La finzione delle regole europee

Con i ballottaggi di domenica, finalmente, dovremmo – almeno per qualche mese – lasciarci alle spalle i battibecchi fra comari che ci hanno deliziato negli ultimi mesi. Da domani sentiremo ancora litigare i nostri governanti, ma le questioni su cui si accapiglieranno fra loro e con le opposizioni saranno, inevitabilmente, ben più cruciali di quelle su cui si sono esercitati fin qui.
Al centro di tutto, la prossima legge di bilancio e il nostro modo di stare in Europa (ammesso che in Europa si resti, e che una sciagurata concatenazione di volontà e di circostanze non ci forzi ad uscirne).
Il problema di fondo è ben noto. L’attuale governo ha speso, in deficit, una quindicina di miliardi per mantenere alcune promesse elettorali, in particolare reddito di cittadinanza e quota 100. Altre promesse, in particolare la flat tax, le ha sostanzialmente accantonate (il mini provvedimento sulle partite Iva fino a 65 mila euro vale appena un centesimo del costo globale della flat tax). Altre promesse ancora, in particolare quella di non aumentare l’IVA, per ora le ha tradite, perché nella legge di bilancio dell’anno scorso non ha cancellato le clausole di salvaguardia che ne prevedono l’aumento fin dal 2020.
La situazione si può dunque riassumere così: il governo, che nel 2019 ha aumentato la pressione fiscale, ora vorrebbe occuparsi di ridurla, ma può farlo solo in deficit perché reddito di cittadinanza e quota 100, ossia le due promesse più demagogiche di Lega e Cinque Stelle, sono state anteposte alla promessa più utile al Paese, quella di alleggerire la pressione fiscale.
E’ da questi dati di fondo che scaturisce il racconto che ascolteremo nei prossimi mesi. Dovendo trovare un colpevole, e non potendo individuarlo in sé stessi, i nostri governanti se la prenderanno con l’Europa (che ci imporrebbe regole assurde) e con i governi precedenti (che avrebbero sempre aumentato il debito).
Però, attenzione. Il fatto che la attuale mancanza di risorse dipenda anche dalle scelte demagogiche del governo (tanta assistenza, pochi investimenti), non implica che i rilievi verso l’Europa e verso i governi passati siano del tutto ingiustificati. Bisogna essere molto faziosi per non accorgersi di alcune stranezze dell’una e degli altri.
La più grave, a mio parere, è la fortissima discrezionalità con cui vengono fatte valere le regole comuni, e in particolare la regola del 3% di deficit, negli ultimi anni sostituta dalla ancor più severa regola che obbliga i paesi a convergere verso il pareggio di bilancio. Ebbene queste regole sono state tranquillamente ignorate quando a violarle erano paesi come la Francia o la Germania ma, fatto a mio parere ancora più grave, nel caso dell’Italia sono state addolcite o inasprite a seconda che il governo fosse o non fosse in sintonia con il pensiero dominante a Bruxelles. E’ così potuto accadere che al governo italiano fosse concessa ogni sorta di sforamento e dilazione negli anni di Renzi e Gentiloni, nonostante fosse proprio allora che, grazie alla buona congiuntura economica, avremmo dovuto e potuto provare a mettere in ordine i nostri conti; e, simmetricamente, ora accade che, a dispetto della cattiva congiuntura economica, al governo italiano venga assai più perentoriamente richiesto di obbedire alle regole. Le difficoltà dell’attuale governo sono anche la conseguenza della rinuncia della Commissione a mettere in riga i governi precedenti, spesso rimproverati ma mai sanzionati.
La realtà, temo, è che – giuste o sbagliate che siano – le regole europee sono usate dalla Commissione come uno strumento di politica economica, per impedire ai paesi membri di attuare politiche sgradite e per indurli ad attuare quelle che la Commissione stessa giudica corrette. Il che non è sbagliato in sé, ma per il modo, opaco per non dire ipocrita, con cui questo ruolo di indirizzo viene esercitato. Anziché promuovere una franca discussione pubblica sulla politica economica dell’Europa, le autorità europee preferiscono governare gli Stati membri attraverso la finzione delle regole, chiudendo un occhio quando lo Stato che sgarra è forte o in linea con i principi di Bruxelles, e tenendo entrambi gli occhi ben spalancati quando a violare le regole è uno Stato debole o in contrasto con l’ortodossia europea.
Personalmente credo che, insieme ad alcuni principi arbitrari o basati su un’evidenza empirica traballante, vi siano anche molte buone ragioni dal lato delle autorità di Bruxelles, e che molte raccomandazioni della Commissione – prima fra tutte quella di contenere il debito pubblico – siano più che ragionevoli. Ma proprio per questo trovo assai grave che, con il loro esercizio spudorato della discrezionalità, siano le autorità europee stesse a infliggere i colpi più micidiali alla propria credibilità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del  10 giugno 2019



Il racconto dell’Italia

A proposito del successo della Lega

Quel che è successo domenica scorsa in Italia, ovvero l’exploit della Lega (dal 17% di un anno fa al 34%), accoppiato al flop dei Cinque Stelle (dal 32% al 17%), non ha precedenti in nessuna elezione italiana del passato, ma credo non ne abbia neppure in alcuna elezione mai avvenuta in un paese occidentale. Se anziché sui voti ottenuti dal singolo partito consideriamo la differenza fra i voti dei due partiti, l’entità del cambiamento diventa ancora più evidente: la Lega era 15 punti sotto i Cinque Stelle alle politiche dell’anno scorso, ora è 17 punti sopra, dunque lo spostamento complessivo di consensi è di ben 32 punti. Un’enormità.
Tutti sappiamo che un fattore decisivo nel successo della Lega è stata la ostilità agli ingressi irregolari in Italia, e più in generale la sensibilità di Salvini alla domanda di sicurezza degli elettori. Ma basta questo elemento a spiegare un simile terremoto elettorale?
Penso di no, e credo che dovremmo interrogarci sulle radici profonde del successo leghista, al di là della linea dura sui migranti. Lo farò partendo da una autocritica: nel mio ultimo articolo su questo giornale avevo ipotizzato, erroneamente alla luce di quel che è poi successo, che la Lega avrebbe raccolto meno consensi di quanti gliene venivano attribuiti da alcuni sondaggi. Non avevo indicato cifre, ma ora che il silenzio elettorale è terminato, posso confessare che mi aspettavo un risultato vicino al 30%, magari appena al di sotto, ma non il 35% che certi sondaggi autorizzavano a ipotizzare, e che poi è stato sostanzialmente raggiunto.
Dunque c’era qualcosa di sbagliato nel mio modo di vedere le cose. Ma che cosa? La domanda non sarebbe interessante se io fossi il solo ad aver sottovalutato l’entità del boom leghista, ma non è questo il caso. Lo stesso Salvini, che nella campagna elettorale di un anno fa non aveva esitato a dirsi certo di superare Forza Italia, nel caso del voto europeo ha ammesso di essere rimasto lui stesso stupito del trionfo elettorale della Lega. Così come stupiti, o meglio costernati, attoniti, inorriditi, sono apparsi tanti oppositori di Salvini.
Ecco perché credo che la domanda ci stia tutta: dove abbiamo sbagliato? Che cosa non abbiamo capito?
Per parte mia credo di aver imparato almeno una cosa: anche in politica, come su internet, nella scuola, alla radio, in tv, il costume è profondamente cambiato, e ciò che a una parte di noi, evidentemente minoritaria, appare come inappropriato in bocca a chi dovrebbe rappresentare il Paese intero, alla maggior parte degli italiani risulta invece non solo accettabile, ma divertente, eccitante, parte del grande spettacolo della politica. Una deriva, questa, cui i mezzi di comunicazione di massa negli ultimi dieci-quindici anni hanno dato un impulso decisivo.
Non è tutto, però. Credo che se vogliamo capire il successo della Lega non possiamo limitarci a dire che tanti italiani sono contrari agli ingressi irregolari, e non si scandalizzano affatto se questa contrarietà viene enunciata in modo un po’ rude e semplicistico. Più sento Salvini parlare, specie quando i temi sono economici, più mi convinco che, accanto al tema dell’immigrazione, nel successo della Lega conti anche un altro fattore: il tipo di racconto della storia di questi anni che essa ha fatto proprio. Dico “ha fatto proprio” perché quel racconto ha le sue radici teoriche a sinistra, anzi nell’estrema sinistra, e risale indietro nel tempo almeno al 2005-2006 (un paio di anni prima della crisi), quando sulle riviste accademiche e sui giornali scoppiò la contesa sull’abbattimento del debito, difeso dai riformisti-doc ma osteggiato dalla sinistra radicale.
Al cuore di quel racconto vi è l’idea che sia sbagliato perseguire, come le regole europee imporrebbero, l’abbattimento del debito pubblico, e che buona parte dei guai dell’Italia, bassa crescita, bassa occupazione, bassi salari, non dipendano da noi ma dall’assurdità delle regole europee e dalla sciagurata scelta di entrare nel club dell’euro.
Ora, il punto è che quel racconto, giusto o sbagliato che sia, è stato progressivamente adottato da tutte le forze politiche estreme, di sinistra, di destra e né di destra né di sinistra. Agli eredi di Rifondazione comunista si sono aggiunti lungo la via la Lega, Fratelli d’Italia, il Movimento Cinque Stelle: una traiettoria magistralmente impersonata dall’economista Alberto Bagnai, passato senza battere ciglio dall’estrema sinistra alla Lega proprio perché l’analisi di fondo sulla società italiana e sull’origine delle sue difficoltà era assai simile. E, per certi versi, è condivisa anche da una parte delle forze politiche moderate: dopotutto è stato Prodi il primo a definire “stupido” il patto di stabilità; sono stati Berlusconi e Tremonti a denunciare gli aspetti più barocchi e masochistici della costruzione europea; è stato Renzi a ingaggiare estenuanti negoziati sulla flessibilità irridendo con stile pre-salviniano gli “zero-virgola” dei burocrati europei.
Ed ecco la conclusione. Il racconto per cui, fondamentalmente, i problemi dell’Italia hanno la loro origine a Bruxelles, proprio perché sostanzialmente condiviso da quasi tutte le forze politiche, è penetrato profondamente nel senso comune dell’opinione pubblica. Che la sua origine sia soprattutto a sinistra, non ha impedito alla destra di appropriarsene e di farne un potente strumento di agitazione politica. Proprio perché quel racconto, anche grazie ai media, è poco per volta divenuto dominante, alla Lega oggi è facilissimo raccontare che abbiamo avuto dieci anni di austerità, che l’austerità ci è stata imposta dall’Europa, che l’austerità non ha funzionato, e dunque si tratta solo di fare il contrario di prima: se cercando di limitare il deficit siamo andati indietro, sfondando il 3% andremo avanti.
Che questo racconto possa non stare in piedi, e che la ricetta possa portarci al disastro come nel 2011, poco importa e poco conta. Perché la forza del racconto salviniano è che non chiede sacrifici e non prevede obblighi, e anzi aiuta gli italiani ad autoassolversi, a pensarsi come vittime degli errori dell’Europa, piuttosto che come corresponsabili del declino del proprio Paese.
Del resto, un racconto non decade perché ha qualche falla logica o qualche tassello fuori posto. In politica un racconto decade perché al suo posto ne subentra uno diverso, più convincente, o più capace di suscitare energie e speranze. E un tale racconto, è amaro ma doveroso riconoscerlo, finora nessuno è stato in grado di costruirlo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 1 giugno 2019



Salvini, che sbaglio!

Può darsi che le imminenti elezioni europee mi smentiscano, ma ho l’impressione che il voto potrebbe riservare alla Lega un risultato sensibilmente inferiore alle aspettative del suo leader, drogate da mesi e mesi di sondaggi esaltanti. Dicendo questo non sto pensando al cosiddetto “effetto-winner”, per cui il vincitore annunciato di un’elezione riceve nei sondaggi più consensi di quelli che raccoglierà effettivamente alle urne. Né sto pensando all’effetto, potenzialmente disastroso, che potrebbero produrre il caso Siri, la “tangentopoli lombarda”, o lo scandalo che ha travolto uno dei principali alleati di Salvini in Europa, il vice-cancelliere austriaco Heinz Christian Strache, accusato (come Salvini) di trafficare con la Russia in cambio di sostegno finanziario al proprio partito. No, quello cui sto pensando è il lento ma inesorabile appannamento della figura di Salvini di cui è responsabile lui stesso.
In che modo?
Si possono fare innumerevoli esempi, ma il loro denominatore comune è molto semplice: è la rinuncia a rivolgersi a tutti gli italiani, anziché esclusivamente alla platea dei suoi sostenitori più accesi. Questa rinuncia si manifesta in innumerevoli forme e attraverso innumerevoli episodi: l’uso di un linguaggio aggressivo, l’occupazione sistematica delle piazze e della tv, la scarsissima presenza al Viminale, l’uso strumentale dei simboli religiosi (avevate mai visto un ministro dell’Interno agitare un rosario a un comizio?), la mancanza di rispetto per il Presidente del Consiglio, i due pesi e due misure nell’attuazione degli sgomberi, la tendenza a strumentalizzare i temi della fede e della religione, con tanti saluti alla tradizione laica della Lega. Ma non solo: anche la tendenza a liquidare con una battuta, anziché con una spiegazione, molte ragionevoli obiezioni che riceve, da destra prima ancora che da sinistra. Perché ha preferito anteporre quota 100 alla flat tax? perché aumentare ancora il debito pubblico, scaricando sulle generazioni future la fame di consenso elettorale di Lega e Cinque Stelle? come mai i rimpatri sono così pochi? perché non si occupa di firmare nuovi accordi con i paesi africani, come aveva promesso in campagna elettorale?
Così facendo Salvini si sta sempre più riconfigurando come il punto di riferimento di una parte soltanto degli italiani, di cui spesso non fa che esasperare gli animi, e di fatto sta rinunciando a convincere la maggioranza dei cittadini delle sue buone ragioni. E’ un peccato, un vero peccato, perché quelle ragioni, disgiunte dal modo brutale e talora volgare con cui sono affermate, esistono e sono condivise da moltissime persone, indipendentemente dal fatto che elettoralmente scelgano la Lega o un altro partito. Di tali ragioni, probabilmente la più importante è la richiesta di legalità e di ordine. Agli italiani, popolo tradizionalmente propenso a ignorare o aggirare le regole, piace sempre di meno vivere in un paese in cui gruppi sempre più ampi e spregiudicati di persone, italiane e straniere, se ne infischiano della legalità, e spesso di tale atteggiamento si mostrano persino fiere. Migranti che entrano disordinatamente in Italia per lo più senza avere alcun diritto allo status di rifugiato. Gruppi, di italiani e di stranieri, che spadroneggiano nelle periferie delle nostre città. Occupanti di case popolari che si appropriano di alloggi cui altri avrebbero diritto. Forze politiche che teorizzano che chi difende una buona causa ha tutto il diritto, e forse addirittura il dovere, di non rispettare le leggi, come è successo di recente con i sindaci che si rifiutano di applicare il decreto sicurezza, ma anche con il consenso che il “reato a fin di bene” dell’elemosiniere del Papa (ridare la corrente a chi non paga le bollette) ha ricevuto a sinistra.
Ebbene, tutto questo ha stancato una parte considerevole degli italiani. Salvini, ha avuto il merito di intercettare e dare una voce a questo sentimento collettivo, che è di esasperazione ma anche di rivolta morale contro una situazione giudicata ingiusta. Non si capisce perché la maggioranza dei cittadini debba rispettare le leggi, fino al punto di accettare le innumerevoli vessazioni cui vengono sottoposti dalla burocrazia, dal fisco e da una giustizia lenta e farraginosa, e altri cittadini possano invece sottrarsi ad ogni regola, o incassare tutti i benefici della benevolenza pubblica e privata senza sottostare ad alcun dovere. Non si capisce perché in certi territori lo Stato si comporti in modo vessatorio, e in altri non osi neppure mettere piede. Non si capisce perché chi commette ripetutamente reati quasi mai sconti una pena in carcere. Non si capisce perché a decine, forse centinaia di migliaia di stranieri, sia consentito girare senza documenti, o con documenti falsi, mentre da tutti gli altri si esige che abbiano i documenti in regola.
Questi pensieri e questi vissuti, contrariamente a quanto amano pensare le persone più accecate dall’ideologia, non sono appannaggio di una minoranza ultrapoliticizzata, xenofoba e razzista, ma sono condivisi dalla maggior parte degli italiani, e segnatamente dai ceti popolari, che hanno una visione concreta dei problemi. Quante volte abbiamo sentito, in questi mesi, operai ed ex militanti comunisti dichiarare convintamente di votare Salvini, senza per questo cessare di definirsi comunisti, di sinistra, progressisti. E’ questo che, fin dall’inizio, ha sempre fatto la forza della Lega, un partito che già nei primi anni ’90 veniva votato da impiegati e operai “con in tasca la tessera della CGIL”.
Ora tutto questo rischia di appannarsi. Se continuerà sulla strada imboccata negli ultimi mesi, quella di rivolgersi essenzialmente alla parte più radicale ed esasperata del suo elettorato, sollecitandone gli istinti peggiori, Salvini difficilmente potrà mantenere il consenso che ha rapidamente conquistato in un anno di governo. Perché quel consenso non era solo dovuto alla sua capacità di parlare chiaro, e di comprendere lo stato d’animo di tanti italiani, ma anche alla sua volontà di rivolgersi a tutti, non solo ai suoi fan più accesi. Insomma, radicalizzando ed esasperando il suo volto feroce, Salvini rischia non solo di perdere consensi, ma anche di infliggere un duro colpo alle idee generali che hanno guidato la sua azione.
Non sarebbe una buona cosa, perché una parte di quelle idee, prima fra tutte l’esigenza di mettere un freno all’anarchia della società italiana, erano sacrosante, e condivise da un pubblico che va ben al di là del perimetro della Lega.

Articolo pubblicato su Il Messaggero



Sinistra, tolleranza zero?

Adesso che tutto è passato, il Salone del Libro di Torino è finito, la “mobilitazione antifascista” ha raggiunto il suo obiettivo (impedire a un piccolo editore che si proclama fascista di esporre i suoi testi, fra i quali un libro-intervista al ministro dell’interno Matteo Salvini), forse è possibile provare a parlare di quel che è accaduto con un minimo di pacatezza. Perché una cosa credo non si possa negarla: l’episodio di Torino un problema lo solleva, e si tratta di un problema grosso come una casa.
È giusto impedire l’esercizio della libertà di espressione a chi ha idee politiche che si richiamano al fascismo? Può una democrazia, che si proclama tollerante e aperta al diverso, comportarsi come una dittatura nei confronti di determinate persone e di determinate idee?
Come si sa, sul piano giuridico la questione si riduce a interpretare in modo più o meno severo le due leggi che si occupano del tema (la legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993), specie nei casi in cui lo zelo antifascista può entrare in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, che tutela la libertà di pensiero: “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Ma sul piano politico e civile?
Su questo piano, a me pare che l’episodio di Torino non sia un buon segnale di salute della nostra democrazia. E lo credo per due ragioni, che si intrecciano fra loro. La prima riguarda le anime belle che hanno proclamato di non essere disposte a partecipare al Salone in quanto indignate, offese, turbate, imbarazzate dalla mera presenza fisica di una casa editrice il cui proprietario ha idee che le anime belle stesse considerano deprecabili. Ebbene quelle idee le trovo pessime anch’io, ma penso che dovremmo sempre distinguere fra le opinioni espresse in modi che non ledono alcun diritto e le opinioni espresse in modi che possono ledere diritti individuali (è il caso delle intimidazioni, dell’istigazione alla violenza, delle ingiurie), o addirittura costituire concreta minaccia all’ordine democratico (era questa l’ispirazione della legge Scelba, ed è questo l’orientamento della legislazione antinazista in Germania).
Mi si permetta di dirlo in modo provocatorio: il turbamento ideologico di qualcuno non può mai essere un buon motivo per tappare la bocca a qualcun altro, finché questo “qualcun altro” si limita a esprimere un punto di vista, senza minacciare, offendere, esercitare violenza o prevaricazione. Né si pensi che il problema riguardi solo la politica: la pretesa di far valere la propria personale sensibilità (o i propri pregiudizi) sta già mettendo in crisi alcuni insegnamenti universitari negli Stati Uniti, dove può accadere che a un professore venga proibito di leggere un canto di Dante perché alcuni versi turberebbero la sensibilità di qualche individuo, gruppo o minoranza. Del resto succede anche da noi, quando una maestra ritiene che un bambino di religione islamica possa sentirsi turbato dalla vista del presepe. Di questo passo dovremmo arrivare a imporre il velo o il burqa alle ragazze occidentali, per non turbare la sensibilità dei maschi di culture meno libertine della nostra!
Per non parlare del problema speculare rispetto a quello del fascismo, quello dell’apologia del comunismo. Quanti milioni di persone si sentono ancora comuniste? Quanti sacerdoti dell’industria culturale sono stati comunisti o lo sono ancora? Ma che cosa diremmo se un perseguitato dal regime sovietico, o un intellettuale fuggito dalle prigioni cinesi, si rifiutasse di partecipare al Salone del libro perché offeso dalla presenza fisica di autori o case editrici che simpatizzano per il comunismo? Cosa potremmo replicare se ci dicesse che, ospitando certi stand, noi diventiamo moralmente corresponsabili delle terribili torture che lui ha subito in un lager comunista?
Credo che gli diremmo che non può sentirsi offeso dalla presenza di persone che, del comunismo, apprezzano ancora alcuni aspetti, e comunque lo fanno in modo civile e democratico, senza mettere a repentaglio la libertà di nessuno. Se si sente personalmente offeso, al punto da non poter partecipare a un incontro perché cinquanta metri più in là c’è uno stand che espone l’opera completa di Lenin, è un problema suo, solo suo. Ci mancherebbe altro che, in piena democrazia, dovessimo denunciare e cacciare tutte le case editrici che simpatizzano con il comunismo.
C’è però anche un’altra ragione per cui l’episodio di Torino mi ha rattristato, una ragione che, a suo modo, ha evocato anche l’editore Giuseppe Laterza in una bella intervista a “La Stampa”. Sotto quell’episodio, temo, c’è anche una malattia brutta dell’élite progressista in Italia: la sua incapacità di confrontarsi con quel pochissimo di dissenso culturale che ancora esiste nel nostro paese. Se provate a fare una lista dei pochi intellettuali, pensatori, scrittori, giornalisti difficili, in quanto in perenne dissenso con le idee che dominano nel mondo della cultura e dello spettacolo, non ne troverete quasi nessuno nel programma del Salone. Più che un’arena in cui si confrontano lealmente concezioni forti e contrapposte (come giustamente auspicava Laterza, editore di sinistra che ha pubblicato Marcello Veneziani), la festa del libro è ormai diventata essenzialmente una occasione di conferma reciproca, di autocelebrazione, di rassemblement della grande famiglia di quelli che hanno le idee giuste.
Il che solleva una ovvia domanda: ma se le idee sono così giuste, così democratiche, così aperte e tolleranti, perché tanta paura di confrontarsi con chi la pensa in modi radicalmente diversi?
E poi, forse, anche una meno ovvia: non sarà proprio per la sua incapacità di ascoltare il dissenso, di misurarsi con gli avversari politici e i critici non autorizzati, che la sinistra ha perso ogni contatto con la realtà? E non sarà proprio questo arroccamento nel proprio mondo di autocompiaciuti giusti ad averla irreparabilmente separata dai ceti popolari?

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 17 maggio 2019



Pd e Cinque Stelle, insieme al governo?

Un osservatore distratto delle vicende politiche italiane potrebbe anche stupirsi delle lodi che, improvvisamente, piovono dal mondo progressista sulla sindaca di Roma Virginia Raggi. Incapace e pasticciona fino a ieri, ora ricoperta di like grazie alla assegnazione di un alloggio a una famiglia rom bosniaca (nel quartiere romano di Casal Bruciato), a dispetto delle proteste degli abitanti. Così come potrebbe sorprendersi della freddezza, per non dire dell’irritazione, con cui Luigi Di Maio, solitamente schierato a difesa della Raggi, ha reagito alla scelta della sindaca di presenziare alla consegna dell’alloggio, in pieno stile Salvini.
In realtà non c’è da stupirsi più di tanto. Nelle stesse ore, a Torino, la sindaca Cinque Stelle (Chiara Appendino) e il governatore Pd del Piemonte (Sergio Chiamparino), mettevano a segno, in comune, un colpo “antifascista” con la presentazione di un esposto contro la casa editrice Altoforte e il suo editore (presenti al Salone del Libro), invitando i magistrati a “valutare se sussistano i presupposti per rilevare il reato di apologia di fascismo”, e se le dichiarazioni dell’editore non abbiano infranto ben due leggi della Repubblica (la Scelba del 1952 e la Mancino del 1993). Mesto epilogo di una vicenda in cui le ragioni dell’antifascismo e quelle della libertà di opinione hanno finito per trovarsi su opposte sponde.
Si potrebbe pensare che questi due episodi di convergenza fra Cinque Stelle e mondo progressista siano isolati, e in definitiva frutto di circostanze particolari. Se però proviamo a ripercorrere con freddezza gli ultimi mesi, non è difficile accorgersi che non è così. I terreni su cui Cinque Stelle e Pd, o Cinque Stelle ed estrema sinistra, sono o si sono trovati in sintonia sono davvero tanti, e tutt’altro che marginali.
Sul tema della giustizia, innanzitutto. La caduta di Armando Siri, difeso dalla Lega ma abbandonato dai Cinque Stelle, è anche il risultato della convergenza del Pd sulle tesi giustizialiste di Di Maio. E persino nel caso del soccorso a Salvini per la vicenda della Diciotti, solo la necessità di salvare il governo ha impedito il formarsi di un asse Cinque Stelle – Pd: se anziché ricorrere alla solita farsa pilotata della consultazione della base, Di Maio avesse lasciato libertà di coscienza ai suoi parlamentari, è facile immaginare che avremmo assistito a una spaccatura del Parlamento, con una parte dei Cinque Stelle alleati con la sinistra e schierati a difesa dell’azione dei magistrati contro Salvini.
Non c’è solo la giustizia, però. Sull’economia, fin dall’inizio della legislatura è stato evidente che le differenze fra i programmi dei Cinque Stelle e quelli della sinistra sono davvero marginali, essenzialmente questioni di tempi e di grado. Potenziare il reddito di inclusione, il mantra del Pd nei primi mesi della legislatura, non è cosa diversissima da quel che Di Maio ha effettivamente fatto, ossia depotenziare il reddito di cittadinanza. Se i 2-3 miliardi di stanziamento del Pd vengono aumentati a 6 o 7, e i 15-16 miliardi dei Cinque Stelle vengono ridotti a 8-9, il risultato macroeconomico è più o meno il medesimo: parliamo in entrambi i casi di una misura assistenziale, che comunque – finché qualcuno non si decidesse a riorganizzare i centri per l’impiego – verrebbe gestita nella confusione e nella disorganizzazione. O qualcuno pensa che dove Di Maio pasticcia, Poletti avrebbe fatto faville?
Stesso discorso sul salario orario minimo, dove le differenze fra Pd e Cinque Stelle sono davvero marginali, e riguardano semmai i rapporti con la contrattazione collettiva.
Si potrebbe obiettare che almeno su un punto, l’Europa, sinistra e Cinque Stelle si muovono su lunghezze d’onda diverse. Forse è vero, almeno nelle intenzioni, ma persino su questo terreno i punti di contatto sono numerosi. L’estrema sinistra è da sempre schierata contro il rispetto del tetto del 3% e a favore di un incremento della spesa pubblica “per stimolare la domanda e rilanciare gli investimenti”, come si sente ripetere ad nauseam. Sui temi dell’ecologia e dell’ambiente i Cinque Stelle sono indistinguibili dai Verdi, una delle forze progressiste che stanno rialzando la testa in Europa. Quanto ai temi del lavoro, l’ostilità alle riforme renziane (articolo 18 e Jobs Act), gradite all’establishment europeo, accomuna l’estrema sinistra e una parte del Pd, specie dopo la svolta a sinistra impressa da Zingaretti.
Che dire, in conclusione?
Forse semplicemente che, dopo il 26 maggio, dobbiamo prepararci, almeno in Italia, a un ritorno in grande stile del bipolarismo classico, ossia a una normale competizione fra centro-destra e centro-sinistra. E’ difficile, infatti, pensare che Salvini, che ora ha la metà dei parlamentari di Di Maio, non preferisca averne il doppio, e quindi non ci riporti abbastanza rapidamente al voto. Quanto ai Cinque Stelle, non riesco a immaginarli di nuovo al governo con un alleato che ne ha pianificato l’ecatombe parlamentare. Più facile, e tutto sommato più naturale, la strada di un’alleanza con il Pd e con l’estrema sinistra, che già oggi, specie sui temi del lavoro e del deficit, è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd.
Fantapolitica?
Forse sì, ma non dobbiamo dimenticare un particolare. Un lascito probabilmente duraturo di questa legislatura è stato l’invenzione, e la messa in pratica, della formula del “contratto” di governo. E’ un passaggio decisivo, perché certifica che per governare insieme non si è affatto obbligati ad essere alleati, a condividere idee e progetti generali, ad avere la medesima visione del mondo o del futuro del Paese. Basta scrivere su un foglio le cose che si vogliono fare insieme, ignorando tutto ciò su cui non si è d’accordo. E’ una visione agghiacciante della politica, perché equivale a pretendere di guidare una nave senza dire ai passeggeri qual è la destinazione. Però è la realtà. E stante questa realtà mi sento di prevedere che alla domanda “come fa il Pd ad allearsi con i Cinque Stelle?” verrà data la seguente risposta: se, grazie al contratto, hanno potuto governare insieme Salvini e Di Maio, che litigano su quasi tutto e sono uniti soltanto dalla comune ostilità ai vincoli europei, perché non possono governare insieme Di Maio e Zingaretti, che su tanti temi hanno già mostrato di avere più o meno le stesse idee?
A margine: la mia è una previsione, non certo un auspicio.

Articolo pubblicato su Il Messaggero