero la flat tax?

Qui è il disastro. La flat tax doveva costare 50 miliardi, se non di più: la “manovra del popolo”, invece, non introduce alcuna flat tax, e di miliardi non ne stanzia neppure uno (l’aliquota del 15% per le piccole partite Iva produrrà sgravi per 600 milioni, cioè per 0.6 miliardi). Non vorrei essere crudele, ma la realtà è questa: Di Maio porta a casa (al suo popolo, concentrato al Sud) più o meno il 70% del suo impegno più importante, Salvini porta a casa (al suo popolo, concentrato al Nord) circa l’1% del suo impegno più importante. Dopo aver ripetuto in tutte le salse, durante la campagna elettorale, che non ci sarebbero stati problemi di copertura, scopre improvvisamente che quei problemi sono enormi (perché la pace fiscale non manterrà le promesse) e quindi le tasse non si possono ridurre. E non è tutto: se ci prendiamo la briga di ricostruire tutte le voci di bilancio della manovra scopriamo che, rispetto al 2018, gli italiani dovrebbero pagare 19 miliardi di euro di tasse e contributi in più, di cui 8.1 previsti dalla manovra stessa, in quanto necessari per finanziare le nuove spese (reddito di cittadinanza e revisione della legge Fornero).

Quindi, tanto per cominciare, diciamo una cosa: non è vero che c’è un governo che ha ricevuto un mandato elettorale dal popolo, e che sta mantenendo le promesse. Semmai esistono due forze politiche popolari, una molto forte al Sud, l’altra al Nord, di cui la prima sta mantenendo la sua promessa economica principale (reddito di cittadinanza), mentre l’altra ha preferito mettere in stand by la sua (flat tax), forse pensando che – elettoralmente – potesse bastare intestarsi i respingimenti dei barconi e l’affondamento della Fornero.

C’è un altro motivo, ben più importante, per cui l’idea che questo sia il governo del popolo, che agisce in nome e nell’interesse del popolo stesso, mi lascia alquanto perplesso. Non mi riferisco qui al fatto che, secondo molti osservatori, saranno i ceti popolari e i giovani a pagare le conseguenze più nefaste della manovra del popolo. Questo è molto verosimile, ma lo dirà solo il tempo. Il punto che mi lascia perplesso è che questo governo non sta facendo nulla per ridurre il rischio di una crisi finanziaria, il cui esito potrebbe essere la nostra uscita dall’euro e il ritorno alla lira. E dicendo “non sta facendo nulla” uso un eufemismo, perché la realtà è che sta facendo di tutto per aumentare la tensione, quasi che cercasse l’incidente.

Ebbene, io penso che sia giunto il tempo di dire in modo netto e chiaro almeno tre cose. Primo, una larghissima e crescente maggioranza degli italiani (7 a 3, secondo un sondaggio Ipsos di pochi giorni fa), certamente molto più ampia di quella che ha votato Lega e Cinque Stelle, non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro: da questo cruciale punto di vista l’attuale governo è profondamente anti-popolare. Secondo, l’eventualità di una crisi finanziaria drammatica, che sfoci in un ritorno alla lira non è remota come pare ai più: una stima recente, basata sul prezzo dei Cds, assegna 24 probabilità su 100 all’eventualità di una “Italexit”. Terzo, se all’incidente si arrivasse, tutto si potrebbe dire tranne una cosa: che il nostro governo abbia fatto tutto il possibile per evitarlo.

E’ questo che è poco accettabile: continuare a dire che si vuole restare nell’euro, ma comportarsi come se si desiderasse arrivare all’incidente che ci costringerebbe ad uscirne.

Sarebbe il colmo: infliggere alla maggioranza degli italiani quel che non vogliono (il ritorno alla lira) e arrivarci in nome del popolo sovrano.




Manovra del popolo, l’azzardo gialloverde

Dopo la presentazione della Nota di aggiornamento al Def (Documento di Economia e Finanza) le cose sono un po’ più chiare. Sappiamo finalmente qual è la crescita del Pil che ci si attende per i prossimi 3 anni, sappiamo qual è il deficit pubblico programmatico, sappiamo qual è la traiettoria prevista per il rapporto debito/Pil.

In estrema sintesi, la Nota di aggiornamento ci dice che nel prossimo triennio la crescita sarà circa una volta e mezza quella prevista dai maggiori organismi internazionali (1.5% contro 1%), il deficit pubblico passerà dall’1.8% del 2018 al 2.4% dell’anno prossimo, per poi tornare all’1.8% entro il 2021. Quanto al rapporto debito-Pil, esso è previsto in lentissima ma costante diminuzione, dal 130.9% del 2018 al 126.7% del 2021.

Sono inquietanti questi numeri? E’ giustificato il nervosismo dei mercati? Sono fondate le preoccupazioni della Commissione Europea e della Banca Centrale?

A mio parere a queste domande non esiste una risposta, ma ne esistono due molto diverse fra loro. La prima risposta è rassicurante: se questi numeri venissero rispettati, ovvero se le cose andassero precisamente come previsto, potremmo anche tranquillizzarci. Un ritmo di crescita dell’1.5% per tre anni non sarebbe granché, ma risulterebbe comunque superiore a quello medio degli ultimi 3 anni (1.2%). Un aumento del deficit dall’1.8% al 2.4% è semplicemente quel che avremmo dovuto aspettarci da qualunque governo che avesse scelto di limitarsi a non far scattare gli aumenti dell’Iva, ovvero di disinnescare la micidiale clausola di salvaguardia lasciata dai precedenti governi. Quanto alla riduzione del rapporto debito-Pil, è vero che se ne prevede una diminuzione di soli 4.2 punti in 3 anni, ma non si può non osservare che negli ultimi anni la diminuzione era stata ancora minore, per non dire irrisoria: appena 0.9 punti in un triennio, ossia meno di un quarto di quella messa nero su bianco dal governo gialloverde.

La seconda risposta che possiamo dare, invece, non è rassicurante per niente: i numeri della Nota di aggiornamento sono brutti non in sé, ma perché sono scritti sulla sabbia, e come tali non verranno creduti né dagli investitori, né dalle Agenzie di rating. Vediamo perché.

Una prima ragione è che la manovra non è affatto espansiva quanto si sente dire. E’ vero, sono stati annunciati 20 miliardi di benefici elettorali equamente divisi fra Lega e Cinque Stelle. Più esattamente 9 miliardi per il reddito di cittadinanza, 1 miliardo per i centri per l’impiego, in totale 10 miliardi in quota Di Maio. E poi 7 miliardi per andare in pensione anticipatamente, 1 miliardo per assumere più poliziotti, 2 miliardi per la flat tax per le partite IVA, in totale 10 miliardi in quota Salvini. Altri 1.5 miliardi sono per i truffati dalle banche, e 3.5 miliardi per aumentare gli investimenti pubblici. In tutto fa circa 25 miliardi, che si aggiungono ai 12 miliardi abbondanti necessari per sterilizzare l’Iva. Poiché l’aumento del deficit, dall’1.8% al 2.4%, serve a malapena a coprire il non-aumento dell’Iva, se ne deduce che gli ingenti aumenti di spesa pubblica (circa 23 miliardi) e le esigue riduzioni fiscali (circa 2 miliardi) dovranno essere finanziati con tagli di spesa e maggiori entrate, senza ricorrere a ulteriore deficit.

Su questo la Nota di aggiornamento è evasiva, e si capisce perché: per disporre di questi 25 miliardi elettorali (noi manteniamo le promesse!), che ahimé si aggiungono ai 12 miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva, Salvini e Di Maio dovrebbero fare una spending review piuttosto sanguinosa, nonché introdurre nuove tasse. Poiché difficilmente riusciranno a farlo nella misura necessaria, quel che è ragionevole attendersi è un deficit ben maggiore del 2.4% annunciato.

Non è tutto, però. Da quel che si riesce a capire fin qui, fra i provvedimenti che potrebbero finanziare le promesse elettorali vi sono ben pochi tagli di spesa (la Nota di aggiornamento li quantifica nello 0.2% del Pil, pari a 3.5 miliardi), mentre abbondano gli interventi cha aumentano il gettito fiscale: taglio delle cosiddette tax expenditures, ossia dei regimi fiscali agevolati; condoni e sanatorie, ribattezzati “pace fiscale”; inasprimento della tassazione sulle banche (con prevedibili gravi conseguenze sul credito a famiglie e imprese).

Ecco perché definire “espansiva” la manovra è abbastanza azzardato. Non solo gli investimenti pubblici aggiuntivi sono di entità assai modesta, non solo le nuove spese dovranno essere coperte da nuove entrate (si danno più soldi ad alcune categorie togliendone ad altre), ma alcune delle nuove entrate sono chiaramente dannose per la crescita (penso, in particolare, a quelle che graveranno sulle banche, ma anche alla cancellazione dei benefici fiscali settoriali). Davvero arduo pensare che da tutto ciò possa scaturire un impulso capace di accelerare la crescita dall’1 all’1.5%.

C’è anche una seconda ragione, tuttavia, che giustifica un certo pessimismo. Anche nel caso i numeri indicati nella Nota di aggiornamento non dovessero peggiorare nel tempo (come è sempre successo, con qualsiasi governo), anche nel caso il governo riuscisse a trovare coperture per tutte le spese che ha messo in cantiere, resterebbero due problemi non da poco: lo scetticismo dei mercati, che ha fatto imbizzarrire lo spread, e il rischio imminente di downgrading dei nostri titoli di Stato da parte delle Agenzie di rating, che potrebbe materializzarsi già alla fine di questo mese. Uno spread di 3-400 punti base e un declassamento dei nostri titoli di Stato credo proprio che non possiamo permetterceli, perché significherebbe tornare alla situazione del 2011, con conseguente nuovo collasso dell’economia.

Questo temo sia il vero pericolo per l’Italia, un pericolo che la Nota di aggiornamento finge di non vedere. Per capire quanto esso sia grave, però, dobbiamo smetterla di guardare solo allo spread dei nostri titoli di Stato rispetto ai soli titoli tedeschi, e guardare come i titoli italiani (e di altri paesi) si comportano rispetto a quelli degli altri paesi dell’Eurozona.

Ebbene, se si fa questo confronto (vedi grafico) si possono notare tre cose.

La prima è che ormai, Grecia a parte, siamo il paese dell’Eurozona di cui i mercati  meno si fidano: all’inizio di quest’anno, infatti, i rendimenti dell’Italia hanno superato quelli del Portogallo, ossia del paese (finora) più vulnerabile dopo la Grecia.

La seconda è che lo spread standardizzato, che tiene conto della nostra posizione relativamente a quella del nucleo dei paesi dell’Eurozona, è al suo massimo storico dal 2011.

La terza, forse la più inquietante, è che l’allarme dei mercati verso i conti pubblici dell’Italia non ha preso forma con la nascita del governo giallo-verde, bensì un anno e mezzo prima, più o meno in corrispondenza con la vittoria del “no” al referendum e la caduta del governo Renzi. Da allora, come mostra chiaramente il grafico, lo spread standardizzato ha cominciato a crescere, e lo ha fatto con impressionante regolarità, senza alcuno strappo o accelerazione, in parallelo alla discesa dello spread del Portogallo.

Spread standardizzato: Italia e Portogallo 2011-2018

Elaborazione Fondazione David Hume su dati Bloomberg e Investing

Anche se può recare qualche conforto agli esponenti dell’attuale governo, un simile andamento dovrebbe preoccuparci tutti moltissimo. Esso mostra, infatti, che la diffidenza dei mercati verso l’Italia ha un’origine più profonda e più remota del semplice insediamento di un governo euroscettico e populista. Essa deriva, più verosimilmente, dalla comparazione con le dinamiche dei conti pubblici negli altri paesi, e in particolare di quelli che hanno attraversato gravi crisi finanziarie: Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Cipro. In questi cinque paesi, i più fragili dell’eurozona, lo spread standardizzato, negli ultimi tre anni, ha mostrato una chiara tendenza alla diminuzione, cioè al miglioramento. In Italia no. In Italia, da circa 22 mesi, lo spread standardizzato continua a salire, inesorabilmente.

Un segnale per il governo, ma anche per l’opposizione, infantilmente convinta che prima tutto andasse bene, e solo ora i nostri conti pubblici siano diventati a rischio.  L’opposizione ha mille e una ragioni di stigmatizzare le inutili, anzi pericolosissime, esternazioni anti-europee dei nuovi venuti. Ma farebbe bene a interrogarsi anche sul proprio ruolo, perché le condizioni in cui ha lasciato il Paese sono una delle concause delle tensioni attuali.




Una manovra coraggiosa?

A proposito della “manovra del popolo”

Il presidente del Consiglio ha definito “coraggiosa” la manovra del suo governo, che rifiuta di ridurre il deficit pubblico e anzi pianifica di mantenerlo per tre anni al 2.4% del Pil. I critici del governo giallo-verde, per parte loro, vedono nella manovra una sorta di svolta epocale, una specie di contro-riforma che capovolge la linea di prudenza adottata dai governi che lo hanno preceduto (Renzi e Gentiloni).

Mi permetto di dissentire radicalmente con entrambi. No, si possono scegliere mille aggettivi per definire questa manovra, ma “coraggiosa” no, quello non è l’aggettivo giusto. Nella lingua italiana un comportamento è coraggioso se comporta l’assunzione di un rischio per chi lo mette in atto, e solo per chi lo mette in atto. Se ti butti in un fiume in piena per salvare un bambino che sta annegando, stai compiendo un atto coraggioso. Ma se induci un tuo amico a fare un investimento che potrebbe anche fargli perdere metà del suo patrimonio, e magari pretendi anche una provvigione per i consigli che gli dai, non ti stai comportando in modo coraggioso, ma semmai in modo opportunista e irresponsabile.

Ora, comunque la si pensi sulla “manovra del popolo”, l’aggettivo giusto non è certo coraggioso. Non pretendo di stabilire quale sia l’aggettivo giusto, perché questo dipende dal giudizio che diamo sulle intenzioni dei nostri governanti e sulle conseguenze delle loro azioni. Ma la gamma degli aggettivi è tutta un’altra: “audace”, se pensiamo che anche loro corrano qualche rischio, “imprudente” se pensiamo che tutti corriamo dei rischi, “miope” se pensiamo che le conseguenze di lungo periodo siano negative per l’Italia, “suicida” se pensiamo che porterà (solo) alla caduta del governo, “incosciente” se pensiamo che porterà anche alla nostra rovina, “avventurista” se pensiamo che porterà alla catastrofe del Paese ma che “loro” troveranno il modo di salvarsi.

Ecco perché parlare di coraggio è del tutto fuori luogo. Coraggioso è un governo che, per il bene del Paese, mette in atto misure impopolari, e perciò corre, consapevolmente, il rischio di perdere il consenso. Una misura popolare, giusta o sbagliata che sia, non richiede alcun coraggio, perché il consenso lo alimenta. Ecco perché della “manovra del popolo” tutto si può dire, tranne che sia coraggiosa.

Detto questo, possiamo almeno ammettere che la manovra, giusta o sbagliata che sia, audace o incosciente, sia comunque una svolta radicale rispetto a quelle attuate dai passati governi?

Prima di provare a rispondere a questa domanda, vorrei far notare una cosa: la tesi della svolta epocale accomuna i critici più feroci e i difensori più accaniti dell’attuale governo. I critici considerano saggi e gloriosi gli anni dei governi Pd, i difensori del governo (specie i Cinque Stelle) non perdono occasione per dire che siamo entrati nella Terza Repubblica, e che ora – finalmente – tutto cambierà. In poche parole: il giudizio sul passato è opposto, ma l’idea di una rottura radicale con esso è perfettamente condivisa.

E’ su questa analisi comune che vorrei sollevare qualche dubbio. Io vedo tanta, tanta continuità con il passato, sia con quello recente sia con quello remoto. E mi conforta di non essere il solo a notarlo. Come non essere d’accordo, ad esempio, con Giorgia Meloni quando nota che, più che traghettarci nella terza Repubblica, Di Maio sta riesumando le peggiori pratiche della prima, quella dei Fanfani e dei Cirino Pomicino? E’ allora che la politica imparò a comprare il consenso con misure assistenziali (ricordate le baby pensioni? le false pensioni di invalidità?) che fecero esplodere il debito pubblico che ora soffoca l’economia e limita i margini di manovra della politica stessa. Ma non è solo il passato più remoto che ritorna. L’economista Roberto Perotti, per qualche tempo collaboratore del governo Renzi, ha ricordato che nei gloriosi anni del Pd (2013-2017) il disavanzo è sempre stato maggiore di quello programmato, e comunque superiore al 2.4% che ora tanto ci preoccupa. Altri hanno giustamente fatto notare che fu Renzi, appena un anno fa, a proporre di mantenere il disavanzo al 2.9% per ben 5 anni, contro il 2.4% (per 3 anni) dell’attuale governo.

Ma c’è molto di più e molto ancora. Si pensa giustamente che la fretta di Di Maio sul cosiddetto reddito di cittadinanza sia dettata dall’approssimarsi delle elezioni europee (maggio 2019), cui vuole arrivare con una misura-simbolo già in vigore, pur sapendo benissimo che quella misura non potrà che risolversi in pura assistenza finché i centri per l’impiego non saranno stati riformati, e la crescita non avrà acquistato vigore. Ma che cosa c’è di diverso rispetto agli 80 euro di Renzi, anche allora presentati come sostegno alla domanda, ma in realtà concepiti essenzialmente per vincere alle elezioni europee?

E la cosiddetta pace fiscale? Che cos’altro nasconde dietro l’eufemismo “pace” se non l’ennesimo condono, la solita sanatoria, di nuovo in perfetta continuità con la prima e la seconda Repubblica?

Per non parlare dell’orientamento generale della politica economica. Ci viene presentato come un cambio di rotta rispetto all’austerità che avremmo infruttuosamente praticato in questi anni. Ma la realtà è che in questa legislatura, lo ha ricordato più volte l’economista Veronica De Romanis, l’orientamento della politica economica è sempre stata espansivo, non restrittivo. Ancora una volta, la differenza con il passato è solo che, di una medicina che non ha funzionato (siamo tuttora ultimi in Europa per crescita del Pil), ora si prova ad aumentare la dose, anziché cambiare la medicina stessa. So che ricordarlo suscita incredulità (e qualche malumore), ma la realtà è che di austerità l’Italia ha fatto esperienza solo sotto il governo Monti, e l’austerità “buona” – quella che aggiusta i bilanci pubblici riducendo la spesa e tagliando le tasse – semplicemente non l’ha mai sperimentata, né con Berlusconi, né con Monti, né con Letta-Renzi-Gentiloni.

Ecco perché l’opposizione a questo governo è impotente, o addirittura si capovolge in consenso (è il caso della sinistra radicale, da sempre fautrice della spesa in deficit). La ragione è semplicemente che non c’è una differenza qualitativa vera con i governi precedenti, ma solo una differenza di grado, un “salto di imprudenza” mi verrebbe da chiamarlo, perché la medesima politica di prima ci viene somministrata in dosi più massicce, e quindi più rischiose.

Con questo non intendo dire che la politica economico-sociale di questo governo ci porterà necessariamente al disastro, o addirittura a uscire dall’euro. Questo non può saperlo nessuno, e l’opposizione che se ne proclama certa dà solo prova di isteria e di disfattismo. Quel che voglio dire è semplicemente che il cocktail che ci stanno somministrando è pericoloso, molto pericoloso. Non tanto perché il deficit programmato è al 2.4%, ovvero al medesimo livello degli ultimi anni. Ma perché quel deficit si accompagna a due ingredienti altamente infiammabili, se mi si consente l’immagine: una manovra sbilanciata dal lato della spesa, un drammatico deficit di credibilità, aggravato dall’umiliazione inflitta al ministro dell’Economia, uno dei pochi che un po’ di credibilità ce l’aveva.

Per questo, tutto possiamo pensare di questo governo, persino che le cose alla fine andranno bene (dopotutto nessuno ha la palla di vetro), ma su una cosa sarebbe meglio non autoingannarci: ci sono già stati parecchi danni per il bilancio pubblico, per i risparmiatori, per le imprese, e nulla assicura che non ve ne saranno altri, anche molto più gravi, quando dovessero aumentare le rate dei mutui e le banche stringessero i cordoni del credito. Insomma la “manovra del popolo” apre molte speranze, forse anche qualche opportunità reale, ma carica sul popolo stesso una notevole dose di incertezza e di rischio.

Questo è il motivo per cui possiamo chiamarla come vogliamo, ma non coraggiosa. Almeno finché continuiamo a pensare, con il dizionario della lingua italiana, che coraggioso è chi mette in pericolo sé stesso a beneficio degli altri, non chi il rischio lo fa correre a un intero paese e si comporta come se il rischio fosse zero. Proprio come, ironia della sorte, facevano le (giustamente) vituperate banche fallite, che vendevano obbligazioni ad alto rendimento senza avvertire i risparmiatori dei rischi che si assumevano.

 




Quel che non funziona nel reddito di cittadinanza

Intanto cominciamo a chiamare le cose con il loro nome: quello su cui si polemizza in questi giorni non è il reddito di cittadinanza, che non esiste in nessuna parte del mondo (quello dell’Alaska è un modesto bonus di meno di 200 dollari al mese), e in Svizzera è stato rifiutato dalla maggioranza dei cittadini in un recente referendum. Quello di cui si parla è semplicemente il reddito minimo, una misura universale di sostegno del reddito che esiste da anni in tutti i paesi dell’Unione europea (tranne che in Grecia), e in Italia è stata progressivamente, e molto limitatamente, introdotta dagli ultimi governo di centro-sinistra.

In linea generale il reddito minimo è un sussidio che viene erogato a chi non raggiunge una certa soglia minima di reddito, ed è legato al rispetto di alcune condizioni, tipo frequentare corsi di formazione, cercare attivamente un lavoro, essere disponibile ad accettare (ragionevoli) offerte di lavoro. La filosofia è sostanzialmente la medesima di quello che i Cinque Stelle si ostinano a chiamare “reddito di cittadinanza”, sicuramente un’espressione più glamour che “minimo vitale”, o “sussidio ai poveri”, o “social card”.

Ma quando si può dire che una misura di reddito minimo funziona bene?

Le condizioni base sono tre.

La prima è che la misura sia destinata ai poveri veri e propri, che sono solo i poveri assoluti, ossia chi fa parte di famiglie che non sono in grado di acquistare il cosiddetto “paniere di sussistenza”, ossia l’insieme minimo di beni e servizi che assicurano un’esistenza dignitosa. Se anziché essere agganciato alla povertà assoluta il reddito minimo venisse agganciato a quella relativa (guadagnare meno di metà della famiglia media) si assisterebbe al paradosso per cui il sostegno potrebbe aumentare anche quando non si è più poveri (solo perché l’economia cresce), o diminuire quando l’economia va male (perché l’asticella della povertà relativa si abbassa).

La seconda condizione è che la definizione di povertà assoluta adottata tenga conto del livello dei prezzi, che in un paese come l’Italia è molto differenziato, non solo fra Nord e Sud ma anche fra piccoli e grandi centri. Un punto questo su cui hanno più volte attirato l’attenzione l’Istituto Bruno Leoni, con la proposta di un “minimo vitale” agganciato al livello dei prezzi, e le associazioni del Terzo settore, con varie proposte e piani di lotta alla povertà.

La terza condizione è che il reddito minimo non disincentivi troppo la ricerca di un lavoro, e soprattutto non favorisca eccessivamente comportamenti opportunistici, come accade quando si rinuncia a un lavoro per non perdere un sussidio, o si lavora in nero per conservarlo. Questa è chiaramente la condizione più difficile da rispettare, perché, contrariamente a quanto talora si sente affermare, la capacità dei centri per l’impiego di trovare un lavoro ai percettori del sussidio non dipende tanto dalla efficienza e dalle risorse dei centri stessi, quanto dalla crescita dell’economia: se, come oggi in Italia, il Pil ristagna e ci sono quasi 3 milioni di disoccupati, è inevitabile che la maggior parte dei percettori del sussidio non riceva alcuna offerta di lavoro.

Vediamo ora le due principali proposte in campo, quella vigente del Pd (il Rei) e quella imminente dei Cinque Stelle. Il Rei, o “reddito di inclusione”, tendenzialmente rispetta la prima condizione (si rivolge ai poveri assoluti), ma non la seconda (non è agganciato al livello dei prezzi). Quanto alla terza (non disincentivare la ricerca di un lavoro), la rispetta solo perché il sostegno è molto modesto e probabilmente soggetto a troppe condizioni.

Il reddito minimo in versione Cinque Stelle, invece, non rispetta nessuna delle tre condizioni che abbiamo esposto. In primo luogo, perché si propone di sostenere chi è in posizione di povertà relativa, anziché i veri poveri, ossia chi è in condizione di povertà assoluta. In secondo luogo perché non tiene conto del livello dei prezzi, e quindi taglierà fuori buona parte dei poveri del centro-nord e dei grandi centri urbani. In terzo luogo perché non prevede alcun meccanismo per evitare che chi percepisce il sussidio, ben sapendo che i centri per l’impiego non saranno in grado di trovargli un lavoro, si adagi nella condizione di sussidiato, tanto più che il sussidio colma interamente la differenza fra il reddito percepito e la soglia di povertà relativa, posta vicina a 10 mila euro l’anno per un singolo, e oltre 20 mila per molte tipologie familiari.

Ma non è tutto. Nel reddito di cittadinanza in formato Cinque Stelle ci sono altre due insidie, di cui una è stata notata pochi giorni fa da Salvini, l’altra potrebbe essere notata da una sinistra fedele all’ideale dell’eguaglianza.

L’insidia-Salvini è che, se non si delimitano accuratamente i requisiti per godere del reddito minimo, circa un terzo delle risorse non andrebbero agli italiani, bensì agli immigrati, che – pur essendo l’8% della popolazione, sono il 30-35 % dei poveri. Può essere giustissimo sostenerli (non siamo per l’integrazione?), ma in quel caso non sarebbe semplicissimo spiegarlo a coloro cui si è raccontato che spendiamo troppi soldi per l’accoglienza.

L’insidia egualitaria, di cui stranamente né il Pd né Leu si sono ancora accorti, è che se i Cinque Stelle riuscissero a varare il reddito minimo secondo le linee del loro disegno di legge, l’effetto sarebbe una crescita clamorosa delle diseguaglianze negli strati medio-bassi della popolazione. Tutto infatti lascia prevedere che, nel giro di pochi anni, a una minoranza di poveri che lavorano duramente e galleggiano intorno alla soglia di sussistenza, si affiancherebbe un esercito di poveri che percepiscono un reddito decoroso ma, non per colpa loro bensì a causa di un mercato del lavoro asfittico, possono permettersi di non lavorare.

Ma forse non dobbiamo stupirci troppo. Dopotutto siamo già abituati a una sinistra che fa la destra, non sarà così difficile abituarci a una destra che fa la sinistra. Sì, perché le ragioni dell’equità, in questo caso, non le difende la presunta sinistra dei Cinque Stelle, ma la presunta destra della Lega, l’unica forza che sembra aver intuito il lato oscuro del cosiddetto reddito di cittadinanza.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 22 settembre 2018