Quando saltano tutte le regole

Il durissimo discorso che il belga Guy Verholstadt, parlando al Parlamento europeo, ha rivolto al nostro primo ministro Conte, dandogli del “burattino mosso da Salvini e Di Maio”, ha innescato una serie di polemiche, ma anche qualche riflessione di tono più generale, su cui forse non è inutile tornare.

Specie a sinistra, le reazioni non sono state unanimi. L’atteggiamento di alcuni è stato analogo a quello dei più cinici maschilisti di fronte allo stupro di una ragazza in minigonna: “non si fa, però un po’ se l’è cercata”. Altri, più pacatamente, hanno fatto notare che, dopotutto, quel che il leader liberale Guy Verholstadt ha detto in pubblico è precisamente ciò che tutta la stampa progressista pensa, dice e ripete da mesi senza alcuna remora o esitazione. Altri ancora hanno riversato ogni colpa sul linguaggio e i comportamenti dei due “burattinai”: Salvini è lo stesso che qualche tempo fa si permetteva di dare dell’ubriacone al Presidente della Commissione Europea Juncker, mentre Di Maio è lo stesso che un paio di settimane fa incontrava i gilet gialli, entrando a piedi giunti nella politica francese. Altri, infine, hanno accusato di ipocrisia quanti si sono dati la pena di difendere il nostro primo ministro a dispetto delle proprie opinioni su di lui, non lontanissime da quelle di Guy Verholstadt.

Già, l’ipocrisia. Forse è proprio su questo che dovremmo riflettere. Di essa, François de La Rochefoucauld diceva che è “un omaggio che il vizio rende alla virtù”. Perché chi esibisce un comportamento rispettoso verso qualcuno che detesta, o di cui non condivide le scelte, proprio con questa sua rinuncia ad offendere, deridere o aggredire, implicitamente riconosce il valore del rispetto, dell’accettazione dell’altro.
Oggi le cose sono molto cambiate, e la parola ipocrisia ha assunto un significato del tutto negativo. Nell’uso comune essa viene per lo più interpretata come sinonimo di viltà e di rinuncia all’autenticità. Ipocrita viene considerato chi, per timore di dover pagare un prezzo, nasconde le sue idee e i suoi sentimenti, accettando di diventare inautentico.
Ipocrisia e autenticità. Questa è la coppia concettuale che, specie dopo la stagione esistenzialista, ha finito per installarsi nelle nostre menti. Ma è una coppia profondamente fuorviante. Perché è eticamente connotata: a un polo, quello positivo, l’autenticità di chi non nasconde nulla di sé stesso, all’altro polo, quello negativo, l’ipocrisia di chi dissimula i propri pensieri. E invece la vita sociale, sia sulla scena pubblica sia nella sfera privata, è fatta dell’una e dell’altra.
Riflettiamoci: quante delle nostre relazioni e amicizie sopravviverebbero se, con tutti coloro che frequentiamo, noi dicessimo sempre quello che pensiamo? O se agissimo solo guidati dai nostri impulsi più profondi?
Lo stesso vale per le istituzioni: nessuna istituzione può resistere nel tempo se non conserva, a dispetto dei suoi limiti, il rispetto dei singoli e delle altre istituzioni. Vale per la scuola, l’università, la Banca centrale, i sindacati, i ministeri, il Parlamento.
E’ per questo che, nella vita sociale, non esiste un unico linguaggio, né un unico registro, ma ne esistono molti, ognuno con le sue regole e i suoi ambiti di applicazione. Il problema è che, negli ultimi tempi, si è fatta strada l’idea che il linguaggio più brutale e diretto, quello che si può usare fra persone che si dànno del tu, si possa tranquillamente estendere ad ogni contesto, come se il mondo si riducesse a un immenso e indifferenziato ‘social’.
Il punto interessante, però, è che a questa irruzione delle pretese dell’autenticità in tutte le relazioni e in tutti i contesti non contribuisce solo la politica. La politica è solo il luogo nel quale è più evidente che è saltata ogni regola e, proprio perché tutti – destra e sinistra, populisti (come Conte) e liberali (come Verholstadt) – non si sentono tenuti al rispetto dell’avversario, non c’è alcuna speranza di ristabilire le condizioni di un confronto civile. Oggi alcuni si indignano (non senza ragione) per lo scarso rispetto riservato a Conte, ma quanti di essi si indignavano quando la medesima mancanza di rispetto colpiva politici come Berlusconi o come Monti?
La realtà, purtroppo, è che una malintesa volontà di essere sé stessi sempre e ovunque pervade un po’ tutta la società, e ha finito per far cadere la distinzione fra coraggio e oltraggiosità, fra onestà intellettuale e spregio dell’altro. Facendoci dimenticare che mettere un freno a “l’animale che mi porto dentro” è, dopotutto, il compito e la sostanza della civiltà.




Diseguaglianza e povertà

Il reddito di cittadinanza per un singolo inoccupato ammonterà a 780 euro al mese. Ma sono moltissimi i lavoratori che, in Italia, guadagnano meno di 800 euro al mese, spesso facendo lavori molto faticosi e impegnativi. Di qui la domanda che un po’ tutti ci facciamo in questi giorni: un reddito minimo garantito di 780 euro non è un po’ troppo alto per il nostro paese? Che cosa potrà pensare, un occupato che deve sudare sette camicie per portare a casa 800 euro al mese, del suo vicino di casa che riesce a ottenere lo stesso reddito non facendo nulla?

Ma soprattutto: dopo i falsi invalidi e i falsi disoccupati, di cui sono piene le cronache (e gli studi) degli ultimi decenni, dovremo anche assistere impotenti alla crescita di un esercito di falsi poveri?

Vorrei notare subito una cosa: quasi nessuno, a livello politico, ha titolo per ergersi a giudice delle storture del reddito di cittadinanza. Il godimento indebito di un sussidio, di un’agevolazione, di uno sconto è una costante della nostra storia nazionale. Sappiamo benissimo, e da decenni, che appena si fa un controllo si scopre che una percentuale enorme (talora prossima al 50%) di soggetti che autocertifica una condizione economica disagiata non ha affatto diritto ai benefici che riceve. Sappiamo anche benissimo che, nel virtuosissimo Nord, un esercito di lavoratori “estivi” del turismo e dell’agricoltura, non appena arriva la stagione fredda, cumula salario di disoccupazione e lavoro in nero. Ma nessun partito, sindacato o associazione, che ora si indigna per il reddito di cittadinanza, ha mai veramente combattuto questo genere di fenomeni. E si potrebbe pure aggiungere, su questa linea di non demonizzazione del reddito di cittadinanza, che per certi versi lo scandalo non è che si possano guadagnare ben 800 euro non facendo nulla, ma che se ne possano guadagnare appena 800 ammazzandosi di fatica.

Detto tutto questo, però, il problema rimane. Che i censori del reddito di cittadinanza non abbiano le carte in regola per parlare, non implica che il reddito di cittadinanza – così com’è concepito – sia una misura saggia. Perché una misura non va giudicata per le sue intenzioni (in questo caso senz’altro lodevoli) ma per le conseguenze che è verosimile che produca, al di là delle illusioni più o meno sincere dei suoi proponenti.

Ma per capire le conseguenze di una misura, occorre partire dalla “realtà effettuale”, ossia dall’Italia così com’è, non come ce la raccontano i politici per blandirci ed autoassolversi. E la realtà alcune cose molto chiare ce le dice. La prima è che il costume delle autocertificazioni false non riguarda una piccola minoranza di disonesti. La seconda è che i controlli sono e non potranno che restare del tutto insufficienti, se non altro per il loro costo. La terza è che fornire ad alcuni milioni di persone piani individuali di formazione e offerte di lavoro congrue è semplicemente impossibile, anche qui già solo per il fatto che nessuno ha stanziato il volume di risorse necessario, né si è dato il tempo che un piano del genere richiederebbe (almeno un paio di anni).

La cosa più importante, però, è un’altra ancora: l’argomento secondo cui occorrerebbe alzare i salari, non abbassare il reddito di cittadinanza, è eticamente pesuasivo ma non regge a un’analisi disincantata della realtà italiana. Se i salari medi sono scandalosamente bassi, la prima ragione non è certo l’iper-sfruttamento della mano d’opera, che pure esiste (vedi la raccolta del pomodoro, o l’industria delle consegne a domicilio), ma è a causa del ristagno ventennale della produttività del lavoro, un fenomeno che – fra i paesi avanzati – è dato osservare solo in Italia, e che nessuno studioso è ancora riuscito a spiegare in modo convincente. Poiché questa è la pietrosa realtà dell’economia italiana, un salario di cittadinanza a 780 euro, introdotto in un paese in cui non ci sono margini per aumenti salariali significativi, non potrà non avere le conseguenze che la teoria e l’esperienza prevedono: una riduzione del numero di persone effettivamente disposte a lavorare, un aumento del costo unitario del lavoro per le imprese, una contrazione dei posti di lavoro. Tutti processi che l’eventuale introduzione di un salario minimo legale (caldeggiato anche dal Pd, almeno in campagna elettorale) non potrà che aggravare, perché un salario minimo legale di 8-9 euro l’ora (come quello prospettato in questi giorni) non potrà che far esplodere il lavoro nero.

Di qui un paradosso. Nato per “cancellare la povertà”, il reddito di cittadinanza potrebbe anche riuscirci, sempre che i soldi non finiscano prima del tempo (quelli stanziati ammontano a circa 1/3 di quelli necessari), ma a un prezzo paradossale: far esplodere le diseguaglianze, e l’invidia sociale, all’interno delle fasce deboli della popolazione. Diseguaglianze e invidie fra chi guadagna lavorando e chi guadagna senza lavorare, ma anche fra chi usufruisce del sussidio dove i prezzi sono alti e chi ne usufrusice dove i prezzi sono bassi, fra chi riesce a lavorare in nero senza incappare nei controlli, e chi ci prova ma finisce nella rete del fisco.

Insomma, un’Italia incattivita dalla proliferazione degli arbitri e dal dilagare del caso. Il colmo per un provvedimento che – modulato con saggezza e con misura – avrebbe una sua logica e una sua piena giustificazione, e rischia invece di rovesciarsi nel suo contrario per un fatale difetto di fabbricazione.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 febbraio 2019



Sinistra, il DNA è cambiato

La sinistra è in crisi. Il suo partito di riferimento, il Pd, lotta per sopravvivere. Eppure, ancora 5 anni fa, alle elezioni europee del 2014, aveva toccato il 40.8% per cento, per poi precipitare al 18.8% nel giro di soli 4 anni, alle ultime elezioni politiche (4 marzo 2018).

Che cosa è successo?

Per capirlo dobbiamo cominciare a smontare un mito, ovvero che la sinistra sia in crisi un po’ dappertutto. Non è così, per lo meno dal punto di vista elettorale. Alle elezioni americane Hillary Clinton ha preso più voti di Donald Trump, e solo il sistema elettorale, basato sui “grandi elettori”, ha sottratto la vittoria alla candidata democratica. Nel Regno Unito la sinistra-sinistra di Jeremy Corbin gode di ottima salute. In Portogallo, in Grecia e in Spagna la sinistra è al potere, ora con formazioni tradizionali (Portogallo), ora con formazioni di neo-sinistra radicale (Tsipras in Grecia), ora con un compromesso fra sinistra tradizionale e neo-sinistra radicale (Sánchez in Spagna). In Germania i socialdemocratici sono in forte calo, ma il loro declino è compensato dall’ascesa dei Verdi.

Se guardiamo ai grandi paesi di cultura occidentale, una vera crisi di consenso della sinistra si osserva solo in Francia e in Italia, dove la sinistra tradizionale è stata travolta dall’affermazione dei partiti populisti di destra (il Front National di Marine Le Pen, la Lega di Salvini), di sinistra (la France Insoumise di Mélenchon), e né di destra né di sinistra (il Movimento Cinque Stelle di Grillo).

Ma torniamo all’Italia e alla crisi del Pd. In nessuna elezione politica del dopoguerra, dal 1948 al 2013, il maggiore partito della sinistra, che si chiamasse Partito comunista, Pds, Ds o Pd era mai sceso sotto il 20% (unica eccezione apparente, il 2001, in cui c’erano 2 partiti alla pari: Ds e Margherita, complessivamente oltre il 31%). Che cosa è successo, dunque?

Questa è la domanda che molti si fanno, da qualche mese a questa parte. Io però me ne sono sempre fatta un’altra, negli ultimi 20 anni, e cioè: perché non è ancora successo? Come ha potuto il maggior partito della sinistra evitare così a lungo il tracollo?

Questa domanda mi ha sempre fatto compagnia dalla fine degli anni ’90, perché fin da allora mi erano evidenti tre limiti della sinistra riformista, che mi è anche capitato di descrivere e analizzare in qualche libro (La frattura etica, 2002; Perché siamo antipatici?, 2005).

Il primo limite era l’antipatia della sua classe dirigente, ovvero quel mix di supponenza, oscurità di linguaggio, ipocrisia che si potrebbe sinteticamente descrivere come il “complesso dei migliori”. Il secondo limite era l’atteggiamento completamente acritico verso l’Europa e verso il carattere asfissiante di tante sue regole: non tanto il 3% di deficit, quanto la ipertrofia delle leggi, delle direttive e dei regolamenti, un male che negli stessi anni Giulio Tremonti denunciava lucidamente in un suo libro (Rischi fatali, 2005). Il terzo limite, forse il più grave, era la radicale trasformazione della propria base sociale, e la conseguente mutazione del partito della classe operaia in “partito radicale di massa”, secondo la definizione (e la profezia) di Augusto del Noce. Un partito attento alle esigenze dei ceti medi, per i quali l’immigrazione è innanzitutto una risorsa, e sempre più insensibile a quelle dei ceti popolari, per i quali l’immigrazione è un problema, quando non una minaccia.

Poiché questi limiti erano evidenti già vent’anni fa, la domanda vera diventa: perché solo ora?

La risposta, forse, è semplicemente che, fino al deflagrare della crisi (2008-2009), non è stato difficile fingere. O, se preferite, alla sinistra è stato facile far passare il proprio racconto, la propria narrazione della realtà: noi difendiamo i deboli, noi difendiamo le minoranze, noi stiamo con gli immigrati, noi siamo i difensori dei diritti, noi siamo le forze dell’apertura (dei commerci e delle frontiere). Quel racconto poteva reggere perché l’economia, sia pur a un ritmo modesto, cresceva ancora, la povertà era ai minimi, l’immigrazione non era fuori controllo e, last but not least, l’offerta politica era stagnante: il movimento di Grillo era appena agli albori (il “vaffa day” è del 2007), la Lega non aveva ancora compiuto la “svolta nazionale” che nel 2018 la porterà al potere.

Poi è arrivato il 2011, che ha aperto il vaso di Pandora dei mali del nostro mondo. La crisi finanziaria ha fermato l’economia, il numero dei poveri è raddoppiato, la caduta di Gheddafi ha moltiplicato le partenze dalle coste libiche. Ma, soprattutto, i governi di sinistra, tutti a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni), hanno fatto – di fronte a questi cataclismi – due mosse cruciali, che hanno definitivamente cambiato il DNA della sinistra.

La prima è stata di fare dell’accoglienza una questione morale (“noi siamo umani, i nostri avversari sono disumani”) anziché un problema politico. La seconda è stata di destinare le poche risorse disponibili (in particolare i 10 miliardi degli 80 euro) sulla propria base sociale tradizionale, fatta di lavoratori dipendenti e garantiti, anziché sui veri deboli: che non sono solo gli immigrati, ma i precari, i disoccupati, i lavoratori in nero, più in generale l’esercito dei poveri cresciuto a dismisura negli anni della crisi.

Di questi due errori una parte della classe dirigente del Pd a un certo punto si è accorta, e infatti, a fine legislatura, è arrivata la stretta sull’immigrazione del ministro Minniti, e un primo timido avvio del Rei (reddito di inclusione), una misura diversa dal reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle solo nel nome, e per la scarsità di risorse messe in campo. Ma ormai era tardi, l’elettorato aveva perso la pazienza, e del Pd non si fidava più. Per affrontare il problema degli immigrati, a molti è sembrato più credibile Salvini, per affrontare quello della povertà a molti è sembrato più affidabile Di Maio.

Non pare che, in vista delle Europee, qualcosa di sostanziale stia cambiando. La rinuncia di Minniti alla corsa per la segreteria del Pd ha tolto al maggiore partito della sinistra ogni residua possibilità di recuperare fiducia sul versante della sicurezza e del controllo dell’immigrazione. Quanto alla lotta alla povertà, è curioso che il Pd non si renda conto che la filosofia del reddito di cittadinanza, così aspramente criticata, è assai simile a quella del Rei e delle politiche attive del lavoro, propugnate per tanti anni dalla sinistra riformista ma mai messe veramente in atto, come testimonia lo stato penoso dei Centri per l’impiego.

Ma non dobbiamo stupirci troppo. Il DNA del Pd è cambiato, e non da ieri. E dalle mutazioni non si torna indietro facilmente, in biologia come in politica.




Un futuro senza lavoro?

Uno spettro si aggira sulle economie occidentali: lo spettro della scomparsa del lavoro.

Spaventati dal progresso tecnologico, dall’avanzata dell’automazione, dai successi dell’intelligenza artificiale, dalla crescita senza precedenti delle reti di comunicazione, sono sempre più numerosi gli osservatori e gli analisti che profetizzano la nascita di una società completamente diversa da quelle del passato. E se alcuni cercano di vedere il lato positivo di questi processi, immaginando un’umanità liberata, in cui l’ozio creativo prende il posto del duro lavoro, più numerosi sono quanti sottolineano il lato distruttivo, per non dire catastrofico, di questi processi. E’ anzi diventato una sorta di spietato esercizio contabile quello di calcolare quanti e quali tipi di lavoro sono destinati a scomparire nel giro di 10, 20, 30 anni, travolti dal progresso tecnico e organizzativo.

E poiché il sospetto che si sta facendo strada è che il numero di posti di lavoro distrutti non sarà, come in passato, compensato da altrettanti posti di lavoro di tipo nuovo, c’è chi comincia a domandarsi: se i posti saranno sempre di meno, e il lavoro diventerà un attributo di pochi eletti (o sfortunati), quale sarà il destino di tutti gli altri? Che cosa faranno, ma soprattutto come si manterranno, coloro che non hanno un lavoro?

E’ in questo contesto che, sempre più spesso, viene evocata la necessità di un “reddito di base”, talora qualificato anche come universale, incondizionato o di cittadinanza (nulla a che fare con quello dei Cinque stelle, che è una normalissima forma di reddito minimo: quanto ben congegnata lo vedremo solo fra 2-3 anni). Esiste addirittura un network di università e centri studi che di reddito di base si occupa da oltre trent’anni, cercando di sensibilizzare sul tema opinione pubblica e studiosi (si chiama BIEN, ossia Basic Income Earth Network). L’idea è tanto semplice quanto difficile da realizzare: fornire a tutti, ricchi e poveri, un minimo vitale permanente e incondizionato, in modo da non scoraggiare la ricerca di un lavoro (se il sussidio è per gli inoccupati, il timore di perdere il sussidio può scoraggiare la ricerca di un’occupazione, o indurre a cercare solo lavori in nero).

Come si vede, si tratta di un modo di raccontare i problemi del mercato del lavoro molto diverso dagli approcci classici. Nella tradizione socialista e socialdemocratica l’obiettivo fondamentale della politica economica è ridurre al minimo al disoccupazione, offrendo un lavoro a tutti (è il mito della “piena occupazione”). Nella tradizione liberale si dà per scontato che non tutti riescano, anche impegnandosi, a mantenersi con il proprio lavoro, e quindi si caldeggia un qualche tipo di sostegno economico per chi è rimasto indietro (imposta negativa, sussidi ai poveri). Ma né gli uni né gli altri partono dal timore che l’era del lavoro sia destinata a finire, e che quindi diventi inevitabile erogare un reddito a tutti.

Nei fautori del reddito di base, invece, la profezia di una drastica contrazione dei posti di lavoro sembra svolgere un ruolo cruciale. La cosa curiosa, tuttavia, è che l’evidenza empirica a sostegno di questa profezia è quanto mai frammentaria, aneddotica, per non dire evanescente. E’ anche possibile, naturalmente, che fra 20 o 30 anni ci troveremo a constatare la scomparsa di milioni di posti di lavoro, nonché una contrazione complessiva del tasso di occupazione. Ma nel frattempo, che cosa dicono i dati? Quali sono le tendenze in atto nelle economie avanzate o relativamente avanzate? Si può affermare, ad esempio, che dopo la lunga crisi iniziata nel 2007-2008 il tasso di occupazione è oggi più basso di quello di una decina di anni fa?

Nel caso dell’Italia la risposta è purtroppo affermativa: fra il 2007 e il 2017 (ultimo anno per cui sono disponibili dati completi), il tasso di occupazione è diminuito. E lo stesso vale per altri paesi colpiti da violente crisi finanziarie, come la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, Cipro, ma anche per paesi più solidi come Norvegia e Stati Uniti. Se però guardiamo al complesso dei paesi avanzati (appartenenti all’Oecd o all’Unione Europea) il quadro che ci si presenta è ben diverso. Su 41 paesi avanzati, sono solo 9 quelli in cui il tasso di occupazione è diminuito, e sono ben 29 (più del triplo!) i paesi in cui è aumentato (nei restanti 3 paesi il tasso è il medesimo di 10 anni fa). E fra i 29 paesi che hanno aumentato l’occupazione ben 12 appartengono all’Eurozona. Questo significa, in sintesi, che la teoria secondo cui, nelle società avanzate, sarebbe in atto una tendenza a distruggere più posti di lavoro di quanti se ne creino, è sostanzialmente incompatibile con i dati.

Di qui, forse, una lezione. Può anche darsi che, in certi paesi, ci si debba prima o poi rassegnare a garantire un reddito a un esercito di inoccupati, che altrimenti non avrebbero di che sostentarsi. Quel che non possiamo fare, tuttavia, è considerare questa scelta, che è tutta politica, come una sorta di scelta obbligata, conseguenza ineluttabile del progresso tecnico o dell’iper-modernità divoratrice di posti di lavoro. No, la realtà è che nella maggior parte dei paesi avanzati si è riusciti, a dispetto del progresso tecnico e della lunga crisi del 2007-2013, a creare più posti di lavoro di quanti se ne perdevano. Se qualche paese è rimasto indietro, è solo a sé stesso (e all’inadeguatezza della sua classe dirigente), che deve guardare.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 2 febbraio 2019



Fronte europeista, è una buona idea?

Così, pare che alle prossime elezioni europee la sinistra non sarà rappresentata, come al solito, dal Pd e dai suoi partiti satelliti. Al posto dei simboli di partito, sulla scheda elettorale troveremo un simbolo nuovo, che cercherà di rappresentare il campo delle forze progressiste e europeiste, unite dalla volontà di difendere il “progetto europeo”, e fermare l’avanzata delle forze sovraniste e illiberali che lo starebbero mettendo a repentaglio.

L’idea di una lista unica progressista, o di un “fronte repubblicano” che fermi la “deriva populista”, circola da molti mesi nel mondo della sinistra, ed ora ha ricevuto una sorta di codificazione nel manifesto che Carlo Calenda ha lanciato qualche giorno fa, raccogliendo in pochi giorni oltre 100 mila firme. Calenda è uno dei migliori politici in circolazione in Italia, e il suo manifesto è pieno di affermazioni ragionevoli e di idee interessanti, anche se – purtroppo – espresse nel consueto linguaggio legnoso dell’intellighenzia di sinistra.

Tutto bene, dunque? E’ una buona idea, questa di un fronte anti-populista che superi le divisioni del campo progressista?

Temo di no, e vorrei spiegare perché. La prima ragione di perplessità è che, a dispetto delle intenzioni, il manifesto del fronte progressista sarà percepito come un progetto conservatore: in politica, specie al giorno d’oggi, quel che conta non è quel che effettivamente si dice e si pensa, ma come quel che si dice e si pensa si deposita nel cervello di chi ascolta. Ebbene, se ci mettiamo da questa prospettiva, non ci vogliono nozioni particolarmente sofisticate di psicologia della percezione per rendersi conto che la gente non crederà, non potrà credere, al racconto del manifesto-Calenda. Il manifesto sostiene che le forze populiste rischiano di farci uscire dall’Europa e dall’euro, e che “noi”, i progressisti democratici, invece vogliamo fermamente restare in Europa, sia pure cambiandone alcune regole di funzionamento. Ma nelle menti di chi vota il messaggio suona diverso. La gente non pensa che il governo giallo-verde voglia farci uscire dall’Europa e dall’euro, e quindi,  quando sente i progressisti accalorarsi a difesa del “progetto europeo”, traduce così: i populisti-nazionalisti-sovranisti l’Europa vogliono cambiarla davvero, i progressisti invece no, a loro l’Europa va bene così com’è, o con pochi ritocchi.

Ed è sterile accanirsi sulle parole, affannarsi a specificare che anche noi, in realtà, vogliamo cambiare profondamente le cose, eccetera eccetera. Se credi che la posta in gioco, la vera linea di frattura, sia fra europeisti e sovranisti, allora hai già perso la sfida: perché l’opinione pubblica si è convinta che l’Europa così com’è non funziona per niente, e non crede che l’alternativa sia fra stare dentro e stare fuori, ma semplicemente fra chi vuole cambiare radicalmente le cose e chi si accontenta di un timido restyling. E, sull’Europa, lo scetticismo dell’opinione pubblica è perfettamente fondato. Sono troppe le scelte sbagliate del passato, sono troppe le regole che non hanno funzionato: eccesso di regolazione del mercato interno, insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui quella di un fronte europeista, che si presenta alle elezioni con una lista unitaria, mi pare un’idea tanto generosa quanto infelice. Ed è che se c’è una cosa su cui tutti gli studiosi di cose elettorali concordano, perché è un risultato condiviso di centinaia di studi indipendenti, è che in Italia le fusioni fra partiti e sigle politiche non portano più voti ma ne portano di meno: il tutto è di meno della somma delle parti. E’ successo nel 1948, quando il fronte democratico-popolare (comunisti e socialisti insieme) uscì a pezzi nello scontro con la Dc, ma si è ripetuto in innumerevoli occasioni successive, nella prima come nella seconda Repubblica: ogni volta che hanno unito le loro forze, Psi e Psdi, così come Pri e Pli, così come Ds e Margherita, hanno sempre registrato una contrazione del consenso elettorale.

Certo, si può pensare che oggi la situazione sia diversa e speciale, e che il problema dei progressisti sia di inventarsi qualcosa, un simbolo, uno slogan, un mito, per far ritornare all’ovile chi si è rifugiato nell’astensione, o ha provato a punire il Pd votando Cinque Stelle (al Sud) o Lega (nel centro-Nord). A questo, a rimotivare un elettorato deluso e frastornato, servirebbe l’immissione di un nuovo simbolo, un simbolo unificante, nell’arena politica.

La mia sensazione è che questa sia un’illusione, frutto di una radicale incomprensione di quel che è successo il 4 marzo. Il popolo di sinistra che ha votato Lega e Cinque Stelle lo ha fatto per il semplice motivo che l’offerta del Pd non copriva né la domanda di sicurezza sociale (migranti) né quella di sicurezza economica (povertà). Lo spazio elettorale della sinistra si è ridotto semplicemente per questo: a sinistra, il 4 marzo, non era dato osservare né un partito credibile sul tema dell’immigrazione irregolare, né un partito credibile sul tema della povertà. Oggi, da questo punto di vista, nulla è cambiato: il mancato accordo con i Cinque Stelle ha certificato che per il Pd la priorità è l’occupazione, non il sostegno al reddito; la fredda accoglienza della candidatura di Minniti alla segreteria del partito ha certificato che per il Pd la priorità sono i diritti dei migranti, non la sicurezza dei cittadini.

Non voglio, con questo, entrare nel merito di queste scelte, su cui ognuno ha le proprie opinioni. Quel che voglio far notare è solo questo: l’offerta politica del campo progressista è oggi drammaticamente ristretta rispetto alla varietà di domande che salgono dall’elettorato. Per cogliere questa varietà, di partiti di sinistra ne occorrerebbero almeno un paio, forse addirittura tre. Non certo una lista unitaria che, per non turbare le varie sensibilità (e i vari candidati alla segreteria del Pd), sarà inevitabilmente costretta a tenersi sulle generali, lasciando ancora una volta a Lega e Cinque Stelle il compito di offrire all’elettorato progressista più eterodosso quello che né il Pd né una lista genericamente europeista sembrano in grado di offrirgli.