Chi difende l’interesse nazionale?

Difficile, dopo il giro di nomine al Parlamento europeo, pensare che a qualcuno, in Italia, importi qualcosa dell’interesse nazionale. Quando si è trattato di eleggere il presidente della Commissione Europea, il nostro governo ha fatto naufragare la candidatura del socialista Timmermans essenzialmente per una questione di metodo, ovvero per il modo in cui era stata avanzata (accordo Germania-Francia-Spagna-Olanda), trascurando del tutto il fatto che, al suo posto, sarebbe stata scelta una candidata – la tedesca Ursula von der Leyen, rigorista e delfina di Angela Merkel – assai più ostile all’Italia sul nodo centrale della politica economica e del rigore dei conti. Non è andata meglio nel caso dell’elezione del presidente del Parlamento europeo: l’italiano David Sassoli, parlamentare del Pd, è stato eletto a dispetto del voto contrario della Lega (il Movimento Cinque Stelle ha lasciato invece libertà di coscienza).

Se il governo pare muoversi in una logica di piccoli sgarbi e ripicche, senza alcuna vera attenzione agli interessi primari dell’Italia, l’opposizione non è da meno. E’ da quando questo governo si è insediato, che – qualsiasi cosa accada – dall’opposizione sentiamo ripetere quotidianamente: l’occupazione diminuirà, l’Italia entrerà in recessione, la produzione industriale cala, i conti pubblici sono al collasso, la cassa integrazione è in aumento, la Commissione europea punirà l’Italia, i mercati finanziari non si fidano di noi.

Parecchio di vero c’è, naturalmente: ad esempio le ore complessive di cassa integrazione di aprile (ultimo dato disponibile) sono il 30.5% in più rispetto a 12 mesi prima. La produzione industriale è effettivamente in calo (-1.5% in un anno). E’ pure vero che i mercati finanziari poco si fidano dell’Italia, e fino a pochi giorni fa l’hanno punita con la richiesta di tassi di interesse sui titoli di Stato molto maggiori di quelli giustificati dallo stato dei nostri fondamentali.

Però su altri punti l’opposizione spesso straparla. Quando fu varato il decreto dignità, si profetizzò che l’occupazione sarebbe diminuita: è passato esattamente un anno e i dati Istat dicono che è aumentata di quasi 92 mila unità (poco, ma è aumentata, non diminuita). Il deficit dei conti pubblici del 2019 è migliore di quelli di tutti gli ultimi governi di centro-sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni). La commissione Europea non farà partire la procedura di infrazione contro l’Italia. Lo spread è ancora eccessivo, ma sta alleggerendo la pressione sui nostri conti. Quanto al risparmio degli italiani il bollettino settimanale della Fondazione Hume mostra che le perdite patrimoniali (virtuali) accusate dopo l’insediamento del governo gialloverde sono state interamente recuperate, e da un mese si stanno trasformando in guadagni.

Di fronte a tutto questo, l’opposizione parla come un disco rotto, ripetendo slogan e profezie di sventura del tutto irrelate con i dati. Soprattutto, colpisce per il tono anti-italiano delle sue analisi, quasi che si augurasse che la Commissione europea ci sanzioni, che i conti vadano fuori controllo, che l’occupazione cali, la disoccupazione aumenti, i risparmi degli italiani vadano in fumo.

E dire che ci sarebbe da riflettere, almeno sui dati. Perché se parecchie profezie si sono rivelate erronee, se le cose non vanno come l’opposizione le racconta, se il paese non è ancora affondato, forse la reazione giusta non è di dire: se non è affondato affonderà, è solo questione di tempo, e allora si vedrà che avevamo ragione noi.

La reazione giusta, la reazione di un’opposizione leale e dotata di senso della Nazione, a me sembrerebbe, innanzitutto, di rallegrarsi che i disastri annunziati non si siano realizzati. E poi di farsi una domanda: perché tante previsioni si sono rivelate errate? Lo dico nei confronti di un’opposizione accecata dall’ideologia e dall’odio, ma lo dico anche, autocriticamente, verso la comunità degli studiosi. Se tante previsioni si sono rivelate errate, o anche solo premature, e nondimeno sono state formulate in buona fede, allora vuol dire che c’è, nelle nostre teorie e nei nostri modelli, qualche difetto fondamentale: onestà vorrebbe che ne prendessimo atto, e cominciassimo a pensare ai rimedi.

Pubblicato su Il Messaggero del 07 luglio 2019




Quanti sono i poveri in Italia?

Nei giorni scorsi sono stati resi noti gli ultimi dati sul reddito di cittadinanza: al 31 maggio il numero totale di domande presentate era di 1 milione e 252 mila, di cui 674 mila accolte, 277 mila respinte e il resto (301 mila) sospese o ancora da elaborare. Complessivamente le domande accolte sono circa il 71% di quelle analizzate.
Il ritmo delle domande è in netto calo: sono state 820 mila il primo mese (marzo), poi 243 mila (aprile), infine 188 mila (maggio). Il governo prevede che, alla fine, le domande accolte saranno circa 1 milione, ovvero parecchie meno di quel che si attendeva.
Poiché il numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta, secondo l’Istat (indagine 2018), si aggira intorno al milione e 800 mila, parrebbe che i conti non tornino. Le domande già accolte (674 mila) sono poco più di 1/3 del numero di famiglie povere. Aggiungendo quelle già presentate ma non ancora valutate si arriverà intorno a 884 mila domande accolte, meno della metà (48.5%) del dato Istat. Infine, dando per buona la previsione del governo si dovrebbe arrivare a 1 milione entro fine anno, poco più della metà (54.9%) del dato Istat.
Qualcosa sembrerebbe non tornare. Possibile che a tre mesi dal varo della legge, pur includendo nel calcolo le numerose domande già presentate ma non ancora accolte, si sia sotto il 50%? Quali possono essere le ragioni di una discrepanza così macroscopica?
Una prima ragione, abbastanza ovvia, è che la definizione di povertà assoluta dell’Istat non corrisponde alla definizione implicita nella legge sul reddito di cittadinanza. Le differenze fra le due definizioni sono tantissime, ma la più importante è che la definizione Istat lavora sul potere di acquisto del reddito, e quindi tiene conto del livello dei prezzi della zona in cui la famiglia risiede, mentre la legge considera solo il reddito nominale. Questa è la ragione principale per cui, finora, le domande accolte nel Nord sono state molte di meno dei poveri assoluti residenti in tali regioni; e viceversa quelle del Mezzogiorno, che sono state molte di più. Insomma, il reddito di cittadinanza è servito ben poco ai poveri delle regioni del Nord, specie se abitanti in grandi città: chi è povero al Nord risulta tale se si tiene conto del livello dei prezzi (definizione Istat), ma cessa di esserlo se si ignora il costo della vita (definizione del governo).
C’è però anche una seconda ragione della discrepanza, una ragione che troppo spesso si dimentica. Fra i requisiti della legge vi è la residenza stabile in Italia da almeno 10 anni, un requisito che penalizza severamente sia gli stranieri, sia gli italiani senza fissa dimora. Le prime cifre circolate indicano che fra le domande accolte gli stranieri siano circa il 10%, mentre l’Istat ha stimato che le famiglie straniere in condizione di povertà assoluta siano ben il 31.1%, nonostante gli stranieri siano meno del 9% della popolazione. In altre parole: le domande sono molte meno delle attese anche perché la maggior parte degli stranieri poveri non ha fatto domanda, ben sapendo di non avere i requisiti.
Se teniamo conto di questo fattore le cifre si avvicinano. Le famiglie di italiani in condizioni di povertà assoluta sono 1 milione e 255 mila, le domande di famiglie italiane già accolte sono circa 600 mila, ma potrebbero salire a circa 900 mila entro la fine dell’anno. In questo caso lo scarto sarebbe di 3-400 mila famiglie, che risultano povere secondo l’Istat ma non richiedono il reddito di cittadinanza. In breve: fatto 100 il numero di famiglie povere Istat, solo circa 70 fanno domanda.
Che cosa ci dice un dato del genere?
Essenzialmente che non è infondato il sospetto che i poveri effettivi siano sensibilmente di meno di quello che si potrebbe dedurre dai dati Istat. E’ perfettamente possibile che diverse famiglie risultino povere semplicemente perché il lavoro in nero di alcuni membri non viene dichiarato, con conseguente sottostima del reddito familiare complessivo. E’ ragionevole pensare che il timore di sanzioni (e di perdere i redditi in nero) abbia indotto molti a non presentare domanda.
Ma è anche possibile che questo timore svanisca (forse sta già svanendo) man mano che dovesse rafforzarsi la convinzione che i controlli saranno rarissimi, che i centri per l’impiego non funzioneranno, e di conseguenza il rischio di ricevere offerte di lavoro che si preferirebbe non ricevere (ma si è tenuti ad accettare) è bassissimo. E’ possibile, in altre parole, che il trend delle domande si affievolisca ancora un po’ nei prossimi mesi, ma poi riprenda vigore ove il governo non potesse o non volesse far scattare controlli e sanzioni.
Se queste valutazioni hanno un qualche fondamento, allora sembra inevitabile trarne due conclusioni. La prima è che il problema della povertà, in Italia, riguarda soprattutto gli immigrati (sono povere più di 1 famiglia straniera su 4), e il reddito di cittadinanza lo aggrava. La seconda è che il tasso di povertà degli italiani non solo è molto minore di quello degli stranieri, ma è probabilmente sovrastimato. Per l’Istat le famiglie italiane povere sono il 5.3% (circa 1 su 20), ma le domande del reddito di cittadinanza pervenute fin qui suggeriscono che siano dell’ordine del 3.7% (1 su 27).
Sempre troppe, ovviamente, ma comunque un po’ minori delle cifre pre-crisi, e molto minori di quelle degli stranieri: il problema della povertà nel nostro paese, più che un dramma italiano, è un aspetto cruciale del problema migratorio.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 29 giugno 2019



La lettera di Conte all’Unione Europea

Bene sul 2019, rischi sul 2020

La sensazione è che l’Italia non voglia lo scontro, e che alla fine la procedura di infrazione non partirà. Questo, in estrema sintesi, è quel che ho ricavato da una attenta lettura della lettera che, ieri, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha indirizzato agli altri paesi Europei.
Una lettera inconsuetamente lunga, che colpisce per il suo tono pacato e tutto sommato – almeno nella forma – ossequioso nei confronti delle regole europee: “non intendiamo sottrarci a tali vincoli [le regole europee], né intendiamo reclamare deroghe o concessioni rispetto a prescrizioni che, fintantoché non saranno modificate secondo le ordinarie procedure previste dai Trattati, sono in vigore ed è giusto che siano tenute in conto dai governi di tutti gli Stati membri”.
Più ragionevole di così…
Altrettanto rassicurante, nella lettera, è il riferimento allo stato dei conti pubblici del 2019, con la previsione di un deficit al 2.1% (poco più del 2.04% concordato), e significativamente inferiore al 2.5% previsto e temuto dalla Commissione Europea. E’ verosimile che, alla fine, il deficit effettivo si situi a metà strada, magari al 2.2 o al 2.3%, ma resta il fatto che, per trovare un deficit più basso di quello del biennio 2018-2019 bisogna risalire a 10 anni fa, ossia al 2007, l’ultimo anno di crescita prima della lunga crisi scoppiata nel 2009. Insomma: è vero che, con il debito che ci ritroviamo, sarebbe meglio puntare su un deficit ancora più basso, ma non si può non vedere che – per adesso – i conti pubblici di Tria sono leggermente migliori di quelli di Padoan.
Detto questo, tuttavia, la lettera di Conte faremmo ben a leggerla e meditarla tutta. In essa, infatti, il nostro governo si esercita non solo in una difesa dei nostri conti pubblici (abbastanza convincente per il 2019, molto fumosa sul 2020), ma anche in un tentativo di spiegare all’Europa dove sbaglia. L’idea di fondo è che la politica europea sia troppo attenta all’equilibrio dei conti pubblici, e troppo poco sensibile al dramma della disoccupazione: se oggi il continente è entrato in una fase di “inesorabile declino” – sembra suggerire la lettera – è perché le politiche di austerità avrebbero rallentato la crescita e alimentato la disoccupazione.
Ma le cose sono andate così?
Penso proprio di no. Intanto bisogna dire che, almeno in Italia, una vera politica di austerità negli ultimi 12 anni non c’è mai stata. Austerità, in politica economica, significa contenimento del debito pubblico attraverso maggiori tasse e/o minori spese, ma in Italia il debito non è affatto diminuito, né in rapporto al Pil né, tantomeno, in assoluto. Il fatto è che il termine austerità, a livello popolare (e a quanto pare anche da parte di chi si proclama “avvocato del popolo”) viene usato come sinonimo di minori consumi, sacrifici, “tirare la cinghia”, tutti fenomeni che effettivamente possono presentarsi come conseguenze del tentativo di risanare i conti pubblici, ma possono benissimo anche stare per conto proprio. Che è precisamente quel che è successo in Italia negli ultimi 10 anni: abbiamo dovuto ridurre i consumi e l’occupazione, ma non perché abbiamo risanato i conti pubblici. L’austerità di questi anni è figlia della fine della crescita, non certo del rigore nei conti pubblici.
Ma, almeno sul primato della lotta al disoccupazione, possiamo dare ragione al premier?
No, e per due ragioni ben precise. La prima è che non è affatto vero che l’Europa è afflitta dal dramma della disoccupazione. E’ vero semmai che in alcuni paesi europei (fra cui l’Italia) il tasso di occupazione è diminuito rispetto al 2007, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei paesi, e segnatamente in Germania, Regno Unito Austria, Svizzera, Belgio, Svezia, è aumentato. Certo, ai paesi in declino può essere di conforto pensare che il declino sia comune e inesorabile, ma si tratta di una credenza incompatibile con i dati.
Ma c’è una seconda ragione che rende traballante il ragionamento della lettera ai governi europei: proprio se si adotta la tesi secondo cui il nostro problema centrale è la disoccupazione diventa difficile difendere la nostra politica economica. Quella politica avrebbe potuto, con le leggi di bilancio 2019 e 2020, puntare decisamente sulla creazione di nuovi posti di lavoro, mediante investimenti pubblici e soprattutto mediante uno shock fiscale a favore dei produttori (imprese e partite IVA). Ha preferito invece bruciare 15 miliardi per varare due provvedimenti di natura assistenziale (reddito di cittadinanza e quota 100), e proprio per questo ora non sa né come evitare l’aumento dell’Iva né come trovare le risorse per ridurre le tasse senza fare altro deficit. Non solo ma, a quanto pare, nella nuova legge di bilancio si appresta a puntare le proprie carte sulla riduzione dell’Irpef, che grava sulle famiglie, piuttosto che sull’Ires e sull’Irap, che gravano sui produttori, ossia sui soli soggetti in grado di creare posti di lavoro veri.
Ecco perché il taglio ragionevole e rassicurante della lettera di Conte non può tranquillizzarci del tutto. Punirci per i conti del 2019 sarebbe ingiustificato, se non altro alla luce dell’indulgenza verso i governi passati. Ma temere che, per il 2020, le nuove promesse siano finanziate in deficit e i mercati tornino ad alzare il tiro su di noi, non è certo fuori luogo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del



I guai dell’egualitarismo culturale

La preoccupazione per il destino della democrazia liberale presente in molti degli interventi dei giorni scorsi è sicuramente giustificata. Sì, effettivamente social media e nuove tecnologie stanno sconvolgendo il funzionamento della politica. La mancanza di mediazioni rende più incerto che in passato il confine fra vero e falso. Immense praterie si aprono a quanti intendono sfruttare la credulità popolare per i propri fini.
Tutto questo è reale, ma è davvero una novità del presente?
La mia impressione è che le radici di quel che oggi inquieta tanti di noi siano antiche, e poco abbiano a che fare con l’irruzione dei social media nella vita politica. Prendiamo, ad esempio, l’evoluzione della leadership, ovvero la tendenza dei capi a saltare la mediazione degli apparati. La vera rottura è avvenuta fin dal 1994, con la discesa in campo di Berlusconi, ma è difficile non vedere che quella rottura avveniva su un terreno, quello della comunicazione diretta fra il leader e le masse, che era stato ampiamente arato da Sandro Pertini e Karol Wojtyla, assurti insieme l’uno al vertice della Repubblica l’altro a quello della Chiesa fin dal 1978, ossia 16 anni prima dell’ingresso in politica di Berlusconi. Noi oggi siamo impressionati da Salvini che posta su internet una foto mentre addenta pane e Nutella, ma forse dovremmo chiederci perché mai, se il Papa twitta, conversa con i giornalisti in aereo, e telefona a Uno mattina, i politici dovrebbero osservare un contegno più sobrio.
Un discorso analogo si potrebbe fare per la presunta democrazia diretta della piattaforma Rousseau, che affida a poche decine di migliaia di iscritti decisioni politiche cruciali. Sembra un modello nuovo, ma in realtà è la riedizione della democrazia assembleare di mezzo secolo fa, quando un manipolo di studenti politicizzati (circa 1 giovane su 10, secondo le ricostruzioni statistiche) pretendeva di parlare a nome di tutti, perché solo le avanguardie contano, e perché “gli assenti hanno sempre torto”.
Mi si potrebbe obiettare che il vero problema, oggi, è che il desiderio di contare, di essere qualcuno o “qualcunismo” (copyright Sebastiano Maffettone), si è trasformato nella credenza di essere alla pari con esperti, studiosi, tecnici e competenti in genere. L’utente della rete non riconosce alcuna gerarchia di conoscenza, pensa di poter esprimere opinioni su qualsiasi materia, senza complessi di inferiorità verso chicchessia. E’ vero, ma la mia domanda è: ve ne accorgete solo ora? E credete davvero che la colpa sia della Rete?
Anche qui a me pare che i processi che ci hanno portato dove ora siamo, ovvero al rigetto sistematico e generalizzato di qualsiasi autorità e gerarchia culturale, siano ben precedenti alla nascita di internet e alla sua invasione della sfera politica. E’ dalla fine degli anni ’60, in piena prima Repubblica, che le grandi istituzioni che mediavano fra il cittadino e la collettività nazionale hanno progressivamente abdicato ad ogni ruolo di guida, e proclamato quella sorta di egualitarismo culturale di cui ora la Rete si limita a raccogliere i frutti finali. La giusta esigenza di “ascolto” di chi si trova in qualche senso al di sotto, o al di fuori, o ai margini, si è trasformata progressivamente in una sorta di sdoganamento dell’ignoranza, della volgarità, della presunzione e della prepotenza dei singoli. Vale per la radio, in cui le opinioni più infondate o volgari sono assurte progressivamente a protagoniste legittime, alla pari di tutte le altre; vale per la televisione, quasi completamente trasformata in macchina di intrattenimento; vale per la scuola e l’università, mestamente acconciate ad abbassare drammaticamente gli standard; vale per la famiglia, con la rottura dell’alleanza con la scuola e la trasformazione dei genitori in sindacalisti dei figli.
Poteva non accadere lo stesso in politica? Oggi è facile vedere il disastro, perché l’ideologia secondo cui siamo tutti alla pari, e le competenze non contano, è proclamata ai quattro venti. Ma vogliamo vedere anche come ci siamo arrivati?
Fra la dottrina della rottamazione della classe dirigente, che per diversi anni ha imperato nel dibattito pubblico, e l’attuale credenza che chiunque possa fare il ministro, fra l’imbarbarimento dei media e l’irresponsabilità comunicativa dei politici, c’è un filo di continuità che faremmo bene a non nasconderci.
Il guaio dei social media e delle nuove tecnologie è di rendere ancora più facile, quasi più naturale, proseguire sulla strada che da mezzo secolo stiamo percorrendo. Ma è un guaio che, forse, ha il suo lato positivo: oggi i danni e i pericoli dell’egualitarismo culturale, proprio perché sono messi quotidianamente in scena da una politica del tutto priva di freni inibitori, sono più evidenti che mai. Sta a noi decidere se ci va bene così, o se è il caso di cambiare rotta. Sapendo una cosa, però: che se siamo arrivati a questo punto, non è colpa di Internet, ma della lunga stagione di irresponsabilità che ne ha preceduto e preparato il trionfo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 giugno 2019



La finzione delle regole europee

Con i ballottaggi di domenica, finalmente, dovremmo – almeno per qualche mese – lasciarci alle spalle i battibecchi fra comari che ci hanno deliziato negli ultimi mesi. Da domani sentiremo ancora litigare i nostri governanti, ma le questioni su cui si accapiglieranno fra loro e con le opposizioni saranno, inevitabilmente, ben più cruciali di quelle su cui si sono esercitati fin qui.
Al centro di tutto, la prossima legge di bilancio e il nostro modo di stare in Europa (ammesso che in Europa si resti, e che una sciagurata concatenazione di volontà e di circostanze non ci forzi ad uscirne).
Il problema di fondo è ben noto. L’attuale governo ha speso, in deficit, una quindicina di miliardi per mantenere alcune promesse elettorali, in particolare reddito di cittadinanza e quota 100. Altre promesse, in particolare la flat tax, le ha sostanzialmente accantonate (il mini provvedimento sulle partite Iva fino a 65 mila euro vale appena un centesimo del costo globale della flat tax). Altre promesse ancora, in particolare quella di non aumentare l’IVA, per ora le ha tradite, perché nella legge di bilancio dell’anno scorso non ha cancellato le clausole di salvaguardia che ne prevedono l’aumento fin dal 2020.
La situazione si può dunque riassumere così: il governo, che nel 2019 ha aumentato la pressione fiscale, ora vorrebbe occuparsi di ridurla, ma può farlo solo in deficit perché reddito di cittadinanza e quota 100, ossia le due promesse più demagogiche di Lega e Cinque Stelle, sono state anteposte alla promessa più utile al Paese, quella di alleggerire la pressione fiscale.
E’ da questi dati di fondo che scaturisce il racconto che ascolteremo nei prossimi mesi. Dovendo trovare un colpevole, e non potendo individuarlo in sé stessi, i nostri governanti se la prenderanno con l’Europa (che ci imporrebbe regole assurde) e con i governi precedenti (che avrebbero sempre aumentato il debito).
Però, attenzione. Il fatto che la attuale mancanza di risorse dipenda anche dalle scelte demagogiche del governo (tanta assistenza, pochi investimenti), non implica che i rilievi verso l’Europa e verso i governi passati siano del tutto ingiustificati. Bisogna essere molto faziosi per non accorgersi di alcune stranezze dell’una e degli altri.
La più grave, a mio parere, è la fortissima discrezionalità con cui vengono fatte valere le regole comuni, e in particolare la regola del 3% di deficit, negli ultimi anni sostituta dalla ancor più severa regola che obbliga i paesi a convergere verso il pareggio di bilancio. Ebbene queste regole sono state tranquillamente ignorate quando a violarle erano paesi come la Francia o la Germania ma, fatto a mio parere ancora più grave, nel caso dell’Italia sono state addolcite o inasprite a seconda che il governo fosse o non fosse in sintonia con il pensiero dominante a Bruxelles. E’ così potuto accadere che al governo italiano fosse concessa ogni sorta di sforamento e dilazione negli anni di Renzi e Gentiloni, nonostante fosse proprio allora che, grazie alla buona congiuntura economica, avremmo dovuto e potuto provare a mettere in ordine i nostri conti; e, simmetricamente, ora accade che, a dispetto della cattiva congiuntura economica, al governo italiano venga assai più perentoriamente richiesto di obbedire alle regole. Le difficoltà dell’attuale governo sono anche la conseguenza della rinuncia della Commissione a mettere in riga i governi precedenti, spesso rimproverati ma mai sanzionati.
La realtà, temo, è che – giuste o sbagliate che siano – le regole europee sono usate dalla Commissione come uno strumento di politica economica, per impedire ai paesi membri di attuare politiche sgradite e per indurli ad attuare quelle che la Commissione stessa giudica corrette. Il che non è sbagliato in sé, ma per il modo, opaco per non dire ipocrita, con cui questo ruolo di indirizzo viene esercitato. Anziché promuovere una franca discussione pubblica sulla politica economica dell’Europa, le autorità europee preferiscono governare gli Stati membri attraverso la finzione delle regole, chiudendo un occhio quando lo Stato che sgarra è forte o in linea con i principi di Bruxelles, e tenendo entrambi gli occhi ben spalancati quando a violare le regole è uno Stato debole o in contrasto con l’ortodossia europea.
Personalmente credo che, insieme ad alcuni principi arbitrari o basati su un’evidenza empirica traballante, vi siano anche molte buone ragioni dal lato delle autorità di Bruxelles, e che molte raccomandazioni della Commissione – prima fra tutte quella di contenere il debito pubblico – siano più che ragionevoli. Ma proprio per questo trovo assai grave che, con il loro esercizio spudorato della discrezionalità, siano le autorità europee stesse a infliggere i colpi più micidiali alla propria credibilità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del  10 giugno 2019