Dieci anni di austerity? Qui si fa come l’Irlanda o si muore. Intervista a Luca Ricolfi con le considerazioni di una lettrice

Professor Ricolfi, la critica più diffusa al decreto Rilancio appena varato dal governo riguarda la natura essenzialmente assistenzialistica delle misure. Dei 55 miliardi messi in campo, c’è poco o nulla per far ripartire l’economia. L’ex ministro del Tesoro Giovanni Tria addirittura ha parlato di “investimenti zero”. Ma se l’economia non riparte, nei prossimi mesi l’Italia rischia davvero di essere il “malato d’Europa”. I mercati continueranno a risparmiarci o dobbiamo iniziare a temere?
Andando avanti sulla strada intrapresa, più che di “malato” d’Europa temo che dovremo parlare di “moribondo” d’Europa. Finché la caduta del Pil è “solo” del 10% e dall’anno dopo c’è una ripresa, sei solo malato. Ma se il Pil cade del 15-20% nel 2020, se nell’anno successivo non rimbalza perché la base produttiva si è ristretta, se la quota dell’export cala perché in questi mesi hai perso milioni di clienti, se il rapporto debito-Pil viaggia verso il 200% perché il denominatore è imploso, se lo spread vola perché i mercati pensano che non saremo in grado di restituire il debito, beh se tutto questo dovesse accadere allora questo non è essere malati, mi sembra.
Questo vorrebbe dire tornare indietro di mezzo secolo, prendere commiato da tutto quello che eravamo bene o male riusciti a costruire dopo la seconda guerra mondiale. Individualmente sopravviveremo quasi tutti, si spera, ma assisteremo alla progressiva demolizione del nostro mondo sociale: la società signorile di massa si inabisserà, come l’isola di Atlantide.

C’è il rischio che Germania, Olanda e falchi del Nord tornino a chiedere austerity?
Chiamarlo “rischio” è da inguaribili ottimisti, io parlerei di certezza. Il patto di stabilità è solo sospeso, e possiamo star sicuri che nel 2021 l’Europa non ci consentirà di indebitarci con l’allegria che ora contagia il ceto di governo. E anche ce lo consentisse, nulla potrà evitare che a metterci in riga ci pensino i mercati. Già oggi lo spread è 100 punti sopra il livello pre-Covid.

Da queste pagine ha lanciato l’allarme: l’Italia post-Covid rischia di diventare una società parassita di massa, popolata da tanti non-produttori che vivranno in condizioni di dipendenza dall’assistenzialismo statale. Cerchiamo di fare un passo avanti. Come evitare di arrivare a uno scenario così terribile?
Prima di rispondere, vorrei fare una precisazione. Quando dico che i nostri governanti stanno più o meno intenzionalmente pianificando il passaggio a una società parassita di massa non ho in mente uno scenario in cui il 70% degli italiani se la spassa vivendo alle spalle del 30% che produce. Quel che ho in mente è semmai una situazione in cui la torta del Pil è così ristretta da trasformare i parassiti-signori di ieri nei parassiti-sudditi di domani. Detto brutalmente: gli assistiti non se la passeranno per niente bene. Non a caso ho evocato, giusto per dare un’idea, la Grecia e Cuba: sudditi come a Cuba, poveri come in Grecia.
Detto questo, torno alla domanda, come evitare di arrivare lì. Non so se siamo ancora in tempo, ma io vedo una sola possibilità: cambiare tutto, naturalmente cominciando dalla testa, governo e filosofia di governo.

Che significa cambiare tutto?
Dovessi riassumere con una formula, direi: provare a trasformare l’Italia da inferno burocratico a paradiso imprenditoriale. Una sorta di Irlanda mediterranea, dove chiunque voglia intraprendere un’attività economica può farlo senza ostacoli non necessari.
In concreto vuol dire essenzialmente tre cose.
La prima: renderci un paese normale quanto a burocrazia, eliminando la “presunzione di furbizia” che è ubiqua nella nostra legislazione, dal codice degli appalti alle infinite norme e procedure che asfissiano i produttori.
La seconda: un taglio drastico, immediato, e almeno triennale delle tasse.
La terza: saldare entro 30 giorni tutti i debiti delle pubbliche amministrazioni verso il settore privato, senza andirivieni bancari e fra enti pubblici. E’ incredibile che lo Stato faccia moral suasion sulle banche perché aiutino i produttori a indebitarsi, e non pensi che molte imprese devono indebitarsi precisamente perché lo Stato non paga i suoi debiti.

Entriamo più nello specifico sul taglio delle tasse. Meglio fare un’operazione di riduzione su imprese e autonomi o sul lavoro dipendente?
In tema di riduzioni fiscali la tendenza del ceto politico, di destra e di sinistra, è sempre stata (fin dal “Contratto con gli italiani” di Berlusconi) di puntare su riduzioni, anche molto modeste, che potessero toccare il maggior numero di beneficiari: Irpef, Iva, Imu, contributi sociali. Molta meno attenzione è stata riservata alle tasse che scoraggiano l’attività produttiva, ovvero Irap e Ires. E invece è da lì che si dovrebbe partire, anche puntando su benefici selettivi e concentrati, che privilegino le imprese che aumentano l’occupazione e, in questo momento, le imprese che rinunciano alla comoda strada di mettere in cassa integrazione i loro dipendenti.
Dico questo perché me lo suggeriscono i miei studi sulle determinanti della crescita in Occidente (è il tema del mio libro L’enigma della crescita), ma lo dico anche perché sono in contatto con tante persone che hanno un’attività, dal commerciante, al gestore di pizzeria, alla fisioterapista, fino al viticoltore. E da loro so che la decisione che devono prendere è drammatica: chiudere, o riaprire e scommettere sul futuro.

E che cosa le dicono?
Quasi tutti, specie se sono over 50 e sono in grado di sopravvivere decentemente senza lavorare, si chiedono: ma in queste condizioni, con nuovi costi, nuovi rischi (anche penali), e a voracità fiscale invariata, chi me lo fa fare?
La decisione di riaprire dipende poco dagli aiuti momentanei e limitati che possono ricevere in questo momento, e molto – moltissimo – dalle condizioni in cui dovranno operare nei prossimi mesi e anni. Queste condizioni includono aumenti certi dei costi, una fiscalità futura di entità sconosciuta, un rischio serio di guai giudiziari legati al rispetto del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Lei lo ha letto il protocollo?
Dalla prima riga all’ultima, e ne sono rimasto sconcertato, per la farraginosità (e spesso inapplicabilità) delle norme che detta. Soprattutto sono rimasto sorpreso nel constatare che il protocollo è chiaramente pensato per la grande impresa, ma non è sottoscritto solo dai sindacati confederali e da Confindustria, bensì anche da una dozzina di associazioni professionali e datoriali più piccole, che paiono del tutto ignare dei problemi concreti dei loro associati. Come sociologo, sono colpito dal fatto che, anche nel mondo della produzione, si sia ormai verificato ciò che da tempo accade in posti come l’Università, o la sanità pubblica. Le regole dell’Università non le pensano gli studiosi, ma i manager-burocrati che la governano. Le regole della sanità non le fanno medici e infermieri, ma le fa l’immenso apparato amministrativo che se ne è impossessato.
Credo che nessun artigiano, commerciante o piccolo imprenditore in carne e ossa avrebbe firmato un protocollo come quello concordato dai vertici delle loro associazioni.

Ma torniamo alla riduzione delle tasse. Un’operazione di grossa riduzione fiscale è certamente auspicabile ma rischia di scontrarsi con la realtà dei conti pubblici. Se mettiamo assieme i soldi stanziati dal decreto Cura Italia e da quello Rilancio, vediamo che sono stati già spesi 80 miliardi solo per misure di sostegno sociale. E questo porterà il debito/pil a un rapporto che sfiora il 160%. Non le sembra che le cartucce ce le siamo già sparate tutte?
Su questo ha ragioni da vendere l’ex ministro Tria, che per primo ha sollevato questa preoccupazione, ovvero che largheggiando ora il governo si trovi a stecchetto quest’autunno, quando dovrà varare la finanziaria. Ma il punto cruciale a me sembra più a monte, e riguarda come gestire l’aumento del debito pubblico, che ci sarà comunque, sia che si segua la via iper-assistenziale che piace a questo governo, sia che si imbocchi la via di un taglio immediato e consistente del carico fiscale sui produttori. Quell’aumento del debito risveglierà le autorità europee, e soprattutto risveglierà i mercati. Lo spread tenderà a salire, e noi dovremo trovare un modo di convincere i mercati e le istituzioni sovranazionali a comprare e ricomprare il nostro debito. Ebbene, a quel punto avremo solo due vie.
La prima: anni e anni di austerità vera (non la pseudo-austerità di questi anni, che è esistita solo nella propaganda anti-europea), in una spirale di contrazione della base produttiva → contrazione della base imponibile → tagli alla spesa pubblica → aumenti delle aliquote → imposte patrimoniali di scopo.
La seconda: crescere a un ritmo tale (almeno il 3% all’anno per diversi anni) da rassicurare i mercati sulla sostenibilità del nostro debito. Dico questo anche perché, come fondazione Hume, da anni ci occupiamo delle determinanti dello spread, e una cosa gliela posso dire senza esitazione: nell’equazione dello spread il deficit annuale non entra, mentre hanno un ruolo importante (di contenimento) le prospettive di crescita di un paese. Se cresci, questa mera circostanza calmiera lo spread. Ma bisogna convincersi che crescere molto di più di oggi è la nostra unica possibilità, se non vogliamo beccarci dieci anni di austerità. Chi obietta che non ci sono le “risorse” per alleggerire la pressione fiscale sui produttori dovrebbe rispondere a questa domanda: quanto ci costa, in termini di erosione della base imponibile (e quindi del gettito), il fallimento di migliaia e migliaia di imprese che, con questa pressione fiscale, non riescono a restare sul mercato?

Dunque lei è contrario all’austerità?
Io sono sempre stato a favore di quella che Veronica De Romanis chiama l’austerità buona: mettere a posto i conti pubblici riducendo la spesa corrente e abbassando le tasse sui produttori. Poteva funzionare, e lo avessimo fatto a tempo debito – anziché invocare flessibilità ad ogni pie’ sospinto – ora saremmo messi meno male di come siamo. Ma adesso la situazione è completamente cambiata, ed è paradossale.
Noi rischiamo di essere commissariati dall’Europa, o dal Fondo Monetario, o da qualche altro organismo sovra-nazionale, perché fra pochi mesi apparirà a tutti che lo Stato si sta indebitando troppo, il Pil non dà segni di ripresa, e la base imponibile si assottiglia, aggravando il bilancio pubblico. Ci chiederanno di agire sul numeratore, ovvero sul debito, perché “è nella loro natura”, come recita la fiaba dello scorpione e della rana: la tecnoburocrazia che governa il mondo ha una visione ragionieristica dei conti pubblici. A quel punto il paradosso prenderà forma: l’Italia perderà la sua sovranità perché nel momento più difficile il caso ha voluto che il governo fosse in mano ai sovranisti, o meglio alla variante più anti-crescita del sovranismo, quella dell’assistenzialismo pentastellato.

Ma possiamo evitare tutto ciò?
Probabilmente no, a questo punto, troppo grande è il danno che si è già fatto. Ma se uno spiraglio è dato intravedere, è quello di ribaltare tutto: indebitiamoci, ma facciamolo in modo da salvare le attività che possono farcela, e di rendere profittevole crearne di nuove. Affinché la schumpeteriana “distruzione creatrice”, che ci sarà comunque, sia più creatrice di nuove attività e meno distruttrice di vecchie.

Lei parla anche di semplificazioni e sburocratizzazione. Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti mi sembra siano andati nel verso opposto: più controlli e documenti per evitare corruzione e infiltrazioni criminali. Il Covid farà cambiare idea a una maggioranza il cui partito più grande – M5s – ha nel Dna una carica ultra-legalitaria?
Qui mi sento di attenuare le responsabilità dei Cinque Stelle. Avere i Cinque Stelle al governo si limita a peggiorare la situazione, perché stimola la iper-produzione di norme dannose per l’economia, ma non è il vero problema. Anche ci fosse Einaudi al governo, non ce la farebbe, in pochi mesi, a smontare il cancro burocratico che sta uccidendo l’Italia. Il vero problema è che chiunque provi a semplificare la burocrazia, tende a farlo creando nuove norme, anziché disboscando l’esistente.
Da questo punto di vista il fatto che Conte annunci un “decreto semplificazioni” semplicemente mi terrorizza. Lo smantellamento del mostro burocratico e la riforma della giustizia civile richiederebbero almeno 4 o 5 anni di lavoro anche al più serio e ben intenzionato dei governi. Nel breve periodo, l’unica strada percorribile a me pare quella di prevedere, ovunque sia possibile e ragionevole, norme transitorie che scavalchino e sospendano tutte le altre, come si è fatto con il ponte di Genova, e come si potrebbe fare in molti altri casi.
Non hanno esitato a toglierci le nostre libertà più preziose, possibile che l’unica cosa intoccabile sia la giungla degli adempimenti e delle procedure che stanno strangolando l’Italia?

Intervista rilasciata all’Huffington Post il 17 maggio 2020

Considerazioni di una lettrice

Buonasera professore.
Ho letto una Sua interessante intervista in cui esprime preoccupazione per il momento attuale. Io come tanti italiani – Lombardi in particolare – ho con mio marito una azienda familiare che esiste (non senza fatica) da 80 anni … tre generazioni, ma di questo passo non credo proprio che arriverà alla quarta.
Ci sotterrano sotto montagne di provvedimenti inutili, tasse, gabelle e altri balzelli che servono solo a mantenere privilegi per una classe politica inefficace.
Ci rendiamo conto che dobbiamo versare in tasse praticamente  i 3/4 di ciò che produciamo?
Di questo passo NESSUNO FARÀ PIÙ IMPRESA.
Diventeremo un popolo di “ mantenuti?”… CERTAMENTE tutti! Loro elargiscono sussidi con i soldi che succhiano ai piccoli imprenditori e artigiani … ma quando noi chiuderemo tutti… come pensano di pagare i sussidi e gli stipendi dei milioni di dipendenti pubblici ed in primo luogo i loro?
Non abbiamo più nemmeno la forza di lamentarci. Questa è la cosa più grave… ci siamo arresi. L’Italia così finirà male.
Saremmo un popolo eccezionale (con qualche furbo, certamente e qualche delinquente che froda il fisco… dovrebbero accanirsi su quelli e non su chi lavora duramente).
Ci vorrebbero più menti come la Sua.

Lettera firmata




Covid-19: mortalità effettiva e mortalità ufficiale

All’inizio di aprile avevo formulato una duplice congettura: che il numero effettivo di morti per Covid potesse essere sensibilmente maggiore del numero ufficiale comunicato dalla Protezione Civile e certificato dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss), e che il vantaggio del sud (avere meno morti per Covid) potesse essere molto minore di come esso appare dalle statistiche ufficiali. La mia congettura era stata sollecitata dal rilascio da parte dell’Istat dei primi dati comunali sulla mortalità, purtroppo riferiti a un campione di comuni non rappresentativo, e molto sbilanciato verso i comuni in cui più forti erano gli indizi di un eccesso di mortalità (nel 2020) rispetto al passato (gli anni dal 2015 al 2019).

Ora nuovi dati, più numerosi e rappresentativi, prodotti congiuntamente dall’Istat e dall’Istituto Superiore di Sanità consentono di tornare sulle due domande fondamentali: qual è la mortalità effettiva da Covid? Qual è il differenziale di mortalità fra il centro-nord e il sud?

Ho provato a rifare i calcoli con i nuovi dati (fermi purtroppo al 31 marzo), ed ecco i risultati.

La mortalità effettiva da Covid nel mese di marzo è un po’ più del doppio (2.24) di quella ufficiale per l’Italia nel suo insieme. Se applichiamo questo risultato (che è relativo a marzo) all’ultimo dato sui decessi (oltre 32 mila), significa che ai 32 mila decessi ufficiali ne vanno aggiunti circa 40 mila. In breve: probabilmente abbiamo già superato i 70 mila morti.

Ma come stanno le cose nelle varie zone del Paese? Un confronto fra i tassi di mortalità ufficiali e quelli effettivi, stimati in base all’andamento della mortalità, mostra che il “numero” oscuro, ossia il numero di decessi occulti per ogni decesso ufficiale, ha una assai elevata variabilità territoriale. Il rapporto fra decessi effettivi e decessi ufficiali è minore di 2 in Emilia Romagna e Valle d’Aosta, è leggermente maggiore di 2 in Lombardia, Veneto, Trentino Alto Adige, è prossimo a 3 o superiore a 3 in tutte le altre regioni, con valori decisamente alti (da 4 a 13) in buona parte delle regioni del sud, in particolare in Molise e in Basilicata.

Queste differenze non modificano il dato di fondo – nel Mezzogiorno l’epidemia è  meno diffusa che nel resto del paese – ma accorciano sensibilmente le distanze fra molte realtà territoriali che eravamo abituati a pensare come profondamente lontane una dall’altra.

Resta, naturalmente, il dato anomalo ed estremamente preoccupante della Lombardia. Lì la mortalità effettiva è circa il quadruplo della media nazionale secondo i dati ufficiali, e poco più del triplo secondo i dati corretti per tenere conto del numero oscuro. Ma nel resto del paese, ovvero nel centro-nord (senza la Lombardia) e nel Mezzogiorno le cose sono molto più sfumate. Le 6 regioni più colpite del centro-nord (Emilia Romagna, Liguria, Piemonte, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Marche) hanno un tasso di mortalità effettivo circa 10 volte superiore a quello delle 4 regioni più fortunate del sud (Calabria, Sicilia, Campania, Basilicata). Nelle restanti regioni, invece, i tassi di mortalità effettivi delineano una geografia assai meno nitida: tre regioni del sud, ossia Abruzzo, Molise e Puglia, a marzo mostravano tassi di mortalità di poco inferiori a quelli di Toscana e Veneto, e più alti di quelli del Friuli Venezia Giulia, dell’Umbria e del Lazio, tutte regioni del centro-nord. La Sardegna ha valori molto vicino a quelli di Friuli Venezia Giulia e Umbria.

La realtà è che, Lombardia a parte, sia il centro-nord sia il mezzogiorno sono per così dire partizionati: in entrambe le zone c’è un gruppo di regioni nettamente più colpito delle altre, e le due aree intermedie (la meno colpita del centro-nord e la più colpita del centro-sud) hanno valori paragonabili (16.1 contro 14.0).

Se provassimo a mettere tutti questi dati su una cartina dell’Italia, ci accorgeremmo che, oltre al gradiente nord-sud, esiste anche un curioso (forse casuale) gradiente est-ovest, o Adriatico-Tirreno: a parità di latitudine, le regioni della penisola che affacciano sul mare tirreno hanno tassi di mortalità più bassi di quelle che affacciano sul mare adriatico. La Toscana va meglio delle Marche, il Lazio meglio dell’Abruzzo e del Molise, la Calabria e la Campania meglio della Puglia.

La mappa della mortalità effettiva, per quanto imperfetta e relativa all’unico mese (marzo) per cui è possibile azzardare delle stime, ci restituisce dunque un’immagine dell’epidemia parzialmente inedita. Ci sono regioni del nord, Veneto e Friuli Venezia Giulia, in cui l’epidemia non è dilagata come nel resto del centro-nord. E ci sono regioni del sud, come la Puglia, l’Abruzzo e il Molise, in cui il numero oscuro dei decessi non diagnosticati pare molto alto, e l’epidemia appare più diffusa di quanto suggeriscano i dati ufficiali sui decessi da Covid-19.

Forse, in una fase di tentata riapertura, in cui ogni Regione si chiede che cosa può permettersi di fare e cosa no, i dati sulla mortalità effettiva – specie se Istat e Iss ci consentissero di aggiornarli ad aprile – meriterebbero qualche attenzione in più.

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Nota tecnica

Per stimare il numero oscuro abbiamo utilizzato i dati del documento “Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente – Primo trimestre 2020”, prodotto congiuntamente dall’Istat e dall’Istituto superiore di sanità (Iss).

La stima è avvenuta in 3 passi:

  1. determinazione dei morti ufficiali per Covid-19 a marzo mediante sottrazione dal dato Istat-Iss dei morti di febbraio;
  2. determinazione della mortalità baseline, o “normale”, per il mese di marzo 2020 a partire dalla media 2015-2019, corretta per tenere conto della specificità dell’inverno 2019-2020, decisamente più mite di quelli precedenti (la correzione è stata effettuata confrontando la mortalità dei primi 10 giorni del mese di gennaio 2020 con i corrispondenti giorni del quinquennio 2015-2019).
  3. determinazione della mortalità in eccesso mediante sottrazione della mortalità baseline stimata per marzo 2020 alla mortalità effettiva osservata a marzo 2020.
  4. sottrazione dei decessi Covid ufficiali ai morti in eccesso di cui al punto precedente.

Il dato riportato nei grafici è la media fra le stime che si ottengono usando come periodo di riferimento il 2015-2018 o il 2015-2019.

Una versione ridotta di questo testo è stata pubblicata su il Messaggero del 18 maggio 2020




Il fantasma dei morti di troppo

Un fantasma si aggira per l’Occidente: il fantasma dei morti di troppo. Dopo due mesi di Covid, con oltre 250 mila morti accertate (e almeno altrettante occulte), qualcuno si comincia a domandare: potevano essere di meno, molte di meno? chi doveva gestire l’emergenza sanitaria ha fatto il possibile per contenere il numero delle vittime? quante morti sono una conseguenza di “errori umani” evitabili?

Queste domande aleggiano un po’ dappertutto, ma risuonano con particolare angoscia nei paesi in cui il costo umano dell’epidemia ha raggiunto proporzioni apocalittiche.

Negli Stati Uniti, ad esempio, chi passa per Times Square (la piazza principale di New York), può apprendere quanto è costato agli americani il ritardo con cui Trump si è deciso a proclamare il lockdown: 45 mila morti su 75 mila. E’ una stima, naturalmente, ma non campata per aria, perché si basa su studi epidemiologici.

Nel Regno Unito, un paio di settimane fa, Stephen Buranyi, un coraggioso giornalista scientifico free lance, ha pubblicato su Prospect Magazine un’approfondita inchiesta sulle differenze fra le risposte sanitarie al Covid-19 di Regno Unito e Germania. La domanda è: quante vite umane si sarebbero potute salvare adottando fin da principio l’approccio della Germania? L’autore non si sbilancia fornendo un numero, ma lascia intendere che il numero di vittime dovute a clamorosi errori politici ed organizzativi del governo britannico sia molto grande.

In Francia, fin da metà marzo in una drammatica intervista Agnès Buzyn, ex ministra della salute, ricostruiva la storia dei suoi avvertimenti inascoltati (fin da gennaio!) a Macron e al primo ministro francese, denunciava l’errore di aver ritardato il lockdown per salvare le elezioni comunali, e pronosticava migliaia di morti come conseguenza di questo errore fatale (la Francia, in effetti, si avvia verso le 30 mila vittime ufficiali, poche di meno dell’Italia). Negli stessi giorni 600 medici e operatori sanitari francesi denunciavano alla Corte di giustizia della Repubblica (l’unica abilitata a giudicare gli atti commessi da membri del governo) il primo ministro Edouard Philippe e la stessa Agnes Buzyn, che fino metà febbraio era rimasta al suo posto di ministra della sanità.

E in Italia?

In Italia l’opinione pubblica è estremamente mansueta, e il governo ha sempre respinto ogni responsabilità. Meno di 3 settimane fa (28 aprile), con i morti giornalieri che ancora fluttuavano intorno ai 400 al giorno, il premier dichiarava con invidiabile serenità: tornassi indietro, rifarei tutto eguale. Quanto al commissario Arcuri, il giorno dopo (29 aprile) trovava il coraggio di dichiarare: “Per evitare che anche questa diventi materia di dibattiti comunico che l’Italia è il primo paese al mondo per tamponi fatti per numero di abitanti” (notizia letteralmente falsa, e sostanzialmente erronea).

Negli ultimi giorni, tuttavia, grazie alle inchieste giornalistiche e agli studi scientifici, alcune verità stanno venendo a galla. Alcune sono ovvie, come il fatto che la scelta di ritardare il lockdown, a dispetto degli avvertimenti di tanti studiosi, è costato migliaia di morti, in Italia come altrove. Altre sono meno ovvie, o meglio diventeranno ovvie solo per gli storici di domani, quando le resistenze e gli interessi del momento presente non riusciranno più a farsi sentire. Fra queste verità la più importante è che la scelta di limitare il numero di tamponi e i ritardi nella organizzazione del tracciamento hanno avuto, e continuano ad avere, un costo umano enorme.

Da qualche giorno sembrano essersene accorte anche le autorità sanitarie. Le stesse autorità che all’inizio dell’epidemia “sgridavano” il Veneto, accusandolo di fare troppi tamponi, così deviando dalle sacre direttive dell’organizzazione Mondiale della Sanità, ora invitano a fare “come il Veneto” e improvvisamente si accorgono di aver trascurato l’essenziale, ossia l’approvvigionamento di reagenti, il coinvolgimento delle università, l’apertura agli operatori del settore privato.

Verso di loro serpeggiano le domande che, molto opportunamente, Franco Debenedetti e Natale D’Amico nei giorni scorsi hanno affidato al “Corriere della Sera”: “Lo dice perfino il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità: sui tamponi bisogna cambiare strategia. Perché solo adesso? C’era l’esempio del Veneto: perché in Lombardia no? Perché Sala (sindaco di Milano) deve mandare i tamponi da esaminare in Francia?”

Già, perché?

Perché l’Italia, anche dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva riconosciuto il proprio errore, ha aspettato il 5 maggio per manifestare l’intenzione di cambiare linea?

Perché non ci si è mossi subito per garantire l’approvvigionamento di reagenti e allargare il numero di laboratori autorizzati a fare test? Perché questo monopolio pubblico dei tamponi? Perché non abbiamo fatto come la Germania, che ha invitato a testare e tracciare tutti i soggetti sintomatici?

Non so se queste domande meritino la costituzione di “un’alta commissione  indipendente” (come suggerisce Franco Debenedetti), o l’avvio di nuove inchieste giudiziarie dopo quelle sulle residenze per anziani (come altri auspicano). So solo che le stime più prudenti del costo di aver scoraggiato i tamponi sono scioccanti (le pubblicherà a giorni la Fondazione Hume), che il numero di morti effettivi è almeno il doppio del numero ufficiale, e che continuare così costerà altre vittime, oltre a quelle che la riapertura inevitabilmente comporta.

Aver avviato la Fase 2 senza aver costruito le sue precondizioni fondamentali (mascherine, tamponi, tracciamento, indagine nazionale sulla diffusione) è stato certamente un errore, che ci sta già costando caro. Lo ha rilevato con preoccupazione il prof. Massimo Galli (ospedale Sacco di Milano) che, intervistato pochi giorni fa da Selvaggia Lucarelli, ha sconsolatamente osservato: “Possiamo solo affidarci a Santa Mascherina (…) Non è mai stato fatto un esperimento analogo nel mondo. E’ la prima volta che si tenta di arginare un’epidemia dicendo: esci con la mascherina e osserva il distanziamento. Io le dico che non esiste un lavoro scientifico che provi l’efficacia di questa strada”.

Ora che l’errore è stato fatto, e che il rischio ce lo siamo preso, possiamo solo augurarci una cosa: che il timore di dover riconoscere che si è sbagliato, non induca la classe politica, nazionale e locale, a perseverare nell’errore.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 maggio 2020




Tamponi e fakenews di governo: non è vero che l’Italia è il paese che ne fa di più

Grande rilievo ha assegnato il Tg1 di oggi, lunedì 28 aprile, a questa dichiarazione del Commissario Governativo Domenico Arcuri, diffusa attraverso l’Agenzia Nova:

“Per evitare che anche questa diventi materia di dibattiti comunico che l’Italia è il primo paese al mondo per tamponi fatti per numero di abitanti: a ieri erano stati fatti 2.960 tamponi ogni 100 mila aitanti. In Germania 2.474, il 20 per cento in meno; in Inghilterra 1.061, un terzo che in Italia e 560 in Francia, un sesto”.

La notizia comunicata è falsa: sono una decina i paesi che, alla data considerata dal Commissario Arcuri, fanno più tamponi dell’Italia.

Alcuni sono paesi molto piccoli, come Islanda, Lussemburgo, Malta, Cipro, Lituania, Estonia, ma altri – Norvegia, Israele, Portogallo – lo sono assai meno, e comunque sono anch’essi “paesi del mondo”.

Quanto al confronto con la Germania, è basato su un artificio, che sfrutta il fatto che in Germania il numero dei tamponi viene comunicato solo una volta la settimana. Il dato riportato nel comunicato di Arcuri non si riferisce al numero di tamponi della Germania ieri (27 aprile), ma al numero di tamponi comunicato dalla Germania l’ultima volta che ha aggiornato il dato, ovvero più o meno una settimana prima.

Se Italia e Germania vengono confrontate alla medesima data (19 aprile), è la Germania a fare più tamponi, non l’Italia (25.1 ogni mille abitanti la Germania, 22.4 l’Italia). Dunque non è vero che la Germania ne fa “il 20% in meno”, la realtà è che ne fa l’11.9% in più.

Questo per quanto riguarda le cifre nude e crude. Se però vogliamo fare una comparazione sensata, non è certo il numero di tamponi per abitante che dobbiamo confrontare. Per fare un confronto corretto fra due paesi si dovrebbe, come minimo, tenere conto della “anzianità epidemica” del paese. Le cifre da confrontare, in altre parole, non sono quelle dei tamponi totali per abitante, ma dei tamponi al giorno per abitante.

In Italia l’anzianità epidemica è circa il doppio che in Germania.  Se si tiene conto di questo fattore ci si rende conto che la Germania fa più del doppio dei tamponi dell’Italia. Per l’esattezza, fatto 100 il numero di tamponi giornalieri per abitante dell’Italia, la Germania ne fa 241.5.

Sottigliezze statistiche?

Per niente. Il fatto che gli esponenti del governo continuino a vantare un (inesistente) primato dell’Italia nel numero di tamponi è un chiaro segnale della volontà di non aumentarne troppo il numero. E’ come se dicessero: se già ne facciamo più di chiunque altro, perché voi giornalisti (e voi cittadini) continuate a infastidirci con questa faccenda dei tamponi?

Una scelta che, inevitabilmente, non potrà non appesantire il già drammatico bilancio dei morti.

Per un’analisi più sistematica leggi Tamponi. L’Italia ne fa di più degli altri paesi? pubblicato il 16 aprile 2010



Esuli pensieri. Un’agenda dell’epidemia

Esuli pensieri

Su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar 

(Giosuè Carducci, San Martino)

Un’agenda dell’epidemia

Era un po’ di tempo che avevo voglia di cominciare una specie di diario, una sorta di “agenda della crisi” che raccontasse questi giorni funestati dal Covid-19.

Un’agenda fatta di numeri e di analisi, perché maneggiare numeri è il mio mestiere. Ma un’agenda, anche, fatta di riflessioni e di pensieri, che il procedere della crisi continuamente sollecita. Li ho chiamati “esuli pensieri”, perché mi sento in esilio.

Ora ho sentito in Tv il discorso di Conte che annuncia la riapertura il 4 maggio, e non posso più rimandare. La mia agenda comincia da qui, dal discorso che ci è stato inflitto stasera.

E allora andiamo subito al sodo. Che cosa ha detto Conte?

Il succo è questo: Cari italiani, è giunto il momento di riaprire. Certo, riaprire già adesso comporta dei rischi, perché l’epidemia può ripartire in qualsiasi momento. Ma impedire al virus di tornare a circolare si può: dipende essenzialmente da voi, dal vostro senso di responsabilità. Se rispetterete le regole, l’epidemia si potrà tenere sotto controllo, se non le rispetterete l’epidemia ripartirà.

Eh no, caro presidente del Consiglio, questo non puoi proprio dirlo. Dire che l’epidemia potrebbe ripartire è già un inganno. L’epidemia è tuttora in corso, non c’è un solo indizio empirico che sia finita, quindi la prima cosa che dovevi dirci è che voi, politici, avete cambiato idea. Ci avete fatto credere che prima avremmo fermato l’epidemia, e poi avremmo riaperto. Invece ora ci dite che riaprite ad epidemia in corso, esponendo tutti noi a rischi drammatici.

Ma l’inganno più grande è scaricare su di noi, comuni cittadini, la responsabilità di impedire una nuova esplosione del contagio. Troppo comodo. Questo lo potreste dire se, in questi mesi, ci aveste messi in condizione di difenderci. Se, dopo settimane e settimane in cui siamo stati dimenticati nelle nostre case (o nelle nostre residenze per anziani), senza assistenza, senza mascherine, senza tamponi, ora foste in grado di dirci: state tranquilli, ora le mascherine ci sono per tutti, ora un tampone non ve lo negheremo più, ora i medici vi verranno a trovare a casa quando state male.

Invece su tutto questo non una parola, non un numero. Apprendiamo che verrà fissato un prezzo massimo per le mascherine, e si sprecano parole di fuoco contro la speculazione che fa lievitare i prezzi. Ma nemmeno Manzoni avete letto? Non lo sapete che, se gli speculatori prosperano, è perché voi non siete in grado di assicurare un approvvigionamento adeguato? Non vi vergognate a chiederci di mettere le mascherine, salvo coprirci con foulard, sciarpe e asciugamani se le mascherine non le troveremo?

Per non parlare dei tamponi, che avete negato e disincentivato in tutti i modi, nascondendovi – finché vi è stato possibile – dietro le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ora che l’OMS ha fatto macchina indietro, e invita a fare tamponi (“test, test, test”), perché continuate a farne così pochi? Non lo sapete che i paesi in cui la conta dei morti è meno drammatica sono quelli che hanno puntato sui tamponi di massa? Quanti dati, quante analisi, quanti grafici dobbiamo darvi per convincervi che le cose stanno così?

E i lavoratori cui chiedete di tornare al lavoro, “nella massima sicurezza”? Ci sarebbe piaciuto sentire qualche numero sui cosiddetti dispositivi di protezione individuale. Quanti ne occorrono, quanti sono attualmente disponibili, chi provvederà a fornirli alle imprese, chi si farà carico del costo.

E invece no. Anziché dare garanzie su questo, il governo si compiace di farci sapere che presto inonderà imprese e organizzazioni con dettagliatissimi “protocolli di sicurezza”, nel solito consueto stile degli apparati pubblici: io ti dico a quali norme devi attenerti, non mi preoccupo di metterti effettivamente in grado di rispettarle.

E allora, almeno una cosa lasciatecela dire. Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali.

Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa.