Contro la sagra dell’ovvio

Degli Stati generali dell’economia si è detto di tutto. Che sono solo una passerella, che sono un omaggio alla Troika, che rischiano di essere “generici” più che generali, che parole d’ordine come “modernizzazione, transizione ecologica, inclusione” sono di una banalità disarmante (e forse anche un po’ irritante). Beppe Severgnini si è giustamente chiesto quale capo di governo potrebbe mai puntare, invece, su “invecchiamento, inquinamento, esclusione”. Quanto agli inviti alla “concretezza”, che sono piovuti da tutte le parti in questi giorni, non si può non osservare che, finché non si indicano dettagliatamente le cose da fare e soprattutto quelle da non fare, o che sarà impossibile fare subito, non c’è nulla di più astratto dell’invito a essere concreti.
Per parte mia, sono stato colpito soprattutto da due circostanze. La prima è la scelta di tenere gli Stati generali a porte chiuse, senza ammettere ai lavori né i giornalisti né altri osservatori indipendenti. Una scelta aggravata dal fatto che non è la prima volta che il governo percorre la via della non trasparenza. Invano i giornalisti hanno richiesto, nei mesi scorsi, i verbali delle riunioni del Comitato tecnico-scientifico. Invano gli studiosi hanno atteso che l’Istituto Superiore di Sanità mettesse a disposizione i propri dati (o almeno parte di essi), un’esigenza resa sempre più impellente dalla pessima qualità dei dati diffusi dalla Protezione Civile.
Ma la circostanza che più mi ha colpito è un’altra, che peraltro non dipende solo dal governo ma anche dall’opposizione, e in definitiva da tutti noi: la mancanza di un dibattito di politica economica all’altezza della gravità della situazione dell’Italia. Tutta la discussione sul futuro economico-sociale del Paese si svolge sulle note dell’ovvio più ovvio e più trito. Gli esponenti dell’esecutivo sciorinano la mesta giaculatoria dei due-trecento problemi irrisolti del paese, come se – dopo almeno tre decenni di atti mancati – improvvisamente ci fossero le condizioni politiche per porvi mano. Di qui la solita invocazione sulla necessità di “fare le riforme” (quali, con quali priorità e quali tempi?), la immancabile proclamazione della necessità di attuare interventi espansivi per “stimolare la domanda interna”, l’attesa messianica delle ingenti risorse promesse dall’Europa, il tutto condito dalla commedia dell’accesso ai fondi del Mes, con il Pd nella veste di poliziotto buono e i Cinque Stelle in quello di poliziotto cattivo.
Per chi è vissuto in epoche nelle quali la politica economica era oggetto di un serrato dibattito pubblico, nonché di contrapposizioni appassionate, lo spettacolo di questi giorni è più stupefacente che deprimente.
Eppure le scelte che abbiamo davanti non sono né ovvie né facili. Finora la politica economica, con i suoi ritardi e la sua impostazione assistenziale (a oggi sono circa 40 i “bonus” vigenti), ha gettato le basi per trasformare l’Italia in una “società parassita di massa”, in cui il numero dei produttori (già esiguo prima della crisi) si restringe ulteriormente, e una frazione sempre più grande della popolazione è ridotta a dipendere dalla benevolenza della mano pubblica. Siamo sicuri di volere questo? O preferiamo illuderci che non andrà così? E se pensiamo che non andrà così, su quali basi siamo in condizione di ipotizzare un percorso diverso? Come pensiamo di gestire i conti pubblici quando il rapporto debito/Pil sarà a livelli greci e i mercati finanziari rialzeranno la testa?
Si potrebbe pensare che a queste domande, cui la sinistra al governo non sa rispondere perché manco se le fa, sia in grado di rispondere l’opposizione di destra. Ma basta scorrere i programmi economico-sociali della destra, e segnatamente della Lega che ne è il partito più forte, per rendersi conto che anche la destra non ha un’idea convincente del futuro dell’Italia. Per certi versi, anzi, la politica economica della sinistra e quella della destra appaiono varianti del medesimo schema. La tentazione assistenziale, come dimostra la battaglia di tutto il centro-destra per quota 100, non è monopolio della sinistra. E la propensione a risolvere i problemi allargando la voragine del debito pubblico è quanto di più bipartisan sia dato osservare nella politica italiana. Come bipartisan è il mantra degli investimenti pubblici, immancabilmente da “rilanciare” e da “sbloccare”, ma inspiegabilmente sempre al palo.
Certo, si potrebbe pensare che, se non vogliamo affogare nell’assistenzialismo, se vogliamo che l’iniziativa privata non sia definitivamente soffocata e sepolta dall’invadenza degli apparati pubblici, faremmo meglio a cambiare esecutivo e affidarci alla destra. Dopotutto “meno tasse” è l’imperativo fondamentale dell’opposizione di destra, mentre dalla sinistra il meno peggio che possiamo aspettarci in materia fiscale sono ulteriori dosi di sacrosanta “lotta all’evasione fiscale” (il peggio è una patrimoniale e un aumento delle aliquote). Ma attenzione, il diavolo si annida nei dettagli. Meno tasse non vuol dire nulla se non si specifica quante meno tasse, e per chi. E l’esperienza degli anni passati, e dei programmi elettorali, suggerisce che il “meno tasse” della destra sia più al servizio della ricerca del consenso che a quello della crescita. Era così fin dai tempi del “contratto con gli italiani”, che prometteva l’abbattimento delle imposte sulle famiglie ma era silente sull’imposta societaria (Ires) e sull’Irap. Ed è così oggi, in piena crisi Covid, quando riemergono i fantasmi dei condoni fiscali, comunque li si voglia denominare: rottamazione delle cartelle, saldo e stralcio, pace fiscale. Come se, per evitare la chiusura di centinaia di migliaia di attività, fosse più importante un condono una-tantum che assicurare un lungo periodo di basse aliquote.
Il fatto è che destra e sinistra, fondamentalmente, non differiscono negli scopi, ma nel modo di perseguire il proprio scopo dominante, ovvero l’acquisizione del consenso: la sinistra predilige incrementare il debito pubblico per distribuire bonus e mance, la destra incrementare il debito pubblico per distribuire esenzioni e sgravi fiscali.
Ad entrambe, mi pare, manchi la consapevolezza che di debito ulteriore, passata la crisi, non ne potremo fare molto, e quindi è essenziale non riproporre per l’ennesima volta – come è di moda in questi giorni – l’elenco dei 2-300 “ritardi” dell’Italia, ma dire chiaramente quali siano le 2-3 cose di cui ci si occuperà effettivamente nei prossimi mesi, e come lo si intenda fare. Possibilmente nei dettagli.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 giugno 2020




Regioni: la grande retromarcia sui tamponi

La settimana che ora si è conclusa è certamente, da tre mesi, quella in cui abbiamo subito meno restrizioni. Caduto l’obbligo di restare in casa, caduto il divieto di spostarsi fra regioni, concessa la riapertura di quasi tutte le attività, restano solo le ben note regole minime: mascherine, distanziamento, lavaggio frequente delle mani, disinfezioni e sanificazioni, il tutto affiancato qua e là dai primi esperimenti di tracciamento.

Quel che è molto difficile capire, però, è a che punto è l’epidemia. Non dico capire quel che ci aspetta in autunno (questo nessuno può saperlo), ma quel che sta succedendo ora. I messaggi che ci arrivano, infatti, sono estremamente contrastanti. Più che informazioni, quel che riceviamo dalle autorità e dai media è un frastuono di segnali ambigui, confusi, incoerenti.

Questo fa sì che ognuno sia autorizzato a leggere la situazione come meglio gli aggrada. Chi è sufficientemente giovane da non temere il virus, o sufficientemente ottimista da scommettere sul ritorno alla normalità, può appoggiarsi sulle dichiarazioni del dott. Zangrillo, secondo cui “clinicamente” il virus è morto. Del resto questo modo di vedere le cose è supportato da una larga parte della stampa e delle tv, la cui linea editoriale è amplificare i segnali positivi e non calcare troppo la mano su quelli negativi. Linea che, più che essere suggerita dalle dichiarazioni delle autorità (preoccupate che la gente abbassi la guardia), è suggerita dagli atti del governo e dell’Istituto Superiore di Sanità, quando si affannano a dipingere l’Italia come un paese sicuro, o diffondono report secondo cui in nessuna regione – nemmeno in Lombardia – Rt è salito sopra 1.

Chi invece è sufficientemente vecchio da temere il virus, o sufficientemente scettico da non credere che sia tutto finito, e tanto meno che “andrà tutto bene”, può trovare (s)conforto alle sue credenze nelle interviste di tanti esperti (dal prof Galli al prof. Crisanti), che paiono suggerire che la riapertura sia stata un azzardo non in sé, ma stante il nostro scarsissimo attuale livello di preparazione sui 4 fronti fondamentali: tamponi, tracciamento, mascherine, indagine Istat. E anche qui non mancano i media la cui linea editoriale è sottolineare i pericoli che stiamo correndo.

Ma come stanno effettivamente le cose per un osservatore che voglia basarsi solo sui dati di fatto?

La mia risposta è che ci sono due tipi di osservatori e nessuno dei due è in condizione di dirci come stanno le cose. Le autorità sanno più cose di noi, ma non ce le dicono tutte perché vogliono tenersi le mani libere: se ci lasciassero accedere ai dati di cui dispongono, alcune loro decisioni potrebbero apparire più discutibili di quanto già appaiono. Gli studiosi indipendenti (non legati al potere politico) sono perfettamente liberi di dire come stanno le cose, ma non hanno accesso ai dati cruciali, perché le autorità – spesso con la inconsistente scusa della privacy – preferiscono impedire l’accesso ai database.

In questa situazione, tutto quel che possiamo fare è di raccontare, sulla base dei dati (scarsi e di pessima qualità) cui abbiamo accesso, quel che riusciamo a intravedere.
Comincio con l’unico indizio positivo: finora la temperatura media dell’epidemia, misurata con il termometro della Fondazione Hume, continua a scendere, sia pure ad una velocità sempre più bassa (in concreto questo significa che il numero di nuovi infetti era decrescente almeno fino a un paio di settimane fa). Il vantaggio di questo strumento di misura è che non si fonda solo sul numero di nuovi casi positivi, che è drogato dal numero di tamponi, ma su altre informazioni come le ospedalizzazioni, i decessi e, appunto, il numero di tamponi effettuato.

Le buone notizie, tuttavia, si fermano qui. Se dal livello dell’Italia nel suo insieme ci spostiamo a quello delle singole regioni, da qualche settimana i segnali non appaiono rassicuranti. Sono circa una decina le regioni, infatti, in cui la curva dei decessi ha ormai cessato di piegare verso il basso, e in alcune ha persino cominciato a rialzare la testa. Del resto, anche sul piano nazionale l’andamento dei morti è piuttosto preoccupante: 500 morti alla settimana non sono pochi, se non altro perché sono di più di quanti (400) se ne registravano quando Conte annunciava il lockdown.

Ma il segnale più preoccupante viene dalla politica dei tamponi. Ci eravamo illusi, all’inizio di maggio, che il nostro appello a fare tamponi di massa (come in Veneto) fosse stato raccolto dalle autorità sanitarie e dai governatori delle Regioni. E in effetti, per una quindicina di giorni, le cose erano sensibilmente migliorate: improvvisamente la curva del numero di tamponi, ma soprattutto quella del numero di persone testate, aveva invertito la sua discesa e aveva cominciato a puntare risolutamente verso l’alto.

Ma poi…

Poi, a partire dal 25 maggio entrambe le curve, e segnatamente quella delle persone testate, hanno cominciato a puntare verso il basso: oggi il numero settimanale di persone testate è al minimo storico (da quando la Protezione Civile fornisce il dato), e  circa il 27% sotto il livello di domenica 24 maggio. L’obiettivo di “fare come il Veneto” si allontana sempre di più. E, fatto forse ancora più preoccupante, questa tendenza a fare meno tamponi è generalizzata, perché riguarda quasi tutte le 21 Regioni/Province autonome.

Se consideriamo l’intervallo fra la settimana che si è appena conclusa (primi 7 giorni di giugno) e l’ultima settimana prima della riapertura completa (la settimana del 17-24 maggio), c’è una sola regione – il Molise – che ha aumentato sia i tamponi sia le persone testate.

Tutte le altre hanno diminuito o il numero di tamponi, o il numero di persone testate o entrambi.

E nella maggior parte delle regioni le riduzioni sono state drastiche, dell’ordine del 20-30%, ma in alcuni casi addirittura superiori al 50%, fino al caso limite della Valle d’Aosta, che ha ridotto i tamponi del 63.2%, e le persone testate del 73.9%.

Ma che cosa è successo lunedì 25 maggio per far sì che le migliori intenzioni delle autorità politiche e sanitarie si sciogliessero come neve al sole?

Credo sia successo quel che, pochi giorni prima che accadesse, avevamo previsto e temuto dalle colonne del Messaggero. E cioè che, se il governo non avesse solennemente sganciato la “pagella” delle Regioni dal conteggio dei nuovi infetti, con l’avvio della Fase 2 l’incentivo a ridurre il numero di tamponi (per evitare di scoprire troppi infetti) sarebbe divenuto irresistibile.

Così è stato. Dal 25 maggio, giorno in cui a quasi tutte le attività è stato permesso di riaprire, la maggior parte delle Regioni, per paura di subire limitazioni all’attività economica e al turismo, hanno pensato bene di frenare i tamponi.

Ed eccoci al punto di partenza. Chi sa come stanno andando le cose non parla, né ha il coraggio di rendere accessibili i dati in suo possesso. Chi vorrebbe sapere, e potrebbe parlare, è costretto a lavorare con dati parziali, scadenti, e inquinati dalla paura di scoprire nuovi casi.

Cosi, alla fine, ci resta solo la pietrosa realtà dei morti, la cui contabilità è meno soggetta ai capricci della politica, o all’alea delle procedure amministrative. E quella realtà non ci dà ancora, purtroppo, il segnale di speranza che cerchiamo.

[questo testo riprende in parte i contenuti di un articolo apparso sul Il Messaggero l’8 giugno 2020]




Intervista a Luca Ricolfi

È tutto sbagliato, è tutto da rifare. Il copyright della frase è di Gino Bartali, naso triste da italiano in gita, come lo definì in una bellissima canzone Paolo Conte. Il concetto però è sovrapponibile al pensiero di Luca Ricolfi, naso molto sensibile di italiano alquanto perplesso. Editorialista per svariati quotidiani, attualmente in forza al Messaggero, il professore torinese ha fondato l’osservatorio del Nord-Ovest ed è ora responsabile scientifico della fondazione David Hume, che ha creato con il vecchio direttore del Corriere della Sera, Piero Ostellino. In parole semplici, Ricolfi è il più grande sociologo italiano. Nessuno come lui sa annusare gli umori della nostra società, della quale ha una visione lucida e imparziale. In questa intervista dispensa mazzate per tutti, destra e sinistra. Crocifigge il governo per la gestione dell’emergenza Covid-19 e per l’assenza di preparazione della ripartenza. Bastona Conte e i suoi governi gialloverde e giallorosso per la loro politica esclusivamente assistenzialista. Suggerisce nella ricetta ultraliberista e di defiscalizzazione selvaggia l’unica via di salvezza per il Paese. E ne ha pure per gli italiani, che si sono fatti rubare la democrazia senza reagire.

Professor Ricolfi, Conte compie due anni a Palazzo Chigi: com’è cambiata l’Italia sotto l’avvocato?
«La cultura politica dell’Italia era già da avvocati prima: attenzione ossessiva alle procedure e pochissima concretezza. Non so se Conte abbia peggiorato la situazione, certo non è la persona giusta per imprimere una svolta. Dipendesse da me, vedrei bene a capo del governo un contadino che ha fatto il classico».

Come valuta i due anni di governo grillino, che è poi la grande novità della politica?
«Valuto male entrambi i governi, perché la cifra di entrambi è stata l’assistenzialismo. Salvini ha un bel dire che è stato costretto a digerire il reddito di cittadinanza, visto che quota 100 è stata la sua bandiera. Quanto alla politica fiscale del governo gialloverde, l’intervento sulle partire Iva è stato di entità irrisoria (meno di un miliardo), e l’ennesimo condono fiscale non è certo ciò di cui l’economia aveva bisogno».

Che futuro vede per M5S?
«Non ne ho la minima idea. Se solo esistesse un’alternativa credibile, lo vedrei spacciato; ma se l’alternativa sono le forze attualmente in campo, forse il Movimento può pensare di sopravvivere a tutte le sciocchezze che ci infligge».

Pd-M5S: sono nozze fattibili?
«Certo. Anche nella vita reale i matrimoni sono spesso di interesse. In politica il matrimonio d’amore è l’eccezione, non la regola».

Cosa sta accadendo nel centrodestra?
«Nulla. Mi pare la risposta più adeguata. Ed è questo il problema del nostro sistema politico: la sinistra rinasce continuamente proprio perché è un camaleonte senza vergogna di sé, la destra resta al palo perché non riesce a cambiare».

Il calo di Salvini nei sondaggi è temporaneo?
«Penso che il calo di Salvini sia difficilmente reversibile, perché ha dimostrato di non avere né il linguaggio né l’organizzazione mentale necessari al ruolo di premier».

E la crescita della Meloni la stupisce?
«Io la vedevo veleggiare verso il 20% già quando era ancora sotto il 10%. La Meloni è una politica di razza, se fosse un uomo sarebbe già da un pezzo alla guida del centro-destra».

Il Covid-19 che Italia lascia?
«Di per sé, il Covid ci avrebbe lasciato più poveri di prima. Il Covid in salsa giallorossa però ci lascerà molto più poveri di prima, e soprattutto sempre più lontani dagli altri paesi avanzati».

Ha allargato le differenze tra Nord e Sud?
«No, direi che per certi versi potrebbe anche finire per accorciarle. Per la sua composizione, il Pil del Nord è più vulnerabile al tracollo degli scambi di quanto possa esserlo quello del Sud, specie nel caso in cui i flussi turistici dovessero riprendere o essere sostituiti dal turismo interno. C’è poi un aspetto molto importante: la società parassita di massa che ci stanno accuratamente predisponendo. Quando la base industriale del Paese si sarà ridotta del 20-25%, la domanda di sussidi e di assistenza del Sud non potrà che esplodere, accentuando il modello “sussidi + lavoro nero” già molto diffuso oggi».

Perché la pandemia ci ha trovato impreparati?
«Per un mucchio di motivi, ma i più importanti mi paiono due. Il primo è che la politica ha deciso di costituire comitati tecnico-scientifici scegliendo in base al livello della carica ricoperta (manager e burocrati della sanità) e non in base alla competenza; se avessero fatto gestire l’epidemia ad Andrea Crisanti, la chiusura totale sarebbe partita due settimane prima, il modello veneto (tamponi di massa) sarebbe stato incoraggiato anziché stigmatizzato, e avremmo avuto (almeno) diecimila morti in meno. Il secondo motivo è che nei passaggi cruciali (fine febbraio e fine aprile) destra e sinistra, salvo modeste eccezioni, si sono ritrovate dalla medesima parte della barricata, schierate con il partito della riapertura, che poi fondamentalmente è il partito del Pil».

Quali sono state le maggiori criticità?
«In ordine di importanza: due mesi di ostilità ai tamponi di massa, un ritardo incredibile nell’indagine sierologica nazionale e nel tracciamento, le oscillazioni sull’utilità delle mascherine».

La sensazione è che il governo non ci abbia preparato alla ripartenza, lei cosa ne pensa?
«Lei la chiama una sensazione? A me pare un’evidenza».

Quali pericoli ravvisa?
«Nessuno ci informa su quali misure si stiano prendendo per neutralizzare i rischi dell’aria condizionata, dei treni e degli aerei. E nessuno ci dice con chiarezza se riapriamo perché l’epidemia è sconfitta o per ragioni economiche. La mancanza di trasparenza e verità ha un grande prezzo, perché le persone restano incoscienti dei reali pericoli. C’è stata ideologia all’inizio, nel non voler mettere in quarantena chi arrivava dalla Cina, e c’è oggi, nel riaprire tutti insieme in condizioni diverse».

Pensa che saremmo pronti ad affrontare una seconda ondata?
«No, non lo penso».

Lo Stato centrale ha avuto molti problemi nei rapporti con le Regioni, che sono diventate nel bene e nel male le protagoniste della lotta al Covid-19: come mai è successo?
«Credo sia stata una ammuina utile al ceto di governo, non saprei dirle se intenzionale o no. Alla fine, quando arriverà la magistratura e saranno istituite le solite commissioni di inchiesta, lo scaricabarile reciproco sarà un gioco da ragazzi».

Ritiene che le Regioni e le spinte autonomiste escano rafforzate da questa esperienza?
«Non ne ho la minima idea, perché davvero non saprei se – in generale – abbiano fatto peggio lo Stato centrale o le Regioni. Quel che posso dire è che alcune Regioni (innanzitutto quelle del Triveneto, che sono le più autonomiste), si sono comportate meglio di altre. Fossi veneto mi batterei per l’autonomia; essendo piemontese, e avendo visto da vicino che cosa (non) ha fatto la Regione Piemonte in questi mesi, ne avrei il terrore».

Perché si è levato un attacco così duro contro la Lombardia?
«Perché ha fatto errori enormi, a partire dallo scoraggiamento dei tamponi e dalle scelte in materia di assistenza domiciliare».

Tutti temono l’esplosione della rabbia sociale: anche lei?
«Sì, perché quando la paura sparirà, o ci saremo abituati a tollerarla, molti si troveranno senza lavoro, con poco reddito, bassi consumi, molta disperazione».

Il danno economico è enorme: l’Italia rischia di fallire?
«Sì, lo temo. Questo governo sta prendendo con molta allegria soldi che non ha, e prima o poi i mercati, ancor più delle autorità europee, ci chiederanno il conto».

Ha una ricetta da suggerire per uscirne?
«Fare come in Irlanda: niente burocrazia e imposta societaria non oltre il 12.5%. E magari restituirci il voto, così almeno potremo incolpare noi stessi quando sceglieremo l’ennesimo governo di mediocri».

La ricetta irlandese è ultraliberista, ma la sensazione è che il governo applichi per lo più ricette di sinistra: cosa ne pensa?
«Più che ricette di sinistra, il governo sta usando ricette irresponsabili. È quel che succede quando la sinistra, che ha anche una componente riformista e responsabile, per amore del potere si allea con le forze più demagogiche e anti-mercato. Che poi questa piroetta parlamentare sia orchestrata dalla sinistra riformista stessa (Renzi), dice solo a che cosa si è ridotta la sinistra. Per uno come me, che negli anni ’70 ha lavorato con la mitica FLM (Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici), e ha potuto vedere tutta la parabola che da Lama e Berlinguer ci ha portati all’attuale ceto politico progressista, lo spettacolo odierno è un film dell’orrore».

L’Europa è intervenuta con lentezza e pochi soldi: non si poteva fare di meglio, non ha capito o che altro?
«L’Europa è quel che è, una macchina burocratica lenta, guidata da un’oligarchia priva di ogni slancio ideale».

Giustizia e istruzione, i due ambiti del pubblico, non ripartono, le aziende sì: come se lo spiega?
«Scuola e giustizia non stanno sul mercato. Non hanno la necessità di riaprire per sopravvivere».

Perché il governo non si è preoccupato della scuola, davvero conta così poco?
«Qualcosa è stato fatto, in realtà, ma in direzione assistenziale: nuove assunzioni, tanto per cambiare, in una situazione in cui le statistiche internazionali ci dicono che abbiamo troppo personale, e accurate ricerche nazionali documentano la vergogna dell’edilizia scolastica».

Lo scandalo delle intercettazioni della magistratura è destinato ad avere effetti o si spegnerà?
«Non mi sembra che il grande pubblico se ne curi, tendo a pensare che metteranno qualche toppa e la gente penserà presto ad altro».

Tutti dicevano che dopo il Covid-19 ogni cosa cambierà in meglio: una favola o condivide, e cosa muterà?
«Molto cambierà, ma che cosa e quanto dipenderà dal fatto che l’arrivo autunnale di virus micidiali diventi una costante oppure no».

Nel bene e nel male, che giudizio dà degli italiani durante la quarantena?
«Gli italiani mi hanno sorpreso per la loro docilità e il loro scarso amore per libertà e democrazia. Abbiamo bevuto tutto ciò che le autorità ci dicevano, senza pretendere l’unica cosa che dovevamo pretendere: serietà e trasparenza. Possiamo lamentarci fin che vogliamo del governo Conte e della sua “acostituzionalità” (così lo ha qualificato un giurista eminente come Sabino Cassese), ma resta il fatto che lo abbiamo digerito più che bene, come cittadini e come mass media: in democrazia, ogni popolo ha i governanti (e i giornalisti) che si merita».

Intervista a cura di Pietro Senaldi pubblicata su Libero quotidiano il 1 giugno 2020




Riaperture regionali, dire tutta la verità

Mercoledì 3 giugno si torna a circolare per l’Italia. Chiunque, in qualsiasi regione abiti, potrà prendere l’auto, un pullman, un treno, un aereo, una nave e recarsi dove gli aggrada. Individualmente ne sono felice, non ne potevo più di stare sequestrato in casa mia a Torino. Ma, come studioso e come osservatore della politica italiana, non posso nascondere il mare di dubbi che mi assale.

Mi colpisce, innanzitutto, l’ideologia con cui si è arrivati allo “sblocco” della circolazione inter-regionale. E’ giorni che, come un ritornello, ci sentiamo ripetere: se e quando riapriremo, dovremo farlo “insieme”. O tutte le regioni ripartono subito (3 giugno), oppure si rimanda di una settimana o due, dando più tempo alle ritardatarie. L’importante è non creare differenze, discriminazioni, privilegi.

Incredibile. L’ideologia aveva interferito all’inizio dell’epidemia, quando voler mettere in quarantena i bambini in arrivo dalla Cina, o evitare i ristoranti gestiti da cinesi, erano parsi al perbenismo democratico intollerabili segni di razzismo e discriminazione. Ora assistiamo, in modo più subdolo, al medesimo film: dire che una o più regioni non sono pronte a spedire in giro i propri abitanti pare a molti un’inaccettabile misura discriminatoria, foriera di conflitti e tensioni.

Ma non avevamo detto che, se la situazione fosse risultata molto diversa da territorio a territorio, si sarebbe proceduto ad aperture differenziate? Non ci è stato ripetuto fino alla noia che, una volta finito il lockdown, avremmo dovuto monitorare attentamente la situazione, ed essere pronti a introdurre restrizioni là dove la situazione lo avesse richiesto?

Si può obiettare, naturalmente, che l’ideologia del “tutte insieme” è supportata dai dati, che mostrerebbero che l’epidemia è sotto controllo. Ma è proprio qui che le cose si fanno problematiche. La realtà è che nessuno ha dati solidi su quel che sta succedendo adesso, e nemmeno su quel che è successo nei 10 giorni successivi alle riaperture del 18 maggio (i dati epidemiologici riflettono sempre quel che succedeva 1, 2, persino 3 settimane prima).

L’indagine Istat sulla diffusione del contagio è appena iniziata, con grave e a mio parere ingiustificato ritardo. L’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), su cui il governo dice di poggiare le sue decisioni, se letto attentamente (e confrontato con il report precedente) rivela che nella settimana dal 18 al 24 maggio il valore di Rt, il parametro che indica il tasso di trasmissione del contagio, era in aumento in 15 regioni/province su 20 (per la Campania non viene fornito alcun dato). E quanto all’andamento dei contagi, il rapporto conferma le enormi differenze non solo fra Nord e Sud, ma anche all’interno del Nord, con la Lombardia che ha un’incidenza settimanale di nuovi casi 10 volte superiore a quella del Veneto, e questo nonostante il Veneto faccia tanti tamponi e la Lombardia pochi.

Con questo non voglio dire che la scelta di far ripartire la circolazione interregionale sia del tutto ingiustificata. Quando ci sono due valori in ballo, è normale che sia la politica a decidere. E nessuno può dire qual è il “tasso di cambio” ragionevole fra un punto di Pil in meno e 1000 morti in più.

Quel che non mi va giù, come sociologo, è che non si riconosca che questa non è una scelta come un’altra. Quella fra apertura e salute non è come la scelta fra meno tasse e più spesa pubblica. Essa appartiene piuttosto alla categoria delle “scelte tragiche”, come in un libro fondamentale (Tragic Choices, 1978) ebbe a definirle Guido Calabresi, uno dei padri dell’analisi economica del diritto. La scelta è tragica perché, in un caso come quello dell’epidemia da Covid, salute ed economia non sono bilanciabili. E’ certo che la tutela rigorosa della salute ha effetti catastrofici sull’economia, ed è altrettanto certo che la difesa delle esigenze dell’economia costa migliaia di vite umane.

In questa situazione, l’unica cosa da non fare, quale che sia la decisione che si prende, è di nasconderne il costo. Perché se lo si nasconde, o non lo si riconosce solennemente, quel che si pagherà è un sovracosto, il sovracosto di non dire tutta la verità.

La mia sensazione è che sia esattamente questa la situazione in cui ci troviamo. Il governo ha preso le sue decisioni, giuste o sbagliate che siano. Ma l’opinione pubblica e i media quelle decisioni tendono a interpretarle come segnali di un miglioramento della situazione, di una diminuzione del rischio (“se riaprono, vuol dire che c’è meno rischio di prima”). I comportamenti non diventano più prudenti, ma meno. La voglia di vacanze e di libertà fa il resto. Milioni di famiglie stanno progettando le loro vacanze. Treni, aerei, navi, aliscafi stanno per subire un assalto. Nessuno dice che stiamo lanciandoci nell’ennesimo azzardo. Nessuno dice che i viaggi espongono a rischi considerevoli. Nessuna campagna martellante, come quelle del passato su “distanziamento-mascherine-lavatevi le mani”, spiega ora che cosa dobbiamo fare per ridurre i rischi quando saliamo su un mezzo di trasporto collettivo. Nessuno ci informa con costanza e dovizia di particolari su quali misure si stiano prendendo per neutralizzare i rischi dell’aria condizionata sui treni, sugli aerei, sugli aliscafi. E si capisce pure il motivo, che poi è il medesimo per cui furono a lungo osteggiati i tamponi: salvare il turismo.

Ed ecco il sovracosto. La rinuncia a renderci coscienti dei maggiori pericoli cui stiamo per andare incontro rende il costo della salvaguardia dell’economia ancora più alto di quel che sarebbe se le autorità parlassero chiaro, e osassero dirci la verità: l’epidemia non è sotto controllo, i pericoli sono ancora molto grandi, se riapriamo non è perché siamo in grado di farvi lavorare e divertire “in sicurezza”, ma perché abbiamo deciso che la priorità è salvare l’economia e restituirvi un po’ di normalità.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 maggio 2020




Il monitoraggio dell’epidemia

Nei giorni scorsi si è molto discusso di tre regioni – Lombardia, Molise, Umbria – che, secondo i parametri monitorati dalle autorità sanitarie, presentavano un rischio di ripresa dell’epidemia più alto di quello delle restanti regioni. In Umbria, in particolare, il famigerato indice Rt avrebbe sfondato la barriera di 1, portandosi a 1.23, un valore sufficiente (ove confermato in futuro) a far ripartire l’epidemia. Di qui la preoccupazione dei cittadini, e la ferma protesta della governatrice Donatella Tesei. Dopo un po’ di giorni di polemiche, ha provveduto l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) a gettare acqua sul fuoco con varie precisazioni e distinguo. In sostanza: tranquilli, Rt è ballerino quando i casi sono pochi, e comunque non è una pagella.

Ieri il caso dell’Umbria si è improvvisamente sgonfiato: il nuovo valore di Rt comunicato da Iss e Ministero della Salute è solo 0.53, migliore di quello di altre 10 regioni (la maglia nera, in compenso, è passata alla Valle d’Aosta, che secondo l’ultimo report ha un valore di 1.06, un pelo al di sopra della soglia critica).

Il fatto che fino a ieri si discutesse della rischiosità della situazione umbra, però, è paradossale, e getta una luce inquietante sull’intero sistema di monitoraggio dell’epidemia. Provo a spiegare perché.

Primo. La discussione sull’Umbria si è prolungata fino al 21 maggio, ma i dati su cui si basava erano relativi alla prima settimana di riapertura (dal 4 al 10 maggio), e a loro volta riflettevano – nella migliore delle ipotesi – i contagi avvenuti nell’ultima settimana di aprile. Dunque quello di cui si stava discutendo ieri, 21 maggio, era se l’Umbria potesse riaprire stante la presunta dinamica dei contagi un mese prima, ossia a fine aprile, in pieno lockdown. Leggermente surreale.

Secondo. I dati di base su cui si basa il monitoraggio delle autorità sanitarie sono gestiti come un segreto di stato. Se un analista indipendente o un’università vogliono controllare i calcoli, anche solo per perfezionarli, non possono farlo, perché mentre esiste un database pubblico dei dati della Protezione Civile non esiste un database dei micro-dati dell’Istituto Superiore di Sanità. La differenza fra le due fonti è cruciale: i dati della Protezione Civile sono spesso incoerenti e poco disaggregati, mentre quelli dell’Istituto Superiore di Sanità sono di qualità largamente superiore, se non altro perché per lo più corredati di informazioni temporali (data del decesso, ad esempio) e spaziali (comune di residenza del soggetto). In breve: nonostante il nostro paese continui a credersi una democrazia, l’accessibilità ai dati dell’epidemia ricorda quella dei regimi dispotici.

Terzo. La classificazione di una regione come più o meno a rischio si basa su 21 parametri (in qualche caso descritto in modo confuso, generico o farraginoso), ma l’algoritmo che trasforma i 21 parametri in un giudizio di rischiosità non è specificato in modo rigoroso ed esplicito. Questo impedisce ai cittadini, ma soprattutto ai governatori di Regioni e Province autonome, di valutare la razionalità ed equanimità del giudizio finale. Detto altrimenti: l’eccesso di indicatori, e l’assenza di un algoritmo esplicito, rendono incontrollabile (e quindi insindacabile) il giudizio delle autorità centrali. Una Regione che si senta ingiustamente penalizzata non ha alcuno strumento per difendersi. Non vorrei essere un governatore.

Quarto. Non so quanta importanza le autorità sanitarie attribuiscano a Rt, né se lo usino per capire la situazione o per legittimare le proprie scelte. Però quello che so, in quanto studioso di analisi dei dati, è che è difficile, nell’oceano della letteratura matematico-statistica, trovare un dispositivo di misurazione così dibattuto, controverso, ricco di varianti, nonché fortemente dipendente dalle ipotesi e dalle scelte dell’analista. In questa situazione sarebbe auspicabile che, quando si dice che una regione, in un certo momento o periodo, ha un determinato valore di Rt, fosse possibile riprodurre il procedimento che ha condotto a calcolarlo. Il che significa fornire: matrice dati utilizzata, procedimento di stima adottato, ipotesi e stime cui si è dovuto ricorrere. Così procede la scienza, così dovrebbero procedere istituzioni e comitati scientifici.

Quinto. E’ inquietante che, a causa dei ritardi nell’avviare l’indagine campionaria sulla diffusione del virus (altri paesi l’hanno già condotta, nonostante abbiano avuto meno tempo di noi), ancora nulla di preciso si sappia sul grado di diffusione dell’epidemia nei vari territori. Ed è ancora più inquietante che, a causa di questo vuoto di conoscenza, si sia costretti ad affidarsi – nella valutazione del rischio epidemico di ogni territorio – al più ambiguo e potenzialmente fuorviante degli indicatori – ovvero al numero di casi diagnosticati. Quanti siano i nuovi casi accertati ogni giorno in un determinato territorio, infatti, dipende non solo da quanti siano i nuovi casi effettivi (notoriamente molti di più), ma dalle politiche che le autorità sanitarie locali prediligono: dare o non dare la caccia agli asintomatici, fare o non fare il tampone ai malati non ospedalizzati, favorire o ostacolare la collaborazione delle università e dei privati.

Ed eccoci al punto cruciale. Una Regione attiva nella ricerca dei contagiati (ad esempio il Veneto) potrebbe essere giudicata a rischio solo perché aumentano i casi diagnosticati, mentre una regione pigra, o che ha scelto consapevolmente di fare pochi tamponi, potrebbe risultare a basso rischio solo perché non si dà molto da fare per scovare i contagiati. Di qui il paradosso: se il governo continuerà a monitorare l’epidemia conteggiando il numero di nuovi casi, le Regioni che non vogliono tornare in lockdown dovranno limitare il numero di tamponi; e le Regioni che, per salvare vite, hanno scelto di fare tanti tamponi, rischieranno di essere giudicate a rischio.

Credo che la situazione non lasci molte alternative. O il governo sgancia la valutazione del rischio regionale dalla conta dei nuovi casi (ma in che modo, se le indagini sierologiche sono in alto mare?), oppure le Regioni avranno un forte incentivo a fare pochi tamponi. Con la conseguenza, tragica, di aumentare ancora il bilancio dei morti.

Pubblicato su Il Messaggero del 23 maggio 2020