Un futuro senza lavoro?

Uno spettro si aggira sulle economie occidentali: lo spettro della scomparsa del lavoro.

Spaventati dal progresso tecnologico, dall’avanzata dell’automazione, dai successi dell’intelligenza artificiale, dalla crescita senza precedenti delle reti di comunicazione, sono sempre più numerosi gli osservatori e gli analisti che profetizzano la nascita di una società completamente diversa da quelle del passato. E se alcuni cercano di vedere il lato positivo di questi processi, immaginando un’umanità liberata, in cui l’ozio creativo prende il posto del duro lavoro, più numerosi sono quanti sottolineano il lato distruttivo, per non dire catastrofico, di questi processi. E’ anzi diventato una sorta di spietato esercizio contabile quello di calcolare quanti e quali tipi di lavoro sono destinati a scomparire nel giro di 10, 20, 30 anni, travolti dal progresso tecnico e organizzativo.

E poiché il sospetto che si sta facendo strada è che il numero di posti di lavoro distrutti non sarà, come in passato, compensato da altrettanti posti di lavoro di tipo nuovo, c’è chi comincia a domandarsi: se i posti saranno sempre di meno, e il lavoro diventerà un attributo di pochi eletti (o sfortunati), quale sarà il destino di tutti gli altri? Che cosa faranno, ma soprattutto come si manterranno, coloro che non hanno un lavoro?

E’ in questo contesto che, sempre più spesso, viene evocata la necessità di un “reddito di base”, talora qualificato anche come universale, incondizionato o di cittadinanza (nulla a che fare con quello dei Cinque stelle, che è una normalissima forma di reddito minimo: quanto ben congegnata lo vedremo solo fra 2-3 anni). Esiste addirittura un network di università e centri studi che di reddito di base si occupa da oltre trent’anni, cercando di sensibilizzare sul tema opinione pubblica e studiosi (si chiama BIEN, ossia Basic Income Earth Network). L’idea è tanto semplice quanto difficile da realizzare: fornire a tutti, ricchi e poveri, un minimo vitale permanente e incondizionato, in modo da non scoraggiare la ricerca di un lavoro (se il sussidio è per gli inoccupati, il timore di perdere il sussidio può scoraggiare la ricerca di un’occupazione, o indurre a cercare solo lavori in nero).

Come si vede, si tratta di un modo di raccontare i problemi del mercato del lavoro molto diverso dagli approcci classici. Nella tradizione socialista e socialdemocratica l’obiettivo fondamentale della politica economica è ridurre al minimo al disoccupazione, offrendo un lavoro a tutti (è il mito della “piena occupazione”). Nella tradizione liberale si dà per scontato che non tutti riescano, anche impegnandosi, a mantenersi con il proprio lavoro, e quindi si caldeggia un qualche tipo di sostegno economico per chi è rimasto indietro (imposta negativa, sussidi ai poveri). Ma né gli uni né gli altri partono dal timore che l’era del lavoro sia destinata a finire, e che quindi diventi inevitabile erogare un reddito a tutti.

Nei fautori del reddito di base, invece, la profezia di una drastica contrazione dei posti di lavoro sembra svolgere un ruolo cruciale. La cosa curiosa, tuttavia, è che l’evidenza empirica a sostegno di questa profezia è quanto mai frammentaria, aneddotica, per non dire evanescente. E’ anche possibile, naturalmente, che fra 20 o 30 anni ci troveremo a constatare la scomparsa di milioni di posti di lavoro, nonché una contrazione complessiva del tasso di occupazione. Ma nel frattempo, che cosa dicono i dati? Quali sono le tendenze in atto nelle economie avanzate o relativamente avanzate? Si può affermare, ad esempio, che dopo la lunga crisi iniziata nel 2007-2008 il tasso di occupazione è oggi più basso di quello di una decina di anni fa?

Nel caso dell’Italia la risposta è purtroppo affermativa: fra il 2007 e il 2017 (ultimo anno per cui sono disponibili dati completi), il tasso di occupazione è diminuito. E lo stesso vale per altri paesi colpiti da violente crisi finanziarie, come la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, Cipro, ma anche per paesi più solidi come Norvegia e Stati Uniti. Se però guardiamo al complesso dei paesi avanzati (appartenenti all’Oecd o all’Unione Europea) il quadro che ci si presenta è ben diverso. Su 41 paesi avanzati, sono solo 9 quelli in cui il tasso di occupazione è diminuito, e sono ben 29 (più del triplo!) i paesi in cui è aumentato (nei restanti 3 paesi il tasso è il medesimo di 10 anni fa). E fra i 29 paesi che hanno aumentato l’occupazione ben 12 appartengono all’Eurozona. Questo significa, in sintesi, che la teoria secondo cui, nelle società avanzate, sarebbe in atto una tendenza a distruggere più posti di lavoro di quanti se ne creino, è sostanzialmente incompatibile con i dati.

Di qui, forse, una lezione. Può anche darsi che, in certi paesi, ci si debba prima o poi rassegnare a garantire un reddito a un esercito di inoccupati, che altrimenti non avrebbero di che sostentarsi. Quel che non possiamo fare, tuttavia, è considerare questa scelta, che è tutta politica, come una sorta di scelta obbligata, conseguenza ineluttabile del progresso tecnico o dell’iper-modernità divoratrice di posti di lavoro. No, la realtà è che nella maggior parte dei paesi avanzati si è riusciti, a dispetto del progresso tecnico e della lunga crisi del 2007-2013, a creare più posti di lavoro di quanti se ne perdevano. Se qualche paese è rimasto indietro, è solo a sé stesso (e all’inadeguatezza della sua classe dirigente), che deve guardare.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 2 febbraio 2019



Fronte europeista, è una buona idea?

Così, pare che alle prossime elezioni europee la sinistra non sarà rappresentata, come al solito, dal Pd e dai suoi partiti satelliti. Al posto dei simboli di partito, sulla scheda elettorale troveremo un simbolo nuovo, che cercherà di rappresentare il campo delle forze progressiste e europeiste, unite dalla volontà di difendere il “progetto europeo”, e fermare l’avanzata delle forze sovraniste e illiberali che lo starebbero mettendo a repentaglio.

L’idea di una lista unica progressista, o di un “fronte repubblicano” che fermi la “deriva populista”, circola da molti mesi nel mondo della sinistra, ed ora ha ricevuto una sorta di codificazione nel manifesto che Carlo Calenda ha lanciato qualche giorno fa, raccogliendo in pochi giorni oltre 100 mila firme. Calenda è uno dei migliori politici in circolazione in Italia, e il suo manifesto è pieno di affermazioni ragionevoli e di idee interessanti, anche se – purtroppo – espresse nel consueto linguaggio legnoso dell’intellighenzia di sinistra.

Tutto bene, dunque? E’ una buona idea, questa di un fronte anti-populista che superi le divisioni del campo progressista?

Temo di no, e vorrei spiegare perché. La prima ragione di perplessità è che, a dispetto delle intenzioni, il manifesto del fronte progressista sarà percepito come un progetto conservatore: in politica, specie al giorno d’oggi, quel che conta non è quel che effettivamente si dice e si pensa, ma come quel che si dice e si pensa si deposita nel cervello di chi ascolta. Ebbene, se ci mettiamo da questa prospettiva, non ci vogliono nozioni particolarmente sofisticate di psicologia della percezione per rendersi conto che la gente non crederà, non potrà credere, al racconto del manifesto-Calenda. Il manifesto sostiene che le forze populiste rischiano di farci uscire dall’Europa e dall’euro, e che “noi”, i progressisti democratici, invece vogliamo fermamente restare in Europa, sia pure cambiandone alcune regole di funzionamento. Ma nelle menti di chi vota il messaggio suona diverso. La gente non pensa che il governo giallo-verde voglia farci uscire dall’Europa e dall’euro, e quindi,  quando sente i progressisti accalorarsi a difesa del “progetto europeo”, traduce così: i populisti-nazionalisti-sovranisti l’Europa vogliono cambiarla davvero, i progressisti invece no, a loro l’Europa va bene così com’è, o con pochi ritocchi.

Ed è sterile accanirsi sulle parole, affannarsi a specificare che anche noi, in realtà, vogliamo cambiare profondamente le cose, eccetera eccetera. Se credi che la posta in gioco, la vera linea di frattura, sia fra europeisti e sovranisti, allora hai già perso la sfida: perché l’opinione pubblica si è convinta che l’Europa così com’è non funziona per niente, e non crede che l’alternativa sia fra stare dentro e stare fuori, ma semplicemente fra chi vuole cambiare radicalmente le cose e chi si accontenta di un timido restyling. E, sull’Europa, lo scetticismo dell’opinione pubblica è perfettamente fondato. Sono troppe le scelte sbagliate del passato, sono troppe le regole che non hanno funzionato: eccesso di regolazione del mercato interno, insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui quella di un fronte europeista, che si presenta alle elezioni con una lista unitaria, mi pare un’idea tanto generosa quanto infelice. Ed è che se c’è una cosa su cui tutti gli studiosi di cose elettorali concordano, perché è un risultato condiviso di centinaia di studi indipendenti, è che in Italia le fusioni fra partiti e sigle politiche non portano più voti ma ne portano di meno: il tutto è di meno della somma delle parti. E’ successo nel 1948, quando il fronte democratico-popolare (comunisti e socialisti insieme) uscì a pezzi nello scontro con la Dc, ma si è ripetuto in innumerevoli occasioni successive, nella prima come nella seconda Repubblica: ogni volta che hanno unito le loro forze, Psi e Psdi, così come Pri e Pli, così come Ds e Margherita, hanno sempre registrato una contrazione del consenso elettorale.

Certo, si può pensare che oggi la situazione sia diversa e speciale, e che il problema dei progressisti sia di inventarsi qualcosa, un simbolo, uno slogan, un mito, per far ritornare all’ovile chi si è rifugiato nell’astensione, o ha provato a punire il Pd votando Cinque Stelle (al Sud) o Lega (nel centro-Nord). A questo, a rimotivare un elettorato deluso e frastornato, servirebbe l’immissione di un nuovo simbolo, un simbolo unificante, nell’arena politica.

La mia sensazione è che questa sia un’illusione, frutto di una radicale incomprensione di quel che è successo il 4 marzo. Il popolo di sinistra che ha votato Lega e Cinque Stelle lo ha fatto per il semplice motivo che l’offerta del Pd non copriva né la domanda di sicurezza sociale (migranti) né quella di sicurezza economica (povertà). Lo spazio elettorale della sinistra si è ridotto semplicemente per questo: a sinistra, il 4 marzo, non era dato osservare né un partito credibile sul tema dell’immigrazione irregolare, né un partito credibile sul tema della povertà. Oggi, da questo punto di vista, nulla è cambiato: il mancato accordo con i Cinque Stelle ha certificato che per il Pd la priorità è l’occupazione, non il sostegno al reddito; la fredda accoglienza della candidatura di Minniti alla segreteria del partito ha certificato che per il Pd la priorità sono i diritti dei migranti, non la sicurezza dei cittadini.

Non voglio, con questo, entrare nel merito di queste scelte, su cui ognuno ha le proprie opinioni. Quel che voglio far notare è solo questo: l’offerta politica del campo progressista è oggi drammaticamente ristretta rispetto alla varietà di domande che salgono dall’elettorato. Per cogliere questa varietà, di partiti di sinistra ne occorrerebbero almeno un paio, forse addirittura tre. Non certo una lista unitaria che, per non turbare le varie sensibilità (e i vari candidati alla segreteria del Pd), sarà inevitabilmente costretta a tenersi sulle generali, lasciando ancora una volta a Lega e Cinque Stelle il compito di offrire all’elettorato progressista più eterodosso quello che né il Pd né una lista genericamente europeista sembrano in grado di offrirgli.




Il video su Battisti, solo colpa della politica?

La gestione del caso Battisti, con tanto di video che umilia il detenuto e mette a rischio l’incolumità degli agenti che lo hanno catturato, non ha nessuna giustificazione. E’ pura spazzatura politica, un gesto che squalifica chi lo ha compiuto e avvilisce chi ancora crede in cose come lo Stato di diritto, il senso delle istituzioni, il valore della sobrietà e della misura. Aggiungo che trovo incredibile che, sui media, già si parli di benefici e sconti di pena, come se una latitanza di 37 anni non fosse già, di per sé, uno sconto di pena più che soddisfacente. Ed è altresì vero che, nonostante alcuni precedenti imbarazzanti (ricordate le foto del detenuto Enzo Tortora?), nulla di simile si era mai visto in Italia.

Detto questo, però, non riesco a non farmi una domanda: lo spettacolo che ci è stato offerto in questi giorni va messo interamente in conto alla politica, al suo imbarbarimento, alla sua degenerazione in salsa populista?

O dobbiamo registrare che, rispetto anche solo a 10 anni fa, è il nostro mondo che è completamente cambiato? O, per dirla in modo provocatorio: non sarà che la politica si limita a mostrarci, nelle sue conseguenze estreme, quel che un po’ tutti stiamo diventando?

Non so se ci avete mai fatto caso ma, da qualche tempo, nelle nostre vite si sta installando un rapporto del tutto nuovo fra l’esperienza e la sua condivisione. Fino ai primi anni del secolo scorso la maggior parte di noi faceva quel che faceva per i motivi più diversi e poi – solo poi ed eventualmente – decideva che qualcosa di quel che aveva fatto meritava di essere condiviso. Una piccola frazione della nostra esperienza poteva oggettivarsi in uno scritto, in una foto, in un video, in un racconto, il resto restava privato, in disparte, irrilevante, o semplicemente non abbastanza rilevante da avanzare la pretesa di essere diffuso, socializzato, o gridato al mondo. Oggi questo schema è capovolto: facciamo determinate esperienze per poterle condividere, o per suscitare ammirazione e invidia negli altri. E quel che non possiamo condividere, o non ci permette di ostentare noi stessi, ci appare per ciò stesso irrilevante, banale, noioso. E c’è persino chi lo teorizza: quando la povera Tiziana Cantone si suicidò per le sue foto hard fatte circolare in rete, ci fu anche chi ebbe il becco di spiegare che fare sexting (mettere in rete foto audaci di sé stessi, o dei propri rapporti sessuali) fosse “assolutamente normale”, qualcosa che poteva apparire stonato solo a retrogradi e bacchettoni incapaci di sintonizzarsi con lo spirito dei tempi.

Accade così che ognuno di noi sia non solo indotto a fare soprattutto e prima di tutto quel che potrà condividere, ma anche continuamente invaso, quasi sopraffatto, dalle esperienze altrui, per lo più via internet: foto, messaggini, mail, pubblicità, video, app, quasi sempre banali, seriali, per lo più significative solo per il mittente. Voglio dire che mettere in rete sé stessi è diventato quasi un riflesso automatico. Pensare sé stessi come autori di una sceneggiatura, nonché registi di una pièce che dovrà avere la massima audience, è diventata una sorta di seconda natura. Possiamo stupirci che i politici sentano il medesimo impulso? Possiamo illuderci che qualcosa come il decoro, il buon gusto o il senso delle istituzioni li possa frenare?

Dopo tutto la loro vita e le loro gesta sono infinitamente più rilevanti delle nostre, e la loro sete di consenso è infinitamente più insaziabile delle nostre quotidiane pulsioni. Questo certamente non li giustifica e non li assolve, ma ce li mostra più vicini a noi stessi di quanto siamo disposti ad ammettere.

Né si tratta solo del cattivo gusto, dell’invadenza, che sono impliciti in ogni eccesso di condivisione. Ci stupiamo del fatto che i politici si insultino, trattino il nemico come avversario, cerchino di sopraffare ogni interlocutore che non li asseconda. Ma forse dovremmo riflettere sul fatto che la stessa “volgarità di parola e di pensiero”, come la chiama Enrico Letta nel suo ultimo libro (Ho imparato, Il Mulino), è onnipresente: non solo negli haters, gli odiatori di professione che infestano la rete, ma anche nei media: trasmissioni radiofoniche scientemente costruite sul turpiloquio e il disprezzo, conduttori televisivi che aizzano i politici l’uno contro l’altro, dibattiti in cui c’è spazio solo per chi è capace di sopraffare l’interlocutore.

A tutto questo ci siamo abituati, al punto che non ce ne accorgiamo più, lo consideriamo naturale, fisiologico. Forse ci diverte persino. Per questo la sacrosanta indignazione di tanti commentatori per la strumentalizzazione del ritorno di Battisti da parte del governo giallo-verde è destinata a restare lettera morta. Indignati con la politica, hanno perso la capacità di vedere l’abisso in cui è caduta la vita quotidiana al tempo della condivisione. Eppure è di lì che è giocoforza partire: solo quando cose come insulti, volgarità, sexting, ostentazione, sciatteria avranno smesso di apparirci cose “normalissime”, diventeremo capaci di vedere a occhio nudo, senza editorialisti che ce lo spiegano, il degrado cha affligge la politica e le istituzioni.

 




Dopo le Europee. Come potrebbe cambiare il sistema politico italiano

Sono sempre di meno, ormai, i politici e gli osservatori che pensano (o sperano) che le tensioni fra Lega e Movimento Cinque Stelle possano condurre a una rottura prima delle elezioni Europee del prossimo maggio. Ed è logico: ormai si è capito che le scintille fra Salvini e Di Maio servono solo ad occupare la scena del circo mediatico, un gioco cui purtroppo il mondo dell’informazione, specie televisiva, ha difficoltà a non prestarsi.

La convinzione che il governo gialloverde, dopo aver felicemente superato lo scoglio della finanziaria, durerà almeno fino a maggio, si accompagna tuttavia alla convinzione opposta per il dopo-maggio: ben pochi sono disposti a scommettere che, incassati i consensi che saranno riusciti a incamerare alle Europee, non prevalga la tentazione di cambiare gioco. Vale per Salvini, cui converrebbe tornare al voto nella speranza di raddoppiare i seggi in Parlamento, ma vale forse anche per Di Maio, che potrebbe prima o poi dover constatare che l’abbraccio con la Lega gli costa troppo in termini di voti.

La vera incertezza che aleggia sulla politica italiana, su cui forse sarebbe il caso di cominciare a riflettere, è come si posizionerebbero le forze politiche nel caso di un ritorno alle urne. Qui le possibilità paiono essere solo due, diversissime fra loro.

La prima è che, dopo un secolo di conflitti fra destra e sinistra, si assista invece a una competizione fra le forze della chiusura, anti-Europa, anti-immigrati, anti-globalizzazione, e le forze dell’apertura, più o meno timidamente pro-Europa, pro-immigrati, pro-mercato. Vedremmo, in quel caso, da una parte i due partiti di governo, magari spalleggiati da Fratelli d’Italia, dall’altra Pd e Forza Italia, verosimilmente alleati con una qualche lista civica nazionale, necessaria per portare sangue elettorale nelle esauste vene dei due partiti egemoni della seconda Repubblica.

La seconda possibilità, che per parte mia ritengo leggermente più probabile, è che si assista a una rinascita in grande stile del bipolarismo destra-sinistra, anche se si tratterebbe di un bipolarismo radicalmente nuovo, in quanto trainato dalle estreme. A destra, Forza Italia dovrebbe rassegnarsi a fare la ruota di scorta della ruspa salviniana, a sinistra – a meno di un improbabile ritorno all’ovile dei voti ceduti al Movimento Cinque Stelle – il Pd si troverebbe costretto ad allearsi con il partito di Grillo, nello scomodo ruolo di puntello e moderatore delle bizze pentastellate. Dopo decenni di bipolarismo egemonizzato dalle forze moderate (Pd e Forza Italia), passeremmo a un nuovo bipolarismo, egemonizzato dalle forze estreme.

Credo che dove si andrà a parare dipenderà molto dall’esito delle elezioni europee. Un grande successo delle forze populiste e sovraniste potrebbe far prevalere il primo scenario, strutturando il conflitto politico intorno alla contrapposizione fra populisti-sovranisti e moderati-europeisti, con conseguente trasformazione del “contratto” fra Lega e Cinque Stelle in un’alleanza organica. Un successo delle forze tradizionali, invece, potrebbe riportare qualche vigore e qualche attualità alla dialettica fra destra e sinistra.

C’è però anche un altro fattore che potrebbe contribuire a far prevalere uno dei due scenari a scapito dell’altro, ed è l’evoluzione politica del Pd. Un Pd aperto all’alleanza con il Movimento Cinque Stelle renderebbe più facile una rinormalizzazione del conflitto politico, favorendo la ricompattazione del fronte di destra (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia). Un Pd ostile ai Cinque Stelle gli lascerebbe aperta un’unica strada, quella della creazione di un fronte moderato, o liberal-democratico, o riformista (a seconda di come preferiamo etichettarlo), pronto ad alleanze con liste nuove ma anche con gli ex-nemici di Forza Italia.

Queste due prospettive, secondo molti, sono il non detto del congresso del Pd, che vedrà sfidarsi Zingaretti, il più disponibile a un’alleanza con i Cinque Stelle, e il duo Martina-Richetti, che paiono invece escluderla. Forse, a meno di due mesi dalla data del voto che porterà a scegliere il nuovo segretario del partito, non sarebbe male che i candidati alla segreteria del partito scoprissero le carte. Non solo perché chi andrà a votare per un determinato candidato ha diritto di sapere quali sono le sue reali intenzioni, ma perché la strada che il Pd vorrà intraprendere non sarà priva di conseguenze sul nostro sistema politico, e come tale interessa tutti, non solo gli elettori del Pd.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 gennaio 2019



Sicurezza, tasse e reddito di cittadinanza. Intervista a Luca Ricolfi

Domanda. Molti sindaci, da Leoluca Orlando di Palermo a Luigi De Magistris di Napoli a Federico Pizzarotti di Parma, sono in rivolta contro il governo Conte: non applicheranno il decreto Sicurezza. E ci sono regioni pronte a fare ricorso alla Consulta contro la legge. E’ in atto uno scontro istituzionale? O siamo in campagna elettorale?

Risposta. Tutti e due, direi, però penso che i ricorsi ci sarebbero anche senza elezioni imminenti. La sinistra ha bisogno di identità, e fare la parte dei buoni sul problema dei migranti è un boccone troppo ghiotto per rinunciarvi.

D. Eppure, vista la batosta elettorale del 4 marzo, il buonismo verso i migranti ha dimostrato di non pagare.

R. Ma la classe dirigente di sinistra è come il cane di Pavlov: di fronte a certi stimoli non sa resistere, anche se l’esperienza recente dovrebbe averle insegnato che la polpetta migratoria è avvelenata, almeno sul piano del consenso elettorale.

D. Una delle critiche avanzate è che bloccare i procedimenti di regolarizzazione, come fa il decreto Salvini, produrrà solo maggiori problemi anche in termini di sicurezza delle città, con migliaia di sbandati irregolari per strada. Non c’era un’alternativa?

R. Sì, forse c’era, si poteva adottare una filosofia più berlusconiana, ovvero: regolarizziamo chi già c’è, sperando di essere in grado di fermare i flussi futuri.

Ma un minimo di onestà intellettuale dovrebbe condurre a riconoscere che soluzioni semplici non ce n’erano e non ce ne sono, se è vero che gli irregolari sono più di 500 mila e per la maggior parte di essi non sarà possibile rimpatriarli.

D. Perché è così difficile risolvere il problema?

R. Le ragioni per cui non ci sono soluzioni semplici a mio parere sono tre. Le soluzioni papiste-buoniste hanno dimostrabilmente l’effetto di aumentare la pressione migratoria: il Papa può infischiarsene, lo Stato italiano no. Le soluzioni leghiste-cattiviste invece aumentano il numero di irregolari non rimpatriabili, non occupabili, non integrabili, con conseguente aumento della criminalità “per necessità”, ovvero per mancanza di alternative. E poi, per ragioni che mi sono incomprensibili, né la destra né la sinistra sono disponibili a riformare il sistema penale in modo da mandare (e tenere) in carcere i delinquenti abituali.

D. Matteo Salvini è sempre in una botte di ferro?

R. Sul piano logico, Salvini andrebbe criticato anche da destra, non solo da sinistra. La gente non ce l’ha con gli immigrati, ma con la criminalità: se fai un decreto che aumenta il numero di sbandati, e continui con la prassi di questi anni, per cui consenti di stare a piede libero a chi è stato arrestato anche 10 o 20 volte, la gente prima o poi capisce che il cane salviniano abbaia ma non morde.

D. La rivolta dei politici locali è diventata l’unica, al momento, voce di opposizione che è stata capace di farsi sentire nel Paese. Una traccia su cui costruire un’opposizione di governo e su cui rifondare il Pd?

R. La rivolta dei sindaci e dei governatori, finché non pretende di calpestare le leggi dello Stato e si limita alla denuncia politica e alle iniziative giudiziarie, non solo è perfettamente legittima, ma è sacrosanta: sono loro che, sui rispettivi territori, pagheranno l’aumento degli sbandati e dei “criminali per necessità”.

Detto questo, il trapianto di questa lotta sul corpaccione del Pd, nel disperato tentativo di rianimarlo rispolverando l’imperativo categorico dell’accoglienza, mi pare un autogoal perfetto, perché il grosso dell’elettorato, compresa una cospicua porzione di quello progressista, potrà sentirsi dalla parte dei sindaci solo se la critica a Salvini verrà condotta in nome della sicurezza, non in nome dell’accoglienza.

D. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, è in pole per la segreteria del Pd, il partito che sta organizzando potrà trarre giovamento dal dossier immigrazione nella campagna elettorale per le Europee?

R. Non credo proprio, anche perché su questo terreno l’unico credibile, l’unico che avrebbe potuto parlare di sicurezza da sinistra – cioè Marco Minniti – si è fatto da parte. Con Minniti il Pd avrebbe potuto tentato di recuperare l’elettorato che si è salvinizzato per disperazione, con Zingaretti invece questo elettorato non potrà tornare all’ovile.

D. A suo avviso, che Pd si profila sotto la guida di Zingaretti?

R. Il gioco mi sembra chiaro: consegnando il Pd a Zingaretti si cercherà di ricostituire una sinistra plurale, uliveggiante, e aperta ad alleanze con “la parte migliore dei Cinque Stelle”. Una sinistra, in altre parole, che alle solite divisioni fra riformisti e vetero-sinistri, aggiungerà la nuova frattura fra l’anima Pd e l’anima Cinque Stelle.

D. Dalle parti del Pd in tanti sperano che su temi come l’immigrazione il Movimento5stelle possa spaccarsi confluendo in un’area di opposizione comune con tutta la sinistra.

R. Mah, ne dubito. Il Movimento Cinque Stelle si può riportare nell’alveo della sinistra solo rilanciando lo statalismo e l’assistenzialismo, magari conditi con un po’ di giustizialismo e moralismo anti-casta. Sugli immigrati, la base Cinque Stelle la pensa come Grillo: prima gli italiani.

D. Immigrazione, sbarchi, sicurezza sono ancora il cavallo di battaglia vincente di Salvini alle Europee?

Sì, penso che Salvini lì sarà ancora costretto a battere, avendo clamorosamente tradito la promessa principale, ovvero la flat tax per tutti. E potrebbe anche funzionare, almeno fino a settembre dell’anno prossimo, quando l’emergenza sbarchi verrà di nuovo spenta dal sopraggiungere dell’inverno e delle mareggiate. Poi, dall’autunno 2019, se sarà ancora al governo, il leaer dela Lega dovrà inventarsi qualcos’altro, perché gli italiani sono volubili e si stufano presto.

D. E il cavallo di battaglia dei grillini?

R. Per il Movimento Cinque Stelle la posta in gioco è una sola: o riescono a far funzionare in modo non disastroso il reddito di cittadinanza, oppure anche per loro arriverà il calo di consensi.

Il problema politico interessante è chi intercetterà i voti gialloverdi quando gli italiani si saranno stufati di Salvini e Di Maio. La mia impressione è che gli sbocchi possibili non siano né il Pd né Forza Italia, ma solo l’astensione o un partito nuovo di zecca, dotato di ampi mezzi economici e culturali.

 Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata il 9 gennaio 2019 su Italia Oggi