Il vuoto antifascista

Estromessi dalle decisioni che contano, ora i partiti (e le tv) ci faranno assistere a una lunga sceneggiata sullo scioglimento di Forza Nuova. Qualcuno dirà che in Italia c’è un pericoloso ritorno (anzi “rigurgito”) di impulsi fascisti, e che la Repubblica è in pericolo. Dunque, visto che la Magistratura non ha mai ritenuto di intervenire, si muova il Governo, e il Parlamento approvi la sacrosanta messa al bando di questo sciagurato partito. Il tutto sarà accompagnato, fin da stamattina, da chiassose adunate antifasciste, in difesa della Cgil, della Repubblica, della democrazia. Immancabilmente, assisteremo anche, sulla carta stampata, a una sfilata di riflessioni di pensatori, studiosi, intellettuali, che – con fare pensoso – si diranno “molto preoccupati” del pericolo fascista.

A me tutto ciò ricorda, irresistibilmente, la figura di Hiroo Onoda e dei suoi commilitoni nipponici, inviati nelle Filippine nel 1944 per ostacolare l’avanzata degli americani. Istruiti a non arrendersi, a costo della propria vita, si rifugiarono nella giungla e non vollero mai credere che la seconda guerra mondiale fosse finita. L’ultimo dei tre si arrese (all’evidenza, non al nemico), solo nel 1974, ovvero quando la guerra era finita da 29 anni.

I nostri guerriglieri antifascisti, che peraltro la loro guerra – a differenza dei giapponesi – l’hanno vinta (sia pure per interposta persona, ossia grazie ai partigiani loro padri e nonni) sono ancora più lenti: a loro di anni non ne sono bastati 76 (dal 1945 al 2021) per accorgersi che il fascismo è stato sconfitto, seppellito dalla storia, e oggi non ha nessuna possibilità di tornare né nella forma classica, né in forme più moderne.

Ma allora perché, quando li si avverte che la guerra è finita, non ci vogliono credere?

Potrei rispondere, sbrigativamente: perché non hanno idee, ed è più comodo accanirsi contro un bersaglio fantomatico (e indifendibile) come il fascismo, che sostenere un confronto ad armi pari. Lo ha segnalato lucidamente il filosofo Alain Finkielkraut qualche anno fa, quando notava che le ideologie anti-qualcosa (come anti-razzismo e anti-fascismo) truccano il gioco politico: se ti autodefinisci anti-razzista, implicitamente dai del razzista al tuo avversario politico. La stessa cosa accade con l’anti-fascismo: autodefinirsi antifascisti equivale a dare del fascista a chi non la pensa come te.

C’è però anche un altro meccanismo che presiede all’ammucchiata antifascista, e intorbida non solo la competizione politica ma la stessa vita sociale. Questo meccanismo, codificato da Umberto Eco in una celebre conferenza del 1995 (Il fascismo eterno), è quello di ridefinire il concetto di fascismo in modo così lato da renderne eterna (e aggiungo io, ubiqua) la presenza sulla scena del mondo. Diventano così segni e manifestazione del fascismo anche tratti come il tradizionalismo, la critica della modernità (ma Marinetti non esaltava la macchina e la velocità?), la paura del diverso, le frustrazioni delle classi medie, l’esaltazione della volontà popolare, il patriottismo, e persino l’uso di una lingua elementare e semplificante.

Ed è interessante che a questo meccanismo di allargamento (e annacquamento) del concetto di fascismo, molto diffuso fra gli intellettuali, si sia accompagnato – specialmente dopo il ‘68 – un analogo meccanismo nell’uso del linguaggio comune, per cui l’epiteto ‘fascista’ è appioppato a qualsiasi discorso, atteggiamento o comportamento considerato sbagliato, inaccettabile, o semplicemente molto negativo.

Ecco perché, nell’anno di grazia 2021, l’antifascismo è diventato una categoria vuota, o tutt’al più pericolosa.

Vuota perché la guerra è finita, il fascismo è stato sconfitto, e non c’è nessuna possibilità che risorga, quali che siano le decisioni che verranno prese nei confronti dei numerosi gruppuscoli di destra e di sinistra che, con la complice indulgenza dello Stato democratico, da anni ricorrono sistematicamente alla violenza.

Pericolosa perché, quando qualsiasi manifestazione del pensiero che si allontani dall’ortodossia progressista viene bollata come fascismo, di fatto si esercita una indebita prepotenza verso chi la pensa diversamente. Con tanti saluti al pluralismo e alla libertà, di cui ci si proclama paladini.

 Pubblicato su Il Messaggero del 16 ottobre 2021




Epidemia, il paradosso novax

La sensazione che, sul fronte dell’epidemia, le cose stiano andando piuttosto bene si sta facendo sempre più strada un po’ a tutti i livelli: i media rassicurano, il Comitato tecnico-scientifico autorizza un allentamento delle restrizioni, i politici fanno a gara per intestarsi il merito del ritorno alla normalità, la gente spera.

È fondato questo clima di cauto ottimismo?

Per molti versi sì. A certificarlo nel modo più chiaro sono i dati della mortalità per abitante, che in Italia è minore che in Spagna, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Israele. In Europa, fra i grandi paesi, solo la Germania è riuscita ad abbattere la mortalità quanto l’Italia, e solo la Polonia ha fatto meglio di noi. E fra i paesi europei di medie dimensioni, colpiscono i drammi della Bulgaria e della Romania, in cui la mortalità per abitante è quasi 20 volte quella dell’Italia (è come se noi, oggi, avessimo 1000 morti al giorno, anziché 50).

Perché in Italia, questa volta, le cose vanno meglio che nella maggior parte degli altri paesi?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due.

La prima – la chiamerò “effetto Figliuolo” – è che l’Italia, anche grazie allo scarso peso della popolazione under 12, è riuscita a vaccinare una quota molto elevata della popolazione. Come sarebbero andate le cose senza la vaccinazione di massa, lo rivelano indirettamente i due paesi più disastrati d’Europa, ossia Bulgaria e Romania, che hanno vaccinato pochissimo (20-30%) e sono alle prese con una mortalità spaventosa.

La seconda ragione – la chiamerò sarcasticamente “effetto Arcuri” – è che l’Italia ha vaccinato tardi, e quindi non fa ancora i conti con il problema che affligge i paesi virtuosi come Israele, Stati Uniti, Regno Unito, che proprio per aver vaccinato massicciamente fin da dicembre sono ora alle prese con la riduzione dell’efficacia dei vaccini, e sono costretti a ricorrere affannosamente alla terza dose.

Fin qui tutto bene. Purtroppo non è tutto, però. Ci sono anche ombre, che sarebbe rischioso nascondere o ignorare.

Molti credono che, grazie al vaccino, ora non abbiamo più 800 morti al giorno, ma ne abbiamo poche decine; oggi non abbiamo 4000 persone in terapia intensiva ma “solo” 400. Questo ragionamento, però, è farlocco. Il fatto che sia ripetuto centinaia di volte al giorno in quasi tutti i giornali e in quasi tutte le tv non cambia la sua erroneità. I confronti nel tempo si devono fare a parità di stagione, perché le condizioni climatiche e le connesse abitudini di vita (al chiuso o all’aperto) hanno un enorme impatto sull’epidemia. Per dire se oggi stiamo meglio o peggio di ieri dobbiamo confrontare gli stessi periodi dell’anno.

Ebbene, facciamolo. Come stanno andando le cose, in questo scorcio di inizio d’autunno, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso? La risposta è, purtroppo, che le cose vanno un pochino peggio, perché – rispetto a 12 mesi fa – abbiamo circa il doppio dei morti e dei contagiati. E questo nonostante il vaccino, nonostante il Green Pass.

Come è possibile?

Semplice: la variante delta, che ha un tasso di riproduzione (R0) molto più alto di quello della variante prevalente all’esordio dell’epidemia, ha un impatto sulla diffusione del virus che controbilancia l’impatto del vaccino sulla letalità. Un anno fa non avevamo il vaccino, ma avevamo una variante relativamente mite (simile a quella di Wuhan), oggi abbiamo il vaccino ma abbiamo la variante delta. Queste due forze tendono ad elidersi, facendo sì che la situazione attuale non sia radicalmente migliore di quella di un anno fa. E l’approssimarsi della stagione fredda, con temperature più basse e ritorno alla vita al chiuso, annuncia un ulteriore aumento dei rischi di contagio.

Siamo nei guai, dunque?

Non è detto, perché rispetto a un anno fa c’è una differenza importante: per ora il valore di Rt resta al di sotto di 1 (il valore critico, al di sopra del quale l’epidemia riparte), mentre 12 mesi fa era circa 1.5, un valore catastrofico che per circa 4 mesi (da metà luglio a metà novembre 2020) non è mai rientrato al di sotto del livello di guardia. E’ verosimile che questa differenza abbia a che fare con il Green Pass, che costringe milioni di non vaccinati a un continuo, asfissiante (ma utile) automonitoraggio mediante i tamponi.

Da questo punto di vista, è preoccupante la tempistica della rivolta contro il Green Pass in atto in questi giorni, in particolare a Roma e Milano. Quella rivolta è certamente stata aizzata e strumentalizzata da forze eversive, ma trova alimento in una preoccupazione molto concreta dei lavoratori che non intendono vaccinarsi: dal 15 ottobre, se non mi vaccino perdo lo stipendio, o sono costretto a tamponarmi (a spese mie) per 2-3 volte la settimana. Il problema è che non stiamo parlando di una piccola minoranza di irriducibili ma di qualche milione di persone, la cui assenza dal lavoro può avere effetti economici devastanti, specie nelle piccole imprese. E questo proprio nel momento in cui, per evitare che l’autunno riaccenda l’epidemia, avremmo bisogno di un rigoroso rispetto delle misure di contenimento del contagio.

Che farà il governo?

Non avendo fatto quel che, da mesi, avrebbe dovuto fare, ossia (almeno) mettere in sicurezza gli ambienti chiusi mediante dispositivi di ricambio dell’aria, temo che finirà per navigare a vista. La prima mossa è stata disattendere le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico sulle capienze massime di stadi, cinema, teatri, discoteche eccetera, con l’obiettivo di fornire un ulteriore stimolo all’economia. La seconda potrebbe essere il varo di qualche concessione a chi non vuole vaccinarsi, tipo allungare da 48 a 72 ore la validità dei tamponi, o renderli gratuiti, o introdurre deroghe ai protocolli aziendali, che già ora stanno creando seri inconvenienti burocratici alle imprese, con tanti saluti alle promesse di semplificazione e di alleggerimento del carico degli adempimenti.

E la terza mossa?

Dipenderà dall’andamento dell’epidemia. Se l’epidemia non dovesse rialzare la testa, o lo facesse senza intasare gli ospedali, lo scenario più probabile è quello di una conferma della linea aperturista attuale. Se invece il numero di morti dovesse tornare a livelli preoccupanti, dovrà affrontare il dilemma: chiudere di nuovo, o usare l’emergenza sanitaria per imporre l’obbligo vaccinale.

E’ il paradosso delle manifestazioni di questi giorni: più, in nome della libertà, si rafforza l’opposizione ai vaccini e al Green Pass, più è probabile che, con il varo dell’obbligo, la nostra libertà si restringa ancora di più.

 Pubblicato su Il Messaggero dell’11 ottobre 2021




Il vaccino non basta, la qualità dell’aria è cruciale

A tre settimane dalla ripartenza delle scuole, che cosa stia succedendo nelle aule scolastiche nessuno può saperlo con certezza. E il motivo è tanto semplice quanto triste: il governo ha deciso di non attivare un monitoraggio sistematico, capace di segnalare tempestivamente le criticità.

Perché, nonostante da più parti lo si sia invocato, nessun monitoraggio è stato predisposto?

Poiché non riesco a credere che, alla base, ci possa essere la pura incapacità di predisporlo (per un breve periodo, l’anno scorso, ci era riuscita persino la ministra Azzolina), sono portato a pensare che esistano dei motivi sostanziali.

Il primo che viene in mente è che le nostre autorità siano convinte che la vaccinazione sia sufficiente a tenere sotto controllo l’epidemia. Così si spiega anche il nulla di fatto, nelle scuole come altrove, sul controllo della qualità dell’aria.

Ma è fondato questo approccio?

Temo di no, e provo a spiegare perché.

Controllare un’epidemia non può significare semplicemente tenere basso il numero dei morti, obiettivo da cui peraltro siamo ancora lontani (al ritmo attuale il conto è di 20 mila morti l’anno), ma significa anche limitare il rischio di infezione che, anche quando non conduce alla morte, può comportare malattia e danni alla salute più o meno duraturi (il cosiddetto long-Covid). Ebbene, ormai esiste un’ampia evidenza empirica sia del fatto che i vaccini proteggono poco dal rischio di infezione, sia del fatto che anche i vaccinati possono trasmettere il virus. Per non parlare di un altro dato ormai assodato: l’efficacia del vaccino declina rapidamente dopo 4-5 mesi dal completamento della vaccinazione.

In concreto, questo vuol dire che, con la fine dell’estate e il ritorno della vita al chiuso, la velocità di circolazione del virus tenderà ad aumentare (di un fattore 4, secondo le mie stime), e diventerà quindi cruciale limitarne la diffusione negli ambienti a più alto rischio.

Ma quali sono?

Non è semplicissimo stabilirlo con esattezza, ma ormai vi sono pochi dubbi sul fatto che, dopo l’ambiente domestico, il luogo più rischioso sono le aule scolastiche. A renderle pericolose concorrono in modo cruciale la densità (troppi allievi e distanziamento insufficiente), la durata dell’esposizione (più di 4 ore), e soprattutto la mancanza quasi universale di dispositivi di controllo della qualità dell’aria (solo nella regione Marche è stato avviato un esperimento di ricambio sistematico dell’aria con la ventilazione meccanica controllata). A questi fattori di rischio strutturali si aggiunge lo scarso numero di alunni vaccinati: il vaccino esiste solo per chi ha almeno 12 anni, e fra i 12-19enni la percentuale di vaccinati è ancora troppo bassa.

Ecco perché la latitanza del governo e di quasi tutte le Regioni è inquietante. E’ da un anno e mezzo che ingegneri e scienziati internazionali sollevano il problema della trasmissione del virus mediante aerosol, e della conseguente necessità di garantire il monitoraggio della qualità dell’aria e la ventilazione negli ambienti chiusi (vedi articoli e interviste del prof. Giorgio Buonanno). Secondo uno studio di imminente pubblicazione del fisico Mario Menichella, la rinuncia a installare dispositivi di VMC (ventilazione meccanica controllata) è sufficiente, da sola, a moltiplicare di circa un fattore 10 la circolazione del virus nelle aule scolastiche.

E’ difficile sottovalutare l’importanza di questi risultati. Senza un controllo rigoroso della qualità dell’aria le scuole sono destinate a trasformarsi in focolai dell’epidemia, come già sta succedendo in queste settimane. E il numero di classi costrette alla Dad (didattica a distanza) non può che crescere, come già si intuisce dalle frammentarie notizie di stampa finora apparse.

Che fare, arrivati a questo punto?

Intanto, direi di smetterla di proclamare “mai più Dad”, o “la nostra priorità è il ritorno della didattica in presenza”. Eh no, questo cari politici non potete dirlo perché, se la vostra priorità fosse stata questa, avreste affrontato per tempo i problemi delle classi troppo numerose, del ricambio dell’aria nelle aule, della saturazione dei mezzi pubblici, e mai avreste osato ipotizzare misure come l’abbandono delle mascherine “se tutti sono vaccinati”, quasi che i vaccinati fossero perfettamente immunizzati e incapaci di tramettere il virus.

Però un paio di cose concrete e fattibili ci sarebbero.

La prima ha un costo irrisorio (50-100 euro per classe), ed è di usare in ogni aula un dispositivo di controllo del livello dell’anidride carbonica, in modo da capire quando è assolutamente indispensabile aprire le finestre. Si può fare in 1 settimana.

La seconda costa molto di più (4-5 mila euro per classe), ed è di varare un grande piano di installazione della VMC (ventilazione meccanica controllata) in tutte le aule di tutte le scuole. Si può fare in qualche mese, pianificando i relativi lavori per le vacanze di Natale. Il costo totale è di circa 1.5 miliardi.

Su questa linea si stanno già muovendo spontaneamente alcune scuole, e almeno una Regione. Non si vede perché le loro esperienze debbano restare isolate. Sempre che non si voglia confessare, una volta per tutte, che il ritorno alla scuola in presenza non è affatto una priorità.

 Pubblicato su Il Messaggero del 2 ottobre 2021




Reddito di cittadinanza, perché non farlo gestire alle imprese?

Fino a pochi mesi fa c’era ancora qualcuno che immaginava un autunno catastrofico. Fine del blocco dei licenziamenti, 1 o 2 milioni di posti di lavoro bruciati, un esercito di disoccupati alla disperata ricerca di un lavoro.

Oggi no, chi ha occhi per vedere non può non prendere atto che lo scenario che si sta delineando è l’opposto di quello previsto da tanti: quel che manca non sono i posti di lavoro, ma sono i lavoratori. A mia memoria non era mai successo che la difficoltà di trovare personale, specie per i piccoli esercizi, fosse così tangibile, generalizzata e conclamata. Io stesso, in questi mesi, ho raccolto diverse testimonianze sconcertanti. Ci sono attività che, per mancanza di manodopera, non hanno potuto aprire. Altre hanno dovuto lavorare a regime ridotto. Altre ancora sono state costrette a dimezzare l’attività in corso d’opera perché i neo-assunti rinunciavano dopo pochi giorni di lavoro.

Il risultato è che oggi, ancor più di ieri, alle due strozzature classiche dell’economia italiana – tasse e burocrazia – si aggiunge la strozzatura della mancanza di forza lavoro.

E’ paradossale: mentre i media sono impegnati a denunciare (giustamente) i  licenziamenti collettivi in atto in alcuni gruppi internazionali come Embraco, GKN, Whirpool, centinaia di migliaia di piccole e grandi imprese si trovano alle prese con il problema opposto: non riuscire a coprire determinati posti di lavoro (oltre 300 mila, secondo alcune stime).

E il segno più chiaro di tutto ciò è nella dinamica della disoccupazione: negli ultimi due anni il numero di persone in cerca di lavoro, anziché aumentare, è diminuito di circa 200 mila unità. Come se la risposta alla crisi occupazionale provocata dalla pandemia non fosse la ricerca di un nuovo posto di lavoro, bensì il ritiro dal mercato del lavoro.

Il risultato è che l’economia italiana, che in questi mesi sta crescendo a buon ritmo come rimbalzo rispetto al tonfo del 2020, rischia nei prossimi anni di crescere molto al di sotto del suo potenziale: un’eventualità perniciosa, tenuto conto dell’enorme debito pubblico aggiuntivo che ci stiamo accollando, e che prima o poi dovremo ripagare.

E’ dunque il momento di chiedersi: perché manca la forza lavoro necessaria a far girare l’economia a pieno ritmo?

Alcune ragioni precedono la crisi del Covid: i giovani non amano le professioni tecniche, di cui invece c’è ampia richiesta; la formazione professionale è carente e male organizzata; le facoltà scientifiche sono disertate per mancanza di basi adeguate; i salari offerti sono spesso troppo bassi.

Ma la ragione più immediata ed evidente, perché ne tocca con mano le conseguenze qualsiasi datore di lavoro, è la moltiplicazione dei sussidi, iniziata con la crisi del 2008-2012 e culminata nel varo, pochi mesi prima dell’arrivo del Covid, del reddito di cittadinanza. Un provvedimento mal disegnato, che oggi aggrava il problema storico della mancanza di personale disposto a lavorare.

Sul fatto che il reddito di cittadinanza verrà modificato ci sono pochi dubbi. Il problema, però, è di cambiarlo in un modo utile, evitando di limitarsi a un compromesso fra le esigenze di propaganda dei vari partiti.

Al di là dei dettagli tecnici, credo che i cambiamenti fondamentali dovrebbero essere due. Il primo è di distinguere nettamente due funzioni, e quindi due tipi di beneficiari: i poveri non occupabili (circa 2/3 dei percettori attuali: ragazzi, invalidi, pensionati, ecc.), e i poveri occupabili (circa 1/3 dei percettori attuali). Il secondo è di rendere efficace l’avvio al lavoro di questi ultimi, varando quelle “politiche attive” di cui si parla da tanti anni ma che nessun governo è mai riuscito a far decollare con successo.

Ma come?

Io un’idea ce l’avrei: e se a offrire lavoro ai percettori di reddito di cittadinanza fossero direttamente le imprese, saltando in tutto o in parte la inefficace interposizione dei navigator?

Con i mezzi oggi disponibili non dovrebbe essere troppo difficile costruire un database anonimizzato, dove ogni impresa può cercarsi il lavoratore con il profilo giusto, a partire da titolo di studio, lavori precedenti, luogo di residenza (non troppo lontano). All’operatore pubblico spetterebbe soltanto associare al codice identificativo di quel lavoratore un nome e un cognome, trasmettere all’interessato la data del colloquio di lavoro presso l’impresa, registrare l’esito del colloquio (assunzione, mancata assunzione, rifiuto del lavoratore).

Basterebbe?

No, non basterebbe, perché comunque resterebbero in piedi gli altri problemi del nostro mercato del lavoro, a partire dalla mancanza di tecnici e laureati in discipline scientifiche. Però sarebbe un passo avanti, perché almeno certi tipi di imprese (tipicamente: quelle dell’industria turistica) sarebbero messe in condizione di creare più posti di lavoro regolare.

“Sì, sono disponibile, ma solo se mi pagate in nero: non voglio perdere il reddito di cittadinanza” è una risposta che non ascolteremmo più.

 Pubblicato su Il Messaggero del 25 settembre 2021




Vaccinazione, il privilegio italiano

In questi giorni di roventi polemiche sul Green Pass mi è capitato di leggere, a difesa del Green Pass stesso, che nel Regno Unito ne potrebbero fare a meno perché lì i non vaccinati sarebbero una esigua, trascurabile, minoranza, mentre da noi sarebbero un esercito.

Capisco che lo si possa credere, ma è del tutto falso. Nel Regno Unito i non vaccinati puri (nessuna dose) sono il 28.9%, da noi sono un po’ di meno (27.2%), e non molti di più come si è inclini a credere. Quanto ai doppiamente vaccinati, siamo in perfetta parità con il Regno Unito, a un soffio dal 65%.

Ma c’è di più. Gli altri due paesi modello, Israele e Stati Uniti, lodati per tanti mesi dai media di tutto il mondo, hanno anch’essi meno vaccinati dell’Italia: 63.3% di pienamente vaccinati in Israele, e appena il 53.0% negli Stati Uniti. Né le cose vanno tanto diversamente se, dai paesi modello, ci spostiamo su paesi più ordinari: anche Francia, Germania, Svezia hanno meno vaccinati di noi. Fra i paesi europei importanti, solo la Spagna ha una percentuale di completamente vaccinati decisamente superiore alla nostra (76% contro 65%).

Non saprei dire se la tendenza ad amplificare il pericolo NoVax abbia un’origine politica, o dipenda dal sensazionalismo dei media, certo è che – se ci atteniamo ai dati – tutto si può dire dell’Italia tranne che sia indietro con le vaccinazioni. Quel che dovremmo chiederci, semmai, è come abbiamo fatto a raggiungere il buon risultato che, fin qui, abbiamo conseguito. Una risposta possibile è che ci siamo liberati di Arcuri e lo abbiamo sostituito con il generale Figliuolo. Una seconda risposta è che il Green Pass è stato un efficacissimo (ancorché umiliante) escamotage dei nostri governanti: non potendo contare sul nostro senso civico, hanno puntato sul nostro bisogno di vacanze e di normalità. C’è però una terza risposta possibile, che quasi sempre si dimentica: in Italia la clamorosa mancanza di bambini e ragazzi rende molto più agevole che in altri paesi avvicinarsi a percentuali di copertura vaccinale elevate. Se non puoi vaccinare sotto una certa età, e sotto quella età ci sono quattro gatti perché le donne italiane non fanno figli, allora sei in vantaggio rispetto a paesi che, come Israele, hanno legioni di bambini e ragazzi, in quanto i tassi di fecondità femminile sono altissimi (gli under 12 sono il 10.1% in Italia, ma salgono al 23% in Israele).

Arrivati a questo punto, ci si potrebbe chiedere: se la maggior parte degli altri paesi hanno vaccinato meno dell’Italia e, a dispetto di questa circostanza, non adottano il Green Pass, perché noi ce lo infliggiamo? non potremmo sfruttare il nostro “vantaggio vaccinale” per tenere più aperta l’economia? perché limitare così gravemente la libertà di muoversi, di lavorare e di studiare?

Io penso che questa limitazione della libertà che viene imposta a una minoranza (di non vaccinati) per proteggere la maggioranza (dei vaccinati), abbia almeno due giustificazioni, una nobile e l’altra meno.

La giustificazione nobile è che, avendo avuto fin qui più morti per abitante di qualsiasi altra società avanzata (a parte il Belgio), l’Italia ha maturato delle soglie di allarme più severe di quelle di altri paesi. Non tutti lo sanno, ma in questo momento molti dei paesi cui veniamo invitati ad allinearci hanno un numero di morti per abitante molto superiore al nostro. Fatto 100 il numero di morti al giorno dell’Italia, la Spagna ne ha 160, la Francia 178, il Regno Unito 220, Israele 412, gli Stati Uniti addirittura 589 (solo la Germania sta meglio di noi, a livello 58). E cifre analoghe si potrebbero riportare per le ospedalizzazioni, o i ricoveri in terapia intensiva. In poche parole: questi meravigliosi paesi, paladini e custodi delle libertà individuali, stanno pagando un prezzo molto più alto del nostro sul terreno della salute.

C’è anche una giustificazione meno nobile, però. I nostri governanti sanno perfettamente che i prossimi 6 mesi saranno tremendi, perché vedranno l’alleanza (inedita!) fra variante delta e stagione fredda, con conseguente drastica riduzione del tempo di vita all’aperto e moltiplicazione delle interazioni negli ambienti chiusi. Ma sanno pure di non aver fatto quasi nulla sui tre versanti fondamentali: ricambio dell’aria nelle scuole, trasporti pubblici, protocolli di cura domiciliare. E’ quindi naturale che, temendo il peggio, si cautelino imponendo più restrizioni di quelle che appaiono immediatamente logiche e giustificate (anche se, voglio dirlo, trovo un po’ vile aspettare il voto di ottobre per renderle effettive).

Temo che il problema, e la difficoltà di prendere partito pro o contro il Green Pass, stia tutto qui. Per quanto mi riguarda, capisco molte delle obiezioni che i critici del Green Pass, a partire da molti miei colleghi docenti universitari, rivolgono al governo. Ma non posso non notare che, per non sentirci ora costretti ad accettare il Green Pass, avremmo dovuto prepararci da molto tempo a fare tutte le cose che (forse) lo avrebbero reso superfluo, e che nessun governo ha voluto fare. E ancor meno posso dimenticare che, nella battaglia per fare in tempo utile tutto ciò che andava fatto, siamo stati – chiunque fosse al governo – una piccolissima minoranza. Forse, se il mondo dell’università si fosse mobilitato allora, e lo avesse fatto con la forza che deriva dallo studio, dalla cultura e dall’indipendenza di giudizio, oggi non saremmo a questo punto.

  Pubblicato su Il Messaggero del 17 settembre 2021