Le rose che non colsi

L’uno-due di Renzi, che prima ha imposto al Pd l’alleanza con i Cinque Stelle, e un istante dopo lo ha abbandonato al suo destino per farsi un partito tutto suo, non ha precedenti nella storia d’Italia. Come non ha precedenti, a dispetto della tradizione trasformistica dei parlamentari italiani, un simile capovolgimento delle proprie idee e convinzioni. Fino a ieri i Cinque Stelle erano giustizialismo, assistenzialismo e decrescita infelice, oggi sono la salvezza dell’Italia contro la calata degli Hyksos. Ieri ci si batteva per un sistema elettorale che permettesse, la sera delle elezioni, di sapere chi ha vinto, ora si dichiara di essere pronti a un ritorno al sistema proporzionale “se lo prevede l’accordo di governo”.

Se il livello di spregiudicatezza raggiunto da Renzi (e non solo da lui) è senza precedenti, lo stesso non si può dire per il metodo. Anzi, forse è il caso di sottolineare la continuità fra il comportamento odierno di Renzi e la storia della sinistra italiana negli ultimi 100 anni. Se ci volgiamo all’indietro non possiamo non ricordare che la scissione, ovvero l’uscita dal partito principale per creare un nuovo partito, è sempre stato il modo in cui, a sinistra, si sono affrontate le divergenze politiche. Il Partito Comunista è nato, il 21 gennaio del 1921, da una scissione guidata dall’ala sinistra del Partito Socialista, ansiosa di instaurare anche in Italia la “dittatura del proletariato”, seguendo le orme dei bolscevichi in Russia. Dopo di allora di partiti socialisti e pseudo-socialisti se ne sono visti parecchi, fra fusioni e ricomposizioni (ricordate il Psi, il Psdi, il Psu, lo Psiup?), e lo stesso Partito Comunista si è diviso più volte, anche se con modalità diverse. Nel 1969 sarà il partito stesso a radiare il gruppo del Manifesto, guidato da Rossana Rossanda e Luigi Pintor. Nel 1991, invece, saranno la “svolta della Bolognina” di Occhetto e il cambio del nome (da partito Comunista a Partito della Sinistra) a provocare la nascita di Rifondazione Comunista. Ma non era finita. Sia il ramo principale della sinistra, sia le correnti nostalgiche del comunismo, di scissioni e ricomposizioni ce ne regaleranno ancora innumerevoli, in un tripudio di alchimie, sigle e ridenominazioni: Pds, Ds, Pd, Asinello, DL, Margherita, Ulivo, Unione, Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione civile, Potere al popolo, giusto per ricordare le prime che mi vengono in mente.

Dunque, collocata su questo sfondo, la scissione di Renzi non dovrebbe stupire nessuno. Scindersi e ricomporsi è lo sport preferito dei politici di sinistra, e la sola differenza importante con il passato è che un tempo le scissioni, per quanto favorite da disegni di potere e ambizioni personali, erano politicamente comprensibili. Tutti capivamo le ragioni che conducevano Achille Occhetto a ripudiare il comunismo,  come capivamo quelle che inducevano Cossutta a rimpiangerlo. Così come, vent’anni prima, avevamo capito su che cosa quelli del Manifesto litigavano con i dirigenti del vecchio Pci, e perché ne venivano cacciati via. E ancora poco tempo fa, sia pure a fatica, riuscivamo a capire le ragioni di D’Alema e Bersani per uscire dal Pd. Nessuno, invece, è oggi in grado di capire che cosa costringa Renzi ad abbandonare il Pd, dopo aver spinto Zingaretti nelle braccia di Grillo.

Riuscirà, Renzi, nell’intento di rimodellare la sinistra? E’ ragionevole aspettarsi che, accanto ai Cinque Stelle e al Pd (riunificato con i transfughi di Leu), sorga un moderno partito liberal-riformista, che non si limiti a vietare “Bandiera rossa” alle feste di partito?

Penso che molto dipenderà dal sistema elettorale ma che, anche con un sistema proporzionale, l’impresa sarà difficile. E questo non solo perché, diversamente dal passato, questa volta la sostanza politica della scissione è invisibile, ma anche per un’altra ragione, che ha a che fare con la forma mentis del popolo di sinistra. Proprio perché viene da una lunga e dolorosa storia di divisioni e di scissioni, l’elettorato di sinistra ha maturato nel tempo una profonda idiosincrasia per i “cespugli” che di volta in volta hanno provato a gravitare intorno al partito principale. Una idiosincrasia che lo ha portato a dare poco credito al progetto radicale di “rifondare il comunismo”, ma anche a tributare un consenso limitato e perlopiù effimero ai rari esperimenti di partito personale che si sono succeduti nella seconda Repubblica: la Rete di Leoluca Orlando (1991), Rinnovamento Italiano di Lamberto Dini (1996), l’Italia dei Valori di Di Pietro (1998), Scelta Civica di Mario Monti (2013). Tutti partiti che hanno ballato per una o due stagioni elettorali, e solo in un caso (quello della meteora Mario Monti) sono riusciti a superare la soglia del 5% dei consensi.

Il destino del partito di Renzi può essere diverso?

Credo che la risposta sia che avrebbe potuto essere diverso, e che Renzi, guardando al proprio passato politico, non possa che rimpiangere, come Guido Gozzano, “le rose che non colsi”. Se avesse fondato un partito quando il vecchio establishment del Pd tentava in ogni modo di sbarrargli il passo, e il profilo innovatore, riformista e liberale dello sfidante erano chiari a tutti, il progetto di affiancare agli ex comunisti una forza di sinistra giovane, dinamica e moderna, qualche chance di successo l’avrebbe avuta. Perché Renzi all’apice del suo successo era un catalizzatore di speranze (parlo anche per esperienza personale), mentre ora è un enigmatico collettore di delusioni, se non di rancori. Fondare un partito personale di successo non è impossibile (Berlusconi docet), ma la scelta dei tempi e dei contenuti è cruciale.

Il problema è che i tempi sono sbagliati (perché la popolarità di Renzi è ai minimi, persino inferiore a quella del Berlusconi attuale) e i contenuti sono spiazzanti. Profondamente spiazzanti. Il fatto è che, comunque lo si giudichi, il marchio Renzi è associato al binomio Jobs Act + Mare Nostrum (accoglienza dei naufraghi). Esattamente il contrario di quel che predicano i Cinque Stelle, che hanno contestato ferocemente tanto il Jobs Act (con il decreto dignità) quanto l’operazione Mare Nostrum (con le Ong definite “taxi del mare”).

E’ certamente possibile che vi sia, nell’elettorato di sinistra, un segmento che apprezza il Jobs Act ed è orgogliosa delle politiche di accoglienza del triennio renziano. Ma è difficile immaginare che, proprio perché crede nel vecchio marchio-Renzi, non si faccia la domanda cruciale: se i Cinque Stelle rappresentano l’esatto contrario del renzismo, perché mai dovremmo dare il voto a chi li ha sdoganati?

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 18 settembre 2019



Proteggere lo stile di vita europeo?

Ha suscitato sentimenti diversi, dalla semplice curiosità all’indignazione, il fatto che uno degli otto vicepresidenti della Commissione Europea, il greco Margaritis Schinas, sia stato nominato «Commissario per la Protezione dello stile di vita europeo».

A qualcuno è sembrato curioso che, con tutti i problemi urgenti e concreti che ha l’Europa, occorra addirittura un Commissario per proteggere il nostro stile di vita, quasi fossimo una colonia di castori in estinzione, che rischia di smarrire la capacità di costruire tane, dighe e laghetti artificiali.

Poi però si è capito: il nuovo Commissario dovrà occuparsi soprattutto di immigrazione. Dunque, ragionano alcuni, sono gli immigrati la minaccia da cui dobbiamo essere protetti. Di qui il passaggio all’indignazione è immediato, nel clima di oggi. Su tutte spicca la reazione di Amnesty International che, dopo aver notato che “le persone che hanno migrato hanno contribuito allo stile di vita dell’Europa nel corso della sua storia”, perentoriamente ci ricorda che “lo stile di vita europeo che l’Ue deve proteggere è quello che rispetta la dignità umana e i diritti umani, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo Stato di diritto”.

Anche la presidente Ursula von der Leyen, che quell’incarico ha concepito e assegnato, accusa un certo imbarazzo, e gioca sulla difensiva: “Il nostro stile di vita europeo sostiene i valori e la bellezza della dignità di ogni singolo essere umano”.

Qual è il problema, dunque?

Il problema sta nel programma politico della von der Leyen, e nel non detto della (apparentemente) strana associazione fra migranti e protezione dello stile di vita europeo. A giudicare da quanto scritto e dichiarato fin qui, gli obiettivi finali della nuova politica migratoria europea sono tre: (a) accogliere chi ha diritto allo status di rifugiato; (b) rimpatriare chi non ha diritto ed entra illegalmente in Europa; (c) selezionare i migranti economici in base alle esigenze e alle disponibilità di posti degli stati europei (un modello molto elogiato quando a praticarlo è il Canada, ma guardato con sospetto se a ipotizzarlo è l’Unione Europea).

Alla base di questo “vasto programma”, tuttavia, non c’è solo l’idea (di puro buon senso) che in Europa si debba entrare solo legalmente. A mio parere c’è anche l’idea che, alla lunga, ingressi massicci e incontrollati (come quelli dell’era pre-Minniti) mettano a rischio il nostro modo di vivere, ossia abitudini, costumi, tradizioni, regole di comportamento che la maggior parte dei cittadini europei preferirebbe conservare, e che una parte non trascurabile dei migranti invece non sa o non vuole rispettare. Non penso solo al tasso di criminalità (che fra gli stranieri è oltre il quadruplo che fra i nativi), o alla formazione nelle città di enclaves etniche impenetrabili, ma più in generale alla condizione delle donne (mogli e figlie) in diverse famiglie di religione islamica. Fra i valori che la stragrande maggioranza degli europei preferirebbe vedere tutelati vi sono anche cose come la separazione fra credo religioso e politica, o il rispetto della libertà (e del corpo) della donna, due cose che nei virtuosi elenchi di “veri” valori europei vengono stranamente ignorate.

Ecco perché la levata di scudi contro Ursula von der Leyen lascia perplessi. Si può essere contro i confini, volere l’accoglienza erga omnes, e pensare che i migranti siano sempre una risorsa e un’opportunità per l’Europa. Si può pensare che i contatti e le ibridazioni fra culture siano fondamentalmente un arricchimento per tutti, e che l’Europa possa soddisfare senza limiti la domanda di approdo sulle nostre coste che proviene dall’Africa e dal Medio Oriente. Si può persino pensare che un tasso di criminalità degli stranieri molto più alto di quello dei nativi sia tollerabile, o sia solo l’effetto degli ostacoli che gli Stati europei frappongono all’immigrazione irregolare.

Ma si dovrebbe anche rispettare chi è di diversa opinione, e pensa che un’Europa in cui africani e islamici fossero in maggioranza (un evento che, a politiche invariate, richiede pochi decenni) sarebbe meno vivibile di quella di oggi. O chi pensa che una comunità politica abbia tutto il diritto di decidere chi ammettere a farne parte e chi no. Bollare come razzisti, fascisti, reazionari tutti coloro che non aderiscono all’ideologia dell’accoglienza indiscriminata è profondamente incivile, e in patente contraddizione con i valori europei di tolleranza, apertura e dialogo.

E’ paradossale. Per anni i governanti europei sono stati accusati di ignorare le preoccupazioni e i sentimenti dei comuni cittadini. L’ascesa del populismo è stata (giustamente) ricondotta a questa sordità dell’establishment europeo, incapace di cogliere la domanda di protezione, non solo economica, che veniva dalla gente. Ed ora che quella medesima domanda mostra di ricevere qualche ascolto, al punto da istituire un Commissario che se ne occupi, anziché prenderne atto con soddisfazione, non si trova di meglio che mettere alla sbarra Ursula von der Leyen, ossia il primo governante europeo che mostra di non ignorarla.

Stranezze della politica. O forse sarebbe meglio dire: ambiguità e debolezze degli europeisti doc. Per i quali l’Europa non andava bene prima, perché troppo lontana dalla gente, ma va ancora meno bene adesso, perché ha scelto di ascoltare la gente sbagliata.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 settembre 2019



Che idea dell’Italia?

Rischiamo tutti, credo, di giudicare questo governo solo per il “peccato originale” da cui nasce: una manovra di Palazzo, parzialmente pilotata dalle autorità europee, volta a impedire con tutti i mezzi che si ritorni al voto. Non è una novità: quando il popolo rischia di fare la scelta sbagliata, i “sinceri democratici” fanno di tutto per aiutare il popolo a non sbagliare. E la via maestra è sempre quella: impedire il voto.

Ma concentrarci sulla genesi di questo governo è sterile. Dopotutto, cosa fatta capo ha. Molto più importante, arrivati a questo punto, è capire che cosa questo governo ha in serbo per noi. Quali sono le sue priorità. Ma soprattutto: qual è l’idea dell’Italia che lo ispira? Qual è la diagnosi delle esigenze del Paese che guiderà le sue scelte?

Perché se prevedere che cosa esattamente farà è praticamente impossibile, capire qual è la sua visione dei problemi dell’Italia non è troppo difficile. E’ vero che il programma in 29 punti è estremamente generico, confuso, e completamente privo di ipotesi su come trovare le risorse per fare le innumerevoli cose che si vorrebbero fare. Però proprio quella congerie di impegni generici, alla fine, un’idea dell’Italia la trasmette.

Quale idea?

L’idea sembra questa: il problema dell’Italia sono le diseguaglianze economico-sociali. Ci sono decine di categorie che meriterebbero un sostegno e un aiuto. Il problema centrale, dunque, è un problema di redistribuzione. Sono segnali di questa visione dell’Italia le proposte più incisive del programma: riduzione del costo del lavoro ad esclusivo vantaggio del lavoratore; salario minimo a 9 euro; “giusto compenso” per i lavoratori autonomi. Proposte cui si aggiungono una miriade di spese a sostegno di gruppi, categorie e settori più o meno particolari.

Le conseguenze effettive della stragrande maggior parte di queste misure sono tre: più  debito pubblico, maggiori costi per le imprese, ulteriore riduzione dei posti di lavoro regolari.

Ma è fondata l’immagine dell’Italia che guida questa diagnosi e questi rimedi?

In un certo senso sì. Se davvero si pensa che il problema cruciale dell’Italia sia la redistribuzione della ricchezza, e inoltre si aderisce alla filosofia della “decrescita felice”, più volte invocata dai grillini (ed esplicitamente sottoscritta da uno dei ministri del nuovo governo), allora non è un problema il fatto che l’aumento dei costi per le imprese distrugga occupazione e riduca la torta del Pil: avremo tutti sempre meno  ricchezza, ma almeno – grazie al saggio intervento dello Stato – sarà distribuita in modo più equilibrato. Nel momento in cui la decrescita non è un tabù, anzi magari è diventato un risultato desiderabile, l’assistenzialismo va benissimo.

Se però si pensa che, per fare le mille cose di cui si dice esservi assoluto bisogno, dalle nuove infrastrutture al potenziamento della scuola e della sanità, ci vogliono più risorse, molte di più di quelle di cui disponiamo oggi, allora l’assoluta mancanza di proposte incisive per rendere meno difficile fare impresa (e creare occupazione) diventa un problema serissimo. Il fatto che la riduzione del cuneo fiscale vada tutta in busta paga, senza incidere sui costi dell’impresa, è un segnale preoccupante. Come è preoccupante che si parli di salario minimo a 9 euro, un livello che molte imprese (specie al Sud) non si potrebbero permettere. Ed è ancora più preoccupante che non una parola venga spesa sul flop del reddito di cittadinanza, fin qui capace di elargire un reddito, ma del tutto incapace di offrire un lavoro.

La realtà, temo, è che la diagnosi di questo governo confonde le cause con gli effetti. E’ vero, molti stipendi e salari in Italia sono troppo bassi, ma la ragione per cui lo sono è solo in minima parte l’avidità e la mancanza di scrupoli di alcuni datori di lavoro. La vera ragione è che la nostra produttività è bassa e, caso unico nel mondo sviluppato (insieme a quello della Grecia), è ferma da venti anni. Pensare che le cose possano andare a posto alzando le retribuzioni della minoranza che ha già un lavoro, senza aver prima disboscato l’immane rete di tasse e adempimenti che soffocano i produttori, è una pericolosa illusione.

Capisco che l’idea possa piacere agli ideologi della decrescita felice, e sia perfettamente in linea con la visione del mondo dei grillini. Capisco di meno che se la stia facendo piacere il Pd, un partito che fino a poche settimane fa ancora non aveva preso congedo dalla cultura del lavoro, e anzi proprio su questo punto orgogliosamente rivendicava la propria diversità dai Cinque Stelle.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 settembre 2019



Tre false credenze

Comunque la si pensi, e quale che sia l’atteggiamento di ciascuno verso questa crisi di governo, credo sarebbe meglio non ingannarci su quel che è successo, e su come stanno effettivamente le cose. Dico questo perché uno degli effetti di questa crisi a me pare il consolidamento di credenze false. Soprattutto tre.

La prima credenza è che le cose siano andate come sono andate perché Salvini ha sbagliato i tempi: doveva aprire la crisi prima, subito dopo le Europee. La realtà, invece, è tutta un’altra. La ragione per cui l’apertura della crisi, anziché portarci alle elezioni, ha generato un governo rosso-giallo, è semplicemente che il livello di spregiudicatezza e di opportunismo del ceto politico ha superato il livello di guardia. Vale per Zingaretti, che ha sempre detto che bisognava tornare al voto, e vale per Renzi, che ha sempre detto “mai con i Cinque Stelle”.

La cosa interessante è che, almeno a mia conoscenza, non esiste un solo giornalista, studioso, politico o osservatore che, nell’epoca in cui Salvini veniva quotidianamente invitato a staccare la spina, abbia ipotizzato che Salvini non avesse affatto il coltello dalla parte del manico, perché i parlamentari non avrebbero accettato di farsi mandare a casa prima di aver maturato la pensione. Prima di rimproverare Salvini per la sua imprudenza, dovremmo rimproverare noi stessi per la nostra ingenuità.

La seconda credenza è che l’alleanza fra Pd e Cinque Stelle sia contro natura, una sorta di mostro politico, come in effetti lo era l’alleanza fra Cinque Stelle e Lega. No, non lo è. Non solo perché da tempo una parte del popolo di sinistra vota Cinque Stelle, o guarda ai Cinque Stelle con simpatia e interesse, ma perché su tantissimi e decisivi punti, dal salario minimo al reddito di cittadinanza, le rispettive idee convergono. E la ragione è molto semplice: nel Pd convivono una minoranza modernizzatrice, riformista e garantista, e una maggioranza statalista, assistenziale e giustizialista. L’alleanza con i Cinque Stelle si limita a dare ancora più spazio a tale maggioranza e a mettere ancora più nell’angolo la minoranza (per convincersene, basta leggere la bozza di programma di governo che circola in questi giorni). Ma forse sarebbe più esatto dire: con la capriola di Renzi la minoranza riformista non c’è più, come testimonia il fatto che due sole persone (Calenda e Richetti) abbiano preso le distanze dall’alleanza con i Cinque Stelle. La credenza che Pd e Cinque Stelle siano due forze politiche molto diverse poggia solo sugli insulti che si sono scambiati fin qui.

C’è una terza credenza falsa che sta prendendo piede negli ultimi tempi, e cioè che esista in Italia una ampia maggioranza di elettori che vorrebbero un governo di centro-destra, e che il ribaltone di questi giorni avrebbe tradito. La maggioranza di centro-destra probabilmente c’è, a giudicare dalle elezioni europee e dai sondaggi. Ma non è ampia, e tantomeno schiacciante. Schiacciante è solo la maggioranza di centro-destra che, stante l’attuale legge elettorale, si formerebbe in Parlamento. Il tradimento c’è stato, ma è stato innanzitutto un tradimento degli italiani, del diritto dei cittadini a far sentire la loro voce attraverso il voto, in un momento in cui c’è una sola cosa certa: il Parlamento che, per conservare sé stesso, si appresta a far nascere il governo rosso-giallo, non riflette minimamente la distribuzione dei consensi nel Paese.

Una cosa sola, forse, ci può regalare un’amara (e paradossale) consolazione. Allo stato delle cose, né il blocco di centro-destra, né il nascente blocco di centro-sinistra, sarebbero in grado di offrire agli elettori una sintesi, ossia una visione chiara e coerente del futuro, che non nasconda il prezzo che ogni politica porta con sé. Il centro-destra è diviso e irrisolto sul rapporto con l’Europa, il centro-sinistra ha già delineato un programma in cui la fanno da padroni vaghezza, demagogia, e politiche di spesa senza coperture.

In queste condizioni avremmo tutto il diritto di tornare alle urne ma, forse, dovremmo imparare a farlo con una nuova certezza: il nostro voto conta quasi nulla, perché sono ormai pochissimi, ammesso che ve ne siano ancora, i leader politici che si sentono impegnati a tener fede alle solenni dichiarazioni con cui cercano di strapparci il voto.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 31 agosto 2019



Il semaforo della crisi

E così, dopo 15 mesi di governo giallo-verde, ne avremo non si sa quanti di governo giallo-rosso: il semaforo della crisi tiene fermo il giallo, e prova a sostituire il verde-Lega con il rosso-Pd.

Il ragionamento del neo-segretario Zingaretti, illustrato ieri nella Direzione del partito, si snoda intorno a due passaggi fondamentali.

Il primo è un comprensibile, quanto poco convincente, sforzo di allontanare ogni sospetto di opportunismo. Una excusatio non petita che si nutre di affermazioni come: “un Governo non può nascere sulla paura che qualcun altro vinca la elezioni” (ah no? la paura che Salvini stravinca le elezioni non vi tange?), dobbiamo “evitare ogni accusa di trasformismo e opportunismo” (e come farete, visto che fino a ieri escludevate solennemente qualsiasi accordo con i grillini?); “non siamo quelli pronti a manovre di Palazzo” (e cos’altro sta accadendo in queste ore, nel Palazzo della politica?).

C’è poi il secondo snodo, che in sostanza è una richiesta martellante e ripetuta di “forte discontinuità” rispetto “all’esperienza del governo uscente”. La richiesta, ovviamente, è rivolta ai superstiti del governo uscente, che non hanno alcuna intenzione di uscire come ha fatto Salvini, e contano precisamente sul Pd per rientrare. Messa così, parrebbe un aut-aut ai Cinque Stelle: o voi fate autocritica, e promettete di non fare più i populisti, oppure noi, che il voto lo temiamo meno di voi, vi abbandoneremo al vostro destino.

Arrivati a questo punto il paziente lettore della relazione di Zingaretti si aspetterebbe, come minimo, un’indicazione su quali dovrebbero essere, secondo il Pd, i capisaldi dell’azione del nuovo governo, a partire dalla “mostruosa manovra di bilancio che occorre fare”. Stabilito che, per non far scattare l’aumento dell’Iva, si tratta di reperire almeno 23 miliardi, più altri 7 di spese varie e indifferibili, ed escluso che lo si possa fare in deficit (altrimenti addio discontinuità), saremmo tutti curiosi di sapere dove il Pd pensa di poter reperire i 30 miliardi che occorrono. Nuove tasse? tagli alla sanità? sforbiciata alle agevolazioni fiscali? soppressione di quota 100? soppressione del reddito di cittadinanza?

Non è dato sapere. Invece di fornirci questa preziosa informazione, la relazione di Zingaretti si avventura in una elencazione di cinque richieste tanto perentorie quanto vaghe: “l’appartenenza leale all’Unione Europea, per un’Europa profondamente rinnovata”; “il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa”; “l’investimento su una diversa stagione dello sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale”;  “una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori”; “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”.

Di questi cinque punti, i primi tre (Europa, democrazia rappresentativa, diversa stagione dello sviluppo) sono puro fumo politichese: detti così, troverebbero d’accordo chiunque. Gli ultimi due sono invece inquietanti.

La richiesta di una svolta nelle politiche migratorie elude il problema principale di questi anni: che è di garantire l’accesso in Europa a chi ne ha diritto, senza mandare segnali che non possono non alimentare il traffico di esseri umani. E’ sconfortante che Salvini abbia sostanzialmente risolto il secondo aspetto del problema (disincentivare il business dei naufragi), facendo finta che il primo (diritti dei profughi) non esista. Ma è ancora più sconfortante che chi vuole una discontinuità, il problema manco lo veda, o peggio abbia in mente di invertire l’equazione migratoria, come se esistesse solo il primo aspetto (profughi) e non il secondo (traffico di esseri umani). Difficile non pensare che quel che si vuole, in realtà, sia un ritorno alla stagione dell’accoglienza caotica degli anni pre-Minniti, tanto più che lo sponsor principale dell’alleanza con i Cinque Stelle è Renzi, che di quella stagione si è sempre dichiarato fiero.

Quanto all’ultimo punto, l’invocazione di “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva e di attenzione al lavoro, all’equità sociale, territoriale, generazionale e di genere”, quel che è inquietante non è tanto la genericità, quanto l’analisi che sembra starle dietro. Un’analisi che si ostina ad attribuire lo stallo del Paese a questa mediocre esperienza di 15 mesi, come se l’Italia non fosse già in stagnazione quando Conte è diventato presidente del Consiglio, e come se negli anni in cui al timone c’era il Pd i nostri conti pubblici fossero in ordine. Ma, soprattutto, un’analisi che ripropone, per l’ennesima volta, la solita diagnosi sui mali del Paese, una diagnosi in cui il problema cruciale – ancora una volta – non è di metterci in condizione di produrre nuova ricchezza, ma è di redistribuire quella che già c’è, finché ce n’è.

Il fatto è che su un punto Zingaretti ha perfettamente ragione: ci vuole una discontinuità radicale rispetto al passato, perché il passato è fatto di demagogia, ricerca ossessiva del consenso, rimozione dei problemi del paese, dilazione delle decisioni difficili. Ma quel passato, bisognerebbe avere l’onestà di riconoscerlo, è il passato comune del nostro ceto politico, non il lascito esclusivo dell’ultima breve stagione di governo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 22 agosto 2019