Educare senza sanzioni?

Chiunque abbia bambini che vanno alle scuole elementari sa perfettamente che, ormai da diversi decenni, non solo è praticamente impossibile bocciare un bambino, ma è anche rarissimo osservare sanzioni classiche, come l’ammonizione, la nota sul registro, la sospensione. Al loro posto è invece dato osservare una serie di comportamenti sostanzialmente omissivi o elusivi: far finta di niente, limitarsi a redarguire più o meno blandamente, cercare di spiegare perché un comportamento è sbagliato e non dovrebbe essere ripetuto. I risultati sono scarsissimi, per non dire negativi, visto che il bullismo, sia quello tradizionale sia quello via internet, sono in aumento e coinvolgono spesso bambini, più sovente bande di bambini, che frequentano le ultime classi delle scuole elementari.

Ora non più. Ora si cambia. Ora quel che un maestro o una maestra potevano fare, ma nel 99.9% dei casi non facevano, ossia infliggere qualche piccola sanzione (ad esempio la nota sul registro, con convocazione della famiglia), sarà semplicemente vietato. Così ha deciso ieri la Camera, approvando un emendamento (a un disegno di legge sull’educazione civica nelle scuole elementari) che di fatto toglie a presidi e insegnanti non solo la possibilità di comminare le pene più severe (come l’espulsione dalla scuola), ma persino l’uso di strumenti sanzionatori davvero minimali, come l’ammonizione o la nota sul registro. Al loro posto si propone di estendere alla scuola elementare il farraginosissimo istituto del “Patto di corresponsabilità educativa”, che rafforza e incentiva uno dei più dannosi fenomeni culturali del nostro tempo, ovvero l’ingerenza dei genitori nel funzionamento della scuola, oltre a promuovere una sorta di Far West dei regolamenti, per cui ogni scuola si costruisce il suo patto, con tanti saluti a una delle idee più semplici della vita sociale, ossia che sia più efficace avere poche norme chiare e valide per tutti, piuttosto che lasciare a ogni comunità di darsi regole proprie (chi non avesse bambini a scuola, o non avesse idea di quanto avanti siano andate le cose rispetto a 20 o 30 anni fa, può leggere la pacata quanto agghiacciante  testimonianza dello scrittore Matteo Bussola: Sono puri i loro sogni, Einaudi Stile Libero 2017).

La vicenda è politicamente interessante. Perché, a quanto si apprende, la soppressione del regio decreto del 1928 che prevedeva la possibilità di irrogare sanzioni agli alunni delle scuole elementari, è stata voluta da tutte le forze politiche. Una chiara testimonianza di quanto certe idee, che eravamo abituati ad attribuire alla mentalità progressista, siano ormai penetrate nello spirito pubblico, coinvolgendo anche quanti un tempo le combattevano.

Ma quali idee?

Fondamentalmente tre convinzioni. La prima è che, nel processo educativo, le sanzioni non debbano e non possano svolgere alcun ruolo. Chi sbaglia deve essere convinto a cambiare comportamento con la sola forza della persuasione. L’uso di punizioni, anche di lieve entità, non solo sarebbe controproducente, ma sarebbe la testimonianza del fallimento del processo educativo.

La seconda è che, a dispetto della loro conclamata incapacità (o non volontà) di educare i figli, l’ultima parola spetti ai genitori, unici giudici dei loro pargoli, unici arbitri e custodi del destino delle loro creature. Di qui la tendenza a porsi verso ogni autorità, ma prima di tutto verso l’autorità scolastica, come sindacalisti dei propri figli.

Ma la più pericolosa è la terza convinzione, che forse più che una convinzione vera e propria è una sorta di strabismo, di partito preso, o di riflesso pavloviano. Quando qualcuno viola le regole, il che quasi sempre comporta la sofferenza di qualcun altro (si pensi alla diffusione del bullismo, già alle elementari), stranamente la pietas, la compassione, quasi automaticamente si indirizzano verso i prepotenti, che andrebbero capiti, perdonati e rieducati, e ignorano le ragioni delle vittime. Curiosamente, chi fa proprio l’imperativo del perdono, non sente altrettanto forte il dovere di impedire che altre violenze e sopraffazioni si scatenino contro nuove vittime.

Eppure è proprio questo il nodo della questione. C’è un’incredibile ingenuità pedagogica e sociologica nella credenza che, per la prevenzione di fenomeni come il bullismo e il cyberbullismo nelle scuole, possano bastare corsi, lezioni, momenti di sensibilizzazione, ammonimenti, prediche, e che ogni punizione sia inutile o addirittura controproducente. Come se la consapevolezza di non rischiare alcuna vera sanzione non fosse un potente incentivo a perseverare nei comportamenti più aggressivi, violenti e anti-sociali. Come se, soprattutto, la rinuncia delle istituzioni a sanzionare i comportamenti più scorretti, più che una forma di umana comprensione per chi sbaglia, non fosse invece quello che è: una forma di disumana indifferenza verso le vittime.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 6 maggio 2019



Il bivio della Lega

Nessuno può sapere come finirà l’affare Siri, indagato con l’accusa di corruzione per avere “asservito ad interessi privati le sue funzioni e i suoi poteri” (in sostanza: per avere caldeggiato norme vantaggiose per uno o più imprenditori amici). Fin da ora, tuttavia, non si può non segnalare un’inquietante anomalia di questa vicenda. La campagna politico-mediatica su Siri, che gli imputa rapporti con la mafia, è condotta a sua volta in stile vagamente mafioso, in base a un teorema del tipo: tu sei in rapporti con x, x è socio in affari con y, di y si sospetta (notate: “si sospetta”, non “si sa”) che finanzi la latitanza del boss dei boss, il ricercatissimo e a quanto pare imprendibile Matteo Messina Denaro, dunque tu sei colluso con la mafia.

Non vorrei passare troppo disinvoltamente dalla poesia della lotta alla mafia alla prosa del malgoverno, ma non mi stupirei che, fra qualche mese, qualche anno o qualche decennio, ovvero quando la vicenda giudiziaria di Siri sarà conclusa, la montagna partorisca il topolino, ovvero una verità del tipo: come accade da sempre, e da parte di tutte le forze politiche (comprese quelle che ora si indignano), anche Siri si è dato da fare per far passare emendamenti graditi a particolari gruppi e soggetti privati. Esattamente quel che succede in Parlamento tutti i giorni, con un’intensità parossistica nel mese di dicembre, quando la Finanziaria subisce quello che, giornalisticamente, da sempre chiamiamo l’assalto alla diligenza.

Comunque vada a finire, però, l’affare Siri qualche effetto lo sta già producendo. Il più importante a me sembra quello di mettere la Lega di Salvini di fronte al bivio che, fino ad oggi, ha ostinatamente cercato di non vedere: il bivio fra la prosecuzione dell’avventura con Di Maio, e il “ritorno a casa” nel centro-destra. Perché è inutile nasconderselo, ma ancora una volta, di fronte all’attivismo della Magistratura (dal caso Diciotti alla vicenda Siri), l’unica vera sponda politica di Salvini è Berlusconi, con cui peraltro perdura imperterrita l’alleanza nelle realtà locali, comuni e regioni abbastanza tranquillamente governate da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Ora il caso Siri, con il Movimento Cinque Stelle che spara ad alzo zero contro Armando Siri, e il Pd che (in Senato) presenta una mozione di sfiducia verso il governo, rischia di far precipitare le cose.

Questo non tanto per l’iniziativa del Pd, che essendo contro il governo nel suo insieme avrà il solo effetto di ricompattarlo, quanto per l’asse che è dato intravedere fra Di Maio e il premier Conte. Quest’ultimo, incredibilmente, in dieci giorni non ha ancora trovato mezz’ora per incontrare direttamente Armando Siri (pare che lo vedrà lunedì), ma in compenso ha rilasciato dichiarazioni, sulla particolare “sensibilità per l’etica pubblica” del suo governo, che fanno presagire quantomeno una presa di distanza da Siri, con conseguente peggioramento dei rapporti con Salvini, fermamente intenzionato a blindare Siri, lasciando che sia la giustizia, e non la politica, ad occuparsi del caso.

Ecco perché la situazione della Lega e di Salvini non è facile. Se pensa alle cose da fare, soprattutto in materia di tasse e di giustizia, è chiaro che la priorità non può che essere liberarsi quanto prima della zavorra pentastellata, un impasto di giustizialismo e assistenzialismo che non piace ai ceti produttivi del Nord. Ma se invece pensa al futuro della Lega, alla sua immagine, alla sua identità, al suo sogno di radicamento nazionale, è altrettanto chiaro che l’alleato Cinque Stelle, con la sua novità e il suo radicalismo, è assolutamente prezioso, mentre un ritorno fra le braccia di Berlusconi, nel ruolo del figliol prodigo, sarebbe esiziale per il progetto di Lega che ha in mente.

Detto in modo un po’ irriverente, alla Celentano: con Di Maio Salvini è rock, con Berlusconi è lento.

Certo, penso anch’io che, prima o poi, la Lega tornerà nel centro-destra, e proverà a prenderne il comando. Ma perché questo accada davvero, forse dovremo attendere che, in quel campo, la stella di Berlusconi sia tramontata davvero, anziché solo nella mente dei suoi nemici.

Pubblicato su Il Messaggero il 27 aprile 2019



Boomerang elettorale?

Hanno fatto un certo scalpore, nei giorni scorsi, domande e risposte transitate sul sito dell’Inps a proposito del cosiddetto reddito di cittadinanza. La vicenda ha indubbiamente un lato folcloristico, visto il tenore di certe domande e delle relative risposte, ma anche il tono dei commenti che certi dialoghi hanno suscitato sui social. Pare che alcuni addetti Inps alla comunicazione si siano presi qualche libertà, prima fra tutte quella di non comunicare in burocratese e quella di rispondere senza salamelecchi. Chi si rivolge all’Inps con un italiano imbarazzante, chi sa navigare sui social per intrattenimento ma per acquisire una password pretende di essere assistito, chi chiede come ottenere il reddito di cittadinanza per il figlio che lavora in nero, ha ricevuto risposte che, a seconda dei punti di vista, possono essere considerate offensive o sacrosante (per me sacrosante, secondo l’Inps offensive: ha già chiesto scusa).
Al di là del folclore, tuttavia, c’è pure un lato serio. Questi primi giorni di interazione Inps-cittadini hanno fatto emergere anche molta delusione, specialmente in due casi: quello in cui la domanda non è stata accettata, e quello in cui la domanda è stata accettata, ma la cifra erogata è risultata molto inferiore alle aspettative (poche decine di euro, anziché il vagheggiato sussidio di 780 euro al mese).
Forse è presto per capire con esattezza a che cosa si deve questa partenza frenata del sussidio, ma è difficile non rilevare che c’è qualcosa che non va. Sono anni che l’Istat ci informa che la povertà assoluta coinvolge più di 1 milione e mezzo di famiglie, in cui vivono circa 5 milioni di persone. Come mai, a fronte di queste cifre, le domande finora presentate sono solo 800 mila e quelle accolte sono meno di 500 mila?
Una prima ragione è sicuramente il fatto che circa 1 povero su 3 non è cittadino italiano, e la legge pone condizioni di accesso piuttosto severe agli stranieri. Una seconda ragione è che la misura è appena partita, ed è possibile che una parte degli aventi diritto abbia deciso di fare domanda in un secondo tempo (ma perché? non è chiarissimo). Una terza ragione potrebbe essere che il numero di poveri effettivo sia sensibilmente minore di quello stimato dall’Istat, soprattutto a causa del lavoro nero. Dal momento che la legge prevede il carcere per chi usufruisce del reddito e lavora in nero, non si può escludere che molti disoccupati che lavorano in nero, prima di fare domanda attendano di capire se ci saranno controlli o se, come è assai più probabile, i controlli saranno così pochi da rendere trascurabile il rischio di essere scoperti.
Quel che si può dire fin d’ora, però, è che questa partenza lenta e un po’ contrastata del sussidio targato Cinque Stelle potrebbe produrre qualche conseguenza non prevista, sia in ambito economico sia in ambito elettorale.
Sul piano economico, il fatto che il numero di domande accolte possa essere sensibilmente inferiore al previsto potrebbe dare un po’ di sollievo ai conti pubblici, ridimensionando le preoccupazioni (e le critiche) delle opposizioni.
Sul piano politico, il fatto che, prima delle Europee, la platea dei beneficiari effettivi possa risultare molto più ristretta di quanto si pensava, e che molti si siano vista respingere la domanda, potrebbe rendere il risultato elettorale dei Cinque Stelle particolarmente deludente, o addirittura trasformare l’arma del “reddito di cittadinanza” in un boomerang elettorale.
Ma la conseguenza più importante potrebbe essere di tipo sociale. Se fossero numerosi i casi in cui il reddito di cittadinanza viene percepito ma non è dovuto, e inoltre non risultasse possibile occultarli, l’introduzione di questa misura, pensata in chiave essenzialmente solidaristica, potrebbe avere conseguenze paradossali. Anziché rafforzare la coesione sociale, il sussidio potrebbe attivare sentimenti di frustrazione e di invidia sociale, l’esatto contrario di quanto si propone. Chi campa con un reddito modesto, e osserva il vicino che lavora in nero, difficilmente potrà sopportare che quest’ultimo lo cumuli con il reddito di cittadinanza.
Possiamo pensare, naturalmente, che i casi in cui si accede al reddito in base a false autocertificazioni saranno pochissimi, e che la maggior parte degli italiani facciano dichiarazioni veritiere. Purtroppo nelle occasioni in cui sono stati fatti controlli a campione (penso, in particolare, alle autocertificazioni per le tasse universitarie e i ticket ospedalieri) il verdetto è stato un altro: le false dichiarazioni non sono mai risultate una piccola percentuale, e in diversi casi hanno coinvolto da un terzo alla metà dei casi. E questo per l’ottimo motivo che i controlli sono così rari, e le sanzioni così raramente irrogate, che i cittadini sanno perfettamente di non correre alcun reale pericolo dichiarando il falso, o stiracchiando a proprio vantaggio la verità.
C’è solo da sperare che, con un governo che si proclama “del cambiamento”, questa volta le cose vadano diversamente.

Articolo pubblicato su Il Messaggero



Flat tax e Iva, la grande ammuina

Prepariamoci. Fino alla fatidica data delle elezioni europee (26 maggio), ma anche dopo – se il governo sopravviverà – siamo destinati ad essere sommersi da una girandola di cifre, aliquote, clausole, scaglioni, detrazioni, deduzioni, sgravi, regimi fiscali speciali o agevolati, con cui cercheranno di acquisire il nostro favore, cioè il nostro voto. Possiamo stare certi che sentiremo decine di ipotesi di “rimodulazione” delle aliquote, innumerevoli dichiarazioni sull’assoluta esigenza di alleggerire il carico fiscale delle famiglie, disinnescare l’aumento dell’Iva, combattere l’evasione, introdurre più o meno rapidamente la flat tax. E poiché, come sempre, mancheranno cifre certe e dettagli essenziali, sarà difficilissimo capire che cosa davvero ci viene gentilmente promesso.
In questa situazione, però, una bussola relativamente chiara c’è. E’ un numeretto semplice-semplice, che non dice tutto sulla politica economica di un governo, ma dice molto. Anzi moltissimo. Questo numeretto è la pressione fiscale, ossia il rapporto fra le entrate totali della Pubblica Amministrazione e il Pil. Se la pressione fiscale diminuisce (come quasi tutti promettono, in campagna elettorale), allora vuol dire che il governo sta dando ossigeno all’economia. Se invece aumenta, allora significa che il governo sta soffocando l’economia. Certo quel numeretto non dice tutto, perché non è la stessa cosa prelevare ai ricchi o ai poveri, alle imprese grandi o a quelle piccole, all’economia regolare (inasprendo le aliquote) o a quella irregolare (costringendo gli evasori a pagare il dovuto). Però resta il fatto che dentro quel numeretto c’è l’essenziale, perché fornisce il segno della politica fiscale.
Il vantaggio di ragionare sulla pressione fiscale, anziché sulle singole misure, è che neutralizza il comando “facite ammuina” che, a giudicare dalle dichiarazioni, dalle interviste e dai tweet, tutti i governi paiono indirizzare ai loro ministri quando le risorse sono scarse rispetto alle promesse. Lo scopo del facite ammuina (confusione, in dialetto napoletano) è inondare l’opinione pubblica di presunte misure di alleggerimento fiscale, senza menzionare le contromisure, anch’esse di natura fiscale, che finanziano e quindi neutralizzano più o meno integralmente le prime. Fra tali contromisure vorrei ricordarne una ovvia e due che lo sono molto di meno.
La contromisura ovvia è l’aumento di altre tasse, di cui si parla pochissimo o si parla ideologicamente, per non dire infantilmente (far piangere i ricchi, punire le banche cattive, ecc.). Le due contromisure meno ovvie sono la cosiddetta lotta all’evasione fiscale e la riduzione delle cosiddette tax expenditures, ossia il disboscamento della selva delle esenzioni, crediti di imposta, deduzioni e detrazioni varie.
Questi ultimi due tipi di misure sono interessanti perché, a prima vista, sono meritorie (e in parte lo sono davvero), in quanto capaci di eliminare iniquità e privilegi. Chi non è d’accordo sul fatto che è ingiusto che il carico fiscale pesi sui contribuenti onesti, e che una miriade di professionisti, artigiani, partite iva, esercizi commerciali, microimprese evadano in tutto o in parte le tasse? Chi non si chiede come mai certe categorie di imprese, associazioni, settori produttivi debbano godere di speciali agevolazioni e sgravi, che sono invece negati ai contribuenti “normali”?
E tuttavia, se ci si riflette attentamente, non è difficile accorgersi dell’altra faccia della luna. Ogni azione di riduzione dell’evasione fiscale e delle agevolazioni, oltre a produrre pesanti riflessi produttivi e occupazionali, comporta inesorabilmente un aumento della pressione fiscale. Questo non significa che non si debba cercare di ridurre evasione e privilegi fiscali ingiustificati, ma che la domanda che dobbiamo farci sempre è del tipo: ok, il tale governo promette una riduzione di una o più imposte, ma si può sapere se, e in che misura, quelle lodevoli riduzioni saranno finanziate, e quindi vanificate, da aumenti di gettito in altri punti del sistema?
Ecco perché, alla fine, il numeretto della pressione fiscale è cruciale. Una riforma dell’Irpef, dell’Irap, dell’Ires o di altre imposte che riduca alcune aliquote e si accompagni anche a una riduzione della pressione fiscale è positiva perché restituisce un po’ di ossigeno all’economia. Una riforma che riduca certe tasse, magari scelte fra le più impopolari, ma aumenti la pressione fiscale è negativa perché soffoca l’economia.
Questa seconda eventualità è, purtroppo, quella in cui siamo incagliati attualmente. Con la legge di bilancio dell’anno scorso, che ora sta dispiegando i suoi effetti, si è deciso di ridurre alcune tasse ma se ne sono aumentate talmente tante altre che la pressione fiscale complessiva è salita (nel 2019 è prevista al 42.4%, contro il 42.0% dell’anno scorso). Per l’anno che viene rischia di andare anche peggio. Mentre si favoleggia di flat tax (che flat comunque non sarà, visto che si parla di 2 aliquote), si cercano disperatamente le risorse (23 miliardi) per evitare l’aumento dell’iva, che questo governo ha messo nella legge di bilancio per evitare la bocciatura dell’Europa. Ma le uniche fonti di finanziamento strutturali ipotizzate sono la spending review (per un importo ridicolo: circa 2 miliardi nel 2020) e il taglio delle cosiddette tax expenditures, ossia delle esenzioni e agevolazioni, un’azione che per definizione fa salire la pressione fiscale: tagliare gli sgravi, infatti, significa precisamente aggravare il peso del fisco sui contribuenti. Le previsioni che circolano, forse fin troppo ottimistiche, ipotizzano un ulteriore aumento della pressione fiscale nel 2020, che salirebbe dal 42.4 al 42.8%. Ma state sicuri che, quel numeretto, si farà di tutto per avvolgerlo con una fitta nebbia, perché rivelarlo significherebbe far crollare il castello di carte della politica fiscale: che consiste nel fingere che tutto cambi, nascondendo il dato cruciale, ossia che complessivamente pagheremo più tasse di prima.
Dunque la cruda realtà è questa. Proprio perché la pressione fiscale aumenterà anche l’anno prossimo, al governo gialloverde non resterà che la consolidata tecnica del “facite ammuina”. E’ facile prevedere lungo quali linee. L’aumento dell’Iva ci sarà, ma sarà presentato come un “rimodulazione”, in modo che non sia troppo evidente che complessivamente l’imposta è aumentata (anche se meno di 23 miliardi, si spera). La cancellazione di sgravi ed esenzioni sarà presentata come una grande operazione di “riordino”, per nascondere il fatto che, anche qui, si chiede agli italiani di pagare più tasse. Infine, per dare l’impressione che sulla flat tax qualcosa si sia cominciato a fare, qualche tassa e qualche aliquota sarà ritoccata verso il basso, naturalmente attingendo al gettito delle tasse che si sono aumentate o degli sgravi che si sono cancellati.
Però attenzione: è molto probabile che le poche aliquote che saranno un po’ alleggerite saranno quelle dell’Irpef, che grava sulle famiglie, e non quelle dell’Ires o dell’Irap, che gravano sulle imprese. Perché la stella polare di chi ci governa, non solo in Italia e non da oggi, è la massimizzazione del consenso. Con un’importante differenza rispetto al passato. Un tempo gli studiosi di politica economica, per segnalare il fatto che, sotto elezioni, le decisioni dei governi diventavano demagogiche, parlavano di “ciclo elettorale”, ossia di un’anomalia che si presentava periodicamente, ogni 4 o 5 anni, in prossimità delle elezioni politiche. Oggi parlare di ciclo elettorale non ha più senso, perché i politici sono sempre in campagna elettorale, a prescindere dall’imminenza di scadenze elettorali. L’idea che, valicato l’appuntamento elettorale, possa esservi, se non un ritorno alla ragione, almeno un allentamento del calcolo del consenso, è completamente fuori della realtà. Ormai i politici sono in campagna elettorale sempre, ogni anno, ogni mese, ogni, giorno, ogni minuto. E la qualità delle decisioni politiche è esattamente quella che, in queste condizioni, è lecito aspettarsi.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 aprile 2019



Siamo Europei?

Più si avvicina la data delle elezioni europee e più diventa difficile districarsi. A giudicare dalla propaganda dei partiti, lo scontro sarebbe fra europeisti e sovranisti. Da una parte le forze europeiste, ovvero Pd, Forza Italia, + Europa (la lista di Emma Bonino), dall’altra le forze sovraniste, ovvero Lega, Cinque Stelle, Fratelli d’Italia. Gli uni convinti dell’inestimabile valore dell’edificio europeo, gli altri fautori di un ritorno al primato degli stati nazionali. O anche, secondo una versione più radicale del medesimo racconto: i primi determinati a salvare l’Europa dalla disgregazione cui sta andando incontro, gli altri ben contenti di infliggere all’Europa il colpo di grazia.
A guardare le cose con più attenzione, tuttavia, le cose sono molto più complicate di come sembrano.
Dopo l’era dei proclami anti-europa e anti-euro, non c’è praticamente alcuna forza politica importante che auspichi l’uscita di uno stato membro dall’Unione, e tantomeno il ritorno alla valuta nazionale. D’altro canto, fra le forze che si proclamano europeiste, non ve n’è neppure una che non riconosca i gravi limiti dell’edificio europeo e della sua governance.
Dunque è lecito porre la domanda: che significa, oggi, essere europeisti? O ancora meglio: per chi deve votare chi si sente europeista?
A prima vista la risposta è semplice: se sei europeista, vota la lista di Emma Bonino oppure il Pd. In effetti, sono gli unici partiti che hanno l’Europa nel nome stesso. Il partito della Bonino si chiama +Europa, il partito di Zingaretti di presenterà con un simbolo nel quale giganteggia la scritta “Siamo europei” (una concessione a Calenda e al suo manifesto per l’Europa).
Se però ci pensiamo bene, il quadro si complica non poco. Una prima complicazione deriva dal fatto che, sulle cose che contano, ossia la politica economico-sociale, non sono affatto chiare le differenze fra i due schieramenti. Al momento, se provate a interrogare un elettore europeo, è molto improbabile che abbia un’idea di quel che effettivamente farebbe, in materia di tasse e spesa pubblica, una Commissione Europea a maggioranza socialista, popolare, o sovranista. Del resto, quasi sicuramente, non avremo né un governo europeo a guida socialista, né uno a guida popolare, né tantomeno uno a guida sovranista. Quel che è ragionevole aspettarsi è o il solito ménage a trois fatto di popolari, socialisti e liberaldemocratici, oppure un qualche tipo di alleanza dei popolari con conservatori e sovranisti.
Ma c’è una seconda complicazione, molto più seria. L’ha messa molto lucidamente in luce Massimo Cacciari qualche giorno fa quando, di fronte a un Carlo Calenda visibilmente soddisfatto che il Pd avesse fatto proprio il motto “Siamo Europei”, inserendolo addirittura nel simbolo elettorale, ha fatto notare che quello “è uno slogan sbagliato perché dà l’idea che l’Europa funzioni”. Secondo Cacciari lo slogan doveva essere un altro, ovvero “Nuova Europa”, per segnalare che si è consapevoli di tutto quello che nell’Europa non va.
Ecco, credo che Cacciari abbia individuato con precisione chirurgica il tallone d’Achille del fronte europeista. Il rischio è che l’elettorato non percepisca affatto gli autoproclamati europeisti come gli intrepidi difensori della casa europea minacciata dai sovranisti, ma al contrario li veda come i custodi dello status quo, che i sovranisti vogliono giustamente sovvertire.
Che questo rischio sia reale mi ha convinto la risposta che Carlo Calenda ha dato a una acuminata domanda di Lilli Gruber: “in queste ore c’è una nave di una Ong tedesca con 60 naufraghi a bordo che chiede di attraccare in Italia, se lei fosse al governo come si comporterebbe?”. Risposta di Calenda: “io li farei sbarcare e chiederei agli altri paesi europei di prenderli pro-quota”. Salvo poi aggiungere, con l’accordo di tutti i presenti, che una delle ragioni per cui l’Europa non ha funzionato è precisamente il nazionalismo degli stati membri, a partire da Francia e Germania.
Che cosa può capire un elettore di fronte a questa posizione?
Può capire tante cose, ad esempio che il Pd vuol cambiare le regole, e si batte per un’Europa più solidale. Ma può anche capire una cosa diversa. Ad esempio che nulla è cambiato, e che la posizione dell’Italia sarebbe la solita: in nome dell’umanità ci rassegniamo a far sbarcare chiunque sia raccolto in mare, e poi, solo poi, dopo aver accolto i naufraghi in Italia, “chiediamo” agli altri paesi se per favore ne prendono in carico una parte. Ma potrebbe andare anche peggio, per il fronte europeista. L’elettore sconcertato da discussioni come quella fra Calenda e Cacciari, entrambi scatenati come furie contro il nazionalismo passato di quasi tutti gli stati europei, potrebbero anche pensare che lo scontro di maggio non sia fra europeisti e nazionalisti, ma fra il nazionalismo passato dei governi europei, che ha scaricato interamente sull’Italia il dramma dei flussi migratori, e il nazionalismo futuro promesso dai sovranisti, che essi promettono meno penalizzante per l’Italia.
A queste osservazioni, ne sono certo, qualcuno obietterà che sono “ben altri” i problemi dell’Europa, dalla crescita alle diseguaglianze, dall’ambiente alla politica estera, dal commercio con la Cina alla difesa dei consumatori, e che quello migratorio è solo uno dei tanti dossier. Può anche darsi, anzi direi che è proprio così. Ma il punto è che, stante l’incapacità dei politici di fare promesse chiare e credibili in materia economico-sociale, la campagna elettorale si concentrerà su un’unica questione, quella dei migranti. E’ su questo terreno che gli europeisti di casa nostra, se non vogliono essere travolti dall’ondata sovranista e populista, sono chiamati a fornire risposte non elusive. Dire che prima li facciamo sbarcare e poi si chiede agli altri paesi di accoglierli, significa lanciare un solo terribile messaggio: niente da fare, tutto come prima. Con tati saluti alla “nuova Europa” giustamente vagheggiata da Massimo Cacciari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 6 aprile 2019