Sardine

La manifestazione di Roma delle Sardine è stata senz’altro utile. Utile perché chiarificatrice. Le Sardine sono un movimento di opinione esplicitamente schierato a sinistra, nato per combattere la Lega di Matteo Salvini e abolire (o rivedere?) i decreti sicurezza (unico punto sostanzioso fra i 6 del loro programma politico). Dopo la manifestazione di Roma ogni incertezza e ambivalenza è caduta: anche se alcune istanze sono bipartisan (chiedere un po’ di bon ton e di serietà comunicativa alla politica è sacrosanto ma non è né di destra né di sinistra, così come non lo è difendere la Costituzione), il posizionamento delle Sardine nel mondo progressista è fuori discussione, con buona pace di Francesca Pascale e di CasaPound.

Ma qual è la cifra di questo movimento?

Qualcuno ha paragonato le Sardine ai Girotondi e al Popolo Viola, due movimenti di opinione sorti negli anni 2000 per combattere Berlusconi. Questo paragone non è sbagliato, perché su almeno un punto le analogie sono fortissime: anche oggi, come ieri, il cemento di questo tipo di movimenti è la credenza di rappresentare “la parte migliore del paese”. Succede in Italia, ma succede anche altrove: ricordate Hillary Clinton che dice dei suoi fan che sono “the best of America”, mentre i sostenitori di Trump sarebbero “a basket of deplorable” (letteralmente: un cesto di deplorevoli, talora tradotto con “branco di miserabili”)?

E tuttavia se ci concentrassimo solo sul “bullismo etico”, che oggi come ieri è il segno distintivo della società civile quando scende in piazza, ci faremmo sfuggire il tratto più nuovo di questo movimento. Che non è né l’incapacità di riconoscere all’avversario politico la sua legittimità, né la tendenza a disumanizzare il nemico (ieri Berlusconi, oggi Salvini), ma è il suo modo di porsi rispetto al potere costituito. A mia memoria, tutti i movimenti del passato hanno sempre avuto una forte carica anti-establishment o anti-governo. Sessantottini, femministe, dipietristi, Girotondi, Popolo Viola, grillini della prima ora, sono sempre stati “contro” alcuni essenziali poteri costituiti (nel caso dei Girotondi e del Popolo Viola i governi Berlusconi nati nel 2001 e nel 2008). Per non parlare dei partigiani, che mettevano a repentaglio le loro vite per abbattere una dittatura e riconquistare la libertà.

Le Sardine no. Non solo sfidano il ridicolo paragonandosi ai partigiani, come se fossimo in presenza di una dittatura, e gli oppositori dovessero rifugiarsi sui monti per combatterla, ma non paiono rendersi conto della unicità e paradossalità della loro protesta. E’ la prima volta, in Italia, che un movimento di protesta non si rivolge contro il potere ma ne è il beniamino. Vezzeggiati dai giornali e dalle televisioni, coccolati dall’establishment, vengono lodati e ringraziati dagli esponenti del governo in carica (esattamente come accadeva qualche settimana fa con le manifestazioni dei seguaci di Greta). E si capisce perché: agli esponenti di governo non par vero che le piazze si riempiano non già per criticare il governo, bensì per demonizzare o ridicolizzare l’opposizione.

Per chi osserva le cose con un minimo di distacco, c’è di che trasecolare. L’Italia si sta disgregando giorno dopo giorno, il governo in carica, per ammissione della stessa stampa progressista, è fra i più grigi, confusi e litigiosi di sempre, e che cosa accade nelle piazze delle Sardine? La protesta non si dirige verso l’esecutivo, esigendo che affronti i problemi reali del paese, ma verso i leader dell’opposizione, dipinti come fascisti, razzisti, anti-semiti, pronti a instaurare un regime autoritario, novelli Mussolini e Hitler, mostri grondanti odio.

Eppure il nodo, a mio parere, è proprio qui. Se dipingi l’avversario politico come un nemico, se arrivi a considerarlo una bestia o un non-uomo, diventi parte attiva di quel clima d’odio che dici di voler combattere; contribuisci tu stesso a imbarbarire il confronto politico; e, in qualche misura, finisci per proiettare sull’altro la profonda ostilità che senti in te. Soprattutto, non riesci a farti la domanda delle domande: perché le piazze delle Sardine attirano i ceti medio-alti, e quelle della destra i ceti medio-bassi? come è possibile che la gente beneducata, colta, civile, preoccupata delle sorti dei deboli, scenda in piazza per squalificare i leader di quei medesimi deboli?

E’ un peccato, non farsela questa domanda. Perché il vero problema della sinistra, che la condanna ad essere elitaria e (tuttora) un po’ antipatica, è di non aver recepito la lezione che a suo tempo, faticosamente, Walter Veltroni aveva provato a impartirle: il rispetto dell’avversario politico è un ingrediente essenziale della democrazia, ma è anche la precondizione per capire perché i ceti popolari hanno smesso di guardare a sinistra.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 dicembre 2019



La tragedia del MES

Credo che, sulla questione della riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), sia essenziale tenere distinte tre domande.

Domanda 1: è pericoloso per l’Italia? O meglio: l’Italia, con il nuovo MES, corre più o meno rischi che con il vecchio?

Ebbene, qui la mia riposta è netta. Prima di leggere il testo non ero eccessivamente preoccupato, dopo averlo letto attentamente lo sono moltissimo. Il trattato è pericoloso per l’Italia, e aumenta il rischio di una crisi finanziaria che ci costringa a una pesante “ristrutturazione del debito” (eufemismo per non dover dire: perdite patrimoniali e relativa catena di conseguenze). Questo giudizio non è solo dell’opposizione ma è condiviso da numerosi politici e tecnici di sicura fede europeista e progressista, che hanno messo in evidenza i molti punti deboli dell’accordo: dall’eccesso di potere del MES (a scapito della Commissione Europea) alla pericolosità delle Clausole di Azione Collettiva (le cosiddette CACs) che dal 2022 renderanno più facile costringere gli Stati a ristrutturare il debito, per non parlare dello scudo penale a favore dei membri del MES (articoli 32 e 35 del trattato).  A minimizzare più o meno convintamente i rischi restano solo l’ex ministro Tria (che ha negoziato le modifiche), il ministro Gualtieri (che ha ereditato la patata bollente), la maggioranza degli esponenti del Pd, nonché i più acritici fra gli “europeisti a prescindere”.

Domanda 2: di chi è la colpa se ci troviamo in questa situazione, ossia a dover firmare un trattato che ci danneggia?

A mio parere la colpa principale è del governo giallo-verde, anche se la ripartizione delle responsabilità fra Conte-Tria-Salvini-Di Maio è impossibile da valutare per un osservatore esterno come me (se volessi scoprirlo proverei a sapere qualcosa da Giorgetti). L’idea che mi sono fatto è più o meno questa. Tria negozia quel che può, e non può molto perché il governo vuole flessibilità, e non può certo permettersi la procedura di infrazione per debito eccessivo. Poi dice a Conte (che è un avvocato, e di economia non si intende) che è un buon accordo. Conte non spiega a Salvini e Di Maio che, in realtà, quel che lui e Tria stanno negoziando – oltreché bruttino –  è quasi definitivo. Salvini e Di Maio, che preferiscono i bagni di folla (gratificanti) allo studio dei dossier (noiosissimi), fra un comizio e un salto in discoteca non si rendono conto né di quel che sta passando, né del fatto che quel che sta passando è sostanzialmente irreversibile. Personalmente sono più arrabbiato con Salvini e Di Maio che con Tria.

Domanda 3: e adesso? Adesso che l’Eurogruppo, nella riunione di ieri, ha detto chiaramente che il testo del trattato è sostanzialmente inemendabile, che cosa dovrebbe fare l’Italia?

La mia risposta è: non lo so. Perché ci sono gravi rischi sia se si rifiuta di firmare il trattato, sia se lo si accetta. In entrambi i casi la nostra vulnerabilità alla speculazione e alle crisi finanziarie è destinata ad aumentare considerevolmente.

C’è una domanda, però, cui mi sento di abbozzare una risposta. La domanda non è “che cosa dobbiamo fare?” ma “che cosa effettivamente faranno i nostri politici?”.

Ed ecco la mia previsione. Conte e Gualtieri pregheranno in ginocchio l’establishment europeo di concedere almeno una piccola modifica al trattato, in modo da consentire al governo giallo-rosso di salvare la faccia e farlo approvare in Parlamento (già si parla di eliminare, attenuare o ritardare l’entrata in vigore della cosiddette CACs, ossia delle clausole che – dal 2022 – renderanno più facile la ristrutturazione del debito). Le autorità europee concederanno qualche ritocco marginale, e magari qualche promessa sugli altri due tasselli del pacchetto che include il MES (unione bancaria, budget europeo).

Il governo rassicurerà gli italiani, dicendo che già avevamo ottenuto molto (nel testo attuale la ristrutturazione del debito non è automatica), e abbiamo ancora “migliorato” il trattato che era stato chiuso a giugno. Poi l’attività di governo riprenderà, con questo o con altro governo. Ma chiunque prenderà il timone della politica economica continuerà sulla strada di sempre: richiesta di flessibilità, deficit tra il 2 e il 3%, nessuna sostanziale diminuzione del rapporto debito/Pil. Perché su una cosa destra e sinistra, giallo-rossi e giallo-verdi sono sempre d’accordo: il risanamento dei conti pubblici, ossia l’unica cosa che ci metterebbe al riparo da crisi future, “è un obiettivo strategico”. Così strategico che ci penseremo domani, anzi ci penseranno quelli che verranno dopo di noi.




Una modesta proposta

Credo che, prima o poi, si arriverà a qualcosa che limiterà la circolazione gratuita e illimitata delle informazioni su internet. Potrebbe essere un “francobollo elettronico” sulla posta trasmessa via internet, o la nascita di un circuito parallelo a pagamento, e perciò stesso sostanzialmente impermeabile allo spam e alla violenza simbolica che infesta la rete. In una società opulenta qual è diventata l’Italia sono certo che molti sarebbero ben felici di pagare un abbonamento, verosimilmente meno costoso di quelli del calcio, per proteggersi dal flusso di informazione indesiderata che ci tormenta 24 ore su 24. E’ abbastanza incredibile che non sia ancora successo nulla, nonostante due fatti incontrovertibili: la circolazione illimitata di materiale sulla rete saccheggia la nostra riserva personale di tempo; la proliferazione dei messaggi di posta elettronica, attraverso l’iper-consumo di energia sui server, danneggia l’ambiente, che pure tutti diciamo di avere a cuore (un fatto noto da almeno un decennio, ma che, sorprendentemente, solo da poco sta ricevendo la dovuta attenzione).

Quando internet non sarà più una prateria unica, su cui tutti possono scorrazzare a piacimento senza regole e senza rispetto per gli altri, certi problemi che ora infiammano gli animi, come l’hate speech (i discorsi d’odio), finiranno per appassire. Se mandare una mail o postare un messaggio avrà un costo, succederà quel che succede in tutti i campi in cui le risorse non sono illimitate: la scarsità delle risorse indurrà un loro uso più razionale, o semplicemente meno smodato.

Ma nel frattempo? Nel frattempo come facciamo a difenderci dagli scocciatori e dagli odiatori?

Sugli scocciatori non ho idee. Temo che, come nella vita è quasi impossibile liberarsi di uno scocciatore, lo stesso valga per internet e più in generale per lo spazio pubblico (ad esempio gli stadi): lo spam, l’iper-comunicazione e il tifo sono quasi impossibili da schivare. Ma sugli odiatori, sui malati di aggressività e di cattiveria, una modesta proposta per difenderci ce l’avrei. Per illustrarla, però, devo partire da una triplice osservazione: primo, il grosso dell’odio si concentra su personaggi pubblici che, per una ragione o per l’altra, sono divenuti simboli di qualcosa; secondo, quando un personaggio pubblico è sotto attacco, i media danno un enorme risalto ai messaggi che lo riguardano; terzo, la diffusione sui media dei messaggi d’odio spinge altri odiatori a imitarli, entrando a loro volta in campo, .

Ed eccomi alla proposta. Se vogliamo frenare la circolazione dell’odio, innanzitutto in rete ma non solo, la prima regola dei media dovrebbe essere: negare lo spazio. O, se preferite: non farsi strumentalizzare. Perché è un po’ ipocrita indignarsi per la volgarità della comunicazione pubblica quando ci si presta quotidianamente a farle da megafono. E’ un circolo vizioso: i malati d’odio aspirano alla notorietà, ossia precisamente a ciò che gli autorevoli censori dei loro discorsi quotidianamente concedono loro. Per un odiatore non è importante colpire il personaggio che odia, ma fare un salto di status grazie a un articolo su una quotidiano nazionale o a un servizio di un telegiornale. I media, spiace dirlo, sono i complici più utili degli odiatori. Come i tossicodipendenti, che manipolano gli psicologi raccontando loro quel che questi ultimi si aspettano, così gli odiatori manipolano i media dando loro in pasto materiale che i media stessi – immancabilmente – non resistono alla tentazione di pubblicare e fare oggetto di “dibattito”.

Perché? Dovere di informare l’opinione pubblica?

No. Allo stato attuale non ci sono strumenti per stabilire in modo obiettivo dove stia andando il “fiume immondo” del web (così Massimo Cacciari nell’ultimo film di Elisabetta Sgarbi, Vaccini, nove lezioni di scienza). Tutto dipende dalle piattaforme che si monitorano, dalle parole-chiave che si utilizzano, dai periodi di tempo che si analizzano. Non c’è alcun valore aggiunto, non c’è alcuna vera notizia, solo la stessa immota verità: sul web operano impunemente “legioni di imbecilli” (così li chiamava Umberto Eco).  E allora perché pubblichiamo e dibattiamo di tutto?

La realtà, temo, è che l’unica vera bussola del mondo dei media è suscitare emozioni, possibilmente quelle che favoriscono la propria parte politica. E’ questo che rende irrefrenabile l’impulso a pubblicare di tutto, anche se il pubblicarlo alimenta il male che si finge di voler combattere. Ed è per questo la mia modesta proposta – tacere – non potrà essere ascoltata.

Con questo non voglio dire che il silenzio, il rifiuto di dare visibilità alla miseria umana, sia l’unica via per combattere odio, disprezzo, volgarità. C’è almeno un caso in cui l’informazione, la discussione, anche l’indignazione, sono legittime, se non doverose. Questo caso è quello in cui un personaggio pubblico, che ha fama, visibilità, potere, responsabilità, viola le regole minime del vivere civile, che sono fatte di rispetto, sensibilità, capacità di ascolto. In questi casi è bene parlare, perché l’odio o il disprezzo manifestato da chi ha più potere o più voce degli altri non sono neutralizzabili semplicemente ignorandoli, ma richiedono una risposta ferma.

Il punto delicato è solo questo: dobbiamo dare una risposta, ma dobbiamo darla a 360 gradi. Non si può trovare inaccettabili le cadute di stile dei nostri avversari, e sorvolare su quelle dei nostri amici, qualsiasi cosa ciascuno di noi intenda per avversari e per amici.

Per quanto mi riguarda sono stato profondamente colpito da gesti come quello di Matteo Salvini, quando ha tenuto un comizio esponendo una bambola gonfiabile che rappresentava Laura Boldrini, o quando ha commentato la sentenza di condanna degli uccisori di Stefano Cucchi con la frase “la droga fa male”.  Ma altrettanto mi ha turbato la campagna di odio di alcuni media e di alcuni intellettuali verso Salvini, dipinto ora come non-uomo, ora addirittura come “bestia”. E ancor più mi ha sconcertato che un sedicente “artista” non abbia trovato di meglio che esporre un’opera d’arte (?) che raffigura Salvini stesso mentre spara a due immigrati-zombie, quasi che questa fosse la proposta politica della Lega in materia di immigrazione.

Finché non capiremo questo, e cioè che chi ha responsabilità pubbliche non può cavalcare la disumanizzazione dell’altro, ogni speranza di neutralizzare l’odio che circola in rete non potrà che andare delusa. Perché è la nostra faziosità che ci fa vedere il “fiume immondo” di internet non come qualcosa che possiamo sconfiggere ignorandolo, ma come una riserva infinita di strali con cui colpire i nostri avversari.

Pubblicato su Il Messaggero del 2 dicembre 2019



L’anima del Pd

Siamo in molti, credo, a chiederci che cosa sia saltato in mente a Zingaretti qualche giorno fa, quando ha compiuto due mosse che un po’ tutti abbiamo percepito come collegate. La prima è stata di ingiungere al governo di “trovare un’anima”, con ciò confermando la diagnosi che il mondo progressista ripete come un mantra da settimane: questo governo sarà pure necessario, in quanto unico argine possibile contro il razzismo (?), il fascismo (!) e l’aumento dell’Iva (?!), ma è innegabile che un’anima non ce l’ha; e dunque se la dia, se vuole sopravvivere.

Ma l’esortazione di Zingaretti non avrebbe suscitato tanta attenzione se non fosse stata accompagnata dall’impegno, preso a nome del Pd, di tornare a battersi per lo ius soli e lo ius culturae, ovvero per allargare le maglie della concessione della cittadinanza agli stranieri.

Difficile non fare 2 + 2 e intendere che, in realtà, l’esortazione a darsi un’anima, più che al governo, fosse rivolta al Pd, che quasi tutti gli osservatori descrivono come un partito confuso, disorientato, alla ricerca di un’identità o, appunto, di un’anima. E infatti il primo a lanciarsi, piuttosto entusiasticamente, sulla proposta di Zingaretti (in particolare sullo ius culturae) è stato Luigi Manconi, che giusto 10 anni fa aveva scritto un libro con un titolo significativo (Un’anima per il Pd) e un sottotitolo ancor più significativo (La sinistra e le passioni tristi). Dunque siamo al punto di partenza: al Pd mancava un’anima quand’era piccino (il libro di Manconi è del 2009) e manca un’anima pure oggi che è grandicello. I suoi sostenitori esigono, giustamente dal loro punto di vista, che questa benedetta anima venga “trovata”, e Zingaretti ci prova. Annuncia che il Pd darà battaglia su ius soli, ius culturae e decreti sicurezza.

Io non so perché Zingaretti abbia scelto di percorrere questa strada, tutta pro-migranti e così poco sensibile alle priorità dei ceti popolari. Può darsi che abbia ragione Federico Rampini che qualche giorno fa, in un dibattito televisivo, manifestava tutto il suo sconcerto di fronte alle esternazioni zingarettiane: il Pd, ormai, ascolta solo il mondo radical chic, e pare del tutto dimentico delle sue origini (il Partito comunista “era legge e ordine”, altroché buonismo e permissivismo). Ed è certo che questa evoluzione era stata immaginata fin dagli anni ’70 dal grande filosofo Augusto del Noce, che profetizzava una progressiva trasformazione del Pci, il “partito della classe operaia”, in un “partito radicale di massa”, attento alle esigenze e alla sensibilità degli strati alti e medio-alti della popolazione.

E tuttavia, pur essendo fra quanti, non da ieri ma da qualche decennio, hanno registrato questa deriva, per cui i diritti sociali (a partire dal lavoro) cedono il passo a quelli civili (le “grandi battaglie di civiltà”, dalle unioni gay alla fecondazione assistita, dalla cittadinanza all’eutanasia), non riesco a nascondere il mio stupore. Perché quel che è strano non è che il Pd cerchi di dotarsi di un’anima, ma che – per farlo – si ispiri ai salotti della borghesia illuminata e alle credenze dei media progressisti, anziché alle esigenze e ai sentimenti dei ceti popolari. Quel che è strano è che, di fronte alla domanda di protezione che, da anni, si leva dagli strati periferici della società italiana, il maggiore partito della sinistra preferisca sintonizzarsi con le priorità degli strati sociali centrali, fatti di persone istruite, urbanizzate, benestanti.

Perché?

Augusto del Noce direbbe, forse: perché era inevitabile. La trasformazione del Pci in partito radicale di massa altro non è che l’esito finale del lungo cammino che, in mezzo secolo, ci ha resi una società opulenta e profondamente individualista. Del resto, la mutazione non è avvenuta solo da noi: che i partiti progressisti rappresentino soprattutto gli strati medio-alti, e che i ceti popolari guardino più a destra che a sinistra, non è un tratto distintivo dell’Italia, ma è una circostanza che è possibile ritrovare nella maggior parte delle società avanzate. Perché stupirsi, dunque, se il maggior partito della sinistra si aggrappa alle “sardine” (gli studenti che riempiono le piazze contro Salvini), e snobba le preoccupazioni degli strati più umili?

La ragione per cui mi stupisco è presto detta: l’Italia non è come gli altri maggiori paesi paesi avanzati. L’Italia è l’unica società avanzata in cui l’economia non cresce più, la produttività è ferma da vent’anni, e le persone che non lavorano sono molto più numerose di quelle che lavorano. In queste condizioni, se non si fa nulla, siamo condannati a un processo di “argentinizzazione lenta”, che nel giro di pochi decenni eroderà la ricchezza accumulata dalle generazioni che hanno ricostruito il Paese dopo la seconda guerra mondiale. Le grandi emergenze economico-sociali di cui si parla in questi giorni (Ilva, Alitalia, Mose), le innumerevoli crisi aziendali aperte, non sono eventi accidentali, o di origine misteriosa, ma i segni difficilmente equivocabili del declino in atto.

Ecco perché mi stupisco delle mosse del maggiore partito della sinistra. Non ho nulla contro lo ius culturae, una misura che – se congegnata bene – troverebbe ampio consenso, anche fra quanti guardano a destra, ma trovo incredibile che, per darsi un’anima, e in una situazione in cui il Paese affonda sotto una valanga di problemi che rigardano l’hardware del sistema sociale (economia e lavoro), il maggiore partito della sinistra preferisca baloccarsi con problemi che riguardano il software del sistema sociale, e sono largamente estranei alla sensibilità popolare. Un grande leader come Berlinguer, di fronte alla situazione dell’Italia di oggi, non avrebbe trovato alcuna difficoltà – ove ve ne fosse stato bisogno – a trovare un’anima al suo partito. E, soprattutto, non l’avrebbe cercata lontano dalle periferie e dalle fabbriche, dove tutt’ora, e a dispetto del benessere dei più, gli strati popolari fanno i conti con le asprezze della vita.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 novembre 2019



Il partito del Pil

A che punto è il cosiddetto partito del Pil, ovvero l’Italia che non si è rassegnata al declino, e vorrebbe tornare alla crescita?

Il tema è stato sollevato con la consueta lucidità da Angelo Panebianco in un articolo sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. Di fronte alla disastrosa gestione del caso dell’Ilva, ma soprattutto al perdurare di politiche assistenziali (quota 100 e reddito di cittadinanza) in entrambi i governi Conte, Panebianco suggerisce che ben poco sia cambiato nel passaggio dall’esecutivo giallo-verde a quello giallo-rosso, salvo il fatto che, ora, le deboli e timide istanze pro-crescita della società italiana anziché essere rappresentate dalla Lega vengono rappresentate da una parte del Pd (e, aggiungo io, da Italia Viva, il nuovo partito di Mattero Renzi). E lascia aperta la domanda cruciale: il partito del Pil è minoranza nel paese, o è semplicemente privo di un’adeguata espressione politica?

La mia impressione, ma potrebbe essere un’illusione dettata dallo sconforto, è che fra la gente, e non solo al Nord, il partito del Pil sia molto più forte di quanto suggerisca il balbettio delle forze politiche che, più o meno maldestramente, provano a interpretarne qualche istanza. E che ci siano ragioni ben precise per cui il partito del Pil non riesce a trovare un’espressione di governo adeguata.

La prima ragione è ovvia e strettamente politica: i Cinque Stelle, che sono l’espressione più pura del partito della decrescita, hanno la maggioranza relativa in parlamento, e quindi qualsiasi governo che li includa non può non avere un orientamento prevalentemente assistenziale. Ma ci sono anche altre due ragioni che, a mio parere, soffocano sul nascere la formazione di uno schieramento pro-crescita. Una a che fare con l’economia, l’altra con l’ideologia.

Sul versante dell’economia, è difficile non notare che sia la Lega sia il Pd hanno essi stessi una componente assistenziale molto forte. La Lega l’ha palesata clamorosamente anteponendo quota 100 alla riduzione delle tasse, il Pd la palesa ogniqualvolta (quasi sempre) antepone gli incrementi di spesa alle riduzioni delle tasse sui produttori, o preferisce migliorare le retribuzioni di chi ha già un lavoro piuttosto che rendere possibile la nascita di nuovi posti di lavoro. A questa debolezza dei timidi rappresentanti del partito del Pil si aggiunge un ulteriore handicap: né la Lega né il Pd ci hanno ancora spiegato se l’alleggerimento della pressione fiscale, che entrambi dicono di perseguire, intendono attuarlo facendo nuovo debito pubblico oppure no (al riguardo, la mia sensazione è che la Lega pensi di ridurre le tasse con un condono e portando il deficit vicino al 3%, e che il Pd semplicemente non abbia alcuna seria intenzione di ridurle davvero, le tasse).

Ma supponiamo, per un attimo, che fra Pd e Lega non vi siano differenze significative sulla politica economica, e che questi due partiti si ergano a rappresentanti del partito del Pil. Supponiamo anche che i Cinque Stelle scendano intorno al 10-15% dei consensi. Basterebbe questo a dare spazio al partito del Pil?

Secondo me no, perché nella politica italiana – ma oggi siamo costretti a specificare: nel modo di fare politica del mondo progressista – l’ideologia tende a prevalere su tutto. Per la sinistra, la Lega e il suo leader non sono normali avversari, portatori di un progetto politico alternativo a quello della sinistra. No, la Lega e i suoi alleati (specie Fratelli d’Italia), sono prima di tutto la manifestazione dei più torbidi impulsi della società italiana: razzismo, odio verso gli stranieri, antisemitismo, nostalgie fasciste, tentazioni autoritarie. La destra, oggi con Salvini come ieri con Berlusconi, è culturalmente indigeribile: altroché politica economica e partito del Pil! E’ come se, accecata dall’odio per il non-uomo Salvini, la sinistra avesse perso ogni capacità di discernimento, oltreché ogni rispetto per l’avversario.

Ecco perché penso che, alla fine, nonostante il partito del Pil sia forte nel Paese, non vi sia, attualmente, alcuna realistica possibilità di fornirgli un’espressione politica, anche nel caso i Cinque Stelle e le forze anti-crescita (quelle che plaudono alla chiusura o alla nazionalizzazione dell’Ilva) dovessero subire una severa sconfitta elettorale. La realtà, temo, è che le spinte assistenziali e la tentazione di affrontare i problemi facendo più debito sono fortissime tanto a destra quanto a sinistra. E lo sono perché i due partiti maggiori, la Lega e il Pd, pur non insensibili al “grido di dolore” del partito del Pil, non hanno più, se mai l’hanno avuta, la crescita nel loro DNA.

Da questo punto di vista l’esperienza dei due governi Conte è stata semplicemente illuminante. Non solo perché accomunati dalle due misure più anti-crescita (quota 100 e reddito di cittadinanza), introdotte dal primo e confermate dal secondo (con tanti saluti alla “discontinuità” invocata da Zingaretti), ma perché quel poco che li ha resi diversi è l’opposto di quel che Lega e Pd hanno sempre predicato. Il Conte 1, a trazione leghista, anziché ridurre le tasse ha aumentato la pressione fiscale, dopo un quinquennio di (sia pur modeste) riduzioni attuate dai governi di sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni). Il Conte 2, a trazione Pd, dunque in linea di principio ligio alle regole europee, ha esordito facendosi concedere dall’Europa 16 miliardi di spesa in deficit, così interrompendo i sia pur modesti segnali di miglioramento dei conti pubblici emersi durante il breve regno dell’antieuropeo Conte 1.

Che dire?

Anche ammesso che, come sono incline a pensare, il partito del Pil sia maggioranza nel Paese, le due forze principali che dovrebbero rappresentarlo, la Lega e il Pd, non sembrano al momento all’altezza del compito. Non solo perché ferocemente ostili l’una all’altra, ma perché entrambe possedute dai due demoni che insidiano il ritorno alla crescita: l’incapacità di ridurre le tasse sui produttori, e la sempiterna tendenza a comprare il consenso con nuove spese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 16 novembre 2019