Lockdown a rilento

C’è un certo strabismo, ultimamente, nella comunicazione sul Covid. Il messaggio principale è che dobbiamo stare rinchiusi, e che se ci rinchiudono è “per il nostro bene”, come si dice ai bambini per fargli accettare qualche sacrificio. Il numero dei morti (che viaggia verso quota 1000 al giorno) serve assai bene allo scopo.

C’è però anche un messaggio secondario, che accomuna una parte dei media, qualche analista ingenuo, una parte (minoritaria) del governo, e sostanzialmente tutta l’opposizione: le misure sono eccessive, la curva epidemica sta già piegando verso il basso, le terapie intensive si stanno svuotando, è già tempo di allentare un po’ il freno.

Due visioni opposte, insomma.

E allora proviamo a vedere come stanno le cose. Consideriamo il numero di persone contagiose (in grado di trasmettere il virus) nel mese di giugno, e chiediamoci di quanto è aumentato il loro numero nel tempo. La risposta è che, posto a 100 il numero di soggetti contagiosi a giugno, nella prima settimana di settembre erano 250, nella prima di ottobre erano diventati 500, e nella prima settimana di novembre – quando è decollato il semi-lockdown in corso, erano 2500, a dispetto delle (blande) misure adottate nel corso di ottobre. Dopo due settimane di semi-lockdown la curva epidemica era ulteriormente salita (il nostro numero-indice a base giugno segnava quasi 3000), e solo negli ultimi 10-15 giorni ha cominciato a scendere. Ora siamo a circa 2500, cioè allo stesso livello di un mese fa: il semi-lockdown è stato così blando che, nella prima settimana di dicembre, siamo messi più o meno come lo eravamo nella prima settimana di novembre. In breve, siamo ancora lontanissimi dalla situazione di giugno.

Eppure, ci viene obiettato, le terapie intensive si stanno svuotando, il sistema sanitario non è più sotto pressione come fino a poche settimane fa. Dimenticano che, con 7-800 morti al giorno, le terapie intensive cominciano (lentamente) a svuotarsi semplicemente perché il numero di decessi è ancora più grande del numero di nuovo ingressi: se entrano 700 pazienti al giorno, ma ne escono in quanto deceduti 750, si “liberano” 50 posti. Non mi sembra un bel modo di “alleggerire” la pressione sul sistema sanitario.

La realtà è che, per ora, il semi-lockdown sta dando risultati estremamente deludenti. Il valore di Rt è sceso finalmente sotto la soglia critica 1, ma lo ha fatto in una misura così piccola da rendere lentissimo il percorso di abbassamento della curva epidemica. Al ritmo attuale, occorrono 5-6 mesi di chiusura per riportare il numero di infetti al livello di sicurezza raggiunto a giugno. E anche si tornasse a un lockdown totale, come quello attuato dal 22 marzo al 3 maggio, di mesi ne occorrerebbero 2.

E’ una situazione paradossale. Il governo si vanta di non avere imposto un lockdown generalizzato, duro come quello di marzo. L’opposizione, anziché fare due conti e obiettare che di questo passo andiamo a finire a Pasqua, non trova di meglio che invocare aperture, veglioni, sciate e messe in presenza: un insperato assist al governo, che ne esce con l’aureola della saggezza e della prudenza.

Che cos’è che non va?

Non va che non ci stanno dicendo le cose come stanno. Ai ritmi attuali il semi-lockdown ci porterà, dopo l’Epifania, a quota 1400, ossia 14 volte più contagiati che a giugno. E anche immaginando che il valore di Rt dovesse essere abbastanza simile a quello toccato nel lockdown di marzo, tutto quel che potremmo sperare entro l’Epifania è di arrivare vicino a quota 500, dunque 5 volte il numero di contagiati di giugno. Insomma, in una situazione di rischio non trascurabile.

Dunque, dove ci stanno portando?

Temo che stiano navigando a vista, come hanno fatto dal primo giorno. Non possono fare un lockdown totale, perché hanno promesso di non farlo, e comunque non basterebbe. Non possono aprire, o allentare il lockdown come pretende l’opposizione, perché sarebbe un disastro. Non possono ammettere che a gennaio il numero di persone contagiose sarà ancora troppo alto, e che la riapertura porterà di nuovo Rt sopra 1. Non sono abbastanza umili da chiedere scusa, e fare oggi quel che dovevano fare ieri sui terreni chiave: tamponi, tracciamento, medicina territoriale, trasporti.

Una sola cosa sembrano avere in testa: che il vaccino, salvando noi, salverà loro.

E’ l’errore più grande. Perché, anche dovesse tutto filare liscio, il vaccino non risolverà certo l’emergenza del primo semestre 2021, quando milioni di persone avranno l’influenza, la curva epidemica tornerà a salire, e l’arma del lockdown non potrà più essere usata senza distruggere definitivamente l’economia.

Meglio pensarci ora, all’emergenza che verrà, e “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. Parola di Trapattoni.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 dicembre 2020




I paesi che hanno evitato la seconda ondata

Ci siamo abituati un po’ tutti, in questi lunghi mesi dell’epidemia, a usare la parola “ondata”. L’ondata del Covid, la prima ondata, la seconda ondata. L’ho fatto anch’io, e lo farò ancora, perché non so trovare una parola diversa e più adatta.

Però dovremmo smetterla, o almeno renderci conto che è una parola molto fuorviante.

Quando diciamo che è arrivata un’ondata, e che ha sommerso tutto il mondo, ogni paese e ogni continente, descriviamo l’epidemia come un evento ineluttabile, che arriva da fuori, e cui nessuno si può sottrarre.

Questo, in un certo (assurdo) senso, ci rassicura. Rassicura i cittadini, perché in fondo “mal comune mezzo gaudio”. Ed è addirittura una manna per i politici perché permette loro di pensare, e soprattutto di dire: vedete? è successo dappertutto, dunque se è successo anche da noi non è colpa nostra.

Il medesimo fatalismo investe da tempo i discorsi sulla “seconda ondata”. Anche la seconda ondata l’abbiamo percepita come una minaccia incombente, che tutto sommato ci aspettavamo, e che ora puntualmente è arrivata, in tutto il mondo. E quindi anche da noi. I sondaggi confermano che, anche durante i momenti più sereni dell’estate, quando cercavano di convincerci che tutto andava per il meglio, che eravamo un modello per gli altri, e che comunque eravamo preparati, anche allora la maggioranza dei cittadini una seconda ondata se l’aspettava, quasi fosse un evento ineluttabile.

Eppure non è vero. Ci sono porzioni del mondo – anche del mondo a noi più simile, quello delle società avanzate, dotate di istituzioni democratiche – in cui la seconda ondata non è affatto arrivata (e talora nemmeno la prima). Quel che è arrivato non è un’ondata che tutto e tutti travolge, ma un modesto numero incremento dei decessi (unico indicatore affidabile nei confronti internazionali), più o meno rapidamente riportato sotto controllo.

Insomma ci sono paesi che ce l’hanno fatta, o ce la stanno facendo, a tenere sotto controllo l’epidemia. Quali sono? E quanti sono?

Se consideriamo il 27 paesi a noi più comparabili (società avanzate, democratiche, con istituzioni di tipo occidentale), sono ben 10 – più di 1 su 3, dunque – quelli che non hanno subito una seconda ondata. Quattro sono nel sud-est asiatico: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong. Due sono nell’emisfero boreale: Australia e Nuova Zelanda. Ma quattro sono in Europa: Norvegia, Finlandia, Danimarca, Irlanda.

Nei primi i numeri dell’epidemia sono infimi, negli ultimi (quelli europei) sono molto modesti (meno di un decimo di quelli della nostra prima ondata).

Dunque non è obbligatorio subire la seconda ondata. Anzi, si potrebbe dire che – quando arriva – l’ondata è il frutto di decisioni, scelte, comportamenti che un dato paese adotta e che producono, come conseguenza, un’impennata dei contagi. L’onda non vien da fuori, ma è prodotta da dentro.

Ma come si fa a non produrla?

Il fatto interessante è che, storicamente (ormai esiste una storia del Covid), non è esistito un modo solo, unico, di evitare la seconda ondata. I paesi che ce l’hanno fatta non hanno messo in atto tutti le medesime contromisure, salvo forse una: forti limitazioni agli ingressi, che purtroppo in Italia sono state quasi sempre snobbate, ora per ragioni economiche (se no danneggiamo l’industria turistica), ora per ragioni organizzative (come facciamo a fare migliaia di tamponi al giorno negli aeroporti?), ora per ragioni ideologiche (sbarchi e accoglienza, volontà di non “discriminare”).

Per il resto ognuno dei 10 paesi che ce l’hanno fatta hanno trovato ciascuno la sua strada, che è sempre consistita nell’adozione di un mix di misure, non in una misura soltanto.  Non solo lockdown più o meno prolungati e severi, ma tamponi di massa, app per il tracciamento, Covid-hotel e quarantena assistita, rispetto rigoroso del distanziamento negli ambienti chiusi, uso generalizzato delle mascherine e degli occhiali, disinfezione delle superfici, sanificazione e aerazione degli ambienti.

Tomas Pueyo, a mio avviso di gran lunga l’analista della pandemia più lucido, ha battezzato questo approccio “strategia del formaggio svizzero” (swiss cheese strategy), il celebre formaggio a buchi, simile alla nostra groviera tanto amata da Topo Gigio. L’idea è che, per impedire la formazione dell’onda, non basti un unico strato di formaggio (leggi: una particolare misura di contrasto), perché ogni strato ha dei buchi in cui l’epidemia può trovare un varco, ma occorra giustapporne più d’uno, in modo che dove uno strato non funziona, possa interviene uno degli strati successivi, ciascuno con i suoi buchi sparpagliati in modo irregolare e casuale. Detto in altre parole: giudicata in sé ogni misura è insufficiente e lacunosa, ma è il pacchetto complessivo, una sorta di filtro multi-strato, che deve essere efficace.

Che il nostro “italian cheese” non abbia funzionato è fuori di dubbio, e la seconda ondata – con la sua lunga scia di morti – è lì a dimostrarlo. C’è solo da sperare che fra tutti, Governo, Regioni, cittadini, si diventi capaci di mettere insieme gli strati del nostro formaggio anti-Covid. Altrimenti, dopo aver prodotto la seconda ondata, ci appresteremo a procurarci la terza.

Pubblicato su Il Messaggero del 28 novembre 2020




Stop and go?

Chi è abbastanza vecchio da avere memoria degli anni ’70, o è abbastanza curioso da averli studiati, ricorderà di sicuro la politica dello stop and go, o “politica del semaforo”, con cui, in quel periodo, molti paesi occidentali cercavano di domare l’inflazione, senza però frenare troppo l’economia. La conseguenza era una crescita a singhiozzo, in cui a brevi periodi di espansione seguivano altrettanto brevi periodi di rallentamento, per tenere l’inflazione sotto controllo.

Qualcosa di simile, forse, si sta preparando ora sul versante della gestione dell’epidemia, con il Covid in un ruolo simile a quello che fu dell’inflazione. Se davvero, come appare sempre più verosimile, il 3 dicembre il governo consentirà una serie di riaperture, in modo che la corsa ai regali di Natale dia un po’ di ossigeno all’economia, e se nel periodo delle feste dovessero esserci di nuovo limitazioni, più o meno volontarie, magari seguite da un nuovo allentamento delle regole a gennaio, allora sì, dovremmo concludere che il governo ha deciso per lo stop and go.

Il che significherebbe: non riusciamo a stroncare l’epidemia, ma nemmeno vogliamo che ci arrivi in faccia la terza ondata, quindi navighiamo a vista. Teniamo aperto finché gli ospedali respirano, tiriamo il freno appena ci accorgiamo che gli ospedali potrebbero riempirsi di nuovo di pazienti Covid.

E’ razionale questa strategia?

Probabilmente sì, se l’obiettivo è solo di non far saltare il sistema sanitario e dare un po’ di ossigeno all’economia. E, naturalmente, se i sensori del governo sono meno arrugginiti di quelli usati fin qui, rivelatisi incapaci di avvisare in tempo dell’arrivo della seconda ondata.

Se però l’obiettivo fosse quello di minimizzare sia i morti sia i punti di Pil perduti, non sono sicuro che mesi e mesi di andamento a fisarmonica, con le Regioni impegnate in una danza senza fine fra i quattro colori di cui possono fregiarsi (verde-giallo-arancio-rosso), sarebbero la via più efficace. E questo per due motivi, uno relativo alla salute, l’altro relativo all’economia.

Sul versante della salute, non si può non osservare che mantenere le terapie intensive costantemente un po’ sotto il livello di guardia (diciamo al 20% della capacità anziché al 30%), obiettivo comprensibilissimo dal punto di vista dell’equilibrio del sistema sanitario, comporta circa 300 morti al giorno, dunque oltre 100 mila all’anno: più o meno 100 volte il numero annuo di morti sul lavoro, che già ci appare inaccettabilmente elevato.

Sul versante dell’economia i conti sono più ardui, perché mancano due informazioni cruciali: quanti saranno i mesi di vera apertura all’anno, e quanta mobilità in meno (spostamenti e consumi) comporterà lo stato di paura permanente indotto da un regime di stop and go, specie se nulla cambia nella medicina di base (una quota importante delle nostre paure è dovuta alla credenza, del tutto fondata, che in caso di infezione difficilmente riceveremo cure domiciliari). Secondo un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, il rischio che la paura congeli la mobilità, e la mancanza di mobilità spenga l’economia, è molto forte. Se la paura non scende sotto un certo livello, è inutile illudersi che l’economia riparta.

Immagino che qualcuno, arrivati a questo punto, obietterà: e il vaccino? Non sarà il vaccino la nostra salvezza? Perché pensare a un lungo periodo di stop and go quando il vaccino è alle porte?

Personalmente nutro un misto di ammirazione e di invidia per chi è dotato di tanto ottimismo. Può darsi che, a differenza del vaccino influenzale, il vaccino contro il Covid arrivi presto, ed entro l’estate prossima sia disponibile per tutti. Può darsi che la maggior parte della popolazione si vaccini con entusiasmo, e non dia alcun credito alle cautele del prof. Crisanti, secondo cui assumere un vaccino non testato è rischioso (“senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio”).

Ma temo che lo scenario più verosimile sia un altro. E cioè che il vaccino diventi per qualche mese l’argomento preferito dei talk show, e insieme uno specchietto per le allodole che permette ai politici, ancora una volta, di eludere le domande importanti e di non fare le molte cose che spetta loro di fare. A partire dai dieci punti della petizione che, in 35 mila, abbiamo firmato una decina di giorni fa, e cui né il premier Conte, né il ministro Speranza (ai quali era indirizzata), hanno sentito il dovere di dare una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 novembre 2020




Il Covid e la dialettica della paura

Credo che sull’obiettivo di tutelare l’economia, o meglio limitare i danni che l’epidemia determinerà sul sistema economico, siano tutti d’accordo. Come credo che, in materia di riaperture, le differenze fra le forze politiche siano semplici sfumature: un po’ più attenta ad artigiani e commercianti la destra, un po’ più attenta a scuola, università e cultura la sinistra.

Altrettanto tenui mi paiono le differenze sulla linea da tenere quest’estate. Destra e sinistra, governo e opposizione, non hanno mai messo seriamente in dubbio il racconto che dipingeva l’Italia come un paese in cui l’epidemia si stava attenuando, e in cui dunque ci si poteva preparare a “convivere con il virus”. Un vero “partito della prudenza” non è mai esistito, tutt’al più qua e là abbiamo visto all’opera due opposte frange dell’imprudenza: l’opposizione leghista ha colpevolmente minimizzato i rischi derivanti da movida e discoteche, una parte dell’esecutivo ha colpevolmente minimizzato i rischi sanitari connessi agli sbarchi e alla loro gestione.

La credenza dominante, nella nostra più o meno folle estate, è stata che salute ed economia fossero in conflitto fra loro e che, finalmente, fosse venuto il momento dell’economia. Questa credenza era alimentata da noi stessi, che ci sentivamo in diritto di riprenderci la vita dopo i sacrifici di marzo e aprile, ma era rafforzata e amplificata dalle scelte delle autorità, nonché da una campagna di comunicazione volta a rassicurarci. Le autorità hanno passato l’estate ad attenuare le regole di prudenza, opponendo una resistenza sempre più tenue agli assembramenti sui mezzi pubblici e nei luoghi di vacanza. Quanto ai media, abbiamo assistito a una escalation di rassicurazioni: forse il virus è diventato meno cattivo, la carica virale è in diminuzione, il virus è clinicamente morto, contagiato non vuole dire malato, quasi tutti i contagiati sono asintomatici, la letalità del virus è molto diminuita, i morti giornalieri sono pochissimi. Per finire con la rassicurazione delle rassicurazioni: siamo diventati molto più bravi a curarvi, questa volta siamo preparati, non ci sarà una seconda ondata, e se ci sarà non ci prenderà di sorpresa.

Ora che questo racconto, riproposto con mille sfumature da quasi tutti, si è rivelato fallace, è forse il caso di chiedersi perché. Come mai solo un esiguo manipolo di medici, virologi, studiosi, scrittori, operatori dell’informazione, si è opposto al racconto dominante?

La ragione più importante, a mio parere, è che non si è ancora messo a fuoco il ruolo della paura nel governo di un’epidemia. La paura è il più grande nemico dell’economia, perché la paura riduce la mobilità, il consumo e l’investimento, indipendentemente dal fatto che le autorità chiudano o lascino aperte le attività. Dunque, se vuoi salvare l’economia, devi fare in modo che la gente non abbia paura, o ne abbia in quantità così modesta da non impedirle di svolgere una vita (quasi) normale. Soprattutto, devi fare in modo che l’assenza di paura perduri nel tempo, così consentendo all’economia di girare non solo oggi ma anche domani. Il compito fondamentale della politica, durante un’epidemia, non è semplicemente di ricostituire condizioni di tranquillità, ma di farle durare nel tempo.

Ed è qui che arriva il problema. Come si fa a rendere duraturo il sentimento di non-paura faticosamente raggiunto?

Su questo vi è stata, finora, una risposta dominante, che – in varianti differenti – si è presentata nei discorsi dei politici, nelle ospitate tv dei virologi, nelle più o meno sofisticate analisi dei commentatori. Il nucleo logico di tale risposta è stata la rassicurazione. Si è creduto che una campagna di comunicazione positiva avrebbe tranquillizzato le persone, e così ridato fiato all’economia.

Non si è preso in considerazione un dettaglio: la rassicurazione funziona solo se non è smentita platealmente dai fatti. E in effetti aveva funzionato: fino a poche settimane fa, ogni sera ci dicevano che la curva saliva, ma lentamente; che Rt era bruttino, ma non tremendo; che la situazione era attentamente monitorata; che i ricoveri in terapia intensiva aumentavano, ma non troppo; e che comunque non era come a marzo, perché avevamo imparato. E la gente era comprensibilmente felice di credere a questo racconto.

Poi d’improvviso, nel giro di un paio di settimane, tutto è cambiato. O meglio, tutti hanno cominciato a vedere ciò che solo un’ostinata minoranza aveva fatto notare nei mesi scorsi, ossia l’inesorabile riaccendersi dell’epidemia. A quel punto, con la paura tornata prepotentemente nel cuore di molti, anche l’alternativa aprire/chiudere è diventata secondaria, perché se la gente ha paura l’economia non riparte, qualsiasi cosa decidano i politici su orari, restrizioni, coprifuoco, lockdown.

Dove si è sbagliato?

E’ abbastanza semplice. Quel che non si è voluto comprendere è che, per tenere il sentimento di paura sotto la soglia di guardia – quella che mette a repentaglio il funzionamento dell’economia – la via maestra non sono le campagne di ottimismo, le esortazioni a pensare positivo, le prediche sulla necessità di convivere con il virus. No, per non avere paura noi abbiamo bisogno di due cose soltanto: sapere che il numero di contagiati è così basso da rendere trascurabile il rischio di incontrarne uno, e sapere che – se ci ammaliamo – non saremo abbandonati all’incubo kafkiano della burocrazia sanitaria, perché ci sarà un medico che ci verrà a visitare, ci farà un tampone, ci prescriverà le cure necessarie, e solo in caso di peggioramento ci farà ricoverare in ospedale.

Se fossero state realizzate, queste due condizioni – pochi contagi e medicina di base funzionate – oggi ci garantirebbero quello stato di non-paura che è la base di ogni ripartenza dell’economia. Ma era possibile realizzarle?

Per quanto riguarda la medicina di base, certo che sì. Per dare ai cittadini la garanzia di essere visitati e curati bastava attuare nel semestre maggio-ottobre quella riorganizzazione della medicina territoriale che, tra mille difficoltà, alcune Regioni stanno tentando di attuare ora. E ora non assisteremmo agli assalti ai pronto soccorso, spesso dovuti semplicemente al fatto che nessuno ti viene a curare a casa.

Per quanto riguarda la riduzione del numero dei casi, invece, le cose sono più complesse. Ci sono cose che si potevano benissimo fare, ad esempio attuare il piano Crisanti sui tamponi, organizzare meglio il tracciamento dei casi, rafforzare il trasporto pubblico (per un elenco più ampio vedi pagina x). Ma ci sono altre cose che sì, si potevano fare, ma ad un prezzo alto in termini di consenso: tenere le discoteche chiuse tutta l’estate, rendere obbligatori i tamponi per chi va o viene dall’estero, spegnere con misure circoscritte ma drastiche le migliaia di focolai via via individuati, sanzionare seriamente le innumerevoli, plateali e sistematiche violazioni delle regole (peraltro quasi sempre dovute al pubblico, non agli esercenti).

Se le avessimo fatte, quelle cose, gli esponenti del governo avrebbero perso qualche punto nei sondaggi, l’economia avrebbe perso qualche opportunità, ma ora il numero dei contagi sarebbe basso, la gente non avrebbe una maledetta paura di infettarsi, e l’economia non sarebbe costretta a una nuova fermata, che sicuramente sarà lunga, dolorosa, e più costosa di una modesta frenata in estate.

Perché è la paura la variabile chiave che governa l’epidemia. E la paura non si vince persuadendo la gente che sbaglia ad averne, ma togliendo le condizioni che la rendono più che giustificata. E’ questo che ora va fatto, se vogliamo che, spenta la seconda ondata, a primavera non ci troviamo alle prese con la terza.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 novembre 2020




Come si fa a combattere la paura? Intervista a Luca Ricolfi

Intervistato dalla Verità, Vittorio Sgarbi dice che si sarebbe dovuta condurre una campagna di comunicazione “positiva” contro il virus. È d’accordo?
In parte sì, e in parte no. Dove sono pienamente d’accordo è quando dice “il governo doveva contenere la malattia, non drammatizzarla”. Perché se il governo, pluri-avvertito e pluri-consigliato dagli studiosi negli ultimi 6 mesi, avesse fatto il suo dovere sui 10 punti della nostra petizione, la malattia sarebbe stata contenuta, non avremmo avuto la seconda ondata, e oggi non ci sarebbe paura. E, in assenza di paura, l’economia girerebbe a regime quasi pieno, compresi musei, scuole ed eventi culturali.
Il mio dissenso con Sgarbi è tecnico, non ideologico. Secondo me la paura non si combatte dando credito agli esperti più tendenziosi e riduzionisti, tipo Zangrillo e Bassetti, ma eliminando alla radice le due paure fondamentali, che sono quella di infettarsi e, ancor più, quella di essere completamente abbandonati al mostro kafkiano della burocrazia sanitaria digitalizzata in caso di infezione. Se sapessimo che il rischio di infezione è molto basso, e che in caso di infezione ai primi sintomi qualcuno verrebbe a casa a visitarci e curarci, avremmo pochissima paura, vivremmo quasi normalmente, e non intaseremmo i pronto soccorso.

Perché il governo sente la necessità di terrorizzare gli italiani?
E’ ovvio: perché l’unica cosa in cui sono maestri è rinchiuderci, e pensano che solo se siamo terrorizzati a dovere obbediremo.

La Fondazione Hume e Lettera 150 hanno sottoposto al governo 10 cose da fare e che il governo non ha fatto. A quali si sarebbe dovuto dare la precedenza?
Intanto vorrei sottolineare la natura bipartisan della petizione, arrivata a 13 mila firme, che sta raccogliendo consensi da persone di tutti gli orientamenti politici.
A mio parere le cose non fatte più importanti sono due. Primo, l’attivazione dei medici di base con dispositivi di protezione, strumenti per effettuare i tamponi, e soprattutto un protocollo di intervento al primo apparire dei sintomi. Secondo, attuazione del piano Crisanti per portare il numero di tamponi per abitante a livelli europei (almeno 3 volte i livelli degli ultimi mesi).

Il governo è ancora in tempo per realizzarle ancora?
No, ormai la situazione è sfuggita di mano. Si può solo sperare che, nonostante sia troppo tardi, faccia ugualmente quel che andava fatto nei mesi estivi. Perché ormai il problema non è evitare la seconda ondata, ma porre le condizioni per evitare la terza, inevitabilmente seguita dall’ennesimo lockdown: una vera catastrofe per l’economia.

Se il governo avesse agito per tempo, oggi in quali condizioni ci troveremmo?
Saremmo tranquillissimi perché i nuovi casi giornalieri sarebbero poche centinaia, nessuno sarebbe terrorizzato, e la gente saprebbe che in caso di infezione non sarà abbandonata.

Nessuno vieta di guidare l’auto per evitare incidenti: come si può applicare questo principio alla lotta contro il virus?
E’ semplice: portando il numero di contagiati e il numero di morti da Covid-19 a livelli paragonabili (o inferiori) a quelli degli incidenti automobilistici. E’ perfettamente possibile e, come Fondazione Hume, abbiamo anche delle ipotesi sui valori soglia da adottare.

Il vostro approccio è stato applicato in qualche Paese del mondo? E là come vanno le cose?
Non esiste un approccio della Fondazione Hume, ma esistono tesi che quasi tutti gli esperti indipendenti sostengono, e che in alcuni paesi sono state prese sul serio.

Ad esempio?
Ad esempio l’importanza di tenere il numero dei casi giornalieri abbastanza basso da consentire il tracciamento (cavallo di battaglia del prof. Andrea Crisanti): una strategia che presuppone un numero di tamponi per abitante triplo rispetto a quello italiano, e un sistema di tracciamento tempestivo e non fallimentare come quello di IMMUNI.
Fra i 30 paesi di tradizione occidentale sono circa la metà quelli che hanno applicato strategie sensate, e ora non sono investiti da una seconda ondata paragonabile alla prima. In Europa: Germania, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Irlanda ma in parte anche Grecia e Svezia. Fuori dell’Europa: Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan. La più grossa bugia dei maggiori governi europei è stata di presentare l’epidemia come una catastrofe inevitabile e ingovernabile, anziché come un evento che poteva essere fronteggiato.

Lei insegna analisi dei dati. Che cosa pensa della divisione dell’Italia in zone colorate in base a dati e parametri sconosciuti?
Intanto dico che la sbandierata trasparenza non sussiste, perché i dati sulla cui base si decide sono pubblici, ma l’algoritmo che li trasforma in zone non è pubblico (se lo è, ci dicano dove trovarlo!). E’ come se uno dicesse: decido se uscire di casa oppure no in base a umidità e temperatura, ma non vi dico come combino queste due informazioni per prendere la decisione.
Anche su questo punto, comunque, la penso come Sgarbi, che parla di misure diverse all’interno delle singole regioni. La zonizzazione per regioni o macro-zone poteva avere un senso nel primo lockdown, quando la propose inascoltato il Comitato Tecnico Scientifico sulla base dell’ovvia considerazione che la situazione del Sud era completamente diversa da quella del resto d’Italia. Ora, ammesso che si abbiano gli strumenti per differenziare (cosa non chiara, perché i dati comunali sono secretati), forse avrebbe più senso imporre misure diversificate all’interno di ogni regione, su base comunale.
Ma la dura realtà è che è troppo tardi: quel che era razionale e fattibilissimo ancora 1-2 mesi fa, ora è maledettamente difficile perché il governo ha fatto pochissimo quando era ancora in tempo, e si è ostinato a non riconoscere il rapido deterioramento della situazione quando – all’inizio di ottobre –  la seconda ondata in arrivo era chiaramente visibile all’orizzonte.
E’ la nostra disgrazia: i nostri governanti non sono semplicemente incapaci, purtroppo sono anche un po’ struzzi. E’ ingenuo credere che loro sappiano la verità ma non ce la dicano: la realtà è che la nascondono anche a sé stessi. Se così non fosse, il ministro Speranza si sarebbe ben guardato dal pubblicare un libro auto-elogiativo, che ha poi dovuto precipitosamente ritirare. Evidentemente, non aveva capito la situazione.
Pensi in che mani siamo…

Intervista rilasciata l’11 novembre a “La Verità”