Il referendum del 29 marzo

Fra chi segue settimanalmente i sondaggi si sta facendo strada una sensazione, se non una previsione: il Pd gode di una discreta salute, i Cinque Stelle stanno perdendo consensi settimana dopo settimana, al punto che – a breve – potrebbero essere sorpassati da Fratelli d’Italia, l’unico partito in costante ascesa da mesi. Con la Lega vicina al 30%, il Pd vicino al 20, e il partito della Meloni in vista del 15 i Cinque Stelle (che, lo ricordiamo, in Parlamento sono di gran lunga il primo partito) potrebbero precipitare al quarto posto.

Chi vede le cose in questo modo, però, forse non fa i conti fino in fondo con un evento politico che ormai è alle porte: il referendum confermativo sul taglio del numero dei parlamentari (da 945 a 600), previsto fra una manciata di settimane (domenica 29 marzo). Qualsiasi cosa si pensi di questa riforma costituzionale (personalmente la trovo tanto ragionevole quanto di scarso impatto: sono assai più sostanziali i cambiamenti delle regole di cui ci sarebbe bisogno), resta il fatto che essa è stata una bandiera di un solo partito (il Movimento Cinque Stelle), è stata osteggiata con decisione dal Pd, e alla fine è passata non certo perché il Pd si sia convertito, ma perché i Cinque Stelle l’hanno posta come condizione per imbarcare il Pd e Leu nel nuovo governo.

Dunque quel che dobbiamo attenderci non è che il referendum passi nell’indifferenza generale (visto che nessun partito osa schierarsi apertamente a favore del no), bensì che il Movimento Cinque Stelle, che di quella riforma si considera – del tutto giustamente – il promotore e l’artefice, colga l’occasione per passare all’incasso sul piano del consenso. E’ quasi certo che il taglio dei parlamentari avrà l’approvazione della stragrande maggioranza dei votanti, ed è impensabile che, su questo successo, i Cinque Stelle non tentino un’operazione di recupero del consenso perduto, magari trasformando l’evento degli Stati generali in un’occasione di autocelebrazione, che non potrà non sfociare in un revival della retorica anticasta che ne ha segnato le origini.

Con quali effetti sul seguito elettorale?

Difficile dirlo, perché spesso il consenso ad A è anche il frutto del discredito di B, C e D, ovvero delle altre forze politiche. Quel che però mi sembra ragionevole prevedere è che questa vittoria possa rallentare (se non invertire) il trend di declino dei Cinque Stelle, ma soprattutto possa rendere più evidente l’abdicazione del Pd da ogni velleità di dare un segno, il proprio segno, al governo giallo-rosso. Dopo aver ceduto sul taglio dei parlamentari, dopo essersi rassegnato al reddito di cittadinanza (aspramente criticato fino a pochi mesi fa), dopo aver piegato la testa su concessioni autostradali e giustizia, dopo avere esitato e temporeggiato su tutto ciò che riguarda l’immigrazione (dai decreti Salvini allo ius soli), il Pd zingarettiano appare pronto a tornare quel che era prima di Renzi, forse fino al punto di riaccogliere, a braccia più o meno aperte, i transfughi fin qui rifugiati in Leu.

Un processo, questo, che l’attivismo di Renzi non fa che mettere impietosamente a nudo. Perché è vero che a salvare i Cinque Stelle da un’ecatombe elettorale è stato Renzi, è vero che a sdoganarli a sinistra è stato Renzi, è vero che Italia Viva fin qui ha digerito quasi tutto ciò che il convento giallo-rosso imponeva ai suoi adepti, ma non si può non notare che quello che Renzi oggi dice e rivendica a nome di Italia Viva altro non è, sulla maggior parte delle questioni, esattamente ciò che il Pd diceva e rivendicava fino a ieri.

La conclusione è semplice. I Cinque Stelle sono stati il vero dominus del governo giallo-rosso e si apprestano a rinverdire il loro populismo anticasta. Renzi e Italia Viva, dopo la mossa opportunista e anti-salviniana di far nascere il Conte 2, stanno tornando ad assumere il loro profilo naturale, quello di una sinistra riformista e garantista. Solo il Pd resta un enigma, incerto fra il suo passato renziano e il suo presente grillino.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 febbraio 2020



L’economia dimenticata

Se scorriamo i titoli dei giornali e dei telegiornali delle ultime settimane, è inevitabile constatare che tre argomenti hanno ormai monopolizzato l’attenzione dei media e della politica: il processo a Salvini per la vicenda della nave Diciotti, la giustizia, con la questione della prescrizione, e il coronavirus (ora ribattezzato Covid-19).

La questione della prescrizione è arrivata al punto di minacciare la sopravvivenza del governo, mettendo in evidenza la incompatibilità fra Italia Viva e Cinque Stelle.

Il problema del coronavirus ha riacceso le accuse di razzismo e xenofobia che il mondo progressista riversa su chiunque non sposi la linea ufficiale, per la quale il diritto allo studio (niente quarantena preventiva per gli studenti che arrivano dalla Cina) ha la precedenza su quello alla salute. O, se preferiamo dirla in modo più filo-governativo: per le autorità preposte a gestire l’epidemia, i rischi di contagio sono così bassi che possiamo permetterci di correrli.

In tutto ciò, quel che è completamente sparito dalla scena sono i problemi dell’economia. Eppure l’economia batte alle porte.

Ci sono, innanzitutto, i problemi che fino a ieri parevano cruciali, e che ora si preferisce rimuovere. Ricordate il dramma dell’Ilva, che fino a due mesi fa pareva una questione di vita o di morte, per la salute dei cittadini di Taranto come per l’economia del mezzogiorno e dell’intero paese?

E l’Alitalia ? Una vicenda che si trascina da anni e ora è tornata alla ribalta solo perché la magistratura ha deciso di indagare una ventina di dirigenti per presunti favori illeciti a Etihad.

C’è poi la questione della revoca della Concessione ad Autostrade, un problema che si tende ad affrontare in modo ideologico, come se le scelte (o le non scelte) che si compiono non avessero pesanti ripercussioni economiche (la revoca potrebbe costare miliardi alle casse dello Stato, la rinuncia a imporre investimenti al concessionario potrebbe peggiorare ulteriormente lo stato della nostra rete autostradale).

E il MES? Qualcuno ricorda che fino a un paio di mesi sulla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità volavano le accuse, e anche i più cauti fra gli economisti avanzavano preoccupazioni?

Tutto cancellato, tutto sottotraccia, tutto in sordina, sommerso dalle intemperanze dei politici che si sfidano sul processo al capo della Lega, sulla prescrizione, sulle misure da adottare per contrastare il contagio.

Ma non è tutto. Accanto ai problemi specifici dell’economia italiana ci sono le turbolenze che arrivano da fuori e da lontano. La crescita mondiale sta rallentando, la Brexit sta creando incertezza e instabilità, il commercio con la Cina subirà certamente una frenata.

E in questo quadro arrivano le stime di crescita per il 2020 e il 2021 della Commissione europea, che annunciano un rallentamento dell’Europa in generale, e dell’Italia in particolare. La vera notizia, per noi, è che anche nei prossimi anni, così come in quelli passati, l’Italia occupa l’ultimo posto, dietro paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Tutti i paesi dell’euro, secondo le previsioni, cresceranno più dell’1%, e 10 paesi (su 19) cresceranno fra il 2 e il 4%. Solo per l’Italia la Commissione prevede una crescita prossima a zero (0.3%).

Qualcuno dirà che questa è l’amara eredità del governo populista e del suo capo, quel Giuseppe Conte che aveva profetizzato che il 2019 sarebbe stato “un anno bellissimo”. Qualcun altro obietterà che, nel passaggio da giallo-verde a giallo-rosso, o da Conte 1 a Conte 2, le cose sono addirittura peggiorate, visto che per il terzo trimestre del 2019 l’Istat prevede addirittura una contrazione del Pil (-0.3%).

Ma ad entrambi, e a chi rimpiange gli anni precedenti, vorrei ricordare che il primo segno meno davanti al tasso di crescita del Pil risale al secondo trimestre del 2018, quando il timone dell’economia era ancora in mano al governo Gentiloni. Dunque, facciamocene tutti una ragione: se guardata dal lato dell’economia, l’Italia brilla per la continuità delle sue non-politiche.

Sono anni e anni che, chiunque governi, siamo ultimi in Europa. E sono anni e anni che i nostri nodi veri, dal debito pubblico alla pressione fiscale, dalla produttività all’occupazione, preferiamo non affrontarli. E ogni coronavirus che passa ci fornisce l’insperata occasione di perseverare nella nostra inerzia.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 febbraio 2020



La prudenza e la paura

Quel che sta accadendo da una decina di giorni sul problema del Coronavirus è decisamente illuminante, perché mostra nel modo più spietato a quali aberrazioni possa portare il politicamente corretto.

Mentre le persone normali, con più o meno ansia a seconda della personalità di ciascuno, si domandano semplicemente che cosa fare per proteggere sé stessi e i propri cari, i guardiani del bene vedono nel coronavirus l’ennesima, insperata occasione per istruirci e redarguirci. Secondo loro, la paura è irrazionale, i bimbi provenienti dalla Cina vanno accolti nelle classi “senza alcuna limitazione”, il problema vero non è il virus ma il rischio che si verifichino “episodi di discriminazione”. Se c’è un’epidemia, è “un’epidemia di stupidità”. E il vero problema è arginare il “cretinismo di massa” e “l’isteria popolare”. Chi ha ruoli politici, ammonisce il presidente del Consiglio, “ha anche il dovere, la responsabilità di dare messaggi di tranquillità e serenità. La situazione è sotto controllo”. I governatori se ne facciano una ragione, e si fidino di “chi ha specifica competenza”.

Può accadere così che una lettera, molto rispettosa e ragionevole, redatta da alcuni governatori del Nord raccogliendo le preoccupazioni delle famiglie, venga respinta al mittente perché “non ci sono i presupposti per allarme o panico”. Curioso. Il governo ha appena decretato lo stato di emergenza sanitaria, ma si oppone a un provvedimento elementare e assai blando suggerito dai governatori.

Che cosa proponevano i governatori del Nord nella loro lettera?

Semplice, che i bambini italiani e cinesi appena stati in Cina per il capodanno (che lì quest’anno è caduto il 25 gennaio), attendano 14 giorni prima di rientrare a scuola. Che è lo tesso tipo di misura adottata per gli adulti che, negli stessi giorni, il nostro governo aveva fatto rientrare in Italia dalla Cina con un volo speciale dell’Aeronautica militare. Se è sembrato prudente isolare per un breve periodo gli adulti, perché non fare la medesima cosa con i bambini, tanto più che l’ambiente scolastico è notoriamente adatto alla trasmissione dei virus?

Già, perché?

La domanda sorge spontanea non tanto e non solo perché l’argomentazione dei governatori era tutt’altro che irragionevole, ma perché nella medesima direzione si è espressa una delle voci più autorevoli in materia, quella del virologo Roberto Burioni, che ha spigato come, in assenza di un vaccino o di una cura, quella dell’isolamento temporaneo dei soggetti potenzialmente portatori del virus sia al momento l’unica difesa possibile. E’ vero che il Coronavirus pare meno letale di quello della Sars, ma il suo potenziale di diffusione è molto maggiore: “il Coronavirus ha le potenzialità per diffondersi in tutto il mondo e anche se avesse mortalità più bassa potrebbe causare più morti”. In breve, dice Burioni, quella attuale “è la situazione più grave che ho visto nella mia carriera”.

Il bello è che, sulla medesima linea di prudenza, si stanno muovendo molte famiglie e comunità cinesi. Anziché esigere che i propri figli siano immediatamente ammessi a scuola, anziché accusare di razzismo le famiglie che temono il contatto con i bambini (cinesi e italiani) provenienti dalla Cina, stanno scegliendo spontaneamente di mettere in quarantena i loro bambini, con l’importante risultato di tranquillizzare le famiglie dei bambini altrui, e di non esporre i propri figli ad atteggiamenti di rifiuto e di timore da parte dei loro compagni.

Dunque, di nuovo torno a chiedermelo: perché, anziché adottare (o consentire di adottare), una misura così elementare, il governo emana una circolare in cui scarica tutte le responsabilità sul personale scolastico?

Già, perché la circolare ministeriale proprio questo fa: al personale scolastico, docente e non, raccomanda di prestare “particolare attenzione a favorire l’adozione di comportamenti atti a ridurre la possibilità di contaminazione con secrezioni delle vie aeree, anche attraverso oggetti (giocattoli, matite, etc.)”.

Ma ci rendiamo conto? Supponete che, in uno dei prossimi giorni, un bambino appena stato in Cina finisca per trasmettere il virus a qualche compagno, e che nella sua scuola anche un solo bambino si ammali e muoia. Penserete mica che il governo centrale, a quel punto, si scuserebbe e riconoscerebbe la giustezza delle preoccupazioni dei governatori?

No, a quel punto succederebbe un’altra cosa. Un magistrato aprirebbe un’inchiesta, e il personale scolastico verrebbe setacciato e scannerizzato giorno per giorno, ora per ora, classe per classe per appurare se ha ottemperato alla circolare ministeriale. Ha fatto o non ha fatto tutto il possibile per “l’adozione di comportamenti atti a ridurre la possibilità di contaminazione?” Ha considerato solo il rischio di contaminazione “con secrezioni delle vie aeree”, oppure, come puntigliosamente prescrive la circolare, ha anche diligentemente controllato che la contaminazione non avvenisse “attraverso oggetti (giocattoli, matite, etc.)”? Ha ingiunto ai bimbi di lavarsi le mani con il sapone, e di farlo spesso, per almeno 20 secondi, specie dopo essersi scambiati giocattoli e matite? Si è assicurato che il sapone fosse disponibile a scuola, magari incluso nel “materiale didattico” come talora incredibilmente è dato osservare?

Insomma, scatterebbe – come sempre in Italia – la commedia della ricerca del colpevole, perché “la tragedia si poteva evitare”. Mente le autorità cinesi tengono sequestrate nelle loro case decine di milioni di famiglie, noi preferiamo caricare di responsabilità ingestibili il personale scolastico pur di evitare di tenere qualche giorno a casa poche migliaia di bambini che hanno passato le vacanze in Cina.

Quindi me lo richiedo per la terza volta. Perché?

Forse, solo perché l’impulso pedagogico dei benpensanti è irrefrenabile. Per loro ogni occasione è buona per insegnarci come dobbiamo vivere, come dobbiamo agire, come dobbiamo pensare. Per loro è essenziale ricordarci che in tutti noi cova il virus del razzismo, della discriminazione, del rifiuto dell’altro. Se questa è la missione, anche una tragedia come quella che il mondo rischia di vivere, è un’occasione da non sprecare. Anche i bambini potenzialmente infetti, e le paure più o meno proporzionate che ogni pandemia suscita, sono opportunità preziose per ribadire che loro sono gli illuminati, e noi, con le nostre paure e la nostra stupidità, siamo solo gregge cui indicare la via.

Salvare vite umane potrà essere anche importante. Ma più importante, per loro, è cogliere anche questa occasione per ricordarci che loro sono gli illuminati, i buoni, i giusti, e noi siamo materiale umano di scarto, vittime delle nostre paure e dei demagoghi che le alimentano. Non sanno, gli illuminati, che anche la paura fa parte della vita, e quel che a loro pare sempre e soltanto paura, o irrazionalità, è spesso semplicemente prudenza. Una virtù ormai sopita, ma che riemerge ogniqualvolta il mondo torna a mostrare il suo volto minaccioso.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 febbraio 2020



L’eclissi del liberal-riformismo

Mi ha molto colpito e fatto riflettere la sconsolata intervista che, qualche giorno fa, ha rilasciato a “La Stampa” Emanuele Macaluso, una delle figure più rappresentative (e più nobili) della corrente riformista del Pci-Pds-Ds-Pd. In quella intervista, l’anziano ex dirigente comunista lamentava l’imperscrutabilità della linea del Pd sulle questioni cruciali del Paese, a partire da quella dei migranti.

Per una volta, io che da molti anni sono estremamente critico su quel partito, vorrei provare a dirigere l’attenzione altrove. O meglio: anche altrove, e innanzitutto verso quanti, come me, si collocano nell’area che, per brevità, chiamerò liberal-riformista. E vengo subito al punto: vogliamo renderci conto che abbiamo fallito? Vogliamo dircelo, una buona volta, che la cultura liberal-riformista, che era egemone in Italia negli anni ’90, si è completamente auto-prosciugata?

Vorrei ricordarlo, perché forse non tutti ne abbiamo memoria: negli anni ‘90 la diagnosi di fondo sui mali dell’Italia e sulle riforme necessarie per raddrizzare il paese era, al di là delle sfumature e della propaganda, sostanzialmente condivisa dai riformisti di entrambi gli schieramenti. Erano i tempi del “rapporto Onofri” sulla spesa sociale, con la sua analisi spietata delle distorsioni del nostro welfare. Erano i tempi della “riforma Dini” del sistema pensionistico. Erano i tempi in cui, per riprendere il titolo di un libro dell’economista Nicola Rossi, eravamo “riformisti per forza”, perché era l’Italia ad avere bisogno di riforme, e soprattutto di scelte coraggiose: riduzione del debito pubblico, contenimento della spesa pensionistica, reddito minimo, politiche attive sul mercato del lavoro, efficientamento della spesa sanitaria, più meritocrazia e meno privilegi, nuovi asili nido, borse di studio nella scuola e nell’università. Ma anche: federalismo fiscale, riforma della giustizia civile e penale, meno burocrazia, interventi sul sovraffollamento delle carceri.

C’era anche, allora, un aspetto che non mi ha mai convinto (ne presi le distanze già vent’anni fa): una fiducia smisurata nell’Europa e nelle virtù della globalizzazione, vista dai più come una formidabile opportunità.

Ebbene, che ne è di tutto ciò?

Quasi nulla, mi pare. Il mondo liberal-riformista non esiste più. Nella migliore delle ipotesi, si limita a ripetere le sue diagnosi e le sue ricette, ma senza prendere atto del proprio fallimento. Soprattutto, senza interrogarsi davvero sulle ragioni profonde di quel fallimento. La diagnosi era sbagliata? O sono le soluzioni che non erano all’altezza dei problemi? E soprattutto: abbiamo provato davvero a mettere in atto le nostre idee?

A me pare che molto di quel che si predicava non è stato fatto, o è stato fatto troppo tardi, o troppo timidamente. Penso alla incompiutezza delle riforme del mercato del lavoro, ma soprattutto alla omissione della riforma delle riforme, che tutto doveva precedere: la difesa della scuola, e la lotta alle diseguaglianze proprio a partire da lì, dall’attuazione concreta del dettato costituzionale che sancisce il diritto dei “capaci e meritevoli” di raggiungere “i gradi più alti degli studi” (articolo 34). Per non parlare della nostra superficialità sulle virtù della globalizzazione, della nostra tolleranza per la mostruosa crescita della burocrazia, o della nostra timidezza in materia di garanzie dell’imputato, una materia che ha visto la sinistra sempre sostanzialmente subalterna al partito dei giudici, e la destra sempre vigile solo quando in questione erano i diritti dell’imputato Berlusconi.

Perché sollevo questi interrogativi, ora?

Fondamentalmente, perché mi sono convinto che, nella nascita e nel dilagare del populismo, una responsabilità grave ce l’abbiamo anche noi liberal-riformisti. Il centro-destra non ha mai nemmeno provato ad attuare la rivoluzione liberale promessa. Quanto al centro-sinistra esso è rimasto sempre, anche nelle sue stagioni migliori, abbondantemente al di qua di quel che sarebbe stato necessario. Si può forse dare atto a Renzi di avere tentato qualcosa, ma non si può non notare che anche il suo governo ha innanzitutto perseguito il consenso, senza incidere sull’hardware del sistema Italia. E ancor meno si può ignorare che è stato proprio Renzi a spalancare le porte ai Cinque Stelle, la più demagogica, anti-liberale e anti-riformista delle forze politiche in campo.

Ecco perché mi sembra venuto il tempo di rivolgere la nostra attenzione prima di tutto a noi stessi e alle nostre omissioni, o al nostro lungo sonno. Se la cultura liberale non batte un colpo, o resta rinchiusa nei piccoli circoli dove è adusa confermarsi nelle proprie convinzioni, è inutile continuare a chiedere ai populisti di diventare più riformisti, o più liberali, o semplicemente più ragionevoli. Quello di ricostruire una cultura politica liberal-riformista è compito innanzitutto nostro. I populisti fanno il loro mestiere, e lo fanno meglio di quanto noi facciamo il nostro.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 febbraio 2020



Che cosa cambia dopo il voto

Dopo il doppio voto in Emilia Romagna e in Calabria gli interrogativi si affollano. Salvini ha sbagliato, e se sì dove? Sono state le Sardine a fare la differenza? L’esito del voto avrà conseguenze sull’assetto del centro-destra? La vittoria di Bonaccini e la evaporazione dei Cinque Stelle cambieranno il centro-sinistra?

Sugli errori di Salvini c’è un consenso quasi unanime. La sceneggiata del citofono (alla ricerca di spacciatori), l’ossessione per Bibbiano, l’auto-martirizzazione sul proprio rinvio a giudizio, le critiche alla sanità emiliana non gli avrebbero giovato. Probabilmente è vero, ma la controprova non c’è, né ci può essere. La mia sensazione è che il vero errore di Salvini sia stato di non aver capito che, nella situazione data, trasformare il voto in un referendum sul governo nazionale avrebbe significato esporsi al “rischio-matteo”, ossia al rischio che l’elettorato percepisca un referendum su una questione generale come un referendum su un leader particolare. Era già successo a Matteo Renzi, che perse il referendum costituzionale per averci messo la faccia. E’ risuccesso a Salvini, che ha chiamato gli elettori a dare la spallata al governo centrale, senza rendersi conto che così offriva loro l’opportunità di dare una spallata a lui stesso.

Ma perché Salvini ha sottovalutato questo rischio?

A mio parere perché Salvini, a differenza dei suoi alleati Meloni e Berlusconi, non ha ancora compreso che alimentare paure più o meno fondate, da sempre un’arma della destra,  è ormai diventata l’arma principale della sinistra. L’unica differenza è che l’oggetto della paura, nella comunicazione della destra, è il migrante, mentre in quella della sinistra è Salvini stesso, il babau razzista, fascista, disumano, aspirante dittatore e quindi da “cancellare”, secondo la sempre civile prosa di Repubblica. Questo, a mio parere, è stato il vero valore aggiunto delle Sardine: più che dare un’anima alla sinistra, come piace credere ai suoi dirigenti, le Sardine hanno provato a togliere l’anima all’uomo Salvini, ridotto a cosa indegna di esistere e quindi da eliminare.

Da questo punto di vista la vicenda emiliana raddoppia i problemi del centro-destra. Eravamo abituati a pensare che il problema principale fosse la gracilità della gamba liberale del centro-destra, credo si debba prendere atto che non è solo questo: alla destra non manca solo una robusta componente europeista, riformista e garantista, ma anche un leader rassicurante. Può darsi che un tale leader non sia necessario per vincere le elezioni, ma tutto fa pensare che sia indispensabile per governare con un consenso sufficientemente largo. Non dobbiamo mai dimenticare che, in una società largamente cetomedizzata come l’Italia, i ceti popolari, cui principalmente Salvini si rivolge, costituiscono una robusta minoranza, non certo la maggioranza dell’elettorato. E la maggioranza, urbanizzata e relativamente istruita, non apprezza né i toni né i contenuti più estremi della comunicazione leghista.

Se la destra dovrà riflettere, il rischio, per la sinistra, è invece che la vittoria in Emilia Romagna la induca a riflettere meno di quanto le sarebbe necessario. Perché il vero problema della sinistra, a mio modesto avviso, non è la chiusura e l’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti (il Pd come “partito delle tessere”), mali cui sarà relativamente facile porre (apparente) rimedio con una spolverata di Sardine, ma è l’assenza di una linea politica chiara sulle cose che contano. Mi trovo, su questo, in totale sintonia con un padre della sinistra storica, Emanuele Macaluso, che qualche giorno fa dalle colonne della Stampa confessava tutto il suo smarrimento, la sua incapacità di capire “che cosa pensa il Pd” sulle questioni cruciali, a partire da quella dell’immigrazione.

Sotto questo profilo, il progetto di un’alleanza organica con quel che resta del Movimento Cinque Stelle, sottolineato con forza da tanti esponenti del Pd, potrebbe – alla lunga – rivelarsi il frutto avvelenato della vittoria in Emilia Romagna. Perché dei tre tratti distintivi della politica grillina – giustizialismo, assistenzialismo, freno agli ingressi illegali – è probabile che il Pd finirà per assorbire i primi due e respingere il terzo. Il che potrebbe voler dire avere, in futuro, una sinistra ancora meno liberal-riformista di quella di oggi in materia di giustizia e mercato del lavoro, e ancor più ostaggio dell’ideologia dell’accoglienza in materia di immigrazione.

Non proprio la strada migliore per modernizzarsi e risintonizzarsi con i sentimenti popolari.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 gennaio 2020